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Omelia per domenica 30 agosto, XXII del Tempo Ordinario

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/Detailed/20090830.shtml

Omelia (30-08-2009) 

mons. Roberto Brunelli
Le labbra e il cuore

La legge di Dio: questo è il tema che accomuna le letture di oggi. Nella prima (Deuteronomio 4,1-8), costituita da un brano dei discorsi attribuiti a Mosè, egli che aveva trasmesso la legge divina al popolo d’Israele gli raccomanda di mantenerla intatta, senza aggiungervi né togliervi nulla, perché è costituita da norme giuste, e osservarle è segno e fonte di saggezza. Il salmo scelto a commento della prima lettura è il 14, in cui tra l’altro si dice che chi osserva i precetti divini “abiterà nella tenda” di Dio, “resterà saldo per sempre”: avrà insomma la vita eterna.
Per una fortuita combinazione anche la seconda lettura, di solito tematicamente sganciata dalle altre, oggi parla dello stesso argomento: “Accogliete con docilità la Parola che è stata piantata in voi e può portarvi alla salvezza. Siate di quelli che mettono in pratica la Parola, e non ascoltatori soltanto, illudendo voi stessi” (Lettera di Giacomo 1,21-22). Le leggi, e a maggior ragione la Legge suprema, non esistono per fare bella figura in un Codice, o per dimostrare l’acume di chi le ha formulate, o per essere studiate e discusse, ma perché si traducano nella vita: parole chiarissime, che non richiedono commento.
Un chiarimento invece è utile a capire il passo evangelico, che riporta una delle controversie di Gesù con i suoi avversari, i quali non perdevano occasione per cercare di metterlo in difficoltà. Era accaduto, nel popolo ebraico, che i “sapienti” studiosi della Legge l’avevano corredata di norme pratiche, tanto discutibili quanto numerose e minuziose, sino a diventare soffocanti e far perdere di vista la ragione stessa per cui dovevano essere osservate. Un esempio è dato proprio dall’episodio del brano odierno: era prescritto di mantenersi puri davanti a Dio, e allora “i farisei e tutti i giudei non mangiano se non si sono lavati accuratamente le mani, attenendosi alla tradizione degli antichi e, tornando dal mercato, non mangiano senza aver fatto le abluzioni, e osservano molte altre cose per tradizione, come lavature di bicchieri, di stoviglie, di oggetti di rame e di letti”.
La pulizia è buona cosa, naturalmente, purché non diventi una mania, un’ossessione, e soprattutto non si creda che basti per essere “puliti dentro”, cioè agli occhi di Dio. Per questo, quando alcuni scribi e farisei rimproverano a Gesù di non impedire ai suoi discepoli di prendere cibo senza prima essersi lavati le mani, egli dà loro degli ipocriti, preoccupati delle apparenze e non della sostanza, e applica a loro un severo monito del profeta Isaia: “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini”.
Anche tra i cristiani si corre un simile rischio. In duemila anni si sono introdotte nella vita cristiana usanze e tradizioni di cui non c’è traccia nel vangelo, e può accadere di perdere di vista quest’ultimo, credendosi a posto solo perché si osservano appunto quelle usanze e tradizioni. E’ importante allora ricordare che tra i compiti della Chiesa è anche quello di vigilare e vagliare, di distinguere tra gli insegnamenti di Dio e quelli introdotti dagli uomini; tra questi ultimi, poi, segnalare quelli pseudo-religiosi che in realtà allontanano da Dio perché gli sono contrari o estranei (si pensi alle eresie, o a tante presunte apparizioni della Madonna) e richiamare quelli positivi (ad esempio il rosario, i pellegrinaggi) alla loro finalità, che è quella di portare a Dio o sostenere la vita con lui e per lui. Occorre stare attenti a non credersi “a posto” solo con l’osservanza esteriore dei riti e delle usanze: formule vuote, se non esprimono l’adesione della mente e del cuore. 

OMELIA – XXI Domenica del Tempo Ordinario (Anno B) (23/08/2009)

dal sito:

http://www.qumran2.net/parolenuove/commenti.pax?mostra_id=1905

OMELIA – XXI Domenica del Tempo Ordinario (Anno B) (23/08/2009)

Il cuore dei discepoli messo alla prova

a cura dei Carmelitani 

Vangelo: Gv 6,60-69  
1. Orazione iniziale

Signore, la tua Parola è dolce, è come un favo di miele; non è dura, non è amara. Anche se brucia come fuoco, anche se è martello che spacca la roccia, anche se è spada affilata che penetra e separa l’anima… Signore, la tua Parola è dolce! Fa’ che io la ascolti così, come musica soave, come canzone d’amore; ecco le mie orecchie, il mio cuore, la mia memoria, la mia intelligenza. Ecco tutto di me, qui davanti a te fammi ascoltatore fedele, sincero, forte; fammi rimanere, Signore, con le orecchie del cuore fisse sulle tue labbra, sulla tua voce, su ognuna delle tue parole, perché neppure una di esse cada a vuoto. Manda, ti prego, il tuo santo Spirito con abbondanza, che sia come acqua viva che irriga tutto il mio campo, perché dia frutto, ove il 30, ove il 60, ove il 100 per uno. Signore. Attirami; fa’ che io venga a te, perché, tu lo sai… dove mai potrei andare, verso chi, su questa terra, se non da te??!

2. Lettura: Giovanni 6, 60-69

a) Per inserire il brano nel suo contesto:
Questi versetti costituiscono la conclusione del grande capitolo 6 del Vangelo di Giovanni, nel quale l’evangelista presenta la sua « teologia eucaristica ». Questa chiusa è l’apice di tutto il capitolo, perché la Parola ci conduce sempre più in profondità, sempre più al centro: dalla folla, che appare all’inizio, ai Giudei che discutono con Gesù nella sinagoga di Cafarnao, ai discepoli, ai dodici, fino a Pietro, quell’unico, che rappresenta ciascuno di noi, da soli, faccia a faccia con il Signore Gesù. Qui sboccia la risposta all’insegnamento di Gesù, alla sua Parola seminata così abbondantemente nel cuore degli ascoltatori. Qui si verifica se il terreno del cuore produce spine e cardi, o erba verde, che diventa spiga e poi grano buono nella spiga.
b) Per aiutare nella lettura del brano:
v. 60: Giudizio di condanna da parte di alcuni discepoli contro la Parola del Signore e quindi contro Gesù stesso, che è il Verbo di Dio. Dio è considerato non come un Padre buono, che parla ai suoi figli, ma come un padrone duro (Mt 25, 24), col quale non è possibile dialogare.
vv. 61-65: Gesù smaschera l’incredulità e la durezza di cuore dei suoi discepoli e rivela i suoi misteri di salvezza: la sua ascensione al cielo e il dono dello Spirito santo, la nostra partecipazione alla vita divina. Ma questi misteri possono essere compresi e accolti solamente attraverso la sapienza di un cuore docile, capace di ascoltare e non con l’intelligenza della carne.
v. 66: Primo grande tradimento da parte di molti discepoli, che non hanno saputo apprendere la vera scienza di Gesù. Invece di volgere lo sguardo al Maestro, gli volgono le spalle; interrompono, così, la comunione e non camminano più con lui.
vv. 67-69: Gesù parla ora con i Dodici, i suoi più intimi e li pone davanti alla scelta definitiva, assoluta: rimanere con lui o andarsene. Pietro risponde per tutti e proclama la fede della Chiesa in Gesù come Figlio di Dio e nella sua Parola, che è la vera fonte della Vita.
c) Il testo:
60: Molti dei suoi discepoli, dopo aver ascoltato, dissero: « Questo linguaggio è duro; chi può intenderlo? ».
61-65: Gesù, conoscendo dentro di sé che i suoi discepoli proprio di questo mormoravano, disse loro: « Questo vi scandalizza? E se vedeste il Figlio dell’uomo salire là dov’era prima? È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che vi ho dette sono spirito e vita. Ma vi sono alcuni tra voi che non credono ».Gesù infatti sapeva fin da principio chi erano quelli che non credevano e chi era colui che lo avrebbe tradito. E continuò: « Per questo vi ho detto che nessuno può venire a me, se non gli è concesso dal Padre mio ».
66: Da allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui.
67-69: Disse allora Gesù ai Dodici: « Forse anche voi volete andarvene? ». Gli rispose Simon Pietro: « Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio ».

3. Un momento di silenzio orante

Ho ricevuto il Dono, la grazia, ho ascoltato la Parola del Signore; ora non voglio mormorare (v. 61), non voglio lasciarmi scandalizzare (v. 61), né voglio lasciarmi offuscare dall’incredulità (v. 64). Non voglio tradire il mio Maestro (v. 64), non voglio tirarmi indietro e non andare più con lui (v. 66)… voglio stare con il Signore sempre!! Nel silenzio del cuore gli ripeto infinite volte: « Signore, da chi mai potrei andare, se non da te?! ». Ecco, Signore, io vengo…

4. Alcune domande

Che mi aprano il cuore e che lavorino la mia terra interiore come un aratro, capace di togliere da me le radici dell’indurimento e dell’incredulità.
a) Mi soffermo innanzitutto sulla figura del discepolo e mi lascio interrogare, mi lascio sfidare, quasi come se fossi portato davanti a uno specchio, nel quale vedo riflessa la verità del mio essere e del mio agire. Io che discepolo sono? Davvero ogni giorno accetto di imparare alla scuola di Gesù, di ricevere il suo insegnamento, che non è dottrina di uomini, ma sapienza di Spirito santo? « Tutti saranno ammaestrati da Dio » (Is 54, 13; Ger 31, 33ss), ripetono in vario modo i profeti, indicando quell’unica conoscenza veramente necessaria, che è il rapporto d’amore col Padre, la vita con lui. Ma chi è il mio Maestro? Sono anch’io nel numero dei discepoli che continuano a chiedere a Gesù: « Signore, insegnaci a pregare! » (Lc 11, 1)? O fra quelli che gli camminano dietro, lungo le rive della vita, delle giornate e insistono nel domandargli: « Maestro, dove abiti? » (Gv 1, 39), spinti dal desiderio di rimanere con lui? O sono anch’io come Maria Maddalena, che continua a ripetere quel nome, anche dopo le più terribili esperienze di morte, di annientamento: « Rabbuni! » (Gv 20, 10)? Sottolineo i verbi che Giovanni riferisce ai discepoli: « dopo aver ascoltato », « mormoravano », « vi scandalizza », « non credevano », « si tirarono indietro e non andavano più con lui ». Li medito uno ad uno, li rumino, li ripeto, li confronto con la mia vita…
b) « Questa parola è dura: chi può ascoltarla? ». È davvero dura la Parola del Signore, o è duro il mio cuore, che sa solo chiudersi e non vuole più ascoltare? Perché non è dolce, per me, la Parola del Signore, più del miele alla mia bocca (Sal 119, 103)? Perché non amo conservarla nel cuore (Sal 119, 9. 11. 57), ricordarla di giorno e di notte? Perché non è la mia lucerna, ancora accesa quando viene la sera, non è la luce che rischiara le mie notti e la lampada per tutti i miei passi (Sal 119, 105)? Perché, o mio cuore, non ti apri, lasciandoti ferire da questa spada a doppio taglio, che sa penetrarti fino in fondo, per fare in te distinzione su distinzione, chiarezza su chiarezza? Perché non la lasci entrare come Parola di salvezza e d’amore? E allora saprai che la Parola del tuo Signore non è dura, non è amara, né severa, ma diventerà, per te, un canto di gioia e ripeterai: « La mia lingua canti le tue parole, Signore! » (Sal 119, 172).
c) « Gesù, conoscendo dentro di sé… ». Il Signore mi conosce fino in fondo, Lui sa, Lui scruta; Lui mi ha intessuto (Sal 139), mi ha costituito fin dal principio, dall’eternità (Pr 8, 23). Lui conosce il mio cuore e sa quello che c’è in ogni uomo (Gv 1, 48; 2, 25; 4, 29; 10, 15). Ma davanti al suo sguardo, davanti alla sua voce che pronuncia il mio nome, davanti alla sua venuta nella mia vita, al suo continuo bussare (Ap 3, 20), io come reagisco? Che scelte faccio? Quali risposte gli offro? Forse comincio anch’io a mormorare, a tradirlo, ad allontanarmi, a dimenticarlo?
d) « È lo Spirito che dà la vita ». Apro il mio cuore, la mia mente, tutta la mia persona alla Presenza dello Spirito santo, al suo soffio, al suo fuoco, alla sua acqua che zampilla in eterno. E mi pongo a confronto con lui, mi faccio compagno di quei personaggi della Bibbia, che hanno completamente affidato la loro esistenza all’opera dello Spirito santo.Vado vicino alla Vergine Maria: « Ecco, lo Spirito santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo » (Lc 1, 35); ma io, insieme a lei, so ripetere con forza, con convinzione: « Eccomi, avvenga di me quello che hai detto » (Lc 1, 38)? Vado vicino a Simeone, uomo giusto e timorato di Dio, che « mosso dallo Spirito, si recò al tempio » (Lc 2, 27); ma io mi lascio condurre così, mi lascio portare dove il Signore vuole, dove lui mi aspetta, o voglio sempre decidere io la direzione da dare alla mia vita? Vado vicino a Gesù, a Pietro, a Paolo o agli altri apostoli ed evangelizzatori di cui ci parlano gli Atti e mi metto in discussione: che posto occupa lo Spirito santo nella mia vita di cristiano, di fratello tra i fratelli? Se è lo Spirito che dà la vita, il mio essere vivo o morto dipende da lui, dalla sua presenza in me, dalla sua azione; forse dovrei approfondire, intensificare il rapporto con lo Spirito del mio Signore…
e) In questo pochi versetti Giovanni ci parla anche di un mistero molto bello e profondo che Egli racchiude nei verbi « andare » o « venire », riferiti a Gesù. Comprendo, ancora una volta, che la mia vita trova il suo senso vero, la sua ragione di essere, di continuare ogni giorno, proprio in rapporto a questo movimento di amore e di salvezza. « Venire a me » (v. 65), « non andavano più con lui » (v. 66), « volete andarvene? » (v. 67), « da chi andremo? » (v. 68). La domanda di Pietro, che è, in verità, un’affermazione fortissima di fede e di adesione al Signore Gesù, significa questo: « Signore, io non andrò da nessun altro, s e non da te solo! »; è così davvero la mia vita? Sento mie queste parole così appassionate? Rispondo, ogni giorno, ogni momento, nelle situazioni più diverse della mia vita, negli ambienti, davanti alle persone, all’invito che Gesù mi fa personalmente: « Venite a me! Vieni a me! Seguimi! »? Da chi vado, io? Verso dove corro? Quali orme sto seguendo?  » fa’ che io venga a te, Signore »!

5. Una chiave di lettura

Chiedo alle sante Scritture di farmi da guida, di illuminare ogni mio passo, ogni movimento, perché voglio andare da Gesù. Chiedo ai verbi che lui usa, alle espressioni che ripete, ai silenzi delle parole non dette, di rivelarmi la strada da percorrere… per trovare lui e non un altro.
La Parola del Signore e il rapporto d’amore con essa
In questo brano Giovanni mi mostra la Parola del Signore quale punto di incontro, luogo santo dell’appuntamento con Lui; mi accorgo che essa è il luogo della decisione, delle separazioni sempre più profonde nel mio cuore e nella mia coscienza. Mi accorgo ancora di più che la Parola è una Persona, è il Signore stesso, presente davanti a me, donato proprio a me, aperto per me. Tutta la Bibbia, pagina dopo pagina, è un invito, dolce e forte al tempo stesso, all’incontro con la Parola, a conoscere la Fidanzata, la Sposa, che è, appunto, la Parola, che esce, come bacio d’amore, dalla bocca del Signore. L’incontro, che qui viene donato, non è superficiale, non è vuoto, né fuggevole o sporadico, ma è intenso, pieno, costante, ininterrotto, perché è come l’incontro fra lo sposo e la sua sposa; così il Signore mi ama e si dona a me. Occorre l’ascolto attento e premuroso, tanto che neppure una delle sue parole cada a vuoto (1 Sam 3, 19); occorre un ascolto col cuore, con l’anima (Sal 94, 8; Bar 2, 31); occorre l’obbedienza dei fatti, di tutta la vita (Mt 7, 24-27; Gc 1, 22-25); occorre una scelta vera e decisa, che mi fa preferire la Paola del Signore, fino a decidere di prenderla come sorella (Pr 7, 1-4) o come sposa nella mia casa (Sap 8, 2).
La mormorazione e la chiusura del cuore
Questa tematica della mormorazione, della ribellione mi scuote ancora di più, mi mette in crisi; ripercorrendo la Bibbia, anche solo nella mia memoria, mi accorgo che la mormorazione contro il Signore e il suo agire nei nostri confronti è la realtà più terribile e distruttiva che possa mai venire ad abitare il mio cuore, perché mi allontana da Lui, mi separa fortemente e mi rende cieco, sordo, insensibile. Mi fa dire che Lui non c’è, mentre è vicinissimo; che Lui mi odia, mentre mi ama di amore eterno e fedele (Dt 1, 27)! È la più grande e profonda stoltezza! Nei libri dell’Esodo, dei Numeri o nei Salmi, incontro il popolo del Signore che piange, si lamenta, si arrabbia, mormora, si chiude, si ribella, se ne va, muore (Es 16, 7ss; Num 14, 2; 17, 20ss; Sal 105, 25)); un popolo senza più speranza, senza vita. Capisco che questa situazione si crea quando non c’è più il dialogo con il Signore, quando il contatto con Lui è interrotto, quando, invece di ascoltarlo e di interrogarlo, rimane solo la mormorazione: questa specie di ronzio continuo dentro l’anima, dentro i pensieri, che mi fa dire: « Potrà forse Dio preparare una mensa nel deserto? » (Sal 77, 19). Se mormoro contro mio Padre, se smetto di credere al suo Amore per me, alla sua tenerezza, che mi ricolma di ogni bene, io rimango senza vita, senza nutrimento per il cammino di ogni giorno. O se mi arrabbio, se mi ingelosisco perché Lui è buono, perché dà via il suo amore a tutti, senza misura, e faccio come i farisei (Lc 15, 2; 19, 7), allora rimango completamente solo e oltre a non essere più figlio, non sono neanche più fratello di nessuno. Infatti alla mormorazione contro Dio è strettamente legata la mormorazione contro i fratelli e le sorelle (Fil 2, 14; 1 Pt 4, 9). Tutto questo imparo seguendo le tracce di questo verbo…
Il Dono del Figlio dell’uomo: lo Spirito Santo
Mi sembra di intravedere una strada di luce, tracciata dal Signore Gesù e quasi nascosta in questi versetti così densi e traboccanti di ricchezza spirituale. Il punto di partenza sta nell’ascolto vero e profondo delle sue Parole e nell’accoglienza di esse; da qui alla purificazione del cuore, che da cuore di pietra, indurito e chiuso, diventa, nella tenerezza del Padre, cuore di carne, morbido, che Egli può ferire, plasmare, che può prendere fra le mani e stringere a sé, come un dono. Sì, tutto questo compiono le Parole di Gesù, quando mi raggiungono ed entrano in me! È solo così che posso proseguire il cammino, vincendo le mormorazioni e lo scandalo, fino a giungere a poter vedere Gesù con occhi diversi, occhi anch’essi rinnovati dalla Parola, che non si fermano alla superficie, alla durezza della scorza, ma imparano, ogni giorno di più, ad andare oltre, a guardare in alto. « E se vedeste il Figlio dell’uomo salire là dov’era prima? » (v. 62). È l’accoglienza dello Spirito, dono del Risorto, dono dell’asceso alla destra del Padre, dono dall’alto, dono perfetto (Gc 1, 17); Lui l’aveva detto: « Quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me » (Gv 12, 32) e mi attira con lo Spirito, mi fa suo con lo Spirito, mi manda nello Spirito (Gv 20, 21s), mi rende forte grazie allo Spirito (At 1, 8). Se faccio un percorso lungo le pagine dei Vangeli vedo come lo Spirito del Signore sia la forza che investe ogni persona, ogni realtà, perché è lui l’amore eterno del Padre, è la vita stessa di Dio comunicata a noi. Mi faccio attento, mi chino sulle espressioni, sui verbi usati, sulle parole che si rincorrono e si illuminano, arricchendosi vicendevolmente: sento che veramente vengo come immerso dentro quest’Acqua viva, che zampilla e gorgoglia, sento che ricevo un nuovo battesimo e ne ringrazio con tutto il cuore il Signore. « Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco » (Mt 3, 11), grida Giovanni e, mentre leggo, questa Parola si realizza su di me, dentro di me, in tutto il mio essere. Sento lo Spirito che parla in me (Mt 10, 20); che, con la sua potenza, allontana da me lo spirito del male (Mt 12, 28); che mi riempie, come già ha fatto con Gesù (Lc 4,1), con Giovanni Battista (Lc 1, 15), con la vergine Maria (Lc 1, 28. 35), con Elisabetta (Lc 1, 41), con Zaccaria (Lc 1, 67), con Simeone (Lc 2, 26), con i discepoli (At 2, 4), con Pietro (At 4, 8) e con tantissimi altri. Sento e incontro lo Spirito che mi insegna cosa devo dire (Lc 12, 10); che mi fa nascere veramente, per non morire mai (Gv 3, 5); che mi insegna ogni cosa e mi ricorda tutto ciò che Gesù ha detto (Gv 14, 26); che mi guida alla verità (Gv 16, 13); che mi dà la forza per essere testimone del Signore Gesù (At 1, 8), del suo amore per me e per ogni uomo.
Il combattimento della fede: nel Padre o nel maligno?
Questo brano di Giovanni mi mette di fronte a una grande lotta, a un combattimento corpo a corpo tra lo Spirito e la carne, tra la sapienza di Dio e l’intelligenza umana, tra la Parola e i ragionamenti della mente, tra Gesù e il mondo. Capisco bene che Giobbe aveva ragione, quando diceva che la vita dell’uomo sulla terra è tempo di tentazione, è una milizia (Gb 7, 1), perché sperimento anch’io che il maligno tenta di scoraggiarmi, facendomi dubitare delle promesse divine e spingendomi ad allontanarmi da Gesù. Mi vorrebbe mandare via, tenta in tutti i modi di indurirmi il cuore, di chiudermi, di spezzare la mia fede, il mio amore. Lo sento, come un leone ruggente che va in giro, cercando chi divorare (1 Pt 5, 8), come tentatore, divisore, accusatore, come schernitore beffardo che ripete continuamente: « Dov’è la promessa della sua venuta? » (2 Pt 3, 3s). Io so che solo con le armi della fede posso vincere (Ef 6, 10-20; 2 Cor 10, 3-5), solo con la forza che mi viene dalle Parole stesse di mio Padre; per questo io le scelgo, le amo, le studio, le scruto, le imparo a memoria, le ripeto e dico: « Se contro di me si accampa un esercito, il mio cuore non teme; se contro di me divampa la battaglia, anche allora ho fiducia! » (Sal 26, 3).
La confessione della fede in Gesù, Figlio di Dio
La comparsa di Simon Pietro, alla fine di questo brano, è come una perla incastonata su un gioiello prezioso, perché è proprio lui che ci grida la verità, la luce, la salvezza, attraverso la sua confessione di fede. Raccolgo, dai Vangeli, altri passi, altre confessioni di fede, che aiutino la mia incredulità, perché anch’io voglio credere e poi conoscere, voglio credere e avere stabilità (Is 7, 9): Mt 16, 16; Mc 8, 29; Lc 9, 20; Gv 11, 27.

6. Un momento di preghiera: Salmo 18

Inno di lode per la Parola del Signore,
che dona saggezza e allieta il cuore
La legge del Signore è perfetta, rinfranca l’anima;
la testimonianza del Signore è verace, rende saggio il semplice.
Gli ordini del Signore sono giusti, fanno gioire il cuore;
i comandi del Signore sono limpidi, danno luce agli occhi.
Rit. Signore, tu hai parole di vita eterna!
Il timore del Signore è puro, dura sempre;
i giudizi del Signore sono tutti fedeli e giusti,
più preziosi dell’oro, di molto oro fino,
più dolci del miele e di un favo stillante.
Anche il tuo servo in essi è istruito,
per chi li osserva è grande il profitto.
Rit. Signore, tu hai parole di vita eterna!
Le inavvertenze chi le discerne?
Assolvimi dalle colpe che non vedo.
Anche dall’orgoglio salva il tuo servo perché su di me non abbia potere;
allora sarò irreprensibile, sarò puro dal grande peccato.
Ti siano gradite le parole della mia bocca, davanti a te i pensieri del mio cuore.
Signore, mia rupe e mio redentore.
Rit. Signore, tu hai parole di vita eterna!

7. Orazione finale

Signore, grazie per le tue parole, che hanno risvegliato in me lo spirito e la vita; grazie, perché tu parli e la creazione continua, tu mi plasmi ancora, imprimi ancora in me la tua immagine, la tua somiglianza insostituibili. Grazie, perché tu, con amore e pazienza, mi aspetti anche quando mormoro, quando mi lascio scandalizzare, quando mi lascio prendere dall’incredulità, o quando ti volto le spalle. Perdonami, Signore, per tutto questo e continua a guarirmi, a rendermi forte e felice nel seguire te, te solo!
Signore, tu sei salito là dov’eri prima, ma sei ancora con noi e non smetti di attirarci, uno ad uno. Attirami, Signore e io correrò, perché ho creduto davvero e ho conosciuto che tu sei il Santo di Dio! Ma, ti prego, fa’ che mentre corro per venire a te, io non sia solo, ma mi apra sempre più alla compagnia dei fratelli e delle sorelle; insieme a loro, infatti, io ti troverò e sarò tuo discepolo tutti i giorni della mia vita. Amen.

Gesù pane per la vita del mondo (2003, anno B)

dal sito:

http://www.pddm.it/vita/vita_03/n_07/2agosto.htm

Gesù pane per la vita del mondo

19a del t.o. – 10 agosto 2003 – anno B

 Donatella Scaiola

Prima lettura: 1Re 19,4-8
Salmo responsoriale: Sal 33,2-9
Seconda lettura: Ef 4,30-5,2
Vangelo: Gv 6,41-51

Lo scandalo dell’incarnazione

 La prima lettura è tratta dal ciclo del profeta Elia, colto in un momento di grande difficoltà e tristezza. Elia opera una sorta di ritorno alle sorgenti della tradizione e della fede del suo popolo perché si reca alla montagna sulla quale Dio si è fatto conoscere ad Israele proponendogli di entrare in alleanza con lui. Questo ritorno alle fonti sarà per Elia il luogo di una nuova missione al servizio di Dio che si svela a lui come a un nuovo Mosè. Il racconto segue l’itinerario di Elia che lascia il regno d’Israele per il paese di Giuda e il deserto. Come già è avvenuto in passato, anche adesso il profeta è invitato a riscoprire Dio, ma, a differenza di quanto era avvenuto a Sarepta di Sidone, dove una vedova aveva mediato il suo incontro con Dio, qui l’incontro avverrà direttamente, senza intermediari umani.

Il racconto si dilunga sulla sollecitudine di Dio che circonda il profeta: per due volte l’angelo lo invita a mangiare pane e a bere acqua, un cibo che altri inviati di Dio avevano già fornito a Elia in precedenza: i corvi (17,6) e la vedova di Sarepta (17,10.15). Questo cibo era stato condiviso dal popolo dell’Esodo durante il cammino nel deserto (Es 15,22-17,7). Alle porte del deserto Elia mangia questo cibo, segno che vuole vivere e attraversare la prova. Ma mangiare non basta. Elia nella sua preghiera si era assimilato agli Israeliti del deserto, infedeli al Signore perché lo avevano messo alla prova: “Ora basta, Signore! Prendi la mia vita perché io non sono migliore dei miei padri ».

Adesso, nutrito come loro di pane e di acqua dal Signore, Elia riprende il loro stesso cammino verso l’Oreb. In questo contesto, quaranta giorni e quaranta notti evocano non solamente i quarant’anni passati dal popolo nel deserto, ma anche il tempo che Mosè trascorse sul monte Sinai (Es 24,18).

Si tratta di un ritorno alle sorgenti al quale il Signore guida il profeta allontanandolo dal proprio ambiente, condizione che prelude all’incontro con Dio. Questo cammino non è solo fisico, ma anche interiore, dal momento che il profeta deve spogliarsi del suo passato, deve rompere con le sue evidenze, per poter fare il suo esodo e incontrare Dio. In realtà, se Elia va verso Dio è solo perché il Signore va all’uomo e così ne anima il cammino con forza attrattiva. In altri termini, si potrebbe dire che l’incontro dell’uomo con Dio dipende dalla grazia e non dallo sforzo dell’uomo, il quale si deve solo aprire al dono.

In questo senso si esprime anche il Vangelo, là dove Gesù parla di sé come di pane di vita, dono che Dio fa ad ogni uomo che sia disposto ad accoglierlo. Ma questo dono della vita si scontra con la mormorazione degli uomini. Come era già avvenuto in passato, lungo tutta la storia della salvezza, le vie di Dio suscitano lo scandalo degli uomini. Qui lo scandalo sorge dalla disparità tra l’origine celeste proclamata da Gesù e l’evidenza della sua condizione umana. L’ostacolo che impedisce la fede è sottolineato dal fatto che Gesù ha dei genitori ben noti. Questa difficoltà viene presentata anche dagli altri evangelisti (Mc 6,3; Mt 13,55; Lc 4,22), e in fondo è la difficoltà che il mistero dell’incarnazione suscita anche in noi. L’obiezione dei Galilei concentra l’attenzione del lettore sul paradosso della Parola che ha preso un corpo, del Logos che è diventato un uomo.

 Ambone della chiesa parrocchiale S. Giuseppe a Manfredonia (FG). La Parola qui proclamata ha pieno compimento nella liturgia sacramentale.

Gli uditori di Gesù non reagiscono apertamente, ma « mormorano tra loro ». Il richiamo va all’episodio della manna (Es 16), e mediante questo termine gli uditori di Gesù vengono assimilati alla generazione del deserto. Come i loro antenati, anch’essi resistono alla rivelazione di Dio, e, così facendo, mancano di fede. Forse Giovanni ha scelto questo verbo per suggerire l’idea che rifiutare di credere in Gesù (questo è il senso della mormorazione), significa rifiutare di aderire al disegno di Dio. La vita dell’uomo, la nostra, è chiamata a scegliere tra mormorazione e abbandono, tra cecità e interiorizzazione dell’insegnamento di Dio, tra morte e vita. È una scelta che si gioca e si conferma o smentisce nella vita concreta dell’uomo. La seconda lettura, tratta dalla lettera agli Efesini, applica questo discorso, che può apparire teorico, all’esistenza quotidiana della comunità. L’inizio della pericope: « Non vogliate contristare lo Spirito Santo di Dio », riecheggia un testo del profeta Isaia: « Ma essi si ribellarono e contristarono il suo santo Spirito » (Is 63,10), che fa riferimento alle ostinazioni di Israele durante la peregrinazione nel deserto.
  »Contristare lo Spirito », un’espressione difficile da comprendere, allude forse ad ogni forma di ricaduta nell’uomo vecchio. Tra questi atteggiamenti viene ricordata, mediante l’accumulo di una serie di termini sinonimi, una situazione morale di rottura dei rapporti fraterni fra i membri della comunità, che è incompatibile con lo status di uomo nuovo.
Il vocabolario suggerisce l’idea che tra i cristiani deve esistere la stessa generosità e magnanimità che Dio ha dimostrato verso di loro in Cristo. In particolare, l’autore chiede ai suoi lettori di « camminare nell’amore », cioè di fare dell’amore l’ambito vitale e distintivo della propria vita. Dietro questa esortazione si sente l’eco del famoso inno alla carità di 1Cor 13, che celebra l’agape come « la via migliore di tutte », sintesi e compendio di tutta la Legge (Rom 13,8-10; Gal 5,13-14). Il nostro passo è però l’unico del Nuovo Testamento in cui si parla esplicitamente di una « imitazione di Dio ». Paolo propone come ideale l’amore con cui Dio ama. L’agape deve essere il tratto distintivo del cristiano, perché essa lo è di Dio, come ricorda anche l’apostolo Giovanni (1Gv 4,7-21).
Ma l’insistenza maggiore del brano è sulla dimensione cristologica dell’amore. Infatti è l’amore dimostrato da Cristo che « vi ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore », che rivela Dio.
Il linguaggio sacrificale che qui è usato viene dall’Antico Testamento, ma il suo significato non va frainteso. La morte di Cristo non è un fatto rituale, ma esistenziale, non subito, ma voluto da Cristo (« diede se stesso ») e per amore (« ci amò »).
È questo tipo di amore, totalmente altruista e senza riserve, che viene richiesto ai cristiani come metro della loro condotta, via pratica da seguire per superare lo scandalo della fede e accedere alla vita eterna.

FESTA DELLA TRASFIGURAZIONE NEL 30° ANNIVERSARIO DELLA MORTE DI PAPA PAOLO VI – OMELIA DI TARCISIO BERTONE

dal sito:

http://www.vatican.va/roman_curia/secretariat_state/card-bertone/2008/documents/rc_seg-st_20080806_trasfigurazione_it.html

FESTA DELLA TRASFIGURAZIONE
NEL 30° ANNIVERSARIO DELLA MORTE DI PAPA PAOLO VI

OMELIA DEL CARD. TARCISIO BERTONE, SEGRETARIO DI STATO

Parrocchia di Castel Gandolfo, 6 agosto 2008 

Cari fratelli e sorelle,

Nel racconto della Trasfigurazione mi colpiscono sempre queste parole di san Pietro: “Signore, è bello per noi restare qui!”. E’ come se l’apostolo invitasse pure noi a rivivere le stesse indescrivibili emozioni provate in quell’incontro celestiale avvenuto sul “monte santo”, secondo la tradizione identificato nel monte Tabor; è come se, per rinvigorirci nella fede,  rendesse anche noi spettatori di ciò che Pietro provò insieme agli altri attoniti e fortunati suoi amici Giacomo e Giovanni. In effetti per i tre discepoli fu un’esperienza unica, che compresero però appieno solo dopo gli eventi salvifici della passione, morte, risurrezione e ascensione al Cielo. Sul Tabor sperimentarono in una certa misura il mistero della gloria divina di Cristo, il cui fulgore li avvolse all’improvviso; sentirono ripetere dall’Alto le stesse parole proclamate al momento del Battesimo al Giordano: “Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto. Ascoltatelo!”. Pregustarono così la gioia del paradiso – meta di tutti i redenti – e sia pure per qualche istante contemplarono faccia a faccia il Signore che apparve loro con il volto luminoso “come il sole” e con le vesti “candide come la luce”.

La Trasfigurazione è mistero di luce! La luce di Cristo risorto che rischiara la nostra vita, la luce eterna e inestinguibile della nostra Pasqua definitiva che ci viene qui anticipata, in frammento, mentre camminiamo nell’oscurità delle prove durante il pellegrinaggio terreno. L’odierna festa è allora un invito a vivere con lo sguardo costantemente fisso in Dio. L’incontro definitivo con Lui, al termine della nostra “corsa”, fugherà ogni tenebra perché, come afferma san Pietro nella seconda lettura, “ spunterà il giorno e la stella del mattino si leverà per sempre nei nostri cuori”. Fin d’ora, pertanto, è necessario impegnarci a “vivere nella luce”; è necessario che ci sforziamo di fuggire le tenebre del peccato e ci lasciamo pervadere dal mistero dell’illuminazione divina: siamo stati trasfigurati a immagine di Cristo nel Battesimo, e nostro impegno dunque sia “camminare nella luce” sino al giorno in cui anche noi saremo totalmente illuminati e trasfigurati dal Signore della Vita, nella gloria eterna del Cielo.

Ogni anno, il 6 agosto, la liturgia ci offre l’opportunità di rivivere spiritualmente questo mistero di luce, di gloria e di santità. Gli Orientali chiamano questa festa la “Pasqua dell’estate” perché nella sua Trasfigurazione Gesù manifesta ai discepoli lo splendore della vita divina che è in Lui, splendore che anticipa quello della sua risurrezione. Dopo la comunione, i nostri fratelli dell’Oriente cantano quest’oggi una bella ed espressiva antifona che inizia così: “idomen tò phòs – abbiamo visto la luce”. Parole che echeggiano quelle del Salmista: Signore, “è in te la sorgente della vita, nella tua luce vediamo la luce” (Sal. 30, 10).  Noi vediamo la luce se restiamo in comunione con il Cristo risorto. La luce è la forma più perfetta di comunione perché permette la conoscenza reciproca e la compenetrazione più totale: proprio per questo essa viene vista come il segno dell’Eucaristia, sommo mistero della nostra salvezza.

In ogni celebrazione eucaristica il fulgore di Cristo risorto illumina le nostre anime, illumina la nostra attesa del giorno beato della venuta del Signore alla fine dei tempi. E questa attesa di Lui che è “nostra Pasqua e nostra sicura pace” (cf. Preghiera Eucaristica della Riconciliazione I) dà senso e valore a tutto ciò che siamo e a tutto ciò che facciamo. La festa della Trasfigurazione del Signore ci spinge pertanto a pensare alla nostra personale trasfigurazione. Nel libro dell’Apocalisse l’Autore sacro racconta la visione degli eletti “vestiti di bianco” e viene chiesto chi essi siano e donde vengano. Essi sono – è la risposta – quelli che “sono passati attraverso la grande tribolazione e hanno lavato le loro vesti rendendole candide con il sangue dell’Agnello”. Sono dunque i “trasfigurati”, quelli che, raggiunta la meta, “stanno davanti al trono di Dio e gli prestano servizio giorno e notte nel suo santuario” (cf 7, 13 – 15). Sono i santi che contemplano Dio in eterno, nella gloria del Cielo. A questo siamo chiamati anche noi, cari fratelli e sorelle! Il Cielo è la nostra meta; meta a cui però potremo giungere solo dopo aver percorso, seguendo Gesù, il cammino della croce.

Mentre scendono dal monte Gesù avverte i tre apostoli di non parlare a nessuno della visione avuta  “finché il Figlio dell’uomo non sia risorto dai morti”. Queste sue parole suonano come ammaestramento anche per noi ad accogliere il mistero della Croce. Tra poco canteremo nel prefazio: Cristo “rivelò la sua gloria…per preparare i discepoli a sostenere lo scandalo della croce e anticipare, nella trasfigurazione, il destino meraviglioso della Chiesa, suo mistico corpo”. Guardando a Cristo trasfigurato, la Chiesa si rende conto di essere in cammino verso la sua gloria, ed, al tempo stesso, prende coscienza che prima però deve condividerne la dolorosa passione. “Se qualcuno vuol venire dietro a me – dirà agli apostoli Gesù – rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua”. Quest’oggi, nella festa della Trasfigurazione, Gesù ci invita a prendere di nuovo ognuno la nostra croce, a rafforzarci nella via della croce, disponibili ad accettare tutto dalle sue mani, con piena fiducia nelle sue promesse.

In questo contesto di fede e di docile ascolto delle parole del Signore ben s’inserisce il ricordo del Servo di Dio, il Papa Paolo VI, il quale fece ritorno alla casa del Padre, al tramonto del giorno della festa della Trasfigurazione. Era il 6 agosto del 1978 e proprio qui, a Castel Gandolfo, nel palazzo Apostolico egli terminò il suo pellegrinaggio terreno. Sono trascorsi trent’anni da quel momento e quest’anniversario viene giustamente sottolineato con varie manifestazioni. Il Santo Padre Benedetto XVI lo ha ricordato domenica scorsa all’Angelus a Bressanone, dove si trova per alcuni giorni di riposo, e ne ha sottolineato l’amore fedele per Cristo, amore  che lo ha ispirato e guidato nel suo lungo e non facile ministero pastorale. Anche noi questa sera vogliamo farne memoria in questa celebrazione eucaristica, rendendo grazie al Signore per il fedele servizio reso alla Chiesa e all’umanità da questo grande Pontefice, apprezzato ancor più proprio a partire dal giorno della sua morte. Il momento della sua morte fu infatti per l’opinione pubblica l’occasione per conoscerlo meglio e per riconoscere l’opera straordinaria da lui compiuta con paziente saggezza e indomita fedeltà al Vangelo.

Che dire di lui? E’ veramente ricco il patrimonio spirituale che ha lasciato alla Chiesa e all’umanità del secolo XX. Il suo nome è legato ad eventi che hanno profondamente segnato la vita della Chiesa, primo fra tutti il Concilio Vaticano II, ma anche la storia contemporanea. Eletto il 21 giugno del 1963, dopo la morte del beato Giovanni XXIII mentre era in pieno svolgimento l’Assemblea conciliare, Papa Montini raccolse la non facile eredità del suo predecessore. Con coraggiosa prudenza, con illuminata sapienza e saldo discernimento seppe guidare la “Barca di Pietro” e dialogò con il mondo contemporaneo senza lasciarsi condizionare da remore conservatrici e né cedere a pericolose e affrettate fughe in avanti. La bussola che ne guidò le scelte e le decisioni fu sempre ed unicamente l’amore fedele ed appassionato per Cristo, il cui volto – ha ricordato domenica scorsa Sua Santità – egli ricercò e contemplò incessantemente.

A trent’anni di distanza è più facile oggi riconoscerne con ammirazione le doti umane, spirituali e pastorali come pure valutare l’importanza di alcune sue scelte profetiche, che lo portarono in alcuni momenti – si pensi ad esempio alla pubblicazione  40 anni fa dell’Enciclica Humanae vitae, il 25 luglio del 1968 – a ritrovarsi quasi isolato, non compreso, persino ingiustamente osteggiato dalla pubblica opinione dominante. Nella catechesi di mercoledì 31 luglio 1968 egli confidò come un padre ai fedeli che su un tema tanto delicato e importante per la vita della società, qual è appunto “la moralità coniugale in ordine alla sua missione d’amore e di fecondità nella visione integrale dell’uomo” egli, dopo aver consultato molte persone di alto valore morale, scientifico e pastorale, aveva messo la sua coscienza nella piena e libera disponibilità alla voce della verità cercando d’interpretare la norma divina che scaturisce dall’intrinseca esigenza dell’autentico amore umano. Abbiamo riflesso – disse – sopra gli elementi stabili della dottrina tradizionale e vigente della Chiesa, specialmente sopra gli insegnamenti del recente Concilio, ponderando le conseguenze dell’una e dell’altra decisione, ma “non abbiamo avuto dubbio sul nostro dovere di pronunciare la nostra sentenza nei termini espressi dalla presente Enciclica”. Sapeva bene che una vasta porzione della pubblica opinione, con ripercussioni anche dentro la comunità ecclesiale, gli era contro, ma non esitò nel decidere: e lo fece illuminato dallo Spirito Santo  per il vero bene dell’uomo e della donna.

Analoga fermezza dimostrò in diverse altre circostanze, mostrando una autentica sete di verità e di amore per Dio e per gli uomini. Mosso da ciò formulò sempre un chiaro ed inequivocabile insegnamento su scottanti temi di dottrina e di morale, allora fortemente in discussione, quali il celibato sacerdotale, il ministero presbiterale, il ruolo della donna nella Chiesa, la morale familiare, la questione sociale ecc. A trent’anni dalla sua morte, varrebbe certamente la pena di riprendere in mano l’intero suo magistero, al quale si sono ispirati i suoi successori. Sarebbe quanto mai proficuo per tutti rileggere i suoi cesellati discorsi ed i suoi ponderati interventi di alto spessore teologico e pastorale, meditare sulle sue omelie e catechesi di profondo afflato ascetico e spirituale, riascoltare le sue riflessioni di ampio respiro filosofico e sociale, per cogliere tutta la ricchezza del suo animo di Pastore innamorato di Cristo e della Chiesa, in ascolto e dialogo sincero con la modernità.

Mentre, come ci ha invitati domenica scorsa il Santo Padre, preghiamo perché possiamo venerare presto Paolo VI come Beato, ringraziamo il Signore per averlo dato alla Chiesa. Invochiamo l’intercessione di Maria e dell’apostolo Paolo, del quale egli era particolarmente devoto (in quest’anno giubilare paolino) perché – così egli scrisse nell’Esortazione Apostolica Marialis cultus – tutti i cristiani siano sempre “illuminati dalla luce della divina Parola ed indotti ad agire secondo i dettami della Sapienza incarnata”. Amen!

Omelia per la XVII domenica del Tempo Ordinario (domani)

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/15748.html

Omelia (26-07-2009) 

padre Romeo Ballan
La moltiplicazione si realizza nella condivisione

Una domanda per riflettere: perché il segno straordinario della cosiddetta moltiplicazione dei pani e dei pesci viene narrato sei volte nel Vangelo, una volta da Luca e Giovanni e ben due volte da Matteo e Marco? Più di tutti gli altri segni miracolosi operati da Gesù! Le prime comunità cristiane ne avevano compreso l’importanza, essendo la fame, nelle sue varie forme, un problema universale, il problema del pane quotidiano. Forse non è casuale che la radice ebraica delle parole pane e combattere sia composta dalle stesse consonanti. Non per nulla la maggior parte delle guerre nella storia si sono scatenate per problemi di fame, di accumulazione di beni, oltre che per motivi di prestigio personale o di gruppo. Anche oggi la lotta per il pane quotidiano accomuna tutti gli esseri viventi, anche se con risultati differenti. Spesso addirittura opposti: fino alla morte per fame, come succede tutt’oggi, putroppo!, per centinaia di milioni di persone. La soluzione a questo scandalo vergognoso e umiliante non verrà da nuove moltiplicazioni cadute dal cielo, ma da decisioni nuove, programmi concordati, strategie globali per mettere in moto la condivisione nelle sue varie forme. Queste sono le sfide che la polis, la città degli uomini e delle donne sulla terra, deve affrontare oggi con determinazione, equanimità e rapidità.

Il Vangelo di questa domenica offre alla famiglia umana preziose indicazioni per tale cammino. Giovanni ambienta il segno straordinario di Gesù nella vicinanza della Pasqua (v. 4): più che di una informazione cronologica, si tratta del contesto della sua donazione totale: “li amò sino alla fine” (Gv 13,1), lavanda dei piedi, morte e risurrezione di Gesù. Il segno che Gesù pone scaturisce dalla profonda commozione che Egli sente per la gente stanca, sbandata, senza pastore, affamata. Per Lui quella “grande folla” (v. 2.5) non è anonima, ha un volto, una dignità. Sono figli nella casa del Padre, non schiavi. Sono tutti invitati a mensa: quindi li fa sedere. Sedere a mensa è un gesto di dignità, che corrisponde a Gesù e ai suoi primi amici (v. 3), ma anche alla gente: Giovanni lo ripete tre volte in due versetti (v. 10.11). “C’era molta erba” (v. 10), che fa ricordare la premura del Pastore che invita a riposare “su pascoli erbosi” (Sal 23,2). Quando i figli sono seduti attorno alla stessa mensa e il pane viene condiviso equamente, cessano le contese e le guerre. (*)

I discepoli Filippo e Andrea riconoscono l’inadeguatezza delle poche risorse disponibili, di fronte a così tanta gente (v. 7.9). Gesù introduce qui una logica nuova: compie il segno partendo dai cinque pani d’orzo (pane dei poveri) e dai due pesci che un ragazzo mette a disposizione (v. 9); rende grazie e incoraggia creativamente la condivisione e la distribuzione, fino ai più lontani, fino ad avanzarne (v. 12-13), sulla scia del miracolo compiuto dal profeta Eliseo (I lettura). Nel testo evangelico non appare il termine moltiplicazione, bensì l’atto della condivisione: la moltiplicazione sovrabbondante avviene durante e attraverso la condivisione. Chiave di lettura di questo segno è il ragazzo, dal quale ha inizio la condivisione. Il ragazzo rappresenta il discepolo chiamato a farsi bambino per entrare nel Regno (Mc 10,15): egli non può accumulare per sé, ma deve condividere con altri quanto possiede. Il cristiano, cosciente di essere parte di un solo corpo e di condividere con altri la stessa fede nell’unico Signore (II lettura), sa che la partecipazione alla mensa eucaristica gli esige un impegno coerente perché ci sia pane sufficiente sulle mense di tutti. Questa è missione!

Parola del Papa
(*) “La fame miete ancora moltissime vittime tra i tanti Lazzaro ai quali non è consentito, come aveva auspicato Paolo VI, di sedersi alla mensa del ricco epulone. Dare da mangiare agli affamati (cf Mt 25,35.37.42) è un imperativo etico per la Chiesa universale, che risponde agli insegnamenti di solidarietà e di condivisione del suo Fondatore, il Signore Gesù. Inoltre, eliminare la fame nel mondo è divenuto, nell’era della globalizzazione, anche un traguardo da perseguire per salvaguardare la pace e la stabilità del pianeta”.
Benedetto XVI
Enciclica Caritas in Veritate, 29.6.2009, n. 27

Omelia per la festa di San Giacomo Maggiore (25 luglio)

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/13198.html

Omelia (25-07-2009) 

a cura dei Carmelitani
Commento Matteo 20,20-28

1) Preghiera

Dio onnipotente ed eterno,
tu hai voluto che san Giacomo,
primo fra gli Apostoli,
sacrificasse la vita per il Vangelo;
per la sua gloriosa testimonianza
conferma nella fede la tua Chiesa
e sostienila sempre con la tua protezione.
Per il nostro Signore Gesù Cristo…

2) Lettura del Vangelo

Dal Vangelo secondo Matteo 20,20-28
In quel tempo, si avvicinò a Gesù la madre dei figli di Zebedeo con i suoi figli, e si prostrò per chiedergli qualcosa. Egli le disse: « Che cosa vuoi? » Gli rispose: « Di’ che questi miei figli siedano uno alla tua destra e uno alla tua sinistra nel tuo regno ».
Rispose Gesù: « Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io sto per bere? ». Gli dicono: « Lo possiamo ». Ed egli soggiunse: « Il mio calice lo berrete; però non sta a me concedere che vi sediate alla mia destra o alla mia sinistra, ma è per coloro per i quali è stato preparato dal Padre mio ».
Gli altri dieci, udito questo, si sdegnarono con i due fratelli; ma Gesù, chiamatili a sé, disse: « I capi delle nazioni, voi lo sapete, dominano su di esse e i grandi esercitano su di esse il potere. Non così dovrà essere tra voi; ma colui che vorrà diventare grande tra voi, si farà vostro servo, e colui che vorrà essere il primo tra voi, si farà vostro schiavo; appunto come il Figlio dell’uomo, che non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti ».

3) Riflessione

• Gesù e i discepoli sono in cammino verso Gerusalemme (Mt 20,17). Gesù sa che lo uccideranno (Mt 20,8). Il profeta Isaia lo aveva già annunziato (Is 50,4-6; 53,1-10). La sua morte non sarà il frutto di un destino cieco o di un piano prestabilito, ma sarà la conseguenza dell’impegno liberamente assunto di essere fedele alla missione che ricevette dal Padre insieme ai poveri della sua terra. Gesù aveva già avvisato che il discepolo deve seguire il maestro e portare la sua croce dietro di lui (Mt 16,21.24), Ma i discepoli non capirono bene cosa stava succedendo (Mt 16,22-23; 17,23). La sofferenza e la croce non si combinavano con l’idea che avevano del messia.
• Matteo 20,20-21: La richiesta della madre dei figli di Zebedeo. I discepoli non solo non capiscono, ma continuano a pensare alle loro ambizioni personali. La madre dei figli di Zebedeo, portavoce dei suoi figli Giacomo e Giovanni, si avvicina a Gesù per chiedergli un favore: « Di’ che questi miei figli siedano uno alla tua destra e uno alla tua sinistra nel tuo regno ». Loro non avevano capito la proposta di Gesù. Erano preoccupati solo dei loro interessi. Ciò rispecchia le tensioni nelle comunità, sia al tempo di Gesù e di Matteo, come pure oggi nelle nostre comunità.
• Matteo 20,22-23: La risposta di Gesù. Gesù reagisce con fermezza. Risponde ai figli e non alla madre: « Voi non sapete quello che chiedete. Potete forse bere il calice che io sto per bere? » Si tratta del calice della sofferenza. Gesù vuole sapere se loro, invece del posto d’onore, accettano di dare la propria vita fino alla morte. I due rispondono: « Lo possiamo! » Era una risposta sincera e Gesù conferma: « Voi lo berrete ». Nello stesso tempo, sembra una risposta precipitata, poiché, pochi giorni dopo, abbandonano Gesù e lo lasciano solo nell’ora del dolore (Mt 26,51). Non hanno una forte coscienza critica, e nemmeno si rendono conto della loro realtà personale. E Gesù completa la sua frase dicendo: « però non sta a me concedere che vi sediate alla mia destra o alla mia sinistra, ma è per coloro per i quali è stato preparato dal Padre mio ». Ciò che Gesù può offrire è il calice della sofferenza, della croce.
• Matteo 20,24-27: « Non così dovrà essere tra voi ». « Gli altri dieci, udito questo, si sdegnarono con i due fratelli ». La richiesta fatta dalla madre a nome dei figli, causa una forte discussione nel gruppo. Gesù chiama i discepoli e parla loro dell’esercizio del potere: « I capi delle nazioni, voi lo sapete, dominano su di esse e i grandi esercitano su di esse il potere. Non così tra di voi: colui che vorrà diventare grande tra voi, si farà vostro servo, e colui che vorrà essere il primo tra voi, si farà vostro schiavo ». In quel tempo, coloro che avevano il potere non avevano nessun interesse per la gente. Agivano secondo i propri interessi (cf. Mc 14,3-12). L’impero romano controllava il mondo, sottomettendolo con la forza delle armi e così, mediante tributi, tasse ed imposte, riusciva a concentrare la ricchezza mediante la repressione e l’abuso di potere. Gesù aveva un’altra risposta. Lui insegna contro i privilegi e contro la rivalità. Sovverte il sistema ed insiste nell’atteggiamento di servizio che è il rimedio contro l’ambizione personale. La comunità deve preparare un’alternativa. Quando l’impero romano si disintegra, vittima delle sue contraddizioni interne, le comunità dovrebbero essere preparate ad offrire alla gente un modello alternativo di convivenza sociale.
• Matteo 20,28: Il riassunto della vita di Gesù. Gesù definisce la sua vita e la sua missione: « Il Figlio dell’Uomo non è venuto ad essere servito, ma a servire e a dare la sua vita in riscatto per molti ». In questa auto definizione di Gesù sono implicati tre titoli che lo definiscono e che erano per i primi cristiani l’inizio della Cristologia: Figlio dell’Uomo, Servo di Yavè e fratello maggiore (Parente prossimo o Gioele). Gesù è il messia Servo, annunciato dal profeta Isaia (cf. Is 42,1-9; 49,1-6; 50,4-9; 52,13-53,12). Imparò da sua madre che disse: « Ecco l’ancella del Signore! » (Lc 1,38). Proposta totalmente nuova per la società di quel tempo.

4) Per un confronto personale

• Giacomo e Giovanni chiedono favori, Gesù promette sofferenza. Ed io, cosa cerco nel mio rapporto con Dio e cosa chiedo nella preghiera? Come accolgo la sofferenza che avviene nella vita e che è il contrario di ciò che chiediamo nella preghiera?
• Gesù dice: « Tra di voi non sia così! » Il nostro modo di vivere nella chiesa e nella comunità concorda con questo consiglio di Gesù?

5) Preghiera finale

Allora si diceva tra i popoli:
« Il Signore ha fatto grandi cose per loro ».
Grandi cose ha fatto il Signore per noi,
ci ha colmati di gioia. (Sal 125) 

Omelia per oggi, XVI domenica del Tempo Ordinario: L’urgenza di accogliere il Regno di Dio

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/7665.html

Omelia (23-07-2006)
 
don Bruno Maggioni
L’urgenza di accogliere il Regno di Dio

Gesù ha dunque fretta e ha molte cose da fare e tuttavia egli trova il tempo per ritirarsi, solo, sul monte a pregare (1,35). Il ritmo della sua giornata non trascura il momento della solitudine, della preghiera, della comunicazione col Padre.
È alla luce di questo quadro del ritmo della vita di Gesù che comprendiamo meglio il brano di questa domenica (Marco 6,30-34). Precisa ulteriormente il ritmo della vita di Gesù e lo applica al discepolo.
I discepoli ritornano dal loro giro missionario: hanno sperimentato la potenza della Parola, ma anche la fatica e il rifiuto. E Gesù li invita al riposo, in un luogo solitario, in sua compagnia: «Venite in disparte, in un luogo solitario, e riposatevi un po’». C’è il momento della missione e dell’impegno e c’è il momento del riposo, c’è il momento dell’accoglienza e c’è il momento della solitudine.
Un riposo, però, che non si irrigidisce nelle sue esigenze, anche legittime, ma si mantiene aperto a una fondamentale disponibilità.
La folla giunge inaspettatamente impedendo il riposo, e Gesù non la fa attendere, ma la accoglie e ne soddisfa le esigenze. Però a modo suo: non è a disposizione delle esigenze superficiali della folla, ma solo delle sue esigenze profonde: «E insegnava loro molte cose». Più tardi moltiplicherà per quella folla i pani, ma ora insegna la Parola.
Il Vangelo è percorso da un fremito di urgenza, ma è un’urgenza speciale, molto diversa dalla nostra fretta ossessiva e distratta. C’è l’urgenza del Regno: «Il tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino» (1,15). La grande occasione è giunta e non c’è tempo da perdere: il tempo è compiuto, cioè maturo, ricco di possibilità di salvezza, e non si può sprecarlo, non si può perderlo.
C’è l’urgenza del distacco e della decisione: «Essi, abbandonata la rete, lo seguirono» (1,20). Di fronte all’appello di Dio non si può tergiversare, non si può differire la risposta: il discepolo deve decidersi subito.
C’è, infine, l’urgenza, la vigilanza: «Quando vedrete accadere queste cose, sappiate che è vicino, alle porte…; non passerà questa generazione prima che tutto ciò avvenga» (13,29-30).
Ma queste tre urgenze – che incalzano la vita del credente – non hanno nulla a che vedere con la fretta mondana. Le cose importanti da fare, e da fare subito e sempre, non sono le cose del mondo, ma l’accoglienza del Regno e l’attesa del Signore. È l’urgenza delle «cose di Dio»: non ha la fretta degli affari, l’ansia del possesso, l’accumulo del lavoro, ma la ricerca di Dio, l’ascolto della Parola, lo spazio alle persone. Proprio tutte le cose per le quali non troviamo mai il tempo. 

Il G8 della Vita

 dal sito:

http://www.zenit.org/article-18948?l=italian

Il G8 della Vita

di padre Angelo del Favero*

ROMA, domenica, 12 luglio 2009 (ZENIT.org).- “Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due e dava loro potere sugli spiriti impuri. E ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura, ma di calzare sandali e di non portare due tuniche. E diceva loro: ‘Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finchè non sarete partiti di lì. Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro’. Ed essi, partiti, proclamarono che la gente si convertisse, scacciavano molti demoni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano” (Mc 6,6-13).

Riflettendo sul Vangelo di oggi, il titolo a cui ho pensato immediatamente è: “Il G8 della Vita”. L’avviso interiore di non “tirare per i capelli” il paragone con il summit dei “Potenti della terra” si è fatto subito sentire, ma tale preoccupazione è ben presto svanita alla luce del contesto e del messaggio di questa Parola del Signore. A dire il vero la prima a mettermi su questa strada “sorvegliata” è stata ieri sera Maria santissima, quando mi ha ripetuto nella preghiera comunitaria dei Vespri: “Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili…” ( Lc 1,52 ).

Sono queste Parole eterne che, riguardo al G8 politico di questi giorni, traduco così: è Dio che per-mette i Potenti sui troni e non dobbiamo ritenere che intenda alla lettera rovesciarli, dal momento che Egli si serve di tutti, è presente in tutti ed agisce per mezzo di tutti al fine di compiere nella storia il Suo disegno globale di salvezza.

Ciò che Dio è venuto a rovesciare, per mezzo del suo Figlio unigenito mandato ad occupare l’ultimo posto in mezzo a noi, è la mente superba e perversa del potere. Dio vuole purificare il nostro cuore superbo con l’umiltà sconfinata del Suo amore di Padre, per elevarci in Cristo sul trono divino della sua gloria mediante il concreto servizio all’uomo, come ha scritto in questi giorni un umile Servo del Signore: “La carità nella verità, di cui Gesù Cristo s’è fatto testimone con la sua vita terrena e, soprattutto, con la sua morte e risurrezione, è la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell’umanità intera. L’amore – “caritas” – è una forza straordinaria, che spinge le persone ad impegnarsi con coraggio e generosità nel campo della giustizia e della pace; è una forza che ha la sua origine in Dio, Amore eterno e Verità assoluta” (Benedetto XVI, Enciclica “Caritas in veritate”, n. 1).

La somiglianza del Vangelo di oggi con il G8 politico, non scaturisce solamente dal riferimento ai potenti, ma anche dal fatto storico narrato da Marco nei dettagli. Vediamo infatti che Gesù, dopo aver percorso i villaggi d’intorno, raduna i Dodici in qualche luogo per istruirli sulle formidabili sfide della evangelizzazione, anzitutto informandoli sulla “verità” degli avversari del Vangelo (“..e dava loro il potere sugli spiriti impuri.”); indicando poi quale deve essere in ogni tempo e in ogni luogo l’equipaggiamento/atteggiamento che gli annunciatori dovranno tenere per farsi riconoscere..ai posti di blocco, per neutralizzarli e raggiungere efficacemente i destinatari (“..non prendere nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro..); infine raccomandando di occuparsi dei fratelli più deboli e bisognosi (“..ungevano con olio molti infermi e li guarivano.”), perché solo l’amore rende credibile ed autentica l’annuncio cristiano .

Questa è la missione dei Dodici, un gruppo di umili, impreparati pescatori di Galilea, che una sola parola di Gesù rovesciò dalle loro barche tranquille, il giorno in cui passando li chiamò uno per uno: “Seguimi!” (Mt 9,9).

Li costituì sacerdoti ed apostoli, i primi di una innumerevole schiera di amici di Dio, che Egli rese più potenti di tutti gli altri uomini della terra perché dotati di questi poteri:

- il potere di comandare al Creatore dell’universo di venire e di restare in mezzo a noi, mediante la “transustanziazione” del pane e del vino nel suo Corpo e nel suo Sangue;

- il potere di perdonare i peccati nel suo nome, per liberare l’uomo dalla peggiore e più degradante delle schiavitù, quella del peccato;

- il potere di scacciare satana dal tempio del corpo per farlo dimora perenne della Santissima Trinità;

- il potere di seminare la fede nei cuori risuscitando i cadaveri spirituali con l’abbondanza della vita divina.

Tutti questi poteri, affidati alla sua Chiesa, non saranno mai tolti, come promette il Signore al Capo del primo “summit” apostolico: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa” (Mt 16,18). Sì, perché i frutti missionari del primo “G8 della Vita”, si rinnovano “di generazione in generazione” fino ad oggi, poiché “la missione è l’irradiamento incontenibile dell’energia, dell’autorevolezza, della pienezza vitale promananti dal Vangelo, come lieto annuncio di Gesù, Figlio di Dio venuto a salvarci, morto e risuscitato per noi, principio, norma e giudice della storia umana” (C. M. Martini, Dizionario spirituale, p. 104).

Tale lieto annuncio di Gesù, nucleo centrale della sua missione redentrice, è il dono della vita divina innestata in quella umana: “Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10,10). Come intendere questa vita? Risponde il “Papa della vita”: “In verità Egli si riferisce a quella vita “nuova” ed “eterna”, che consiste nella comunione con il Padre, a cui ogni uomo è gratuitamente chiamato nel Figlio per opera dello Spirito Santificatore. Ma proprio in tale “vita” acquistano pieno significato tutti gli aspetti e i momenti della vita dell’uomo” (Giovanni Paolo II, Enciclica “Evangelium Vitae”, n. 1).

Quest’ultima, sottolineata precisazione, significa anzitutto che la persona umana sussiste, con costante ed inalterabile pienezza di senso e dignità, in virtù del dono della vita, e sussiste perciò, in pienezza e verità di identità umana, già a partire dal concepimento, punto d’inizio del suo ulteriore sviluppo.

Lo fa intendere oggi Paolo con questo annuncio: “In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci ad essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo, secondo il disegno d’amore della sua volontà” (Ef 1,4-5).

Essere “scelti” vuol dire essere concepiti nella mente e nel cuore di Dio in vista del dono della vita, per un progetto specialissimo di eterna felicità in Cristo, suo Autore; e, in forza stessa della vita ricevuta, vuol dire essere “predestinati” non solamente a tale beatitudine infinita, ma anche ad annunciare in terra tale universale progetto divino ai fratelli che non lo conoscono: “Il Vangelo della vita sta al cuore del messaggio di Gesù. Accolto dalla Chiesa ogni giorno con amore, esso va annunciato con coraggiosa fedeltà come buona novella agli uomini di ogni epoca e cultura” (E.V., n. 1).

La vita umana é dono che reca in sè il compito e la forza propulsiva di annunciare a tutti il Vangelo della vita: ecco la missione assegnata ai vescovi, ai presbiteri e ai diaconi, alle persone consacrate, ai fedeli laici e a tutti gli uomini di buona volontà.

———

* Padre Angelo del Favero, cardiologo, nel 1978 ha co-fondato uno dei primi Centri di Aiuto alla Vita nei pressi del Duomo di Trento. E’ diventato carmelitano nel 1987. E’ stato ordinato sacerdote nel 1991 ed è stato Consigliere spirituale nel santuario di Tombetta, vicino a Verona. Attualmente si dedica alla spiritualità della vita nel convento Carmelitano di Bolzano, presso la parrocchia Madonna del Carmine.

ABBAYE DE SCOURMONT, SITE DU PÈRE ABBÉ – OMELIA PER IL 5 LUGLIO

dal sito:

http://users.skynet.be/bs775533/Armand/2002-2003/b14-2003-ita.htm

ABBAYE DE SCOURMONT, SITE DU PÈRE ABBÉ

6 luglio 2003 – XIV domenica del Tempo Ordinario « B »

Ez 2, 2-5; 2Co 12, 7-10; Mc 6, 1-6

O M E L I A

            Nell’Antico Testamento leggiamo i racconti della vocazione di tre profeti : quella di Isaia (cap.6), quella di Geremia (cap. 1) e quella di Ezechiele, che abbiamo oggi come prima lettura . (Si potrebbe aggiungere forse quella di Amos: cap. 7,14-17).  Ora, a guardar bene, si tratta sempre di una vocazione al fallimento. Il profeta è inviato al popolo, ma viene già informato che il popolo non ascolterà.  E’ molto chiaro per Isaia, che deve dire al popolo :  « Ascoltate bene, ma senza comprendere; guardate bene, ma senza riconoscere… ». Similmente,  a Ezechiele viene detto, a proposito del popolo a cui è inviato : « ascoltino o non ascoltino, perché sono una genìa di ribelli, sapranno almeno che un profeta si trova in mezzo a loro ». Tutti questi grandi profeti furono rifiutati dal popolo.  Fu questo anche il destino di Gesù, come ci è raccontato nel Vangelo di oggi.

            Quando Gesù arriva a Nazareth (perché si suppone che si tratti ben di Nazareth, anche se Marco, senza dubbio intenzionalmente, non dice il nome della città), la sua fama l’ha preceduto. Non soltanto la sua fama di taumaturgo, ma la fama di personaggio pericoloso, che gli hanno già fatto i farisei e i capi del popolo, che hanno d’altronde già deciso di farlo perire (Mc 3,6). Si sa che insegna a nome proprio e non come gli scribi (Mc 1,22).  Si sa che non osserva le tradizioni, osando toccare un lebbroso e permettendo ai suoi discepoli di cogliere delle spighe e di frantumarle in giorno di sabato, e anche di operare una guarigione in tale giorno  (Mc 1,39-45; 2, 23-3,6); si sa che va a mangiare da persone poco rispettabili (Mc 2, 14-17), etc.  D’altronde, a causa di tutto ciò, la sua stessa famiglia aveva concluso che aveva perduto la testa, ed era venuta, anche con sua madre, per cercarlo e ricondurlo a  casa (Mc 3,21; 31-35).

            A  Nazareth come a Cafarnao (cfr. Mc 1, 22 et 27-28) non si può negare che parole di saggezza escano dalla sua bocca.  Non si possono negare neppure tutti i prodigi che ha già compiuto. Ma si esclude che ciò possa venire da Dio. Parlando di lui, non si pronuncia neppure il suo nome. « Da dove viene a quello lì  tutto questo ? », dicono. « Non è il figlio del carpentiere, ecc. ? ». Ma allora, che cosa è successo perché la folla reagisca così ? La gente ha rinunciato al suo proprio giudizio e si è lasciata condizionare dai mestatori del popolo. Non vi sono stati incontri da persona a persona tra loro e Gesù, ma l’incontro tra una folla manipolata e la falsa immagine di Gesù che di lui avevano diffuso i manipolatori. La stessa cosa si era prodotta per i profeti nell’Antico Testamento e non ha smesso di riprodursi dall’epoca di Gesù in poi.

            Gesù si stupisce della loro mancanza di fede. Questa brava gente, a cominciare dai farisei e dai capi del popolo, avevano senza dubbio una fede molto forte in Dio . Mancava loro la fede nell’uomo. Non potevano accettare che un essere umano come loro potesse essere portatore dello Spirito e messaggero di Dio. Era loro impossibile riconoscere colui che ama farsi chiamare il « Figlio dell’uomo ». Nella storia della Chiesa le eresie più perniciose non sono state quelle che negavano la divinità di Gesù, ma quelle che negavano la sua umanità.  Perché, quando non si riconosce l’umanità del Figlio di Dio,  si perde di vista la dignità dell’uomo tout court.  Da lì sono venuti tutti i crimini contro l’umanità – oggi si direbbe i crimini contro i diritti della persona umana – nel corso della storia.

            Come quella dei grandi profeti dell’Antico Testamento, la missione di Gesù era una missione al fallimento.  Il punto di arrivo è la croce, già sottilmente annunciata nel Vangelo di oggi. E’ proprio perché Egli si è fatto ubbidiente fino alla morte, e alla morte di croce, che il Padre lo ha esaltato e costituito Kurios, Signore e Salvatore.  E’ quanto ha appreso Paolo, che anch’egli (nella seconda lettura di questa messa) si glorifica delle sue debolezze, perché è in esse che  trova la sua forza.

            Quale lezione per la nostra epoca che sacrifica tante persone e valori umani al culto del successo !

Armand Veilleux

traduzione di Anna Bozzo

San Tommaso Apostolo : Dalle «Omelie sui vangeli» di san Gregorio Magno, papa

dal sito:

http://liturgia.silvestrini.org/santo/140.html

San Tommaso Apostolo

(dall’Ufficio delle Letture di oggi)

Dalle «Omelie sui vangeli» di san Gregorio Magno, papa

«Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù» (Gv 20, 24). Questo solo discepolo era assente. Quando ritornò udì il racconto dei fatti accaduti, ma rifiutò di credere a quello che aveva sentito. Venne ancora il Signore e al discepolo incredulo offrì il costato da toccare, mostrò le mani e, indicando la cicatrice delle sue ferite, guarì quella della sua incredulità.
Che cosa, fratelli, intravvedere in tutto questo? Attribuite forse a un puro caso che quel discepolo scelto dal Signore sia stato assente, e venendo poi abbia udito il fatto, e udendo abbia dubitato, e dubitando abbia toccato, e toccando abbia creduto? No, questo non avvenne a caso, ma per divina disposizione. La clemenza del Signore ha agito in modo meraviglioso, poiché quel discepolo, con i suoi dubbi, mentre nel suo maestro toccava le ferite del corpo, guariva in noi le ferite dell’incredulità. L’incredulità di Tommaso ha giovato a noi molto più, riguardo alla fede, che non la fede
degli altri discepoli. Mentre infatti quello viene ricondotto alla fede col toccare, la nostra mente viene consolidata nella fede con il supermercato di ogni dubbio. Così il discepolo, che ha dubitato e toccato, è divenuto testimone della verità della risurrezione.
Toccò ed esclamò: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, hai creduto» (Gv 20, 28-29). Siccome l’apostolo Paolo dice: «La fede è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono», è chiaro che la fede è prova di quelle cose che non si possono vedere. Le cose che si vedono non richiedono più la fede, ma sono oggetto di conoscenza. Ma se Tommaso vide e toccò, come mai gli vien detto: «Perché mi hai veduto, ha creduto?» Altro però fu ciò che vide e altro ciò in cui credette. La divinità infatti non può essere vista da uomo mortale. Vide dunque un uomo e riconobbe Dio, dicendo: «Mio Signore e mio Dio!». Credette pertanto vedendo. Vide un vero uomo e disse che era quel Dio che non poteva vedere.
Ci reca grande gioia quello che segue: «Beati quelli che pur non avendo visto crederanno!» (Gv 20, 28). Con queste parole senza dubbio veniamo indicati specialmente noi, che crediamo in colui che non abbiamo veduto con i nostri sensi. Siamo stati designati noi, se però alla nostra fede facciamo seguire le opere. Crede infatti davvero colui che mette in pratica con la vita la verità in cui crede. Dice invece san Paolo di coloro che hanno la fede soltanto a parole: «Dichiarano di conoscere Dio, ma lo rinnegano con i
fatti» (Tt 1, 16). E Giacomo scrive: «La fede senza le opere é morta» (Gc 2, 26).

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