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SANTA FAMIGLIA – FIGLI CHIAMATI DALL’EGITTO

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SANTA FAMIGLIA – FIGLI CHIAMATI DALL’EGITTO

NON C’E’ EGITTO CHE DURI PER SEMPRE

– Sir 3,2-6.12-14; Sal 127; Col 3, 12-21; Mt 2,13-15.19-23 –

Contemplare con gioia il mistero dell’Incarnazione è attitudine necessaria e vitale, ma è un’attitudine che subito si scontra con la storia di peccato in cui il nostro Dio si è voluto immergere proprio con l’Incarnazione. La storia non è un’oasi di pace; la storia rigurgita sangue e dolore ed il Figlio di Dio vi si immerge senza sconti e senza privilegi.
E’ nato nel grembo caldo di una famiglia umana, una famiglia contemporaneamente ordinaria e straordinaria. La sua ordinarietà, coniugata con la sua straordinarietà, fa sì che oggi la Chiesa guardi a quella famiglia come modello per le nostre famiglie; siamo convinti che questa esemplarità è un po’ azzardata in quanto troppo straordinaria è quella Famiglia, ma è pur vero comunque che quella Famiglia ci dice una verità per la nostra vicenda di uomini concreti, segnati dal dono della fede: non c’è nessuna esenzione per chi crede! Quanto è meschina quell’idea (madre di tanti “delusi” da Dio!) per la quale chi crede, e compie le opere della giustizia, dovrebbe essere esentato dal dolore, dai patimenti fisici e morali, dall’emarginazione! Quanto è misera e calcolatrice questa concezione di una fede che metta al riparo dalla vita!
Il racconto evangelico di oggi ci dice perfettamente il contrario, e ci ricorda che il solo giusto è stato minacciato da una spada assassina dal principio della sua vicenda umana fino al concretarsi di quell’antica minaccia di Erode sulla croce piantata sul Golgotha. Nessuna esenzione al Figlio di Dio nella carne degli uomini, nessuna esenzione per colei che fu madre e vergine dell’Emmanuele, nessuna esenzione per Giuseppe, figlio di Davide e uomo giusto!
La vicenda, che Matteo si compiace di narrarci per motivi più teologici che strettamente storici (Luca ignora questa fuga in Egitto!), contiene nel suo svolgersi l’indicazione di ciò che davvero occorre al credente per percorrere le strade della storia.
Ancora Giuseppe ne è umile maestro: ascolta e obbedisce! Nell’ultima domenica d’Avvento l’abbiamo visto in quell’obbedienza che lo ha trasformato, dicevamo, da ragazzo innamorato con un suo progetto, in ultimo dei Patriarchi della Prima Alleanza; da custode di un piccolo sogno con confini precisi segnati da una bottega, una casa come le altre, e una sposa feconda a custode del più grande sogno di Dio: essere per sempre, per noi uomini, l’Emmanuele, il Dio-con-noi.
Quell’obbedienza consegna a Gesù la discendenza davidica, quell’obbedienza permette a Dio di chiamare “figlio” quel bambino, e permette a Israele di chiamarlo “Nazoreo”. Giuseppe, come già dicevamo domenica scorsa, è sempre connesso con i nomi di Gesù: lui lo chiama Gesù (cfr Mt 1,21), andando in Egitto permette a Dio di chiamarlo mio figlio (“Dall’Egitto ho chiamato il mio figlio”) e, stabilendosi a Nazareth, permette al popolo di Israele di chiamarlo Nazoreo e quindi riconoscerlo come colui che Dio aveva promesso. Nazareth ha la stessa radice di “neser”, che significa “germoglio” (“Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse” – cfr Is 11,1; “Da sempre germoglio è il suo nome” – cfr Sal 72,17). A Giuseppe tocca questa obbedienza che dà il nome al Verbo eterno di Dio: Gesù, Figlio, Nazoreo; il suo nome proprio, la sua qualità di Figlio di Dio, il suo essere adempimento delle attese di Israele.
L’Evangelo di oggi, mostrandoci l’opera di obbedienza di Giuseppe, ci fa guardare all’Incarnazione con tutta la sua crudezza; oggi ci è detto il perché profondo dell’Incarnazione di Dio: il Verbo divenne carne (cfr Gv 1,14) per seguirci negli esili e nelle miserie, per fare strada con noi in un nuovo e continuo esodo in cui desidera che anche noi tutti siamo figli chiamati dall’Egitto… L’esilio per la Scrittura fu esperienza dell’Egitto e di Babilonia, due esperienze diverse: l’Egitto fu un esilio diventato schiavitù a causa del peccato degli altri (il Faraone, gli aguzzini…), Babilonia fu esilio causato invece dall’infedeltà di Israele; il Figlio di Dio vivendo l’esilio comincia quella ricerca dell’uomo negli inferi subiti o creati dalla propria iniquità…Nel tornare dall’esilio, Gesù giunge a Nazareth e lì riceve il nome di germoglio, perché inizio di una nuova storia di libertà… Isaia aveva cantato: Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse; la stirpe di Iesse (padre del re Davide) pareva secca per sempre, ed il Messia sembrava un sogno impossibile, ma ecco che quel tronco secco è fiorito per la Grazia di Dio e per l’obbedienza di Giuseppe figlio di Davide…ma non è solo quel tronco secco di Iesse che in Gesù fiorisce, ma in Lui fiorisce il ceppo di tutta l’umanità che è infecondo di pace, di bene, di amore perché asservito dal peccato; fiorisce di una santità che non si può dare da sola! La salvezza infatti viene dal grembo di una Madre vergine per dirci che l’uomo nuovo, Gesù, solo Dio poteva darcelo! L’uomo nuovo può essere solo accolto come dono, proprio come fecero Maria con il suo grembo e Giuseppe con la sua obbedienza.
A Nazareth il Figlio di Dio entra nell’umile quotidiano; il Dio-con-noi è davvero con noi, e santifica ogni ferialità, ogni riposo e fatica, ogni gioia ed ogni dolore, ogni amore ed ogni timore…l’esodo di Dio verso l’uomo ed il suo mondo è iniziato perché si compia l’esodo dell’uomo verso il mondo di Dio.
Maria e Giuseppe compagni di questo esodo e di quella quotidianità sono davvero primizia di una nuova storia in cui Cristo è cuore dei giorni. In tal senso ogni comunità umana, a partire da quella familiare, scopre nell’Evangelo un segreto che è fonte di vera pace e di senso: la presenza di Cristo che è presenza di Dio, perché Lui è l’Emmanuele.
Il germoglio (“neser” cfr Is 11,1) è il consacrato di Dio (“nazir” cfr Gdc 13,5.7) che fa fiorire l’umanità nuova rendendola santa con la sua santità.
Lo straordinario di tutto questo è che ci vien detto che questa nostra povera carne può essere davvero luogo di santità! E se il peccato fa scorrere sangue innocente e costringe i giusti all’esilio non dobbiamo temere, perché Dio compie ogni sua parola e promessa, e l’Emmanuele è Dio-con-noi anche negli esili, nelle ingiuste fughe e nel non-senso dell’odio del mondo.
Non c’è “Egitto” che duri per sempre!

p. Fabrizio Cristarella Orestano

IV DOMENICA DI AVVENTO – LA VOCAZIONE DI GIUSEPPE

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IV DOMENICA DI AVVENTO – LA VOCAZIONE DI GIUSEPPE

ATTESA, CRISI E SORPRESA

– Is 7, 10-14; Sal 23; Rm 1, 1-7; Mt 1, 18-24 –

L’Avvento è un tempo complesso: è attesa, è crisi per un discernimento, è sorpresa dinanzi ad un Dio che supera ogni proiezione umana e che sconvolge tutti i progetti.
Il Veniente deve essere atteso come Maria che lo accoglierà, ma dopo un tempo in cui l’attesa diviene l’“habitus” di ogni giorno; il Veniente mette in crisi, come accade a Giovanni Battista che permette alle domande di farsi largo in lui, perchè ancora cresca in lui il discernimento per riconoscere il vero volto di questo Veniente, così “altro” rispetto anche alle sue parole di profezia; il Veniente sconcerta, sconvolge i progetti e sorprende con l’“oltre” che è un “oltre” che diviene appello a ritirarsi con le proprie logiche, attese e speranze … ed è quello che capita a Giuseppe.
Il passo di Matteo di questa domenica ci narra un umanissimo e dolorosissimo sconcerto nel cuore di questo ragazzo innamorato (una volta per sempre cancelliamo i Giuseppe “vecchietti” del nostro immaginario!!) … nel passato anche illustri Padri ed esegeti hanno voluto “salvare” Giuseppe mettendolo al riparo dall’aver nutrito sospetti circa Maria, dal cocente dubbio di essersi innamorato della persona sbagliata, di aver fatto un passo falso che ora è fonte di dolore e forse di disonore. Io credo che, se stiamo per celebrare l’Incarnazione di Dio, questa avviene nella nostra storia concretissima in cui nessuno può credere o solo immaginare, di primo impatto, ciò che la rivelazione di Dio e la fede cristiana proclamano con certezza.
Giuseppe è contemporaneo all’evento della concezione verginale di Maria, e non può immaginare neanche lontanamente che potesse essere possibile … dinanzi a ciò che vede, Giuseppe cerca soluzioni al problema dolorosissimo che gli si è presentato: sa di non essere il padre di chi è generato in Maria, ma non vuole, no sa e non può diventare un violento, non può e non sa passare dall’amore per quella ragazza all’odio per lei … l’ha amata e la ama … che fare? L’evangelo non ci consente di capire di più … e non dobbiamo produrci in fantasie … Matteo è interessato ad altro, e non al “dramma” di Giuseppe. Certo, ce lo deve presentare perchè tutto sia limpido in questo inzio della vita di Gesù…narrandoci questo “dramma”, però Matteo ci mostra come il progetto di Dio entri in una storia concretissima, ed entrandovi crea sconcerto, lacerazioni, cesure; se così non fosse, non risulterebbe un progetto di Dio, ma sarebbe un prevedibile sviluppo di nostri pensieri, di nostre attese.
Giuseppe deve sperimentare questo irrompere di Dio che spezza le sue certezze…tutte…! D’altro canto – pensiamoci – Giuseppe non potrà chiamare “opera di Dio” quell’evento accaduto in Maria, e che lo ha ferito a morte se Dio stesso non gli rivela la verità di quell’evento … ecco il sogno di Giuseppe! Matteo è l’unico autore del Nuovo Testamento che usa il sogno come luogo di rivelazione (a Giuseppe, e dopo ai Magi!): l’angelo che Giuseppe sogna non gli deve rivelare che Maria è stata trovata incinta (Giuseppe già lo sa!), ma gli deve dire due cose: perchè Maria è incinta, e perchè lui, Giuseppe, deve rimanere in quella storia. La prima: in quella gravidanza è accaduto l’“impossibile” di Dio (Quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo…) ed ecco perchè lo sconcerto e la sorpresa; ecco perchè non potevano esserci risposte e soluzioni umane, come il Giusto Giuseppe pure cercava! La seconda: l’angelo comunica a Giuseppe la sua vocazione unica e strordinaria: essere padre del Figlio di Dio; e sarà padre davvero, perchè dare il nome era compito non solo legale del padre, ma è permettere al figlio di essere se stesso e di scoprire la propria identità. Tanto più qui, dove il nome porta in sè un significato così particolare! Lo chiamerai Gesù, dice l’angelo, e Matteo subito aggiunge un “infatti”, che implicitamente dà la traduzione greca del nome ebraico Jeshuà (cioè “il Signore salva”; ecco perchè l’angelo dice: infatti egli salverà il suo popolo dai suoi peccati).
Nel resto del capitolo scopriremo che ogni azione di Giuseppe sarà collegata a dare un nome a Gesù.
Andrà in Egitto per fuggire da Erode? E questo farà sì che Dio lo chiami “figlio”! Straordinario! (“Affinchè si adempisse quello che il Signore aveva detto per mezzo del profeta: Dall’Egitto ho chiamato il mio figlio” – cfr Mt 2,15; Os 11,1).
Dopo l’Egitto, Giuseppe decide di tornare in terra di Israele e stabilire la dimora a Nazareth? E Matteo puntuale annota: “Perchè si adempisse quello che era stao annunziato dai profeti: Sarà chiamato Nazoreo (cfr Mt 2, 23); Giuseppe permette che Israele riconosca in Gesù, il Figlio di Dio, il germoglio promesso da Dio alla Casa di Davide (cfr Is 11,1). Infatti la parola “nazoreo” ha la radice della parola “neser”, che significa “germoglio”, e da cui deriva anche il nome della città di Nazareth (ed anche la radice della parola “nazir” che significa “consacrato”)!
La sorpresa di Giuseppe è dunque la sorpresa della Casa di Davide, di cui Giuseppe è figlio; Casa di davide a cui Dio è fedele, ma con una fedeltà che non è scevra da giudizio: la casa di Davide è davvero un tronco secco che non può generare con il suo seme il Messia, ma il Messia nasce, come promesso, proprio nella casa di Davide, per opera solo di Dio che chiede alla Casa di Davide (presente nel giusto Giuseppe) di riconoscere quella infecondità che diviene fecondità solo per la misericordia di Dio!
Giuseppe, figlio di Davide, sarà per Gesù veramente padre e padre davidico (non diciamo più quel brutto e depauperante “putativo”!); Giuseppe è il discendente di Davide che farà del tutto diversamente da Acaz, suo antenato e protagonista della prima lettura. Ad Acaz Isaia dà un segno, quello della nascita del figlio Ezechia, segno che il Signore è Dio-con-noi; Acaz non vorrebbe alcun segno perchè non vuole compromettersi con Dio, ed alla fine non accoglierà il segno perchè continuerà a fare di testa sua, agendo mondanamente e secondo le logiche politiche delle alleanze (dimenticando l’Alleanza e portando la Casa di Davide alla rovina).
Giuseppe invece accoglie il segno dell’Emmanuele, riconosce in quella sconcertante gravidanza della sua Maria un segno di speranza tanto più grande delle sue piccole speranze di ragazzo innamorato. Giuseppe è giusto, e compie le parole del Signore accogliendo in pieno la vocazione ad essere padre del Figlio di Dio … Giuseppe obbedisce a Dio, e diviene luogo in cui la salvezza potrà mettere la sua tenda, in Gesù che salverà il suo popolo dai suoi peccati!
In questo ultimo tratto di Avvento, Giuseppe diventa per noi una provocazione grande! Non possiamo e non dobbiamo sfuggire a questa provocazione, pena il fare del cristianesimo e della stessa Venuta del Figlio di Dio (che diciamo di attendere!) semplicemente una via di buon-senso e di conforto delle nostre povere vie, dei nostri asfittici progetti e delle nostre scelte a respiro corto!
Giuseppe si fa capovolgere da Dio!
C’è poco da fare: il Veniente non ci conferma nel nostro buon-senso (come è triste il nostro buon-senso!); non ci conforta nelle vie che abbiamo imboccato a prescindere da Lui; il Veniente può davvero venire a sconvolgere i nostri progetti e le nostre scelte! Il Veniente è Colui al quale non possiamo presntare i nostri progetti di vita, ma è Colui a cui dobbiamo chiedere, come Saulo di Tarso (un altro sconvolto dal Veniente!): “Che vuoi, Signore, che io faccia?” (cfr At 22,10).
L’Avvento si compie in presenza di uomini come Giuseppe, giusto perchè cerca Dio e la sua volontà; in uomini come lui capaci di credere ai sogni più che al proprio cuore ferito e più che alle evidenze … anche i Magi, di cui Matteo ci racconterà più avanti, saranno meravigliosamente capaci di credere più ai sogni che alle lusinghe di un re!
La venuta del Signore può essere riconosciuta solo da uomini così, uomini con sguardi che guardano lontano e non si lasciano vincere nè dalle evidenze nè dalle proprie progettualità, nè dalle lusinghe del mondo; da uomini che si lasciano vincere solo da Dio! Uomini così possono giungere fino alla mangiatoia di Betlemme, uomini così possono essere i veri cantori del Maranathà con cui si chiude la Santa Scrittura (cfr Ap 22,20).

p. Fabrizio Cristarella Orestano

III DOMENICA DI AVVENTO (A) COMMENTO

https://combonianum.org/2019/12/11/iii-domenica-di-avvento-a-commento/

III DOMENICA DI AVVENTO (A) COMMENTO

Sei tu?
Clarisse di Sant’Agata

In questa terza domenica d’Avvento, che la tradizione liturgica definisce “Gaudete”, ricorre il tema della gioia a partire dall’antifona d’ingresso: “Rallegratevi nel Signore sempre: ve lo ripeto, rallegratevi, il Signore è vicino”. Così anche nella prima lettura tratta dal profeta Isaia, il quale arriva a dire che il deserto è chiamato a rallegrarsi; anche l’apostolo Giacomo ci invita ad un’attesa paziente, nella certezza che le promesse si compiranno: “siate costanti, fratelli miei, fino alla venuta del Signore”. Infine la figura di Giovanni Battista che incontriamo nel Vangelo di oggi ci mostra la gioia di scoprire il vero volto del Messia, Colui che deve venire.
Giovanni il Batista, è il profeta la cui missione era “annunziare Colui che doveva venire”, infatti si era sentito chiamato da Dio al deserto e con una piccola comunità di discepoli, era in attesa del Messia ed egli dice di sé di essere “voce di uno che grida nel deserto preparate la via al Signore” (Gv 1,23).
Egli che non conosceva e non sapeva, diviene voce di una parola divina: “la Parola di Dio venne su Giovanni” (Lc 3,2), è voce di un uomo mandato da Dio per annunciare la Parola incarnata: l’uomo-Dio, il Verbo, Gesù. Giovanni dopo l’incontro con Gesù è voce nuova, voce piena di Spirito Santo che afferma “ho visto lo Spirito scendere come colomba dal cielo e posarsi su di lui….Io ho visto e ho reso testimonianza che questi è il Figlio di Dio” (Gv 1,32.34). Ancora, per divina rivelazione Giovanni aveva visto in Gesù, un suo discepolo, “l’Agnello di Dio, Colui che toglie il peccato del mondo” (Gv 1,36).
Come collocare allora la domanda di Giovanni: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo attendere un altro?”. Per poter entrare vediamo il contesto storico. L’evangelista Matteo ci dice che Giovanni si trovava in carcere dove Erode Antipa lo aveva rinchiuso a causa di Erodiade, moglie di suo fratello Filippo, perché Giovanni gli diceva: “non ti è lecito tenerla” (Mt 14, 3-4) e dalla prigione seguiva l’attività del Messia per il tramite dei suoi discepoli. Ma il comportamento mite e umile di Gesù (amico dei poveri, che mangia con pubblicani e peccatori, che non digiuna, che consola e perdona le prostitute, ordina di lasciar crescere la zizzania con il buon grano, insegna che bisogna lasciar trionfare la misericordia sulla giustizia) si scontra con l’idea differente di Messia del Battista: “giustiziere”, “giudice” con la scure in mano per tagliare gli alberi che non danno frutto e con il ventilabro per separare la pula, degna del fuoco, dal buon grano.
E’ questa la ragione per cui Giovanni Battista manda alcuni dei suoi discepoli ad interrogare Gesù: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?” (Mt 11,3). Giovanni è colto dal dubbio sull’identità del Messia; ma proprio qui sta la grandezza del Battista, da voce si fa ascolto, non si dà una risposta da sé ma lascia che sia Gesù stesso a dargliela. Giovanni si apre all’ascolto, alla novità di Dio anche se la sua visione del Messia non corrisponde alle opere che Gesù compie.
Anche per noi, quando come Giovanni ci viene un momento di scoraggiamento, di oscurità e di dubbio (Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?), il rimando alla Parola di Dio e ai segni che accompagnano la sua presenza efficace, basta a restituire fiducia.
Sei Tu? Gesù risponde a Giovanni Battista elencando le opere profetizzate da Isaia (Is 35,5-6; 29,18-19; 26,19) e che Egli compie come “Inviato di Dio”: “i ciechi recuperano la vista, gli storpi camminano, i sordi odono, i lebbrosi sono sanati, i morti risorgono, ai poveri è predicata la buona novella” (Mt 11,5).
Gesù non risponde con argomentazioni o semplicemente dicendo “sì, sono io”, ma con un elenco di fatti che gli stessi inviati hanno udito e visto perché non le parole possono convincere ma le opere. Dove il Signore passa e tocca sana e ridona vita.
Sei Tu? Affiorano anche a noi degli interrogativi e la risposta è semplice: se l’incontro con Lui, il Signore, ha cambiato qualcosa nella mia vita, se il mio cuore si è aperto alla gratuità, al dono, all’amore allora è Lui il Veniente, Colui che attendo.
Gesù poi conclude la sua risposta con una beatitudine: “E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo”(Mt 11,6). La beatitudine del discepolo sta nell’accettare Gesù per quello che è e non per l’idea che egli ha di lui. Qui è la povertà: accogliere un messia debole, mite, umile, che non fa la guerra, accettare che la misericordia trionfa sulla giustizia. E’ lo scandalo della misericordia di Gesù che disorienta coloro che attendevano un Messia potente. E’ lo scandalo del suo amore sconfinato fino a morire in croce che lascerà sconcertato prima Giovanni Battista e in seguito, Pietro e tutti gli altri discepoli. S. Paolo nella prima lettera ai Corinzi dice: “…noi annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani, ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio” (1 Cor 1,22-25). A questo proposito osserva Bonhoeffer con S. Paolo: “Dio non ci salva per la sua onnipotenza ma per la sua impotenza manifestata in Cristo crocifisso”.
“Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?”, il dubbio di Giovanni non fa cambiare la stima che Gesù ha di lui e sente di dover dire alla folla una parola su di lui e l’Evangelista pone sulle labbra di Gesù una descrizione del Battista molto articolata, dicendo chi era veramente. Giovanni era un profeta, un portavoce di Dio, il messaggero, il precursore, un uomo saldo che proclamava la verità anche davanti ai potenti della terra (Mt 14,3-12), un uomo povero e ascetico come tutti gli inviati di Dio (Mt 3,4) e Gesù stesso afferma: “In verità io vi dico: fra i nati di donna non è sorto alcuno più grande di Giovanni Battista tuttavia il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui” (Mt 11,11). Il più piccolo infatti è Gesù stesso il quale si presenta come Servo che si è abbassato fino all’ultimo posto, che è stato rifiutato, schernito fino alla condanna di morte sulla croce.

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IMMACOLATA CONCEZIONE DELLA BEATA VERGINE MARIA – NULLA È IMPOSSIBILE A DIO! – 8.12.19

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IMMACOLATA CONCEZIONE DELLA BEATA VERGINE MARIA – NULLA È IMPOSSIBILE A DIO! – 8.12.19

– Gen 3, 9-15.20; Sal 97; Ef 1, 3-6.11-12 (Rm 15, 4-9); Lc 1, 26-38 –

Quest’anno la seconda domenica di Avvento coincide con la Solennità dell’Immacolata Concezione di Maria … la Chiesa ha concesso che in questa domenica si celebri questa festa così cara al cuore dei credenti, ma conservando la seconda lettura della Seconda Domenica d’Avvento …
Guardare a Maria, in questo nostro percorso d’Avvento, ci permette di volgere lo sguardo su quella “terra” che Dio scelse per piantare la sua tenda tra noi uomini … in Maria si incontrano le speranze messianiche della Prima Alleanza che la Promessa del Signore aveva messo in cuore al suo popolo, e lo sguardo di Dio.
Maria, la piccola donna di Nazareth, diviene il crogiuolo di questo incontro, terreno preparato dalla grazia. Maria incontra Dio, accoglie dalla bocca dell’Angelo una parola nuova, sconvolgente, dura, difficile, foriera certamente di lotte e di incomprensioni che potrebbero sommergerla, ma Maria prende una decisione dinanzi a quella parola, in quella parola, e così genera la Parola!
Maria non resta nei “limbi” che tanti cristiani sanno crearsi per non compromettersi con Dio e le sue domande. Si fa interpellare davvero da Dio, e non rimane paralizzata dinanzi alle domande di Dio rimandando all’infinito le risposte: Maria ha la forza, il coraggio e l’onestà di prendere una decisione.
Nella vita di un credente non basta fare esperienza di Dio; a volte esperire la sua presenza amorosa e concreta può rimanere nell’ambito delle cose “romantiche”, “sentimentali”; magari appaganti per quell’ora, e appaganti nei momenti di memoria di quell’ora … questo non basta! Potrebbe diventare un rifugio ben caldo, rifugio che ci mette al riparo da Dio stesso, un rifugio in cui è facile vivere il limbo dell’irresponsabilità … Maria all’annunzio di Gabriele vive una vera esperienza di Dio, conosce un Dio che la chiama; non relega quell esperienza in un’aura di sentimento, ma la trasforma subito in un sì che ingloba tutta la sua vita, il suo cuore, il suo corpo, i suoi progetti, i suoi sogni … nulla lascia fuori da quella Parola che ora deve avvenire in Lei, e dice il suo sì.
Non è un sì “titanico”, di chi si sente forte e “collaboratore” (!) di Dio, ma un sì che sa attraversare domande (Come avverrà?), e che si lascia attraversare da domande…la sua stessa verginità, lungi dall’essere un prodigio straordinario per destare stupore, è invece luogo di povertà e di “impotenza” (lo stato di verginità è incapacità assoluta a generare!)…così diviene terreno per l’avvento del Santo!
Il tempo di Avvento oggi è illuminato dalla presenza umile e forte di Maria, una presenza che ci richiama al fatto che l’Avvento è sì tempo di attesa, di vigilanza, di speranza, ma contemporaneamente è tempo concreto di vita, tempo che vuole decisioni per Dio, decisioni sulla sua Parola. L’Avvento è tempo di fiducia in cui, dicendo i nostri sì scopriamo sempre che l’amore di Dio ci ha prevenuti! Il mistero dell’Immacolata che oggi celebriamo è proprio questo: amore che precede e che prescinde da ogni merito … Maria nasce “tutta santa” dal grembo di sua madre, immacolata; questo però non è un’astratta “impeccabilità”, non è un privilegio accecante, è invece scoperta di essere stata preceduta, è scoperta che, prima del “fiat” di Maria, c’è già e sempre il “fiat” di Dio che è sempre Colui che ama per primo!
Se Maria ci fa fare questa scoperta in questo cammino di Avvento ci avrà consegnato una grande forza, una parola su cui scommettere per dire anche noi i nostri sì, su cui decidersi per il Regno.
Lui viene e provoca già il nostro oggi mostrandoci in Maria un amore preveniente, assolutamente gratuito, un amore che ci grida “nulla è impossibile a Dio”!

E allora ci si può fidare…

Bisogna fidarsi!

p. Fabrizio Cristarella Orestano

OMELIA I DOMENICA DI AVVENTO A (01-12-2019)

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/47272.html

OMELIA I DOMENICA DI AVVENTO A (01-12-2019)
Missionari della Via

Inizia oggi il tempo dell’Avvento, tempo di preparazione e dunque, speriamo, anche di crescita. Il tempo liturgico dell’Avvento celebra la venuta di Dio, nei suoi due momenti: dapprima ci invita a risvegliare l’attesa del ritorno glorioso di Cristo; quindi, avvicinandosi il Natale, ci chiama ad accogliere il Verbo fatto uomo per la nostra salvezza.
Ora, il Signore viene continuamente nella nostra vita, vi è una venuta intermedia che avviene, (speriamo di accogliere) nel nostro cuore. A che serve questa venuta? A vivere bene questa vita, preparandoci all’incontro con il Signore. Infatti, se non riflettiamo che la nostra vita terrena ha un fine, le cose che facciamo non hanno un movente autentico, non sono indirizzate verso la meta finale.
Come sarà la fine della nostra strada? Qui il Vangelo ci dice che può avvenire come al tempo di Noè: tutti mangiano, tutti si sposano, tutti bevono; ora, queste non sono cose cattive, ma rischiano di diventare l’assoluto. Noi viviamo di queste cose, però c’è qualcosa di più grande del solo mangiare, del bere, di realizzarmi, di vivere affetti come possessi. San Paolo ce lo ricorda: «passa la scena di questo mondo» (cfr 1Cor 7,31).
Ecco, Noè sale sull’arca consapevole di ciò, ma gli altri non si accorgono di nulla presi come sono dalle loro cose. Questo è qualcosa di ricorrente. Vediamo persone che si donano, che mostrano con la loro vita che tendono verso qualcosa di oltre, di più grande, ma non riflettiamo su ciò. Ho visto persone rispondere alla chiamata del Signore consacrandosi totalmente a Lui, e i parenti vivere quasi nell’indifferenza tutto ciò.
Una volta un mio caro mi disse che non aveva bisogno di miracoli, perché la mia chiamata era già un miracolo; risultato? Non cambiò minimamente stile di vita, lontano dal Signore prima, lontano dal Signore dopo, nel peccato prima, nel peccato dopo!
Certo che è proprio strano tutto ciò! Siamo così intontiti nel fare le cose di questo mondo che non pensiamo al dopo. Spesso ai funerali mi capita di dire ciò per cercare di risvegliare le persone dal loro torpore spirituale; ma spesso, usciti dalla chiesa, dopo due lacrime, un pochino di commozione ritornano alla stessa vita di prima.
«Gesù non dice che la generazione nella quale avverrà ?il giorno del Signore? sarà immorale o particolarmente perversa, ma ne denuncia solo l’indifferenza. Sono uomini e donne che vivono: nascono, crescono, si innamorano, si sposano, mangiano e bevono… Sì, vivono, e su questo loro vivere Gesù non pronuncia condanne, proponendo loro un programma ascetico. Denuncia solo la ?non conoscenza?, il non essere pronti, l’essere indifferenti a ciò che invece va cercato prima di tutto ed è essenziale a una vita veramente umana, che risponda alla volontà e alla vocazione del Creatore. Dunque nessun castigo da parte di Dio, ma semplicemente la manifestazione della situazione in cui si trova l’umanità di fronte alla presenza e alla venuta del Figlio dell’uomo. Purtroppo noi oscilliamo tra febbre apocalittica con predizioni catastrofiche e indifferenza verso questo evento che, tardando così tanto, pensiamo non ci debba tormentare. Ma questo evento non può essere da noi rimandato alla fine della storia, quasi pensando che non ci riguardi, perché in realtà nell’esodo di ciascuno di noi, nel passaggio da questo mondo all’al di là della morte, saremo messi di fronte alla presenza del Figlio dell’uomo veniente nella gloria» (Enzo Bianchi).
Bisogna dunque vegliare perché non sappiamo quando verrà il Signore nella nostra vita, quando andremo incontro a Lui.
«La vigilanza prende valore dal motivo per cui si veglia. Veglia anche il donnaiolo, diceva sant’Agostino, e veglia il ladro, ma non è certo buono il loro vegliare. Vegliano coloro che passano la notte in discoteca, ma spesso per stordirsi e non pensare. Ora il motivo evangelico della vigilanza è così formulato da Gesù: ?State attenti, vegliate, perché non sapete quando sarà il momento preciso?. Non serve consolarsi dicendo che nessuno sa quando sarà la fine e del mondo. C’è una venuta, un ritorno di Cristo, che ha luogo nella vita di ogni persona, al momento della sua morte. Il mondo passa, finisce, per me, nel momento in cui io passo dal mondo e finisco di vivere. Più ?fine del mondo? di così! Dio forse ci minaccia, non ci vuole bene? No, è per amore, perché ha paura di perderci. La cosa peggiore che si può fare, davanti a un pericolo che incombe, è quello di chiudere gli occhi e non guardare» (p. Raniero Cantalamessa).
Ma già ora il Figlio dell’uomo viene secondo schemi che non abbiamo. Occorre la nostra disponibilità ad accogliere il nuovo che arriva. Occorre essere pronti a cambiare vita, vivere una vita più autentica, non rimanere attaccati sempre alle solite cose che facciamo. Perché? Perché la vita ci presenta cambiamenti, possiamo vivere una sofferenza che ci chiede un cambiamento, siamo pronti e disposti a farlo? Anche la morte, realtà dalla quale spesso fuggiamo, inevitabilmente un giorno verrà, siamo pronti ad affrontarla? Chiunque, prima di affrontare un lungo viaggio prepara le cose che gli occorrono, lo facciamo per un breve viaggio e non lo facciamo per un viaggio senza ritorno?
Occorre che ci domandiamo: «Chi è il padrone della mia vita? Se il signore verrà come un ladro significa che il padrone sono io; se invece il padrone è Lui non verrà come un ladro, ma quando verrà io dirò: è il Signore. Allora facciamo sì che in questo tempo diveniamo persone capaci di farsi visitare pronti alla visita che arriva un ospite gradito» (don Fabio Rosini).
Vegliamo dunque, perché così facendo accogliamo il Signore, accogliamo l’amore nella nostra vita

TRENTAQUATTRESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO CRISTO RE

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TRENTAQUATTRESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO CRISTO RE

21 Novembre 2019 | Omelie Anno C

2Sam 5,1-3; Sal 121; Col 1, 12-20; Lc 23, 35-43

Oggi si parla di un re … una figura un po’ anacronistica … in ribasso sulle quotazioni del mondo … ormai i re sono sempre più pochi sui troni politici del mondo e questo, da un lato rischia di farci sembrare questo titolo dato a Cristo strano e fuori dalle nostre categorie culturali, un titolo quasi da fiaba, da un altro lato però, se i re umani scompaiono o sono solo figure rappresentative e simboliche dove ancora ci sono, questo ci dà la possibilità di guardare alla regalità del Cristo come a qualcosa di davvero diverso e altro. Se i credenti ancora chiamano Gesù re è perché vogliono dire qualcosa di certamente diverso rispetto a tutte le regalità pensabili.
Già il Nuovo Testamento parla di una regalità altra che supera le regalità mondane ed anche quelle messianiche che Israele aveva sperimentato. Nella prima lettura, tratta dal Primo libro di Samuele ci è stata ricordata la regalità messianica di Davide. Le tribù di Israele la riconoscono mettendosi in alleanza con lui riconoscendo la vocazione che Dio gli ha dato di pascere il suo popolo. Ai tempi del Nuovo Testamento però l’esperienza monarchica di Israele è miseramente fallita e la regalità davidica è, per l’Israele fedele, solo una memoria di una promessa che la supera. Il re veniente sarà altro da quello che Israele ha sperimentato, da quello che i popoli sperimentano.
Ma che alterità?
Per comprendere dobbiamo prima porci un’altra domanda: chi è un re? Certamente è uno che guida, che pasce, come già diceva il testo del Primo libro di Samuele con tutta la tradizione profetica; è poi uno nel quale possiamo dire si riassume la totalità del popolo … ma è soprattutto uno che ha l’ultima parola su coloro che lo chiamano re; è il Signore. La festa di oggi allora potremo chiamarla Solennità della Signoria di Cristo. Una signoria che va riconosciuta e accolta per quello che essa è nella sua alterità.
La liturgia di oggi ci propone con crudo realismo questa alterità liberando la regalità di Cristo Gesù da ogni esito trionfalistico, di dominio…liberando la sua Chiesa dalla tentazione di farsi regno mondano stendendo tentacoli di supremazia sui regni e sugli uomini.
Il Cristo è davvero re perché ha parole definitive sulla storia, è davvero re perché tutto regge con la sua parola potente (cfr Eb 1,3), è davvero re perché ha conquistato alla luce del Padre il mondo che si era gettato nelle tenebre di morte. Non bisogna dimenticare che è Gesù stesso che afferma la sua regalità. Nel Quarto Evangelo lo dice con chiarezza: Io sono re. Per questo sono nato e per questo sono venuto nel mondo. Se ci fermassimo qui sarebbe rischioso ma Gesù aveva anche detto, a scanso di ogni possibile equivoco: Il mio regno non è di questo mondo … non è di quaggiù (cfr Gv 18, 36-37) ed il passo dell’Evangelo di Luca che oggi si proclama lo mostra con una chiarezza limpida e spiazzante.
Questo re è altro perché non salva se stesso! Salva gli altri, i suoi torturatori, quelli che lo insultano … salva noi! Per ben tre volte la tentazione lo aggredisce sul paradossale trono della croce: Salva te stesso! La tentazione gli ricorda che ha già operato la salvezza di tanti infelici, di tanti poveri, di tanti disprezzati … e davanti ai suoi occhi di crocefisso sono passati certamente i volti della peccatrice con il vasetto di profumo, del cieco che riapre gli occhi alla luce, dei lebbrosi con la loro pelle risanata, degli ossessi umanizzati, di Zaccheo raggiante di gioia e di speranza, dei suoi discepoli pieni di fiducia in un mondo diverso..li ha salvati! La tentazione gli ricorda che Lui può ma Gesù sa che è re, e anche i suoi uccisori l’hanno scritto in cima alla croce, ma è un re che salva il mondo perdendo se stesso. E questa alterità Luca vuole che noi la capiamo fino in fondo, una regalità davvero altra; Luca vuole che spazziamo via tutte le idee preconcette di regalità e anche di Messia … come l’evangelista ci dice questa alterità? Proprio nel titulus crucis, quel cartello posto in cima alla croce che dava ai passanti e l’identità del condannato e il delitto per cui stava su quel legno. In greco Luca così ci dice il testo del titulum: “O basileùs tõn Ioudaíon outos” che in italiano suona così: “Il re dei Giudei: questo!” Luca è chiarissimo; è come se ci dicesse: “!l re dei Giudei, il Messia è questo, questo crocefisso, questo perdente, questo che non salva se stesso … se pensate ad altra regalità state sbagliando!”
Gesù aveva annunciato questo paradosso per tutta la sua vita, con tutta la sua vita: solo chi perde la propria vita la ritrova (cfr Lc 9,24)…e ora è lì a perdere la sua vita; se salvasse se stesso rinnegherebbe quel paradosso…e così da re paradossale rimane lì, confitto alla croce in un’impotenza totale e sceglie di salvare e non di salvarsi. Come ultimo atto della sua storia su questa nostra terra salva un povero, il più povero…uno a cui si è fatto simile fino alla morte e alla morte di croce (cfr Fil 2,8). Sulla croce, perdendo se stesso e donando salvezza senza salvare se stesso Gesù è davvero re, domina davvero. Domina quella tremenda “filautìa” che è amore di sé fino alla dimenticanza degli altri e di Dio; domina con l’amore e la misericordia l’odio che lo sta aggredendo inchiodandolo al legno dei maledetti; è re perché si fa ponte tra la terra dei poveri e degli ultimi ed il “paradiso” di Dio…nell’Evangelo di Giovanni Gesù dice: Io sono la via (cfr Gv 14,6) e qui vediamo come Egli sia davvero via; via per chi riconosce nel paradosso la sua regalità, via per chi, come il ladro crocefisso, non ha paura del suo peccato e sa consegnarlo a quelle mani inchiodate apparentemente impotenti ma paradossalmente capaci di aprire quel “paradiso” che l’uomo chiuse con la sua disobbedienza e dinanzi al quale saettava la spada di fuoco dei tremendi cherubini posti a guardarne la soglia (cfr Gen 3,24).
Fu la negazione della signoria del Creatore a chiudere quelle porte che ora vengono spalancate all’ultimo dei figli di Adam, al più reietto e misero, a questo ladro crocefisso che però riconosce, nel Crocefisso che gli sta accanto, il Signore che ha le chiavi della morte e dell’inferno (cfr Ap 1,18) e perciò è la chiave di Davide, se egli apre nessuno chiuderà (cfr Is 22,22).
La Chiesa oggi, al culmine dell’Anno liturgico, contempla questo re che è ragione di ogni lotta quotidiana per la santità e la giustizia, questo re che le dà la forza per costruire il Regno sapendo che esso è sempre dono dall’alto, questo re che mette in crisi tutti i regni del mondo e tutte le pretese di potere, questo re che regna dalla croce.
Alla fine dell’Anno liturgico la meta non è un compiacimento trionfalistico ma, ancora una volta, è una via contraddittoria alle nostre vie, la meta è una Signoria che non ci mette al riparo in una religione rassicurante ma ci chiede di rischiare di persona, a caro prezzo (cfr 1Cor 6,20).
Alla fine dell’Anno liturgico questo re si mostra a noi come possibilità di un modo pieno per essere uomini, vorrei dire del modo pieno per essere uomini: nell’amore che si dona, che non salva se stesso ma salva l’altro!
Questo re è credibile perché senza svendere la sua Signoria si è fatto vicinissimo a noi ed alla concretezza della nostra umanità, fino alle nostre croci. Tanto vicino e prossimo che il ladro crocefisso lo può chiamare semplicemente Gesù (è l’unico in tutto l’Evangelo che lo chiama solo così, senza titoli…) e fa fiorire sulle nostre labbra quello stesso nome santo ogni giorno, nella confidente certezza che Lui è il Signore che a tutto dona senso!
Il Buon Samaritano termina così il suo viaggio, quello che Luca ci ha narrato in tutto il suo Evangelo durante quest’anno ed il finale è sconvolgente: è ferito come colui che ha soccorso! Ha le stesse piaghe e le avrà per sempre (cfr Lc 24,39) non per raccontare un eterno dolore ma per narrare un amore eterno…
Di un Signore così ci possiamo fidare e possiamo camminare, pur tra le contraddizioni della storia, con l’ardente desiderio di pronunciare, come ultima parola delle nostre labbra, proprio come il ladro crocefisso, primo Santo del Regno, il nome del re fattosi compagno delle nostre vite:

Gesù!

P.Fabrizio Cristarella Orestano

TRENTATREESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

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TRENTATREESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

Mal 3,3-19-20a; Sal 97; 2Ts 3,7-12; Lc 21,5-19

Mentre ci avviciniamo alla conclusione di quest’anno liturgico la riflessione che la Chiesa propone oggi è una lettura della storia e del suo senso. Guardando al fluire della storia la riflessione di Luca è attenta alla vita della Comunità dei credenti in Cristo nella storia. Quando Luca scrive il suo Evangelo ha chiaro il corso degli eventi: il Tempio di Gerusalemme è stato distrutto (siamo dopo il 70) e la vita della Chiesa è sì fiorente ma minacciata, già il sangue dei primi testimoni è stato versato (lo stesso Luca in Atti narrerà delle morti violente di Stefano e di Giacomo) … la fine del Tempio per Luca (come per tutto il NT) è segno potente della novità che è Cristo e della fine della precedente economia; è segno apocalittico (cioè rivelativo) di una presenza di Dio nel nuovo tempio che è il Cristo crocefisso, risorto e vivente nella Chiesa.
Il discorso di Gesù del passo odierno dell’Evangelo è sollecitato dall’ammirazione di alcuni per grandiosità del Tempio e per le sue bellezze ed è detto “grande apocalisse lucana” mentre al capitolo 17 avevamo incontrata la cosiddetta “piccola apocalisse”. “Grande” perché riguarda il corso di tutta la storia mentre la “piccola” riguardava il “destino” personale, la storia personale di ogni uomo, quella che si conclude con la morte.
E’ una rivelazione (“apocalisse”) che riguarda le ultime cose e cioè non tanto “la fine” della storia ma “il suo fine”. Infatti qui Gesù smaschera le nostre paure, le nostre derive, i nostri possibili inganni, quelli che possiamo creare e quelli in cui possiamo cadere; qui Gesù ci narra come sarà la storia e come in essa coloro che si fidano di Lui e del suo Evangelo potranno e dovranno camminare.
La storia certo ha un senso, cioè una direzione e le parole che Luca pone qui sulle labbra di Gesù non sono né terroristiche, né trionfalistiche; non parole che annunciano, promettono e minacciano sventure ma neanche parole che assicurano un trionfo a basso prezzo. Di certo, però, sono parole che promettono una vicinanza provvidente che alla fine avrà la forza della salvezza, mentre intanto dona la capacità di pronunciare parole di verità anche dinanzi alle accuse e persecuzioni del mondo. Questa salvezza ha però il costo della fedeltà e della perseveranza, il costo di saper attraversare la storia fidandosi della promessa stessa di Dio.
Il percorso della Chiesa nella storia sarà certo un cammino difficile, segnato da contraddizioni interne ed esterne e questo bisogna assumerlo per non vivere in un’illusione che da un lato anestetizza i credenti e dall’altro li trasforma in uomini delusi.
Il cammino del credente, in questo passo di Luca, è mostrato come esposto al rischio di trappole che il mondo tende e in cui si può cadere. Gesù ne individua tre attraverso cui il male cercherà di aggredire chi crede; la prima trappola è terribile e diabolica: è la menzogna, l’inganno … menzogna ed inganno che pretendono perfino di indossare le maschere del volto di Dio; pensiamoci … il testo di Luca riporta due espressioni sante che il mondo può osare di utilizzare per ingannare il credente presentandosi come un idolo che chiede adesione: Molti verranno nel mio nome dicendo io sono … non seguiteli! “Io sono”: è il santo nome di Dio ma pronunciato dagli idoli che pretendono di sostituirsi a Lui, è il nome di Dio che solo Cristo può pronunciare nella storia e che invece i menzogneri pronunciano per ingannare e traviare; gli idoli chiedono sequela (e lo fanno con seduzione potente e noi tutti lo sperimentiamo ogni giorno!) ma Gesù ammonisce: Non seguiteli! Gesù che ha detto, fin dal principio dell’Evangelo Seguitemi! (cfr 5,11.27; 9,59; 14,27…) qui mette in guardia dalle sequele sbagliate, dalle sequele che portano morte e menzogna. Tremendo a tale proposito è l’uso del suo nome; il credente può essere intrappolato anche da chi si serve del santo nome di Cristo invece di farsi servo di quel santo nome. Più avanti, sempre in questa grande apocalisse, Gesù presenta invece la sua Chiesa come fatta da coloro che saranno perseguitati “a causa del mio nome“. E’ così: si può usare il nome di Gesù per avere gloria e potere dal mondo o si può rischiare e pagare di persona per quel nome santo in cui solo c’è salvezza (cfr At 4,12).
La seconda trappola che il mondo tende nella storia alla Comunità dei credenti, è la persecuzione, quella stessa cui è stato sottoposto il Maestro …
Se la Chiesa proclama parole secondo il mondo non patirà persecuzione, se la Chiesa pronunzierà parole di triste “buon senso” avrà l’applauso dei sapienti secondo il mondo, ma se la Chiesa dirà con forza e senza sconti la parola scomoda dell’Evangelo, “la parola quella della croce” (1Cor 1,18) allora patirà persecuzione e accanimento. Nella persecuzione però paradossalmente sperimenterà la potenza della presenza del Signore che è fedele compagno di viaggio nel cammino della Chiesa nella storia.
La terza trappola che il mondo tende alla Chiesa è ancora una trappola appestata da una puzza diabolica, quella della divisione. Una divisione che penetra nelle relazioni più sante che l’uomo può vivere: Sarete consegnati dai genitori, dai fratelli … dagli amici. E’ terribile ma a tal segno arriva l’odio del mondo per le vie che lo contraddicono! Il mondo non sopporta, non tollera chi gli si oppone e lo ferisce lì dove può dargli più dolore, più disperazione, più tentazione.
La guerra che il mondo ingaggerà con i credenti all’interno della storia userà l’arma tremenda della morte, l’arma tremenda dell’odio (Luca lo sa: come dicevamo, quando scrive l’Evangelo, è già stato versato il sangue di Stefano, di Giacomo e di altri fratelli) e questo solo perché i credenti custodiscono il nome di Gesù, sono cioè viva memoria di Lui tra gli uomini.
Per Luca allora è chiaro: la storia si attraversa nelle sue contraddizioni ma custodendo il nome di Cristo, la sua Parola, il suo Evangelo, la memoria viva di quell’alterità che Lui ha consegnato alla sua Chiesa.
In tutto questo è necessario perseverare, essere pazienti (l’ “iupomonè” di cui Gesù oggi parla è proprio la pazienza perseverante che è il saper soffrire a causa dell’Evangelo senza venir meno, è la “resistenza”); insomma è necessario portare lo scandalo del paradosso evangelico: ci si salva solo donando la vita!
Questa fu la via di Gesù e la “grande apocalisse lucana” rivela che la storia sarà salvata e custodita da un piccolo resto che resiste agli inganni, alle divisioni, alle persecuzioni, un piccolo resto capace di pagare di persona.Questa è parola di speranza, è parola di consolazione che dà ai nostri passi di credenti la forza ed il coraggio di attraversare la storia senza fuggirla ma vivendola portandovi la bellezza dell’Evangelo.

P.Fabrizio Cristarella Orestano

TRENTADUESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

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TRENTADUESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

7 Novembre 2019 | anno 2018/19, Omelie Anno C

2Mac 7,1-2.9-14; Sal 16; 2Ts 2,16-3,5; Lc 20, 27-38

La morte: la grande contraddizione. L’orrore che fa da muro ad ogni nostra presunzione, la diga che argina ogni nostra autosufficienza, la domanda che cerca instancabilmente un senso alla storia ed alle nostre piccole storie.
Gesù, nel passo dell’Evangelo di questa domenica, viene sfidato proprio sul terreno terribile della morte: su quel terreno su cui avverrà lo scontro finale tra l’amore misericordioso di Dio e l’odio del mondo che inchioderà il profeta di Nazareth, per la morte, su di una croce.
Questa volta, in questo episodio del racconto di Luca, la domanda da cui tutto scaturisce è posta a Gesù non dai soliti Farisei ma dai Sadducei; sono loro i provocatori: uomini di una classe ricca, aristocratica, fatta prevalentemente da sacerdoti del Tempio che credono più all’oggi pieno del loro potere politico ed economico che a qualunque altro futuro affidato ad altre mani, siano pure quelle di Dio. Questi non perdevano occasione per mettere in ridicolo l’ “assurda” credenza nella risurrezione dei morti. Cosa c’è di più evidente della morte e della sua definitività? Ecco ancora un’occasione per mettere in ridicolo i loro avversari; lo fanno con un esempio “grottesco”: una donna, sette fratelli che tutti la sposano …”se si risorge di chi sarà moglie?” I Sadducei si basano qui su una parola della Torah che nel Libro del Deuteronomio (25,5ss) stabilisce la cosiddetta legge del “levirato” (dalla parola ebraica “levir” che significa “cognato”); una legge tesa a garantire a tutti una discendenza, anche a chi ne moriva privo; questo sia per motivi religiosi (partecipare alla benedizione di fecondità data ad Abramo) sia per motivi più terreni come la conservazione dell’eredità.
Di fronte alla loro domanda tesa a screditare sia i nemici Farisei, sia lo stesso Gesù, questi risponde prima affermando il loro errore, sia dimostrandolo con un procedimento tipicamente rabbinico ma non privo di forza.
Gesù, prima cosa, mostra ai suoi interlocutori che il loro parlare è davvero banale e risibile. Non è risibile la fede nella risurrezione ma è risibile il loro pensare ad una risurrezione come prolungamento ed estensione del presente della storia; l’eternità cui l’uomo, tutto l’uomo (perciò si parla di risurrezione e non di immortalità dell’anima!), è chiamato dall’amore fedele di Dio, non è a “immagine e somiglianza” della storia … è una dimensione oltre la storia in cui non ci sarà più bisogno del matrimonio per garantire la vita. La vita sarà custodita non dalla generazione ma dall’amore di Dio, sarà una vita che più non passa. La morte esige il generare, oltre la morte non occorre più generare. Si badi bene che il discorso di Gesù non svaluta il matrimonio ma lo pone con la sua grandezza al suo posto reale, all’interno della storia. Il matrimonio è profezia dell’amore e della vita e nell’eterno non avranno più bisogno d’essere profetati perché li possederemo.
Poi Gesù trae dalla Scrittura un argomento che sente come una prova: si rifà alla scena del Libro dell’Esodo in cui il Signore, dal roveto ardente, parla a Mosè e si definisce Il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe (cfr Es 3, 15). Per Gesù lì è la forza della certezza della risurrezione: Dio ha un legame così straordinario con gli uomini da farsi chiamare Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe! L’argomento di Gesù è netto: Dio non avrebbe mai detto così riferendosi ad uomini precipitati per sempre nella morte … se così fosse sarebbe un Dio dei morti e non dei viventi. La Scrittura invece ci narra di un Dio creatore della vita, amante della vita e custode delle vita degli uomini e del cosmo; il Dio, fedele all’alleanza che ha stretto con quegli uomini, è il Dio d’una fedeltà che non può essere vinta neanche dalla morte. Il Dio dell’Alleanza fa dell’uomo una creatura capace di conoscerlo, di amarlo, di costruire la sua esistenza attorno a Lui e finalizzata a Lui. Se l’uomo è così legato a Dio, se l’uomo appartiene così a Dio, se l’uomo è colui che di Dio può dire E’ Lui il mio Dio! (cfr Es 15,2), questa creatura non può cessare di esistere. Questa creatura straordinaria che è l’uomo non può non partecipare alla pienezza di vita che Dio ha, che Dio è. Questa creatura è tanto amata che Dio non può permettere che sia caduca tanto da affondare in una morte senza scampo.
Per Gesù la certezza della risurrezione è fondata sul legame d’amore con cui Dio ci lega a sé.
Certo, noi cristiani abbiamo un argomento in più rispetto a Gesù, anzi, abbiamo l’argomento decisivo e definitivo: la sua stessa Risurrezione! Nella Risurrezione di Gesù il Padre dà la risposta a tutte le paure dell’uomo di rimanere per sempre prigioniero della morte, nella Risurrezione di Gesù il Padre ci ha detto che dalla morte ci salva solo l’amore: l’amore che Lui ha per noi, l’amore come quello di Gesù suo Figlio, che è tale da non poter finire nella morte! Perché più forte della morte è l’amore: infatti la morte è disgregazione, spezzamento di vicinanze, l’amore invece è unità, è comunione, è dono dall’alto che vuole solo la vita dell’altro …
Se qui Gesù proclama che Dio è il Dio dei viventi, nella sua Risurrezione ci porta per mano per farci attraversare la morte con amore, nell’ amore, nell’offerta di sé, nella restituzione puntuale a Dio di ciò che noi siamo, ci porta per mano in una terra di vita in cui Dio tutto ci restituirà: pienezza di vita, il nostro corpo, i nostri amori, le persone e le realtà che abbiamo amate … tutto, tutto … il Dio della vita ama tutto ciò che vive e tutto custodisce per la vita, nulla vuole che sia consegnato per sempre alla morte.
E’ questa la speranza che nutre i nostri cuori di credenti, è questa la consolazione che in Cristo Gesù ci è data in modo definitivo, come scrive Paolo nel tratto della Seconda lettera ai cristiani di Tessalonica che oggi abbiamo letto. L’Apostolo qui è certo della fedeltà del Signore che conferma la sua Chiesa, ma è certo anche di un’altra cosa “realistica” e “misteriosa”: Non di tutti è la fede. Sì, se siamo capaci di credere, di fidarci, di aderire vitalmente a Lui anche nel buio della storia, anche nell’attraversare la valle scura della morte, è solo per un dono di Grazia; un dono che ci rende depositari di una grande responsabilità. Una certezza, quella della nostra fede, che non ci deve vedere arroganti o presuntuosi destinatari di un aristocratico privilegio, ma umilmente chini nello stupore di qualcosa che abbiamo solo ricevuto in dono. Tanti nostri fratelli per la loro vita, per le loro vicende, per i loro pesi, per i loro dolori, per le loro umane incapacità strutturali “non possono credere”… questo noi dobbiamo saperlo per essere anche per loro un umanità nuova e , come diceva il grande von Balthassar, per credere per tutti, amare per tutti, sperare per tutti!
La morte: muro terribile di fronte al quale si gioca la nostra capacità di credere per davvero, di fidarsi del Dio della vita che è più potente dei vincoli orrendi della morte. Noi cristiani abbiamo un tesoro di speranza da consegnare al mondo. Un tesoro che Gesù ci ha messo nelle mani non per possederlo come nostra consolazione ma per farci essere consolazione per il mondo che non crede, non spera, non ama.

P. Fabrizio Cristarella Orestano

 

XXXI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (C) COMMENTO

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XXXI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (C) COMMENTO

“Il Figlio dell’uomo è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto”
Commento di Enzo Bianchi

Oggi il vangelo ci narra l’incontro tra Gesù e Zaccheo. È un testo che raccoglie in sé nel frammento numerosi fili che attraversano la trama complessiva del vangelo secondo Luca. Gesù è sulla via che dalla Galilea sale verso Gerusalemme, la meta del viaggio da lui intrapreso con grande decisione (cf. Lc 9,51). Una tappa di questo viaggio è la città di Gerico, zona di confine della provincia romana della Giudea. Mentre Gesù sta attraversando Gerico, entra in scena un altro personaggio. Egli è “un uomo”, questa la sua qualità primaria: l’evangelista la evidenzia subito, per chiarire ciò che il protagonista principale del racconto, Gesù, vede in lui. Gesù sa andare oltre l’opinione comune, è capace di sentire in grande, di vedere in profondità: vede un uomo dove gli altri vedono solo un delinquente, coglie in ogni suo interlocutore la condizione di essere umano, senza alcuna prevenzione. Il suo nome è Zakkaj, che significa “puro, innocente”: ironia della sorte oppure un altro particolare che ci dice tra le righe ciò che solo Gesù sa vedere in lui? Quanto al suo mestiere, non è solo un pubblicano, ma un “capo dei pubblicani”, l’emblema per eccellenza del pubblico peccatore, arricchitosi grazie a un’ingiusta condotta.
Zaccheo è consapevole di essere peccatore, di non avere meriti da vantare. Non può affermare, come un altro ricco: “Ho osservato i comandamenti fin dalla giovinezza” (cf. Lc 18,21). Umiliato da questa condizione di disprezzato da tutti, ha nel cuore un grande desiderio di conoscere il profeta e maestro Gesù, nella speranza che l’incontro con lui possa cambiare qualcosa nella sua vita. Lo mostra il suo comportamento: “Cercava di vedere chi era Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, perché era piccolo di statura”. Anche noi, come lui, andiamo a Gesù e lo cerchiamo non in un’inesistente perfezione, in uno splendore candido e luccicante, ma con i nostri propri limiti, le nostre particolarissime tare e oscurità. O accettiamo di andarci in questo modo, oppure, mentre sogniamo di farci belli per accoglierlo, la vita ci scorre alle spalle senza che ce ne rendiamo conto e così manchiamo inesorabilmente l’ora decisiva dell’incontro con il Signore!
Certo, occorrono desiderio, passione per Gesù, in modo da assumere con intelligenza questi limiti e poter portare anche quelli a lui. Tale passione traspare dal comportamento di Zaccheo: “Corse avanti precedendo Gesù e, per riuscire a vederlo, salì su un sicomoro, perché stava per passare di là”. Quest’uomo passa avanti a Gesù: è un unicum nei vangeli, dove il discepolo sta sempre dietro a Gesù (cf. Lc 7,38; 9,23; 14,27), alla sua sequela. Tale gesto apparentemente sfrontato narra in modo icastico la verità di una parola paradossale di Gesù: “I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio” (Mt 21,31). Per raggiungere il suo scopo, inoltre, Zaccheo non esita a rendersi ridicolo agli occhi altrui. Si immagini la scena: un uomo noto, che ha un certo potere, il quale si arrampica su un albero… Ed ecco un improvviso ribaltamento: “Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo, lo vide e gli parlò”. Zaccheo desidera vedere e scopre di essere visto da Gesù: in questo incrocio c’è tutto il senso della vita cristiana. Noi vogliamo vedere Gesù, ma è lui che ci vede, ci ama in anticipo, ci chiama e ci offre la vita in abbondanza. D’altra parte, se è vero che l’iniziativa è di Gesù ed è gratuita, si innesta però su una disponibilità dell’uomo, a cui spetta la responsabilità di predisporre tutto all’entrata di Gesù nella sua vita: se Zaccheo quel giorno non fosse salito sull’albero, per Gesù sarebbe rimasto un anonimo in mezzo alla folla!
Qui è necessario sostare pazientemente sulle parole di Gesù. Certo, nella realtà la scena deve essersi svolta con una fretta dettata dall’urgenza del momento. Ma nel narrare questo episodio Luca dosa sapientemente le parole, per permettere al lettore di ogni tempo di comprendere il valore paradigmatico di questo incontro: “Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo rimanere, dimorare a casa tua”.
“Zaccheo”: Gesù lo chiama con il suo nome proprio.
“Scendi”. È come se gli dicesse: “Torna a terra, aderisci alla terra: lo straordinario ti è servito per un momento, ma ora fa ritorno alla tua condizione quotidiana!”.
“Subito, in fretta”: non c’è tempo da perdere, l’occasione è da afferrare senza indugio!
“Oggi”: non ieri né domani. Parola chiave in Luca, dalla nascita di Gesù quando gli angeli annunciano ai pastori: “Oggi, nella città di David, è nato per voi un Salvatore” (Lc 2,11); all’inizio della sua attività pubblica, quando nella sinagoga di Nazaret pronuncia quella brevissima omelia: “Oggi questa Scrittura si compie nei vostri orecchi” (Lc 4,21); poi alcune altre volte, fino all’ora della croce, quando Gesù dice al “buon ladrone”: “Oggi con me sarai nel paradiso” (Lc 23,43). Sempre noi incontriamo Gesù oggi!
“Devo, è necessario”: altra parola chiave (deî, che compare per ben 18 volte in questo vangelo, da Lc 2,49 fino a Lc 24,44). Esprime il modo in cui Gesù, nella sua piena libertà, va incontro alla necessitas umana e divina della passione, compiendo la volontà di salvezza di Dio per tutti gli uomini.
“Rimanere, dimorare” (non semplicemente “fermarmi”), come avviene per il Risorto con i discepoli di Emmuas (cf. Lc 24,29).
“A casa tua”: entrare nella casa di un altro significa condividere con lui l’intimità; nello specifico, essendo Zaccheo un peccatore pubblico, questo auto-invito di Gesù significa compromettersi in modo scandaloso con il suo peccato.
Esaminate nel loro insieme, queste parole di Gesù mostrano anche una grande delicatezza. Gesù non dice: “Scendi subito perché voglio convertirti”, oppure, come forse avrebbe fatto il Battista: “Convertiti, fai frutti degni di conversione (cf. Lc 3,8), poi scendi e vedremo il da farsi”. No, chiede a Zaccheo di essere suo ospite. Ovvero, si fa bisognoso, si “spoglia” per entrare in dialogo con lui, parla il suo linguaggio, quello di chi era abituato a dare banchetti e ad accogliere persone in casa propria per fare affari. E qui sta per compiere l’affare della sua vita!
E così siamo giunti non solo al centro del nostro testo, ma al cuore di una verità che, se ci crediamo davvero, può cambiare la nostra vita: non è la conversione che causa il perdono da parte di Dio, di Gesù, ma è il perdono che può suscitare la conversione! Si pensi alla parabola del Padre prodigo d’amore (cf. Lc 15,11-32): il figlio minore, trovandosi in difficoltà, si era preparato il discorso di circostanza, ma le sue parole gli muoiono in bocca quando vede il padre che, “mentre è ancora lontano, lo vede, è preso da viscerale compassione, gli corre incontro, gli si getta al collo e lo bacia” (cf. Lc 15,20). È in questo momento che è convertito, non in base a un suo programma di conversione! Con il suo comportamento Gesù rivela un volto di Dio che ci offre gratuitamente il suo perdono: se lo accogliamo, potremo anche convertirci, non viceversa!
Lo dimostra la reazione di Zaccheo, che “scende in fretta e lo accoglie pieno di gioia”, gioia che è un tratto caratteristico della vita del discepolo di Gesù (cf. Lc 6,23; 8,13, ecc.). Con questa annotazione il testo potrebbe concludersi: nel mistero del faccia a faccia tra Gesù e Zaccheo si compirà la salvezza per la vita di quest’uomo. Ma ecco che, come spesso è accaduto a Gesù, i benpensanti non sopportano la sua libertà e non tollerano che egli si rivolga di preferenza ai peccatori manifesti, narrando così il desiderio di Dio di “salvare tutti gli umani” (cf. 1Tm 2,4), a partire da quelli additati come “perduti” (cf. Lc 15,6.9.24.32). Più volte nel vangelo secondo Luca Gesù è disprezzato dagli uomini religiosi, che mormorano per il suo sedere a tavola con i peccatori (cf. Lc 5,30; 15,1-2). Nel nostro brano si registra addirittura una condanna generalizzata: “Tutti mormoravano: ‘È entrato in casa di un peccatore!’”. Resta sempre la possibilità di uno sguardo cattivo, che continua a vedere in Zaccheo solo il peccatore e in Gesù solo un falso maestro…
La prima reazione a queste voci di condanna è di Zaccheo, che sta in piedi, nella sua bassa statura, e parla con risolutezza. Gesù non ha detto nulla a Zaccheo sulla sua ingiusta condotta di capo dei pubblicani, ma la fiducia accordatagli da questo rabbi gli è sufficiente per comprendere che deve cambiare radicalmente. Zaccheo allora, restituito alla sua soggettività, parla rivolto a Gesù, che chiama “Signore” (grande confessione di fede!), senza curarsi dei falsi giusti che li accusano. Costoro peccano nel loro cuore e con il loro occhio cattivo; lui si impegna a compiere un gesto concreto che riguarda le sue ricchezze, e soprattutto riguarda gli altri, i destinatari del suo peccato: “Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto”, ben oltre il dovuto secondo la Legge. Il gesto di quest’uomo è all’insegna della giustizia e della condivisione: questo il modo di impiegare le ricchezze per un discepolo di Gesù.
A questo punto Gesù, rivolto al solo Zaccheo, fa un commento articolato in due momenti. Prima dice: “Oggi la salvezza è avvenuta in questa casa, perché anch’egli è figlio di Abramo”, cioè non solo un uomo, ma anche un membro della comunità di fede, un figlio suscitato dalle pietre del peccato (cf. Lc 3,8). E come si manifesta la salvezza, come avviene la storia di salvezza? Nella salvezza delle storie di coloro che Gesù incontra. Sì, l’accoglienza della salvezza è ormai direttamente accoglienza di Cristo stesso, è esperienza di chi incontra Gesù, mette in lui la sua fiducia e si lascia da lui salvare.
Lo esprime bene il commento finale: “Il Figlio dell’uomo” – ossia Gesù stesso che parla di sé in terza persona, prendendo una misteriosa distanza da sé – “è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto”. È una parola che ne ricorda altre di Gesù: “Non sono venuto a chiamare i giusti ma i peccatori” (Lc 5,32); o la conclusione della parabola già citata: “Bisognava fare festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato” (Lc 15,32). Di più, è un detto straordinario, che ricapitola e rilancia in avanti questo brano, illuminando la nostra vita quotidiana. Ci dice infatti che, come è entrata quel giorno nella vita e nella casa di Zaccheo, così la salvezza portata dal Signore Gesù può entrare ogni giorno, ogni oggi, nelle nostre vite. Il Signore ci chiede solo di aprire il nostro cuore all’annuncio che ha la forza di convertire le nostre vite: egli “è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto”, è venuto a offrirci di vivere con lui, anzi di venire lui a dimorare in noi. Davvero ciascuno di noi dovrebbe confessare: “Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori e di questi il primo sono io” (1Tm 1,15)!
Il suo cercarci e il suo salvarci sono la nostra indicibile gioia, la fonte della nostra possibile conversione. Anche quando ci sentiamo perduti, mai dobbiamo disperare dell’amore misericordioso del Signore Gesù, più tenace di ogni nostro peccato, più profondo di ogni nostro abisso: con lui la salvezza è la possibilità di ricominciare a camminare veramente liberi sulle strade della vita. Ciò che è accaduto quel giorno a Zaccheo, può accadere anche a noi, oggi, grazie all’incontro con Gesù. Questo oggi è sempre di nuovo possibile: niente e nessuno può opporsi al perdono di Dio in Gesù Cristo, che ci consente di ricominciare ogni giorno.

 

TRENTESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

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TRENTESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

Sir 35, 12-14.16-18; Sal 33; 2Tm 4,6-8.16-18; Lc 18, 9-14

Davanti a chi si prega?

Dove si prega?

L’autentica preghiera cristiana avviene in un “luogo” straordinario, non in un luogo, non in un tempio ma “in” Dio. Stando in Lui, dimorando in Lui, sentendosi avvolti dal suo Amore di Padre, dalla tenerezza del Figlio che ci ha amati e ha dato se stesso per noi (cfr Gal 2,20), nell’abbraccio dello Spirito che abita in noi e ci trascina “in” Dio … E tutto questo non solo è il luogo della preghiera ma anche il motivo della lode che anima ogni vera preghiera. Lode per qualcosa che Dio ha fatto e fa per noi e lo fa in modo totalmente gratuito, a prescindere dai nostri “meriti”.
La parabola del fariseo e del pubblicano ci presenta due personaggi che incarnano la possibilità e la capacità o meno di pregare per davvero. In fondo Gesù non racconta questa parabola per parlarci direttamente della preghiera ma per parlarci di due cuori, di due modi di essere uomo davanti a Dio e davanti agli altri uomini. In questo racconto di Gesù la preghiera è solo (!) lo specchio veritiero del cuore dei due uomini. Nella preghiera si ravvisa la qualità dell’uomo. E’ così.
Ed ecco la preghiera del fariseo, uomo “religioso”, impeccabile, infallibile, irreprensibile. Una preghiera che sembra iniziare bene: O Dio, ti ringrazio … Anche Gesù inizia a pregare in modo molto simile: Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra … (cfr Lc 10,21). Gli esiti sono però radicalmente diversi. Gesù ringrazia il Padre per quello che il Padre ha fatto rivelando ai piccoli i misteri del Regno: Sì, perché così è piaciuto a te… , dice Gesù. Il fariseo no: ringrazia per sé; non eventualmente per quello che Dio ha fatto in lui ma per quello che egli è e per quello che egli non è; non per quello che Dio ha fatto ma per quello che lui stesso fa. E qui la preghiera, direi, “abortisce” e diventa un’altra cosa: monologo capace solo di innalzare un muro tra lui e Dio! Un monologo folle in cui il fariseo addirittura si vanta davanti a Dio! Un monologo in cui trova agevolmente posto il disprezzo per gli altri, un disprezzo che non si accontenta d’essere generico per coloro che sono ladri, ingiusti, adulteri ma che si appunta anche su un soggetto concreto: quel pubblicano che certo lo ha disturbato quando l’ha visto osare entrare nel Tempio. Il monologo del fariseo è tanto folle d’orgoglio che elenca una serie di presunti precetti cui presta osservanza; dico presunti perche in verità nessun precetto della Torah chiede il digiuno due volte alla settimana, il Libro del Levitico lo prescrive una volta all’anno (cfr Lv 16,29); lui invece digiuna due volte alla settimana per espiare i peccati “degli altri”; certo non i suoi perché lui è irreprensibile (quanti ne conosciamo di uomini e donne irreprensibili, incapaci di chiedere perdono, che hanno una ragione per tutti i loro comportamenti e che non attendono altro che tu chieda loro perdono … magari per aver pensato male!); inoltre le decime, secondo la Torah, (cfr Dt 12,17) vanno pagate non dall’acquirente ma dal produttore; lui il fariseo, però, paga anche quello che non deve e questo per sentirsi la coscienza a posto nel dubbio che il produttore avesse non pagato la decima … (l’espressione greca “panta osa ktõmai” è più preciso tradurla tutte le cose che acquisto e non tutte le cose che possiedo).
Il fariseo tragicamente crede di pregare ma non prega, crede di sbandierare a Dio la sua “giustizia” ma tornerà a casa sua senza giustificazione; aveva calpestato gli altri e quella concreta incarnazione degli altri che è quel pubblicano pur di elevarsi ma alla fine è nulla agli occhi di Dio. I saggi rabbini d’Israele già lo dicevano: La giustizia dell’uomo è un panno immondo.
L’altro, il pubblicano, è entrato nel Tempio a testa bassa … non ha nulla da portare a Dio, solo la sua miseria, il suo peccato, i mille compromessi che ha fatto con se stesso e con la parola della Torah … è a mani vuote … le mani le usa solo per battersi il petto e per dire così che lì, nel suo petto, nel suo cuore c’è la causa di ogni sua miseria; in quel cuore fragile, incline al male … Non dice tante parole ma le sole sensate che noi uomini possiamo dire dinanzi alla santità di Dio: Sii benevolo con me … abbi pietà di me. A questo piccolo uomo gravato dal suo peccato gli altri appaiono tutti migliori di lui; avrà anche guardato con ammirazione a quel fariseo pieno di giustizia, con le mani levate a Dio e con le tante parole che gli si leggevano sulle labbra; gli altri sono tutti migliori di lui perché lui è “il” peccatore. Il testo greco è così: c’è l’articolo determinativo: Abbi pietà di me il peccatore. Quasi che sia lui l’unico peccatore … Quando questi tornò a casa, ci dice Gesù, non era più a mani vuote, aveva il dono più grande di Dio che con amore lo rendeva giusto: Tornò a casa sua giustificato.
Il problema allora qui non è quello del modo migliore di pregare, qui è questione di verità e di consapevolezza della verità.
Il fariseo non sa la verità né di Dio, né di sé perché è ubriaco di se stesso. E’ lui l’orizzonte angusto della sua vita. Il pubblicano invece non sa altro che la sua verità cioè che è povero e peccatore, a mani vuote e con una sola speranza: la misericordia di Dio. E questo ci dice che sa pure la verità di Dio, sa pure chi è Dio: è il Dio capace di amore e misericordia nella più assoluta gratuità. Direbbe S. Agostino che questo pubblicano è il vero sapiente: La vera sapienza – scrisse infatti S. Agostino – è sapere chi sei Tu, o Dio, e chi sono io.
E’ impressionante che S. Benedetto nella sua Regola addita questo pubblicano come unico modello del monaco che, quando ha percorso tutta la scala dell’umiltà, deve essere come “publicanus ille”, come quel pubblicano (RB VII,65).
E’ così, e non solo per il monaco. E lì la nostra meta perché poi da lì il Signore compirà in noi le sue opere. Solo così l’uomo può consegnarsi nella mani di Colui che lo può plasmare fino a dargli il volto di Cristo, fino a dargli quella capacità di combattere la buona battaglia, di giungere al termine della corsa della sua storia custodendo la cosa che più conta: la fede, l’adesione a Lui che ci ama. In fondo il meraviglioso passo della Seconda lettera a Timoteo che oggi leggiamo è un modo di farci vedere in Paolo concretamente incarnato “publicanus ille”, in lui che si è riconosciuto amato nella più assoluta lontananza, mentre era nemico (cfr Rm 5,8-10).
Se avremo il “coraggio” dell’umiltà che è verità, il Signore ci porterà a “volare alto”: Chi si umilia sarà innalzato!

P.Fabrizio Cristarella Orestano 

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