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V DOMENICA DI QUARESIMA (A) COMMENTO

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V DOMENICA DI QUARESIMA (A) COMMENTO

Vieni fuori!
Clarisse Sant’Agata

Quando nella quinta domenica ci viene proclamata la resurrezione di Lazaro siamo messi davanti ad un punto cruciale della nostra esistenza “io sono la resurrezione e la vita: credi questo?” E’ il momento in cui riporre, insieme a Marta, tutta la fiducia nel Signore «Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo». La comunione con Cristo in questa vita ci prepara a superare il confine della morte per vivere senza fine in Lui. Dio ha creato l’uomo per la vita e la resurrezione e questa verità dona la dimensione autentica e definitiva alla storia degli uomini. L’amore di Dio è più forte di ogni morte.
«Signore, ecco, colui che tu ami è malato» Nel testo abbiamo una grande insistenza sul fatto che Gesù è legato a Lazzaro, Maria e Marta da affetto, da una amicizia profonda e potremmo quasi dire che i due toni dominanti della scena sono amicizia-affetto e morte. Ci sembrano due elementi che stridono insieme, ma in questo testo viene alla luce un’amicizia che libera dalla morte. Gesù alla morte di Lazzaro toglie potere richiamandolo in vita e Maria alla morte di Gesù toglierà potere ungendolo di profumo. In fondo anche nella resurrezione di Lazzaro il vero miracolo forse è la potenza dell’amore di Gesù che l’evangelista Giovanni ci tiene poi a sottolineare. L’amore che lega Cristo all’umanità, Dio all’umanità e la morte e resurrezione stessa di Gesù è epifania dell’amore di Dio per l’umanità. Questo è stato tutto il senso della sua vita: il manifestare l’amore che lo lega al Padre e che ha la sua manifestazione concreta nell’amore folle per gli uomini. Gesù comincia a spiegare attraverso la scena della resurrezione di Lazzaro, la sua morte: va alla morte per liberare dalla morte i suoi amici, in forza della sua amicizia, spinto dall’amore per ogni uomo che è caro al suo cuore. Il racconto della resurrezione di Lazzaro potremmo considerarlo una straordinaria pagina di umanizzazione della morte. Gesù libera Lazzaro riportandolo in vita, ma prima ancora lo libera perché gli dimostra che gli vuole bene e Gesù ha la sua vittoria nell’amore che sa provare per l’amico morto. Più avanti Gesù riceverà su di sé quella liberazione dalla morte nel gesto di affetto di Maria, con quel profumo che lo accompagnerà fin sulla croce, l’unica unzione che scenderà con il suo corpo nella morte.
Se tu fossi stato qui mio fratello non sarebbe morto” Il primo incontro di Gesù è con Marta che sembra metterlo davanti ad un fatto evitabile. Marta continua poi il suo discorso appoggiandosi a cio che conosce di Gesù nel suo amore per lui: “tuttavia adesso io so che qualunque cosa tu chiedi ti sarà concessa”. Dopo che Gesù le promette la resurrezione Marta continua la sua professione di fede “io so che ci sarà la resurrezione nell’ultimo giorno”, nelle sue parole si comprende che crede nella resurrezione come principio teologico. Gesù la richiama ad un’altra fede: “io sono la risurrezione e la vita”. Ciò che conta non è se la resurrezione avviene adesso o alla fine dei tempi, ma ciò che è il cuore è credere in Gesù, in chi Lui è: non credere nella resurrezione, ma nel Risorto. Il problema non è mettere una accanto all’altra delle idee più o meno ben fatte, fondate, ma il problema è il passaggio dalla fede in una idea, da una credenza ad un rapporto personale con Lui. Il rapporto con Lui è ciò che è fondamentale e fondante e vince ogni morte.
“Quando Maria giunse dove si trovava Gesù, appena lo vide si gettò ai suoi piedi” L’evangelista sottolinea tutta l’umanità di Gesù: Gesù è profondamente commosso, è scosso interiormente; scoppiò a piangere. Si insiste sui sentimenti di Gesù, su questo pianto di Gesù, sul fatto che lui faccia suo il pianto dell’uomo. Gesù piange perché l’uomo piange davanti alla morte di chi ama. Gesù piange perché quella condivisione del pianto dell’uomo è l’inizio della resurrezione che sta per operare. Gesù piange perché vuole bene a Lazzaro e coglie la necessità di quella sofferenza come Maria coglierà la necessità dell’unzione mentre gli altri non lo vedono. Gesù piange forse perché intravede anche il prezzo del gesto che sta per fare, sa che questa resurrezione lo porterà verso la sua ora. Gesù piange per rivelarci un altro aspetto del volto di Dio che soffre della nostra sofferenza. La resurrezione non è solo la rianimazione di un cadavere, ma è la partecipazione compassionevole di Dio alla morte e al dolore che vede intorno a se. Il segno da cogliere forse non è tanto la resurrezione di Lazzaro, ma che quell’evento ci parla della compassione di Dio, del suo piangere con l’umanità, dell’affetto di Dio per l’uomo. La nostra sofferenza tocca il cuore di Dio. È questo il cuore di Dio: lontano dal male ma vicino a chi soffre; non fa scomparire il male magicamente, ma con-patisce la sofferenza, la fa propria e la trasforma abitandola.
«Lazzaro, vieni fuori!». La tomba è chiusa da una grande pietra; intorno, solo pianto e desolazione. Gesù pur soffrendo egli stesso, chiede che si creda fermamente. Si mette in cammino verso il sepolcro e prega con fiducia suo Padre: «Padre, ti rendo grazie». Attorno a quel sepolcro avviene così un grande incontro-scontro. Da una parte c’è la grande delusione, la precarietà della nostra vita mortale che, attraversata dall’angoscia per la morte, sperimenta spesso un’oscurità interiore che pare insormontabile, la disfatta del sepolcro. Ma dall’altra parte c’è la speranza che vince la morte e il male e che ha un nome: Gesù ed è la sua parola che toglie le pietre dai nostri sepolcri. Anche a noi, oggi come allora, Gesù dice: “Togliete la pietra!”. Per quanto pesante sia il passato, grande il peccato, forte la vergogna, non sbarriamo mai l’ingresso al Signore. Togliamo davanti a Lui quella pietra che Gli impedisce di entrare nei sepolcri dentro i quali siamo finiti. In questa sua voce che ci chiama ad uscire riconosciamo la parola che ci ha chiamato all’esistenza nella creazione, ma riconosciamo anche la voce del buon pastore che chiama le sue pecore e loro lo ascoltano e lui le porta fuori (Gv10). E’ la voce di Colui che è il padrone della vita e vuole che tutti «l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,10). La nostra risurrezione incomincia da qui: quando decidiamo di obbedire a questo comando di Gesù uscendo alla luce, alla vita; quando dalla nostra faccia cadono le bende e noi ritroviamo il coraggio del nostro volto originale, creato a immagine e somiglianza di Dio e riprendiamo il cammino dietro di Lui.
Più avanti, al capitolo 12, l’evangelista Giovanni ci riposta a Betania, nella casa di Lazzaro, Marta e Maria. Gesù vi sosta prima del suo andare definitivo a Gerusalemme. Come se prima di andare incontro alla sua ora Gesù voglia rifugiarsi in questa amicizia, accoglienza che gli è cara. Prima di essere rifiutato, ucciso fuori dalle mura della città, Gesù entra in una casa, gode dell’intimità dell’accoglienza e dell’amore. Ora in questa casa non è Gesù che fa qualche cosa per l’umanità, ma Gesù riceve qualche cosa dall’umanità. Qui ora è Gesù quello che è amato, è quello che ha bisogno e Maria è colei che mette umanità in questa scena. Maria non può sottrarlo alla morte fisica come lui ha fatto con suo fratello, però Maria ve lo sottrae con quel profumo di umanità che mette su di lui. In qualche modo insinua un germe di vita in una storia di morte proprio come Gesù aveva fatto con Lazzaro a Betania.
Visitati e liberati da Gesù, chiediamo la grazia di essere testimoni di vita in questo mondo che ne è assetato, testimoni che suscitano e risuscitano la speranza di Dio nei cuori affaticati e appesantiti dalla tristezza. Il nostro annuncio è la gioia del Signore vivente, che ancora oggi dice, come a Ezechiele: «Ecco, io apro i vostri sepolcri, vi faccio uscire dalle vostre tombe, o popolo mio» (Ez 37,12).

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IV DOMENICA DI QUARESIMA (A) COMMENTO

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IV DOMENICA DI QUARESIMA (A) COMMENTO

Affidarsi a Dio, come mendicanti persi nel buio
Ermes Ronchi

Gesù vide un uomo cieco dalla nascita… Gesù vede. Vede lo scarto della città, l’ultimo della fila, un mendicante cieco. L’invisibile. E se gli altri tirano dritto, Gesù no, si ferma. Senza essere chiamato, senza essere pregato. Gesù non passa oltre, per lui ogni incontro è una meta. Vale anche per noi, ci incontra così come siamo, rotti come siamo: «Nel Vangelo il primo sguardo di Gesù non si posa mai sul peccato, ma sempre sulla sofferenza della persona» (Johannes Baptist Metz).
I discepoli che da anni camminano con lui, i farisei che hanno già raccolto le pietre per lapidarlo, tutti per prima cosa cercano le colpe (chi ha peccato, lui o i suoi genitori?), cercano peccati per giustificare quella cecità. Gesù non giudica, si avvicina. E senza che il cieco gli chieda niente, fa del fango con la saliva, stende un petalo di fango su quelle palpebre che coprono il nulla.
Gesù è Dio che si contamina con l’uomo, ed è anche l’uomo che si contagia di cielo. Ogni uomo, ogni donna, ogni bambino che viene al mondo, che viene alla luce, è una mescolanza di terra e di cielo, una lucerna di argilla che custodisce un soffio di luce.
Vai a lavarti alla piscina di Siloe… Il mendicante cieco si affida al suo bastone e alla parola di uno sconosciuto. Si affida quando il miracolo non c’è ancora, quando c’è solo buio intorno. Andò alla piscina e tornò che ci vedeva. Non si appoggia più al suo bastone; non siederà più a terra a invocare pietà, ma ritto in piedi cammina con la faccia nel sole, finalmente libero. Finalmente uomo. «Figlio della luce e del giorno» (1Ts 5,5), ridato alla luce, ri-partorito a una esistenza di coraggio e meraviglia.
Per la seconda volta Gesù guarisce di sabato. E invece del canto di gioia entra nel Vangelo un’infinita tristezza. Ai farisei non interessa la persona, ma il caso da manuale; non interessa la vita ritornata a splendere in quegli occhi ma la “sana” dottrina. E avviano un processo per eresia: l’uomo passa da miracolato a imputato.
Ma Gesù continua il suo annuncio del volto d’amore del Padre: a Dio per prima cosa interessa un uomo liberato, veggente, incamminato; un rapporto che generi gioia e speranza, che porti libertà e che faccia fiorire l’umano! Gesù sovverte la vecchia religione divisa e ferita, ricuce lo strappo, unisce il Dio della vita e il Dio della dottrina, e lo fa mettendo al centro l’uomo. La gloria di Dio è un uomo con la luce negli occhi e nel cuore.
Gli uomini della vecchia religione dicono: Gloria di Dio è il precetto osservato e il peccato espiato! E invece no, gloria di Dio è un mendicante che si alza, un uomo con occhi che si riempiono di luce. E ogni cosa ne è illuminata.

OMELIA (15-03-2020)

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OMELIA (15-03-2020)

COMMENTO ALLE LETTURE
Commento a cura di padre Gianmarco Paris

Viviamo questa quaresima in un modo del tutto diverso da ogni altra, a motivo delle precauzioni da assumere per contenere l’espansione del virus covid-19. In alcune parti del Paese non è possibile celebrare l’Eucaristia comunitaria e ascoltare insieme la Parola di Dio. Ciò può diventare uno stimolo per prenderci del tempo personalmente per leggere e meditare il Vangelo di questa domenica. La scena sembra addirittura adatta a questo esercizio spirituale, perché ci racconta un dialogo personale tra Gesù e una donna di Samaria. I due sono soli e il dialogo si muove dall’esteriorità all’interiorità, dove la persona si incontra con se stessa: è lì che Dio si fa trovare, non come colui che giudica, ma come colui che rinnova il dono della vita.
Gesù sta attraversando con i discepoli la Samaria. Giunto a Sicar e si siede presso il pozzo, verso mezzogiorno, mentre i discepoli vanno in cerca di cibo. Ad un certo punto arriva una donna samaritana ad attingere acqua. Nella ferialità di quella occasione nasce un dialogo straordinario che trasforma la vita di quella donna: Gesù guida l’incontro con estrema calma e determinazione.
Inizia chiedendo dell’acqua alla donna (E Gesù le dice: dammi da bere). A noi sembra una cosa del tutto normale, ma non è così: per le circostanze culturali del tempo e per il significato profondo che Gesù dà alle parole (e che l’evangelista Giovanni ci aiuta a comprendere). Gesù avrebbe dovuto evitare di dialogare con lei: perché era una donna (che va ad attingere acqua da sola, in un orario insolito) davanti ad un ?maestro? e perché era di samaritana e Gesù giudeo (cioè appartengono a due gruppi separati dal modo di interpretare la religiose ebraica). Gesù chiedendo un piacere a quella donna le mostra apertura e accoglienza: da questo suo atteggiamento non politically correct (infatti i discepoli ritornando con la spesa si meravigliano di questo, v. 27) prende il via un dialogo con cui Gesù porta quella donna sulla soglia della fede.
La donna non capisce come è possibile che quell’uomo giudeo parli con lei e addirittura le chieda da bere (chiede: come è possibile?). Più profondamente si meraviglia di essere riconosciuta degna di parola, cioè di essere accolta, si meraviglia che quell’uomo le chieda aiuto. Dalla risposta di Gesù capiamo che egli desidera che questa donna si apra ad un’altra meraviglia più grande, quella per il dono di Dio, di un Dio che si fa piccolo e bisognoso solo perché vuole donare. Gesù offre alla donna (che rimane senza nome per tutto il racconto!) un’altra acqua, che soddisfa un altro tipo di sete.
« Se tu conoscessi il dono di Dio, e chi è colui che ti parla… »: il dono e la sua persona sono in realtà la stessa cosa; è lui che può dare l’acqua viva che sazia la sete. La donna fa fatica a capire quello strano discorso, ma ha il desiderio di comprendere (da dove prendi questa acqua?). Finché arriva a chiedere a Gesù quell’acqua, forse in forma di sfida: ?vediamo se è vero! Mi risolverebbe un bel problema!? Le parti ora si sono invertite, come voleva Gesù, che comincia a chiedere per essere riconosciuto come colui che dona.
Ora Gesù, in modo del tutto inatteso e apparentemente illogico, cambia argomento: « Va a chiamare tuo marito ». La donna non rimane sorpresa da questo brusco cambiamento e risponde subito, come per chiudere il discorso: « Non ho marito ». Gesù invece apre, squaderna davanti alla donna una dimensione così profonda della sua vita che solo lei poteva sapere, lei e Dio. Deve essersi chiesta: ?come può questo sconosciuto giudeo fermo al pozzo conoscere la mia vita?? Allora intuisce che sta parlando con un uomo di Dio, un profeta, e tenta di cambiare argomento: « già che sei un profeta, spiegami chi ha ragione tra giudei, che dicono di adorare Dio in Gerusalemme, e samaritani che adorano Dio sul monte qui vicino?. Gesù la segue, accoglie la sua domanda circa il rapporto con Dio, e annuncia la novità del suo Vangelo, che oltrepassa la discussione tra giudei e samaritani. Occorre andare oltre, perché Dio chiede di essere adorato in modo diverso: « Viene l’ora, ed è questa, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in Spirito e Verità. Sono questi gli adoratori che il Padre cerca ». Adorare indica complessivamente un modo di stare davanti a Dio e davanti alla vita, il modo che Gesù-Verità è venuto a rivelare e che lo Spirito permette ai credenti di assimilare. La donna non pare ancora aver capito granché, e accenna alla venuta del Messia, grazie al quale si potrà finalmente capire il rapporto con Dio. Quando Gesù capisce che il terreno è stato preparato, si manifesta pienamente alla donna: « Sono io, che ti parlo ».
Stranamente l’evangelista non presenta nessuna risposta della donna a questa rivelazione solenne di Gesù; la telecamera inquadra invece i discepoli, che ritornando con la spesa si meravigliano di vedere il maestro dialogare con una donna samaritana, anche se non si azzardano a chiedere spiegazioni. Ma ecco di nuovo la donna: « lasciò dunque la sua anfora la donna e corse in città… ». Il motivo per cui era andata al pozzo, la necessità di bere, ora ha perso la sua importanza. Quella donna ha incontrato qualcosa di più importante e vitale, che ridimensiona quello che prima la occupava. Così avviene l’incontro con Dio: permette di percepire che le altre cose vengono dopo; continui ad averne bisogno (come l’acqua), ma non sono più la ragione della tua vita. Forse questa donna non stava cercando qualcosa di più grande per la sua vita, benché la sua vita parli di insoddisfazioni. L’incontro con Gesù, che l’ha accolta senza giudizi e l’ha portata a guardarsi dentro, le ha aperto un cammino nuovo. A tal punto che corre in città e invita gli altri ad andare a vedere Gesù, descrivendolo con queste parole: « Un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto?. Il potere di quell’uomo di ?vedere dentro di lei? le fa sorgere la domanda: ?Che sia forse il Messia?? Non è certa che lo sia, ma sente con certezza che l’incontro con quell’uomo ha cambiato la sua vita. La strada per riconoscere la vicinanza di Dio non è diversa dalla strada che porta alla verità di se stessi, alla propria interiorità.
Mentre la donna svolge la sua missione in città, ritorniamo al pozzo. I discepoli invitano Gesù a mangiare ma lui sembra non averne voglia: sta pensando ancora all’incontro con la donna di Samaria, assapora la gioia che nasce in lui nel compiere la volontà del Padre, che desidera far sentire a tutti il suo amore, soprattutto a quelli che si sentono esclusi e discriminati. Quell’incontro permette a Gesù di alzare gli occhi e vedere il mondo come una messe pronta per la mietitura; vede l’umanità pronta ad accogliere l’annuncio del Regno. E forma lo sguardo dei discepoli, perché diventino capaci di vedere quello che lui vede.
Infine l’ultima scena. Ritorniamo in città, dove molti samaritani rispondono all’invito della donna (perché è motivato da una vera esperienza personale) e vanno ad incontrare Gesù. E lo invitano a fermarsi da loro un paio di giorni. Il tempo passato con Gesù permette loro di conoscerlo, di ascoltarlo e di credere in Lui per una esperienza personale che a loro volta fanno con Gesù.
Questo lungo e articolato racconto ci permette di comprendere la strada attraverso cui anche noi oggi possiamo rinnovare il nostro incontro con Gesù. Ciò che ci può mettere in cammino verso di lui è qualcuno che ci dice: vieni a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia forse il Messia? Solo chi fa esperienza forte e personale di Gesù può attirare altri a lui; e solo questa attrazione può far nascere la fede. Chi lo ha incontrato porge a noi una domanda: che sia forse il Messia? La domanda rimane aperta, perché la risposta spetta a ciascuno di noi; non è una risposta teorica, da catechismo, ma una risposta data con la vita, con l’incontro, il dialogo, la scoperta di sentirsi conosciuti dentro e accolti, e amati. Ecco il cammino per noi cristiani, che a nostra volta diventiamo un invito e una domanda per gli altri.

OMELIA VI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

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OMELIA VI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

don Luciano Cantini
Ma io vi dico

Non crediate
L’espressione ?Non crediate? con cui Gesù apre il discorso con i suoi discepoli serve ad arginare supposizioni, interrogativi o perplessità sulla sua persona, ma anche per offrire una prospettiva più ampia, un orizzonte vasto alla sua missione. Scribi e farisei avevano un fascino particolare sulla gente per la loro dedizione alla Scrittura; scrutano la Legge fino alle minuzie per coglierne i minimi precetti, secondo loro necessari per giungere alla perfezione. Con una visione limitata ad un impegno umano che loro stessi avevano difficoltà a praticare.
Gesù non è venuto ad abolire (letteralmente demolire) ?la Legge o i Profeti? – espressione che indica la totalità delle Scritture-, ?ma a dare pieno compimento?; la parola greca usata da Matteo è pleròsai significa letteralmente ?riempire fino all’orlo, fino a traboccare?; il senso è quello di dare un significato pieno, totale, oltre il quale è impossibile andare. Nemmeno la più piccola lettera, nemmeno un piccolo trattino della Legge verrà cancellato finché non siano passati il cielo e la terra. Finché l’uomo vivrà nella storia avrà bisogno della totalità della Scrittura ma anche di una sua forte ?ri-significazione? che lo liberi dal formalismo e dalla esteriorità, dalla sclerosi del rapporto con Dio.
Se la vostra giustizia
La fede o la vita stessa, se vissuta solo negli schemi e nelle regole alla fine soffoca, opprime, toglie il significato delle cose. Gli scribi e i farisei sono, nel vangelo, considerati come sinonimo di formalismo: la Parola di Dio, invece di essere Memoria e generare Promessa, era diventata Legge che genera precetti di ogni tipo; la giustizia, invece di fedeltà alla Promessa era diventata fedeltà ai precetti e norme, difese con scrupolosa attenzione: ?Anche oggi il Signore ci invita a fuggire questo pericolo di dare più importanza alla forma che alla sostanza. Ci chiama a riconoscere, sempre di nuovo, quello che è il vero centro dell’esperienza di fede, cioè l’amore di Dio e l’amore del prossimo, purificandola dall’ipocrisia del legalismo e del ritualismo? (Papa Francesco 03.09.18)
Ma io vi dico
Gesù non propone uno schema, una struttura che ingabbia la vita, non accetta che la Parola diventi ?forma?, un codice che strutturi l’essere umano che limiti le relazioni; la sua proposta è dettata esclusivamente dall’amore. Ci aiuta a capire che non abbiamo bisogno di una ?morale? o di un ?codice etico? quanto dell’amore che viene da lui. Quando si perdono di vista le motivazioni che stanno all’origine e le prospettive di futuro di ogni azione, si vive solo per senso di dovere. Ma il sacrifico del dovere impoverisce la vita e rende infelici; finisce per infilarla in un vortice in cui l’infelicità viene generata proprio dal fare la cosa che deve essere fatta giustamente.
Al dovere – Avete inteso che fu detto – Gesù contrappone la dimensione dell’amore: Ma io vi dico; non c’è la negazione della Legge e i Profeti quanto il portare all’estreme conseguenze il senso stesso della Parola rivelata. Nelle parole del Signore scopriamo tutta la delicatezza, la forza e la potenza dell’amore che ci spinge a vivere per amore e a sperimentare la pienezza della vita e non più l’oppressione del dovere.
Gesù ci invita a entrare nella Parola che è capace di discernere i sentimenti e i pensieri del cuore (Eb 4,12) e farsi penetrare da essa per liberare il nostro Spirito e per donarci la fedeltà alla Giustizia di Dio. La Parola del Vangelo ci chiede di aprire nuovi orizzonti, spalancarsi alla Libertà, alla gratuità dell’amore.

V DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (A) -Sale della terra e luce del mondo

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V DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (A) -Sale della terra e luce del mondo

Enzo Bianchi

Ai destinatari delle beatitudini (cf. Mt 5,1-12), a quelli a cui è donato il regno dei cieli, Gesù indirizza altre parole, per rivelare la loro identità: sale della terra, luce del mondo, città collocata sopra un monte. Anche queste parole rivelano il motivo delle beatitudini: i discepoli autentici sono felicitati, colmi di beatitudine, perché sono anche portatori di cose buone e necessarie a tutti gli esseri umani. A loro è promessa una ricompensa grande nei cieli, ma già ora hanno una responsabilità, un significato, una missione nella storia umana.
Nella nostra vita ci sono cose essenziali, di cui si ha bisogno, e per gli antichi la luce e il sale erano considerati tali: senza la luce non era possibile la vita e senza il sale la vita sarebbe stata priva di gusto. Ecco allora la prima dichiarazione di Gesù: “Voi siete il sale della terra”. Innanzitutto va messo in risalto il “voi”, che nel vangelo secondo Matteo viene spesso usato da Gesù per indicare non singoli individui alla sua sequela, ma una comunità, un corpo. Si pensi solo all’affermazione: “Voi siete tutti fratelli” (Mt 23,8). Ovvero, nella relazione con il mondo i cristiani devono essere sale e luce, ma nelle relazioni tra loro sono fratelli, ed è proprio questa fraternità vissuta nell’amore intelligente (cf. Mc 9,50) che, come luce, può diffondersi in mezzo a tutta l’umanità.
Ma perché i discepoli possono essere “sale della terra”? Perché nell’antichità, così come oggi, il sale aveva e ha soprattutto due funzioni: dare gusto al cibo e conservare gli alimenti, avendo la capacità di purificare e di impedire la decomposizione. L’immagine è ardita ma riesce a colpire chi ascolta: tutti cerchiamo di dare sapore alla vita, di lottare contro la decomposizione, e i cristiani in particolare sono chiamati ad adempiere questo compito specifico. Chi cucina, sa che mettere il sale nei cibi richiede discernimento e misura, ma è soprattutto consapevole di compiere questa azione per dare gusto. Ebbene, i cristiani devono esercitare tale discernimento e conoscere la “misura” della loro presenza tra gli uomini: solidarietà fino a “nascondersi” come il sale negli alimenti, e misura, discrezione, consapevolezza di essere solo apportatori di gusto. Nell’Antico Testamento è testimoniata anche “l’alleanza del sale” (Nm 18,19; 2Cr 13,5), cioè un patto stipulato spargendo sale, per esprimerne la perseveranza fedele. Insomma, come il sale, la comunità cristiana inocula diastasi nella società, invita a resistere alla decomposizione, al venir meno dell’umanizzazione. Ma Gesù avverte che, per svolgere nel mondo la funzione del sale, occorre essere autentici e non diventare insipidi. Se il sale non mantiene la sua qualità, allora non serve più, ma può essere solo buttato via; così anche la comunità cristiana, se diviene mondana, appiattendosi sul “così fan tutti”, se non è più capace di avere la sua specificità, la “differenza cristiana”, non ha più ragione di essere.
Segue la seconda immagine utilizzata da Gesù: “Voi siete la luce del mondo”. Nel quarto vangelo Gesù stesso dice di sé: “Io sono la luce del mondo” (Gv 8,12), rivelazione che illumina questa parola del vangelo secondo Matteo. La comunità cristiana è associata al suo Signore e Maestro: non risplende di luce propria, ma la riceve e la riflette. La luce è essenziale per la vita sulla terra: senza il sole, la terra sarebbe un morto deserto. La luce è la vita, per questo Dio è celebrato nelle Scritture mediante questa metafora: egli è fonte della luce (cf. Sal 36,10), è “splendente di luce” (Sal 76,5), è “avvolto in un manto di luce” (Sal 104,2), e perciò il suo insegnamento, le sue parole sono luce. Come suo riverbero, anche i protagonisti di una missione voluta da lui sono luce: Gerusalemme come luogo da cui esce la parola del Signore (cf. Is 60,1-3), il Servo del Signore costituito “luce per le genti” (Is 42,6; 49,6). Per questo anche la comunità di Gesù è detta “luce del mondo”: non è il sole, ma è una realtà illuminata dal “sole di giustizia” (Ml 3,20), dal “sole che sorge dall’alto” (Lc 1,78). I cristiani sono dunque “figli della luce” (Lc 16,8; Gv 12,36; Ef 5,8; 1Ts 5,5) e devono brillare come stelle annunciando la parola di vita (cf. Fil 2,15-16).
La vocazione di Gerusalemme è dunque ora vocazione della comunità cristiana che, proprio in quanto realtà illuminata dal Signore, può attirare a sé gli sguardi e i cammini di tutta l’umanità (cf. Is 2,1-5; 60). L’immagine della città sul monte, percepibile di lontano quale punto di orientamento, illustra bene la missione della comunità cristiana: illuminare, orientare i cammini dell’umanità. Questa attrazione è un dovere, una responsabilità. Ma si faccia attenzione: non si tratta di assumere un’ostentazione trionfalistica o di risplendere a tal punto da accecare gli altri. Si tratta semplicemente di dimorare là dove Dio ci ha dato di stare, senza preoccuparci troppo: ovvero, di non impedire alla luce ricevuta dal Signore di rifrangersi e ricadere sugli altri. Nessuna ostentazione, come quella di certi ipocriti che Gesù rimprovera (cf. Mt 6,1-2.5.16), nessuna ansietà di convertire o di far vedere ciò di cui siamo capaci, ma la semplice e umile capacità di lasciare che la luce donataci dal Signore si diffonda. Conosciamo bene la tentazione che assale noi credenti: diciamo di voler “dare testimonianza” e così presentiamo agli altri la nostra vita, le nostre opere, le nostre storie, per ricevere consensi e applausi. Come non denunciare l’imperversare negli ultimi decenni della moda, diffusa in molte assemblee ecclesiali, del racconto di sé come testimonianza? No, il discepolo autentico si ignora, non festeggia se stesso o la realtà a cui appartiene, ma celebra il Signore e la sua grazia mai meritata.
Infine, Gesù parla per la prima volta del “Padre vostro che è nei cieli”. È lui che deve essere glorificato, a lui va riconosciuta l’origine di ogni buona azione: quelle azioni compiute dal discepolo di Cristo, quelle opere di misericordia e di giustizia richieste già dal profeta Isaia al popolo di Dio (cf. prima lettura), quando sono viste dagli altri possono causare in loro il riconoscimento dell’amore operante di Dio, che per tutti è il Padre che è nei cieli. Ecco dunque come la chiesa, nella feconda dialettica tra nascondimento e rivelazione, può stare nel mondo senza integralismi e senza essere militante, ma predisponendo tutto puntualmente affinché la parola del Signore operi in lei e tra gli uomini e le donne della terra.
Essere sale e luce non può mai essere per il cristiano e per la comunità cristiana nel suo insieme un dato acquisito una volta per tutte, una garanzia, ma è sempre un evento di grazia che avviene quando c’è obbedienza del credente e della comunità alla parola del Signore Gesù, quando si custodisce e si realizza la parola del Vangelo. Non si dimentichi che i cristiani sono dei “chiamati” (ékkletoi) dal Signore nella sua chiesa (ekklesía), ma questa vocazione può da loro essere mutata in de-vocazione: sì, possiamo ritornare indietro, perdere il sapore, opacizzare e affievolire la luce ricevuta dal Signore.

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FESTA DELLA PRESENTAZIONE DEL SIGNORE – 2 FEBBRAIO

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FESTA DELLA PRESENTAZIONE DEL SIGNORE – 2 FEBBRAIO

Clarisse Sant’Agata
Gesù sale a Gerusalemme.

La città santa è un luogo di rivelazione per Lui, un centro di attrazione irresistibile dove più volte salirà lungo la Sua vita, fino all’ultimo viaggio che compirà (e che occupa la maggior parte del vangelo di Luca) “perché non è possibile che un profeta muoia fuori da Gerusalemme” (cfr. Lc 13,33).
Oggi Gesù è portato a Gerusalemme ancora bambino, a compimento “del tempo della loro purificazione”, e la meta di questo viaggio è il tempio, dove sarà presentato al Padre. L’evangelista Luca non ci dice chi porti Gesù al tempio, anche se possiamo supporre come soggetto sottinteso “i suoi genitori”, al termine della “loro purificazione”. Le norme rituali della Legge del Signore tuttavia, prevedevano solo la purificazione della madre (cfr. Lv 12,1-8), non di entrambi i genitori! Per cui possiamo leggere fra le righe che Luca sta indicando il compimento di un’altra purificazione.
Si tratta di quella purificazione di cui ci parla anche il profeta Malachia nella prima lettura di oggi: “e subito entrerà nel suo tempio il Signore che voi cercate; e l’angelo dell’alleanza, che voi sospirate, eccolo venire, dice il Signore degli eserciti. (…) Egli è come il fuoco del fonditore e come la lisciva dei lavandai. Siederà per fondere e purificare l’argento; purificherà i figli di Levi, li affinerà come oro e argento, perché possano offrire al Signore un’offerta secondo giustizia”. Ed è la purificazione che anche Gesù compirà nel vangelo di Luca, entrando nel tempio alle soglie della sua pasqua: “entrato nel tempio, si mise a scacciare quelli che vendevano, dicendo loro: “Sta scritto: La mia casa sarà casa di preghiera. Voi invece ne avete fatto un covo di ladri” (Lc 19,45-46).
L’ingresso del Signore Gesù nel tempio segna la purificazione di quello che il tempio rappresentava per Israele: il luogo dell’incontro fra Dio e il suo popolo.
Ora Luca sembra anticipare qui, nella presentazione del bambino Gesù al tempio, la purificazione della relazione dell’uomo con il suo Dio, per inaugurare l’incontro definitivo fra Dio e l’uomo.
In questa festa piena di luce, accogliamo allora questa Parola del Signore che viene nel tempio della nostra vita per “purificarlo” e farne il luogo dove possiamo anche noi “vedere con i nostri occhi la salvezza che Dio ha preparato per tutti i popoli” (cfr. Lc 2,30-31).
Questa festa della presentazione di Gesù al tempio è chiamata dai nostri fratelli orientali “festa dell’incontro”, l’incontro nel tempio fra Gesù che viene per offrire se stesso (cfr. Eb 9,12.14.28) e l’uomo capace di attesa. Simeone e Anna sono quelle figure profetiche che sintetizzano in sé tutta la capacità di attendere di Israele e dell’umanità.
Luca ce li presenta dettagliatamente: Simeone, uomo giusto (come Giuseppe) e pio, che aspettava la consolazione di Israele (come Isaia: Is 40,1; 51,12; 61,2), uomo su cui si posa lo Spirito in modo permanente (come si era posato su Maria; come avverrà agli apostoli a pentecoste; ma soprattutto come accade a Gesù: Gv 1,32-33); Simeone è l’uomo che vive l’ascolto della Parola (il nome “Simeone” deriva dal verbo ebraico “shm’”, “ascoltare”, come in Dt 6: “Shemà Israel, ascolta Israele”) guidato dallo Spirito.
In lui lo Spirito ha aperto lo spazio dell’attesa, dell’ascolto profondo di Dio che parla attraverso parole ed eventi. E questo spazio di attesa era abitato per Simeone dalla certezza che “non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Cristo Dio”. Sappiamo bene che “vedere Dio” significa “morire”, secondo la Scrittura. E Simeone ha ricevuto dallo Spirito la promessa di vedere Dio faccia a faccia, in un incontro che segna la fine di un certo modo di vivere e l’inizio di una vita nuova.
Pensiamo sempre a Simeone come ad un vecchio (forse per assimilazione ad Anna che aveva 84 anni!) perché nel suo cantico evoca la morte come passaggio ormai vicino, ma Luca non ci dice che sia un uomo anziano. Se nell’iconografia tradizionale è rappresentato curvo, possiamo pensare che Simeone sia curvo sotto il peso dell’attesa, invecchiato dalla paziente frequentazione delle Scritture e del tempio, spazi che “ospitano” la rivelazione del Salvatore.
Anche Anna è una donna abitata dall’attesa; una donna per la quale attendere è diventato l’unico verbo della vita, declinato come preghiera e digiuno. Attendere ha occupato tutto lo spazio della sua esistenza (è descritta dalla sua giovinezza fino alla sua vecchiaia), in ogni suo momento (notte e giorno): “non si allontanava mai dal tempio” e dal servizio di Dio, vivendo protesa alla ricerca di Lui (digiuno e preghiera sono una forma di invocazione rivolta a Dio con il corpo).
L’evangelista Luca oggi proclama che l’incontro fra Dio che viene e l’attesa dell’uomo avviene in uno spazio non ufficiale (non durante una solenne liturgia o nel “Santo dei santi”), ma in uno spazio del tempio qualsiasi, dove si incontrano la piccolezza di Dio (Dio è un bambino!) e la fragilità dell’uomo (una vedova, un vecchio…).
Si incontra Dio come Salvatore solo se i nostri occhi si fanno attenti alla piccolezza di Dio che si affaccia alla nostra vita, portato da qualcun altro. La salvezza si offre a noi nuda e fragile come un bambino. E accogliendolo fra le braccia, cioè abbracciando la forma fragile ed inevidente con cui Dio si offre a noi, possiamo accogliere Gesù come “segno di contraddizione” nella nostra vita. Ciò che Simeone dice a Maria non è riferito solo a lei! A ciascuno di noi Dio si offre come segno di contraddizione, cioè non come ce lo aspetteremmo. Forse noi attendiamo qualcuno che venga che salvarci e per prendersi cura di noi. Ma oggi la liturgia ci dice che Dio viene perché noi ci prendiamo cura di Lui, come accade per un Bambino. Dio viene ancora, nel tempio della nostra vita, fragile e piccolo perché, prendendoci cura di Lui, possiamo sperimentare la salvezza. E la salvezza non consiste nell’essere tolti da ogni situazione difficile o di prova, ma nello scoprire che Dio è lì presente con noi, nella fragilità della sua umanità che ha abbracciato la nostra

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TERZA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

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TERZA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

Is 8, 23 – 9,2; Sal 26: 1Cor 1, 10-13.17; Mt 4, 12-

L’Evangelo di questa domenica inizia da due annotazioni, una cronologica ed una geografica ma che non vanno colte solo come preoccupazioni spazio temporali … Matteo le sottolinea per affermare già dal principio la “sorte” di Gesù è che anche Lui verrà arrestato e patirà e che la salvezza prende vie impreviste ed imprevedibili. Se la vicenda del Battista diviene in qualche modo profezia dell’esito della vita di Gesù (che però, a differenza del Battista, non morirà come un martire ma come un delinquente rigettato da tutti e sul legno dei maledetti!), l’apparizione del Messia nella Galilea delle genti e non nella terra “nobile” di Giuda, nella Città santa di Gerusalemme, è una “sorpresa” ed è anche una dichiarazione degli intenti di Dio che, con l’incarnazione del Figlio, viene a sconfessare le nostre vie religiose che sempre, ben nettamente vorrebbero segnare i confini tra sacro e profano … invece, nella terra contaminata dai pagani, in quella Galilea da cui “non sorge profeta” (cfr Gv 7,52) inizia a brillare la luce attesa della salvezza. Dinanzi a questo inatteso, però, Matteo afferma che già i profeti avevano annunziato questo “novum” e così cita il testo del Libro di Isaia in cui un oracolo, che oggi è la prima lettura, preconizza la terra di Zabulon e di Neftali (in pratica la Galilea) come la prima che vedrà la luce della salvezza. Nel Figlio fatto carne che viene nel mondo, e viene a proclamare il Regno. si rivela un messianismo che non ha confini particolaristici e Matteo questo l’aveva già affermato con lucida chiarezza nell’episodio dei Magi (cfr Mt 2,1ss).
Ecco che la parola del Messia inizia a risuonare per le strade del mondo; le parole di Gesù sono le stesse di quelle del Battista (cfr 3,2). Questo ci dice che la predicazione di Gesù è in stretta continuità con quella di Giovanni, suo maestro; ma e cambia l’annunziatore, in qualche modo, cambia anche l’annunzio. Se l’annunzio prima era dato dal Precursore l’accento doveva esser posto sulla conversione ma se ora la Parola la proclama Colui che è il compimento l’accento va posto sul Regno che è venuto! Gesù non spiega cosa sia questo Regno che è venuto; tutto l’Evangelo ci aiuterà ad accostarci a questo Regno che Gesù è venuto a portare; ce ne darà tante immagini ma mai nessuna definizione e questo ci deve far riflettere! Al Regno ci saranno sempre e solo degli accostamenti perché esso si realizza qui nel regnare di Dio ma si compirà solo nell’ “oltre”! Qui del Regno che viene ci è data una scena che ci esemplifica come la luce del Messia si irradia e di come il regnare di Dio, attraverso Gesù, in Gesù, si fa prossimo all’uomo nella sua concretezza quotidiana.
Ecco qui, infatti, degli uomini che vedono quella luce che finalmente e inaspettatamente brilla nel territorio di Zabulon e di Neftali e ne sono afferrati permettendo a Dio di iniziare a regnare sulle loro vite, nelle loro vite ed attraverso le loro vite. Uomini che sono nel loro quotidiano, nel loro ordinario: nessuna cornice “sacra” per questa chiamata … unica cornice la loro vita dura; lì il Regno li raggiunge! La chiamata dei primi quattro discepoli, per Matteo, è farci vedere concretamente e la conversione e il venire del Regno.
Gesù passa lungo il mare di Galilea (in realtà semplicemente il Lago di Genezareth come lo chiamerà il meno provinciale Luca!) e si imbatte in due fratelli che pare che incontri per la prima volta (Giovanni, nel suo Evangelo, ci narra di un incontro di Gesù coi questi uomini già nel deserto di Giuda; cfr Gv 1, 36-42) e li chiama dietro (“opiso”) a sé; è un’espressione che, già nell’Antico Testamento è usata per chiamare discepoli alla sequela(cfr 2Re 6,19); Gesù chiama in un rapporto con Lui; un rapporto che ora inizia e che non tollera né rinvii, né lentezze. C’è un subito (“euthéos”) che riguarda sia Pietro ed Andrea che Giovanni e Giacomo … se facciamo un confronto con la chiamata di Eliseo da parte di Elia (1Re 19, 19-21) si nota che ad Eliseo vengono concessi dei “riti” di commiato; qui no! L’irrompere del Regno nella storia dà alla storia stessa un’accelerazione che non deve essere in alcun modo frenata. C’è un’urgenza che ora scocca! Guai a chi differisce o rallenta il cammino di questo Regno.
Davanti a questo Regno veniente si fa chiara per Matteo, proprio in questo racconto, chi sia il discepolo: in primo luogo è uno che ha posto al centro Gesù. È Lui che si segue. Non la sua dottrina, né un suo bel progetto di vita. Il discepolo è uno che deve fare vita con Lui che è il maestro; un discepolo che, dunque, non diverrà mai a sua volta maestro. Lo statuto del discepolo di Gesù comprende il rimanere per sempre discepolo.
Il discepolo, poi, ci dice Matteo, è uno chiamato a dei tagli; il discepolo di Gesù è uno che deve dire dei “no”, è uno che deve assolutamente girare pagina; ci sono cose e persone da lasciare; non a caso il racconto ci mostra due coppie di fratelli e la narrazione delle due chiamate è quasi a calco ma c’è una differenza: Pietro ed Andrea lasciano le reti, Giovanni e Giacomo lasciano la barca ed il padre; insomma, non solo il mestiere ma anche la famiglia. Se il mestiere rappresenta un’identità sociale, il padre rappresenta le radici ma, rappresentando la famiglia, rappresenta qualcosa che ormai il discepolo deve riconoscere altrove, in un altrove che è la comunità dei discepoli.
E qui ci siamo già imbattuti in un terzo elemento che caratterizza l’identità del discepolo: la comunità. Il discepolo non è un solitario alla sequela di Gesù, è uno che lì trova degli altri che ugualmente seguono quel Maestro. È da Gesù che sceglie che nasce la comunità. Poiché Gesù ci ha scelti ci fa comunità. Il discepolo è questo.
Il discepolo, poi, continua a dirci Matteo in questo racconto apparentemente così semplice, è uno che si mette in cammino. La sequela del discepolo di Gesù non ci conduce o colloca in uno stato ma ci fa degli uomini “della via” (cfr At 9,2), ci mette in cammino. Il discepolo, l’uomo del Regno è uno sempre per via. È affetto da una “santa inquietudine”!
Un ultimo tratto che questo testo dà al discepolo è quelle del missionario. La chiamata alla sequela è missione, è invio! Il discepolo, proprio perché è uno in stretta relazione con Gesù, (dietro di me!) è in corsa verso il mondo (Vi farò pescatori di uomini!). Insomma Gesù non prende i suoi e li mette al riparo dal mondo, quasi in uno spazio separato, privilegiato, protetto, esente. No! Li mette in cammino per le strade del mondo, per le strade degli uomini ad annunziare il Regno! Il discepolo ha la “febbre dell’annunzio”!
Più avanti Gesù dirà che per seguirlo bisogna assumere la croce (cfr Mt 16, 24) in una solidarietà profondissima con il mondo ed i suoi dolori tanto da rinunziare a se stessi fino alla morte dell’uomo vecchio.
Il Regno è portato da uomini così. Non c’è nessuno sconto da questa identità per chi vuole essere discepolo di Gesù e quindi “luogo” in cui il Regno si dispiega. Il Regno … con tutti i suoi confini senza confini!

P. Fabrizio Cristarella Orestano

II DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – IL GRANDE PECCATO DEL MONDO

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II DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – IL GRANDE PECCATO DEL MONDO

CHIUDERSI ALLA CONOSCENZA DI DIO

– Is 49, 3.5-6; Sal 39; 1Cor 1, 1-3; Gv 1, 29-34 –

La liturgia di questa domenica (la seconda del Tempo ordinario, perchè si considera come prima la domenica del Battesimo del Signore) ci porta a riflettere sulla nostra conoscenza di Gesù.

Che conoscenza abbiamo di Lui, che esperienza viva abbiamo fatto di Lui, che rivelazione di Lui siamo stati capaci di recepire nel nostro rapporto con Dio, nella nostra fatica di cercatori di senso, nella nostra fatica di uomini?
Il Dio venuto nella storia, il Dio che si è manifestato nella carne di Gesù di Nazareth, il Dio che in Lui, Figlio amato del Padre, si è messo dalla nostra parte e non ha temuto di mettersi in quella fila di peccatori al Giordano, è il Dio che deve essere conosciuto e testimoniato. E’ necessario che si passi attraverso un incontro che crei conoscenza e coinvolgimento esistenziale con Lui.
E’ l’esperienza che ha vissuto Giovanni il Battista! Questa figura strordinaria, che ci ha accompagnati al principio dell’Avvento, ora ritorna al principio di questo Tempo ordinario. Un tempo, questo, che non va considerato un “tempo debole” in opposizione ai “tempi forti”, come quelli dell’Avvento, del Natale, della Quaresima e di Pasqua, ma è il tempo simbolico del nostro “ordinario” camminare nella vita di ogni giorno. E’ il tempo in cui i misteri celebrati, contemplati, e dunque accolti, devono portare frutti di salvezza e di novità di vita. Il Battista, al principio di questo “tempo ordinario”, con la sua esperienza ci dice una parola davvero essenziale per il nostro cammino di credenti.
Dinanzi a Gesù bisogna crescere nella conoscenza! Bisogna partire dalla conoscenza per testimoniare quanto si è conosciuto, e questo è possibile solo in un vero ascolto della Parola e se, a partire dall’ascolto, viviamo in uno stato di discernimento. Il discernimento è quella attitudine per cui, ascoltata la Parola, si giunge a comprendere quali sono i concreti passi da compiere nella nostra vita, quali le prese di posizione reali e non solo ideali da assumere, quali le vere decisioni da prendere! Dinanzi a Gesù si deve fare la fatica di una conoscenza che non è mai esaustiva, di una conoscenza che mai presuppone se stessa, di una conoscenza sempre aperta all’ “oltre”;
Giovanni il Battista, che pure già conosceva Gesù (Gesù era un suo discepolo, come dice chiaramente il passo del Quarto Evangelo che oggi leggiamo: “Colui che mi veniva dietro” – in greco “opíso mou érchetai anèr…” è espressione tecnica della sequela, del discepolato!), deve accettare tuttavia di non conoscere a pieno Gesù, nella sua identità di Messia e di rivelatore del Padre. Deve ammettere di aver avuto una conoscenza imperfetta di Lui e che, nella conoscenza, ha dovuto crescere senza nulla presumere; ha dovuto anche capovolgere il suo ruolo di maestro, facendosi lui stesso discepolo del suo discepolo (“mi è passato avanti”, cioè “è diventato mio maestro”!).
Come è stato possibile questo? Perchè, come spesso si ripete, Giovanni è umile? Certo, ma non solo! Giovanni è umile perchè ascolta, ed è l’ascolto che apre alla conoscenza e alla conoscenza ulteriore; l’ascolto è vero quando avviene in un cuore povero e quindi accogliente, in un cuore capace di farsi sovvertire da Dio. E’ necessario così comprendere che, dinanzi a Gesù, è dannosa qualsiasi conoscenza troppo certa perchè questa rischia di ingabbiare Dio e l’Evangelo, e di ridurre poi Cristo Gesù ed il suo Evangelo a risposta alle nostre attese. Gesù, invece, è Colui che suscita domande e attese e, mentre le suscita, ci fa crescere nella conoscenza di Lui e del progetto del Padre. L’unica conoscenza certa che bisogna avere è quella d’averlo incontrato, vivente e presente, e su questa conoscenza certa fondare tutto, anche la ricerca dell’ulteriore e del sovversivo, in una vera apertura ad un conoscere che mai dovrà essere sazio.
Questa strada è la strada della santità, che è la nostra comune e grande vocazione. Ai cristiani di Corinto Paolo l’ha dichiarato senza mezzi termini: “Chiamati a essere santi“ … chiamati, cioè, ad essere altro come altro è Dio (cfr Lev 19,2), chiamati ad essere altro come altro è Cristo (cfr Gv 6, 69). Si comprende, però, subito che questa alterità non è possibile accoglierla se non in un rapporto di conoscenza, di esperienza vitale con Dio, con Cristo suo Figlio. Lo Spirito è garanzia di questa conoscenza: è Lui (e il Battista l’ha testimoniato!) che dà la conoscenza e quindi la testimonianza! Dice infatti Giovanni: “Io ho visto (lo Spirito scendere su Gesù!) e ho reso testimonianza che questi è il Figlio di Dio”.
Diciamocelo francamente: i cristiani, troppi cristiani, hanno una conoscenza debole di Cristo, e da questa conoscenza debole viene fuori una debole vita credente, una debole testimonianza, una debole capacità di discernimento delle vie evangeliche nel quotidiano.
C’è bisogno, oggi più che mai, di una Chiesa che riproponga la conoscenza di Cristo come cuore da cui tutto possa essere rigenerato…una riforma della Chiesa dovrà partire ancora e sempre da questo. C’è bisogno di una Chiesa capace di indicare l’Agnello che toglie il peccato del mondo, in quanto ha conosciuto quell’Agnello e ha sperimentato che davvero ha preso non i suoi peccati ma il suo grande peccato. L’Evangelo pone, infatti, sulle labbra del Battista un potente singolare: “Ecco l’Agnello di Dio che prende su di sè il peccato del mondo”… qual è il grande peccato, “padre” di tutti i peccati? E’ quello che chiude il cuore alla conoscenza di Dio, e diviene empia incredulità e grettezza dinanzi al dono di Dio; diviene cioè quella vita di cristiani non più tali, ma con facciate ipocritamente cristiane.
Chi invece conosce Cristo, perchè ne ha sperimentato la misericordia che salva, potrà essere un uomo nuovo e dunque testimone efficace di novità; potrà discernere giorno dopo giorno le vie da percorrere per costruire il Regno.
Con tanta fatica, ma con tanto sapore di senso! Il discorso è grande, ma bisogna affrontarlo con determinazione; personalmente e nella vita ecclesiale.

p. Fabrizio Cristarella Orestano

BATTESIMO DEL SIGNORE (ANNO A) (12/01/2020)

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BATTESIMO DEL SIGNORE (ANNO A) (12/01/2020)

Un singolare Battesimo al fiume Giordano
padre Antonio Rungi

Oggi, seconda domenica dell’anno 2020, celebriamo la festa del battesimo di Gesù al Giordano. Si tratta di un singolare e speciale battesimo, rispetto a tutti coloro che si facevano battezzare da Giovanni Battista con le acque purificatrici di questo fiume della Palestina.
L’evangelista Matteo nel breve brano della descrizione del celebre fatto biblico ci dice che “Gesù dalla Galilea venne al Giordano da Giovanni, per farsi battezzare da lui”. Gesù quindi si mise in cammino per assolvere al rito del battesimo praticato da Giovanni, suo precursore e cugino.
Cosa successe quando Gesù si presentò come tutti gli altri uomini da Giovanni per questo rito di immersione?
“Giovanni voleva impedirglielo, dicendo: «Sono io che ho bisogno di essere battezzato da te, e tu vieni da me?».
Come è facile capire, Giovanni sa benissimo chi era Gesù e ne fa risaltare la sua missione tra noi.
Nonostante questa resistenza da parte di Giovanni, Gesù gli rispose: «Lascia fare per ora, perché conviene che adempiamo ogni giustizia». E Giovanni, silenziosamente, obbedisce silenziosamente alle parole di Gesù, che gli ricorda l’obbedienza che entrambi devono fare alla missione ricevuta: entrambi devono “adempiere ogni giustizia”, cioè corrispondere puntualmente alla volontà di Dio.
Nel testo del vangelo Matteo, Gesù parla per la prima volta ed usa tale espressione di importanza capitale, in quanto definisce la sua missione: Gesù deve compiere, realizzare come Giovanni e insieme a lui, ciò che è giusto, ciò che corrisponde alla volontà di Dio al punto tale che salirà il Calvario.
Dal canto suo Giovanni, l’ultimo profeta dell’Antico Testamento e il primo profeta del Nuovo, lascia a Gesù ogni decisione, lascia fare a Gesù: egli sa di dover solo predisporre tutto affinché la volontà di Dio, ormai espressa autorevolmente da Gesù, si compia.
Gesù viene dunque immerso da Giovanni nel Giordano, e mentre esce dalle acque dopo essersi identificato con l’umanità peccatrice, ecco giungere su di lui, proprio allora, la parola definitiva di Dio.
Si aprono i cieli, cioè avviene una comunicazione tra mondo celeste e mondo terrestre, tra Dio e la terra; lo Spirito santo scende dai cieli come una colomba, dolcemente, su di lui; e una voce proclama: “Questi è il mio Figlio, l’amato: in lui ho posto tutta la mia gioia”.
Questa dichiarazione della voce di Dio venuta dall’alto è una rivelazione della divinità del Cristo, del suo essere il Messia regale; ma Gesù è anche il Figlio amato dal Padre e il Servo nel quale il Signore si compiace totalmente, cioè Dio si manifesta totalmente come Trinità.
Al riguardo commenta Cirillo di Gerusalemme: “Perché ci sia l’Unto, il Cristo, occorre qualcuno che lo unga, e questi è il Padre, e qualcuno che sia unzione, e questi è lo Spirito santo”.
Questa teofania e manifestazione di Cristo quale Figlio di Dio è ricca di significato: come sulle acque primordiali, nell’in-principio della creazione, aleggiava lo Spirito di Dio (cf. Gen 1,2), così sulle acque del Giordano scende lo Spirito, inaugurando la nuova creazione nel nuovo Adamo, Gesù Cristo.
E la parola di Dio dice la sua identità di Figlio di Dio stesso, Figlio unico e amatissimo, Figlio di cui Dio, vedendo lo stile da lui assunto e le azioni da lui compiute, come quel battesimo, può attestare: “Io mi rallegro di te, sei amatissimo da me, mi compiaccio di te, per come vivi e agisci, in piena conformità alla mia volontà”.
Anche il brano del profeta Isaìa, prima lettura di oggi, fa riferimento al compiacimento che Dio ha nei confronti del suo servo fedele e che Egli benedice e consacra nella sua missione di portare la giustizia tra le nazioni, mediante uno stile di vita mite, paziente ed umile, non aggressivo, violento o parolaio di turno. Sarà un singolare soggetto operativo di giustizia, pace e che aprirà gli occhi ai ciechi spirituali, morali e culturali di ogni tempo non non vogliono vedere, sapere ed agire per il bene del popolo santo di Dio e dell’umanità; mentre l’atteso messia, cioè Cristo Signore, farà esattamente ciò che Gli è richiesto in obbedienza al padre, a punto tale da sacrificarsi per noi sulla croce, più che sacrificare gli altri e fare guerra a tutti, in segno di vendetta e ritorsione.
Nel brano degli Atti degli Apostoli sale letteralmente in cattedra Pietro, dopo la risurrezione di Cristo e con il coraggio che gli viene dal Signore, in cui crede fermamente, afferma principi teologici e dottrinali indiscutibili. Infatti lo stesso Pietro si è reso “conto che Dio non fa preferenze di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga”. La universalità della salvezza apporta da Cristo su questa terra è ormai un dato acquisito presso i discepoli e loro operano apostolicamente in questa direzione, ripercorrendo lo stesso itinerario missionario del Figlio di Dio. Ricorda che questa è la Parola che Dio ha inviato ai figli d’Israele, annunciando la pace per mezzo di Gesù Cristo: questi è il Signore di tutti”. Fare memoria del vissuto di Cristo per impegnare la Chiesa sul versante dalla conversione e del rinnovamento è l’intento principale di Pietro, come viene ricordato nel brano di oggi: “Voi sapete ciò che è accaduto in tutta la Giudea, cominciando dalla Galilea, dopo il battesimo predicato da Giovanni; cioè come Dio consacrò in Spirito Santo e potenza Gesù di Nàzaret, il quale passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui». La riaffermazione di Cristo quale salvatore del mondo è un impegno apostolico e missionario di tutti i discepoli del Signore che avevano pienamente aderito a Cristo dopo la sua risurrezione.

A conclusione di questa riflessione facciamo nostre le parole di Dio poste all’inizio di ogni vangelo sinottico. Sono parole che riguardano ciascuno di noi, e che ognuno dovrebbe sentirle rivolte a sé: Dio mi dice che sono suo figlio, che sono da lui amatissimo. Ciascuno di noi dovrebbe sperare che Dio gli possa dire: “Di te mi compiaccio, di te mi rallegro!”, ma forse, conoscendo le nostre rivolte verso Dio, i nostri peccati, non riusciamo a crederlo possibile. Noi esitiamo, eppure dovremmo esserne convinti: queste sono le parole che Dio vorrebbe dirci e che ci dirà se speriamo in lui, non in noi, nella sua misericordia, non nelle nostre giustificazioni.

 

II DOMENICA DOPO NATALE – LA SAPIENZA DI DIO

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II DOMENICA DOPO NATALE – LA SAPIENZA DI DIO

– Sir 24, 1-4.8-12; Sal 147; Ef 1, 3-6.15-18; Gv 1, 1-18 –

Ancora una sosta questa domenica per contemplare il mistero dell’Incarnazione di Dio, mistero che il nostro cuore non dovrebbe stancarsi mai di contemplare, per permettere che esso plasmi la nostra concreta carne di uomini affinchè questa sia disposta a seguire Gesù fino alla croce, fino a quell’amore fino all’estremo (cfr Gv 13,1) che è la meta dell’Evangelo di Giovanni di cui in questa liturgia leggiamo lo stupefacente inizio: “In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio” …
Ecco dov’è l’“archè”, il principio di tutto: è presso Dio … da lì tutto parte, perché lì è la fonte dell’amore, di quella Sapienza che tutto ha creato e che, come già dice il testo del Libro del Siracide che costituisce la prima lettura, ha radice nel cielo ma pone la sua tenda in Giacobbe.
Contemplare la Sapienza di Dio è contemplare Gesù: è Lui la Santa Sophia, la Santa Sapienza che è conoscenza, progettualità, sogno, sapore di “oltre” e di Dio! Chi incontra Gesù accoglie la Sapienza di Dio; in Lui noi possiamo conoscere le logiche di Dio, le sue vie, le sue parole che danno vita eterna; Lui ci racconta Dio, come canta Giovanni nel Prologo dell’Evangelo: Dio nessuno l’ha visto mai, il Figlio unigenito che è rivolto verso il seno del Padre, lui l’ha raccontato …
Cogliere questa Sapienza, questa Gloria (Noi vedemmo la sua gloria, ha confessato Giovanni nelle prime righe del suo Evangelo) è però cogliere qualcosa di totalmente altro dalle sapienze mondane! Davvero! Aderire alla Santa Sapienza che è Gesù, alla Parola che Lui è, significa mettersi su una strada in cui Dio ci chiede solo una cosa, quella che ci è detta nel testo della Lettera ai cristiani di Efeso che oggi pure si legge: Essere santi e immacolati nell’“agàpe”… Essere discepoli di quella Santa Sapienza è quindi imboccare la strada controcorrente che l’“agàpe” chiede senza sconti, perché l’amore vero sconti non ne vuole e non ne sopporta. Da Betlemme al Golgotha, il Verbo fatto carne sceglie la via in cui la gloria di Dio è solo e sempre “gloria crucis” … Chi vuole essere discepolo di Colui che a Natale abbiamo guardato con tenerezza questo deve saperlo; il rischio altrimenti è essere innamorati di un “surrogato” dell’Evangelo!
Paolo, nella sua Prima lettera ai cristiani di Corinto lo scriverà a chiare lettere: Noi predichiamo Cristo crocifisso … potenza di Dio e sapienza di Dio. Perché ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini (cfr 1Cor 1, 23-25). E’ così: ogni qual volta ci si “scontra” con Cristo Gesù, la via che ci è proposta è quella di una sapienza “altra”, che contraddice quelle mondane perché la gloria di Dio Gesù l’ha mostrata nell’amore fino all’estremo, che è la croce. Infatti, quando Giovanni scrive: “noi abbiamo visto la sua gloria” intende solo la gloria della croce, la gloria di quell’amore che può gridare “Tutto è compiuto” (oppure potremmo tradurre: Fino all’estremo!) solo dalla croce! Nel Quarto Evangelo non ci sono gli angeli del Natale che cantano il Gloria, ma solo Gesù lo “canta”, mostrando la gloria del Padre suo dando la vita e narrando così il vero volto di Dio.
Accogliamo allora oggi questo “canto” del Verbo fatto carne, accogliamo questo “canto” che per narrare Dio sceglie il linguaggio non di un amore astratto e fatto di buoni sentimenti, ma un amore fatto di carne e sangue, di lotte e sudori, di rifiuti dolorosi (Venne tra la sua gente ma i suoi non lo hanno accolto) e brucianti delusioni; fatto di quotidianità che intreccia amicizie, amori, attenzioni, passioni, sogni, speranze, ricerche appassionate della volontà del Padre, memorie di persone amate e di incontri tra cuori e vicende … Insomma un amore che davvero si è fatto storia … una storia che è la nostra, e Gesù l’ha vissuta essendo la Sapienza di Dio, e portandovi il sapore della Sapienza di Dio. Da allora, quando ci vogliamo confrontare con Lui, ci tocca sempre confrontare la nostra sapienza con la sua, le nostre vie con le sue; il sapore che Lui ha dato alla vita e quello che gli diamo noi (i Padri ameranno questo parallelo tra il “sàpere” ed il “sapère” !) … Il confronto, se siamo onesti, ci porterà a dover riconoscere che la sua sapienza ha un “sapore” migliore delle nostre, pur raffinate sapienze, che le sue vie sono tanto migliori delle nostre vie asfaltate, illuminate ed eleganti; se siamo onesti riconosceremo che in quella Sapienza, che è Cristo, c’è il sapore di Dio e l’autentico sapore dell’umano, e che le sue vie portano alla pace, alla Grazia e alla Verità. E, sempre se siamo onesti, anche dalle profondità della nostra povertà e delle nostre incapacità di capire tutto, diremo a Lui che è la Santa Sapienza, a Lui che è il Verbo fatto carne le stesse parole che un giorno gli disse Pietro: “Signore, da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna!” (cfr Gv 6, 68).

p. Fabrizio Cristarella Orestano

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