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XIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (A) COMMENTO

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XIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (A) COMMENTO

Il radicalismo cristiano
Enzo Bianchi

Il brano evangelico di questa domenica contiene l’ultima parte del discorso missionario rivolto da Gesù ai suoi discepoli, ai dodici inviati ad annunciare il regno dei cieli ormai vicino (cf. Mt 10,7) e a far arretrare il potere del demonio (cf. Mt 10,1). Diverse parole di Gesù sono state raccolte qui da Matteo, parole dette probabilmente in circostanze diverse ma che nel loro insieme determinano il contenuto e lo stile della missione, e preannunciano anche le fatiche e le persecuzioni che i discepoli dovranno subire, perché accadrà loro ciò che Gesù stesso, loro maestro e rabbi, ha sperimentato (cf. Mt 10,24-25).
Ma cosa mai potrà dare al discepolo la forza di resistere di fronte a ostilità, calunnie, contraddizioni che minacciano anche le relazioni più comuni e quotidiane, quelle familiari? L’amore, solo l’amore per il Signore! Ecco perché Gesù ha fato risuonare delle parole forti, che ci scuotono: “Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me”. Questa sentenza di Gesù può sembrare innanzitutto una pretesa inaudita e irricevibile, ma è una sua parola autentica che va compresa in profondità. Gesù non insinua che non si debbano amare i propri genitori o i propri figli – come d’altronde richiede il quinto comandamento della legge santa di Dio (cf. Es 20,12; Dt 5,16) – e neppure esige un amore totalitario per la sua persona, ma richiama l’amore che deve essere dato al Signore, amore che richiede di realizzare la sua volontà. Gesù si rallegra quando ciascuno di noi vive le sue storie d’amore e quindi sa custodire e rinnovare l’amore per l’altro – coniuge, genitore o figlio –, ma chiede semplicemente che a lui, alla sua volontà, non sia preferito niente e nessuno da parte del discepolo.
Seguire Gesù, infatti, può destare l’opposizione proprio da parte di quelli che il discepolo ama, può far emergere una divisione, una differenza di giudizio e di atteggiamenti rispetto a Gesù stesso. In queste situazioni il discepolo, la discepola, dovrà avere la forza e il coraggio di fare una scelta e di dare il primato a Gesù, alla sua presenza viva e operante. Sì, va detto con chiarezza: se i genitori, o chiunque altro sia legato a noi da un vincolo di parentela e di amore umano, diventano un impedimento alla sequela del Signore, allora occorre che l’amore di Cristo abbia una preminenza anche sugli amori generati dal vincolo familiare. Con un linguaggio maggiormente segnato dalla cultura semitica, abituata a utilizzare immagini più concrete e a farlo attraverso una lingua ricca di antitesi e di forti contrasti, nel passo parallelo di Luca queste espressioni risuonano con ancora maggior durezza: “Se uno viene a me e non odia (cioè, non ama meno di me) suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo” (Lc 14,26). Se una persona diventa ostacolo alla nostra sequela, se contraddice il nostro amore per Cristo, allora va odiato, cioè non va ritenuto qualcuno che possa determinare la nostra vita.
Questa rinuncia dovuta a un’azione di discernimento ha un solo nome – continua Gesù –: prendere, abbracciare la propria croce, cioè lo strumento dell’esecuzione del proprio uomo vecchio, della propria condizione di creatura soggetta al peccato e sotto l’influsso del demonio. Significativamente un discepolo dell’Apostolo Paolo attualizzerà queste parole di Gesù con un’espressione altrettanto esigente e forte: “Fate morire le vostre membra che appartengono alla mondanità” (Col 3,5). Si tratta di rinnegare se stessi, di smettere di conoscere soltanto se stessi, per conoscere Gesù Cristo e solo in lui anche noi stessi. Comunicare al mistero della morte di Cristo, perdendo la vita, spendendo la vita nel fare la volontà di Dio, cioè nell’amore dei fratelli e delle sorelle in umanità, è imprescindibile per l’autentico discepolo di Gesù.
Come dimenticare al riguardo, il prezzo della sequela del Signore Gesù pagato dai cristiani martiri, a causa della persecuzione di Satana, “il principe di questo mondo” (Gv 12,31; 16,11)? Nella passione di una donna e madre cristiana dell’inizio del III secolo, per esempio, si legge:
Il procuratore Ilariano, avendo il potere della spada, mi disse: “Abbi pietà dei capelli bianchi di tuo padre e della tenera età di tuo figlio. Sacrifica agli dèi per la salute degli imperatori. Ma io risposi: “Non faccio sacrifici agli dèi”. Ilariano mi chiese: “Sei cristiana?”. Risposi: “Sì, sono cristiana”. (Passione di Perpetua e Felicita 6,3-4)
Ecco l’amore per il Signore, preferito a un amore pur legittimo, santo e buono per i legami familiari.
Certamente queste parole di Gesù che chiedono di dare il primato al suo amore su ogni nostro amore non giustificano mai le nostre mancanze d’amore, il nostro evadere la carità verso i familiari, come Gesù stesso ha detto in polemica con alcuni farisei: “Mosè disse: ‘Onora tuo padre e tua madre’ (Es 20,12; Dt 5,16), e: ‘Chi maledice il padre o la madre sia messo a morte’ (Es 21,17; Lv 20,9). Voi invece dite: ‘Se uno dichiara al padre o alla madre: Ciò con cui dovrei aiutarti è korbàn, cioè offerta a Dio’, non gli consentite di fare più nulla per il padre o la madre. Così annullate la parola di Dio con la tradizione che avete tramandato voi. E di cose simili ne fate molte” (Mc 7,10-13). L’amore per il Signore, dunque, conferma i nostri amori, se questi sono trasparenti, all’insegna della vera carità e vissuti con giustizia; non è mai totalitario – lo ripeto –, ma chiede di essere collocato al primo posto. Come dice la Regola di Benedetto (4,21), “nulla preferire all’amore di Cristo” è ciò che caratterizza la sequela cristiana, la quale non si esaurisce nell’accoglienza della dottrina del maestro né nelle osservanze del suo insegnamento: è amore, amore per lui, il Cristo, il Signore, fino a smettere di riconoscere solo se stessi o quelli che amiamo naturalmente e con i quali viviamo le nostre relazioni.
Dobbiamo essere sinceri: questa istanza decisiva nel cristianesimo è dura, soprattutto oggi, in un tempo e in una cultura che rivendicano la realizzazione della persona, che ci chiedono l’affermazione di sé, anche senza o contro gli altri. Ma le parole di Gesù, che non hanno nessun carattere masochistico o negativo, in verità ci rivelano che, dimenticando di affermare noi stessi e accettando di perdere e spendere la vita per gli altri, accresciamo la nostra gioia e diamo senso e ragioni al nostro vivere quotidiano.
Ai discepoli in missione, infine, Gesù preannuncia anche che potranno contare sull’accoglienza da parte di uomini e donne che vedranno in loro dei profeti, dei giusti, dei piccoli. Costoro avranno una ricompensa grazie al loro discernimento e alla loro capacità di accoglienza: nel giorno del giudizio, certamente, ma anche già qui e ora, cominciando a sperimentare il centuplo sulla terra (cf. Mc 10,30).
Questo è il radicalismo cristiano! La sequela vissuta nell’amore per Cristo rende il discepolo degno di stare tra i testimoni del Regno che viene. Il saper non guardare a se stessi ma tenere fisso lo sguardo su Gesù (cf. Eb 12,2) per vivere i suoi sentimenti (cf. Fil 2,5) e agire come lui (cf. 1Gv 2,6), è la sequela cristiana. Profeti e giusti vanno dunque accolti e venerati, ma significativamente Gesù pone accanto a loro anche i piccoli, quelli sui quali altrove dice che si giocherà il giudizio finale (cf. Mt 25,40.45). I piccoli e i poveri, che Gesù ha sempre accolto e confermato nella loro prossimità al regno dei cieli, devono dunque essere accolti in modo preferenziale dalla comunità cristiana: anche e soprattutto così si mostra di amare in modo privilegiato il Signore Gesù! Ma oggi la comunità cristiana è capace di accogliere i poveri e di rendersi soggetto di magistero ecclesiale? È capace di rendere vicini i lontani?

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XII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (A) COMMENTO

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XII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (A) COMMENTO

Nessuno ci ama capello per capello come Dio
Ermes Ronchi

Non temete, non abbiate paura, non abbiate timore. Per tre volte Gesù si oppone alla paura, in questo tempo di paura che mangia la vita, «che non passa per decreto-legge» (C.M. Martini), che come suo contrario non ha il coraggio ma la fede. Lo assicura il Maestro, una notte di tempesta: perché avete paura, non avete ancora fede? (Mc 4,40).
Noi non siamo eroi, noi siamo credenti e ciò che opponiamo alla paura è la fede. E Gesù che oggi inanella per noi bellissime immagini di fede: neppure un passero cadrà a terra senza il volere del Padre. Ma allora i passeri cadono per volontà di Dio? È lui che spezza il volo delle creature, di mia madre o di mio figlio? Il Vangelo non dice questo, in verità è scritto altro: neppure un uccellino cadrà “senza il Padre”, al di fuori della sua presenza, e non come superficialmente abbiamo letto “senza che Dio lo voglia”.
Nessuno muore fuori dalle mani di Dio, senza che il Padre non sia coinvolto. Al punto che nel fratello crocifisso è Cristo a essere ancora inchiodato alla stessa croce. Al punto che lo Spirito, alito divino, intreccia il suo respiro con il nostro; e quando un uomo non può respirare perché un altro uomo gli preme il ginocchio sul collo, è lo Spirito, il respiro di Dio, che non può respirare. Dio non spezza ali, le guarisce, le rafforza, le allunga. E noi vorremmo non cadere mai, e voli lunghissimi e sicuri.
Ma ci soccorre una buona notizia, come un grido da rilanciare dai tetti: non abbiate paura, voi valete più di molti passeri, voi avete il nido nelle mani di Dio. Voi valete: che bello questo verbo! Per Dio, io valgo. Valgo più di molti passeri, di più di tutti i fiori del campo, di più di quanto osavo sperare. Finita la paura di non contare, di dover sempre dimostrare qualcosa. Non temere, tu vali di più.
E poi segue la tenerezza di immagini delicate come carezze, che raccontano l’impensato di Dio che fa per me ciò che nessuno ha mai fatto, ciò che nessuno farà mai: ti conta tutti i capelli in capo. Il niente dei capelli: qualcuno mi vuole bene frammento su frammento, fibra su fibra, cellula per cellula. Per chi ama niente dell’amato è insignificante, nessun dettaglio è senza emozione. Anche se la tua vita fosse leggera come quella di un passero, fragile come un capello, tu vali. Perché vivi, sorridi, ami, crei. Non perché produci o hai successo, ma perché esisti, amato nella gratuità come i passeri, amato nella fragilità come i capelli.
Non abbiate paura. Dalle mani di Dio ogni giorno spicchiamo il volo, nelle sue mani il nostro volo terminerà ogni volta; perché niente accade fuori di Lui, perché là dove tu credevi di finire, proprio là inizia il Signore.

Avvenire

Pentecoste (Anno A) – Messa del Giorno (31/05/2020)

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Pentecoste (Anno A) – Messa del Giorno (31/05/2020)

Pentecoste, un vento di santità nel cosmo
padre Ermes Ronchi

La Pentecoste non si lascia recintare dalle nostre parole. La liturgia stessa moltiplica le lingue per dirla: nella prima Lettura lo Spirito arma e disarma gli Apostoli, li presenta come “ubriachi”, inebriati da qualcosa che li ha storditi di gioia, come un fuoco, una divina follia che non possono contenere. E questo, dopo il racconto della casa di fiamma, di un vento di coraggio che spalanca le porte e le parole. E la prima Chiesa, arroccata sulla difensiva, viene lanciata fuori e in avanti. La nostra Chiesa tentata, oggi come allora, di arroccarsi e chiudersi, perché in crisi di numeri, perché aumentano coloro che si dichiarano indifferenti o risentiti, su questa mia Chiesa, amata e infedele, viene la sua passione mai arresa, la sua energia imprudente e bellissima.

Il Salmo responsoriale guarda lontano: «Del tuo Spirito, Signore, è piena la terra». Una delle affermazioni più belle e rivoluzionarie di tutta la Bibbia: tutta la terra è gravida, ogni creatura è come incinta di Spirito, anche se non è evidente, anche se la terra ci appare gravida di ingiustizia, di sangue, di follia, di paura. Ogni piccola creatura è riempita dal vento di Dio, che semina santità nel cosmo: santità della luce e del filo d’erba, santità del bambino che nasce, del giovane che ama, dell’anziano che pensa. L’umile santità del bosco e della pietra. Una divina liturgia santifica l’universo.

La terza via della Pentecoste è data dalla seconda lettura. Lo Spirito viene consacrando la diversità dei carismi: bellezza, genialità, unicità proprie per ogni vita. Lo Spirito vuole discepoli geniali, non banali ripetitori. La Chiesa come Pasqua domanda unità attorno alla croce; ma la Chiesa come Pentecoste vuole diversità creativa. Il Vangelo infine colloca la Pentecoste già la sera di Pasqua: «Soffiò su di loro e disse: ricevete lo Spirito Santo». Lo Spirito di Cristo, ciò che lo fa vivere, viene a farci vivere, leggero e quieto come un respiro, umile e testardo come il battito del cuore.

Il poeta Ovidio scrive un verso folgorante: est Deus in nobis, c’è un Dio in noi. Questa è tutta la ricchezza del mistero: «Cristo in voi!» (Col 1,27). La pienezza del mistero è di una semplicità abbagliante: Cristo in voi, Cristo in me. Quello Spirito che ha incarnato il Verbo nel grembo di santa Maria fluisce, inesauribile e illimitato, a continuare la stessa opera: fare della Parola carne e sangue, in me e in te, farci tutti gravidi di Dio e di genialità interiore. Perché Cristo diventi mia lingua, mia passione, mia vita, e io, come i folli e gli ebbri di Dio, mi metta in cammino dietro a lui «il solo pastore che pei cieli ci fa camminare» (D.M. Turoldo).

OMELIA (24-05-2020) ASCENSIONE

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/49096.html

OMELIA (24-05-2020)

padre Ermes Ronchi

Ascensione, Dio con noi fino alla fine del mondo

I discepoli sono tornati in Galilea, su quel monte che conoscevano bene. Quando lo videro, si prostrarono. Gesù lascia la terra con un bilancio deficitario: gli sono rimasti soltanto undici uomini impauriti e confusi, e un piccolo nucleo di donne coraggiose e fedeli. Lo hanno seguito per tre anni sulle strade di Palestina, non hanno capito molto ma lo hanno amato molto. E ci sono tutti all’appuntamento sull’ultima montagna. Questa è la sola garanzia di cui Gesù ha bisogno. Ora può tornare al Padre, rassicurato di essere amato, anche se non del tutto capito. Adesso sa che nessuno di quegli uomini e di quelle donne lo dimenticherà. Essi però dubitarono…
Gesù compie un atto di enorme, illogica fiducia in persone che dubitano ancora. Non rimane ancora un po’, per spiegare meglio, per chiarire i punti oscuri. Ma affida il suo messaggio a gente che dubita ancora. Non esiste fede vera senza dubbi. I dubbi sono come i poveri, li avremo sempre con noi. Ma se li interroghi con coraggio, da apparenti nemici diverranno dei difensori della fede, la proteggeranno dall’assalto delle risposte superficiali e delle frasi fatte. Gesù affida il mondo sognato alla fragilità degli Undici, e non all’intelligenza di primi della classe; affida la verità ai dubitanti, chiama i claudicanti ad andare fino agli estremi della terra, ha fede in noi che non abbiamo fede salda in lui. A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra…
Andate dunque. Quel dunque è bellissimo: dunque il mio potere è vostro; dunque ogni cosa mia e anche vostra: dunque sono io quello che vive in voi e vi incalza. Dunque, andate. Fate discepoli tutti i popoli… Con quale scopo? Arruolare devoti, rinforzare le fila? No, ma per un contagio, un’epidemia di vita e di nascite. E poi le ultime parole, il testamento: Io sono con voi, tutti i giorni, fino alla fine del mondo. Con voi, sempre, mai soli. Cosa sia l’Ascensione lo capiamo da queste parole. Gesù non è andato lontano o in alto, in qualche angolo remoto del cosmo, ma si è fatto più vicino di prima. Se prima era insieme con i discepoli, ora sarà dentro di loro. Non è andato al di là delle nubi, ma al di là delle forme. È asceso nel profondo delle cose, nell’intimo del creato e delle creature, e da dentro preme verso l’alto come forza ascensionale verso più luminosa vita: «Il Risorto avvolge misteriosamente le creature e le orienta a un destino di pienezza. Gli stessi fiori del campo e gli uccelli che egli contemplò ammirato con i suoi occhi umani, ora sono pieni della sua presenza luminosa» (Laudato si’, 100).
Chi sa sentire e godere questo mistero, cammina sulla terra come dentro un tabernacolo, dentro un battesimo infinito.

OMELIA (17-05-2020) – L’AMORE CAMBIA LA STORIA

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/48965.html

OMELIA (17-05-2020) – L’AMORE CAMBIA LA STORIA

Paolo De Martino

E’ l’ultima cena.
Il leader, il capofamiglia, se ne va e i dodici si chiedono se da soli ce la faranno.
Tutti noi abbiamo bisogno di padri, di maestri, di riferimenti, di leggi, di regole chiare e precise.
Ma lo scopo di un maestro è di fare dei suoi discepoli degli altri maestri.
Chi ama ti vuole fare adulto, maturo, anche se questo ti portasse lontano da lui.
Non si può essere sempre discepoli, ciascuno deve diventare maestro della propria vita.
Gesù invita i suoi ad avere un amore forte verso la sua persona: «se mi amate» per evitare di amare un’ideologia, un coacervo di leggi, di norme, di precetti.
Dio non è un’idea, per quanto sublime, è una persona!
È essere capace di relazione.
Il rischio è sempre quello di pensare al rapporto con la divinità come ad un rapporto con la religione, con dei concetti, delle idee.
La chiesa non dovrebbe tanto dare un Dio già fatto, solo da credere, già confezionato, ma dovrebbe insegnare a scoprirlo, a cercarlo, a trovarlo, perché chi trova Dio, il vero Dio, non lo lascia più.
Il Cristianesimo non ti dà la verità, ma ti insegna a vederla, se lo vuoi.
Il Cristianesimo non ti dà Dio, ma ti insegna a cercarlo e per questo delude molti.
Il Cristianesimo non ti da le regole di vita, ma ti invita a vivere.
Il maestro non è colui che ti guida, bensì colui che ti aiuta a scoprire te stesso, la realtà e a incontrare Dio. Perché Dio c’è già dentro di noi, dobbiamo essere aiutati a scoprirlo.
?Fra un poco non mi vedrete più. Ma voi mi vedrete perché io vivo, vivo in voi e voi vivrete?.
Gesù, cioè, sentiva che gli apostoli gli volevano bene.
Anche se erano uomini pieni di paura, gretti, però gli volevano bene, e questo bastava.
Gesù sentiva che la sua vita li affascinava, che erano innamorati, anche se impauriti.
Ci sono delle cose che sono con noi per sempre.
Chi ci ha amato per davvero, rimarrà per sempre con noi, vivrà in noi.
Chi ci ha guarito dalle nostre catene, rimarrà per sempre con noi.
Chi ci ha appassionato il cuore, rimarrà per sempre con noi.
Queste persone, questi fatti neppure la morte ce li toglierà.
La preghiera – in questo contesto – non sarà più un tributo dovuto a Dio per farlo contento, ma la disponibilità concessa a Dio di entrare in relazione con me.
Gesù sta dicendo: ?Se amandomi, mi permettete di amarvi, allora osserverete i miei comandamenti?.
A questo punto nasce una domanda: Gesù ci ha lasciato dei comandamenti?
Sì, uno solo, quello dell’amore: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri» (Gv 13, 34).
Perché si parla di comandamenti (plurale) se in realtà ce ne ha lasciato uno solo?
Semplicemente perché nel nostro quotidiano noi dobbiamo declinare questo amore in mille rivoli diversi; noi riceviamo la fonte dell’amore ma poi questo amore va vissuto a seconda delle situazioni in cui ci troviamo, delle persone che incontriamo, delle scelte che facciamo, delle parole che diciamo.
Il comandamento dell’amore si traduce in comandamenti dell’amore.
La parola comandamento ci crea sempre un po’ di problemi…
Stiamo attenti, Gesù non ha detto: ?Vi comando di amarvi?, ma ?Vi do un comandamento?, quello dell’amore. Ciò che ci viene comandato di vivere, ci viene prima donato, è un dono!
Siamo prima amati!
A volte si prova invidia per i discepoli che hanno vissuto con Gesù, l’hanno visto, gli son stati accanto, ma in realtà siamo più fortunati noi.
Loro lo avevano a fianco, noi lo abbiamo dentro.
Loro hanno vissuto il Dio con noi, noi viviamo grazie allo Spirito, il Dio in noi.
Possiamo vedere il Signore, questa è la promessa.
Tranquilli, amici, non stiamo parlando di apparizioni, ma della possibilità che ci è data di entrare in quella dimensione che è lo spirito,, la dimensione più profonda e autentica di noi stessi
Viviamo tempi difficili, inutile negarlo. Difficili umanamente, difficili cristianamente.
Il futuro è denso di nubi scure e il rischio di vedere sempre e solo il negativo rischia di contagiare anche i cristiani più virtuosi.
Gesù è chiaro: il mondo non lo vede presente, parla di lui come di un grande personaggio del passato, come di un simpatico profeta finito male ma i discepoli, continuano a vederlo, lo riconoscono, lo annunciano, lo ascoltano, lo pregano.
Il primo dono che Gesù promette ai discepoli intimoriti è il Paraclito, cioè il Consolatore.
Il Paraclito, mi assicura che metterà nella mia strada delle consolazioni, cioè metterà qualcuno che ha la mia stessa sensibilità, qualcuno che mi aiuterà, qualcuno che mi difenderà, qualcuno che mi proteggerà, qualcuno che entrerà nel mio mondo con rispetto e che lo capirà.
Dio ci consola mettendo nel nostro cammino dei suoi angeli, persone che ci aiutano, che condividono la strada, la passione, che ci aiutano.
Lui non c’è più, ma ci sono i suoi angeli.
Se tu ti fidi di questo, in alcuni giorni ti sentirai solo, ma non sarai mai solo.
Consolatore vuol dire proprio: stare con chi è solo.
Allora: guardati attorno! Dio non c’è, ma si nasconde sotto altri nomi.
Lo riconosci? Lo vedi? Chi sono i tuoi angeli?.
Di questo abbiamo bisogno, urgente: di un aiuto che ci aiuti a leggere la grande storia e la nostra storia personale alla luce della fede.
Se è davvero così, allora, la difficoltà può diventare straordinaria opportunità, occasione di annuncio, ragione di conversione.
Ne sa qualcosa Filippo che, a causa della persecuzione che si è scatenata contro la primitiva comunità, è fuggito e si ritrova in Samaria, la terra abbandonata, la terra eretica.
La fuga diventa luogo per l’annuncio e conversione di nuovi discepoli.
Se anche noi, nell’attuale complessa situazione storica, la smettessimo di lamentarci, e ricominciassimo semplicemente a fare la Chiesa, cioè ad annunciare nella gioia Gesù Cristo, semplificando il proprio linguaggio, alleggerendo le nostre strutture, forse potremmo fare la stessa esperienza che ha fatto Filippo.
Ad una condizione, come ammonisce Gesù: restare fedeli al comandamento dell’amore, ad ogni costo.
Solo il comandamento dell’amore, in questi tempi, è in grado di perforare la spessa corazza anticristiana che abita la nostra società fintamente cristiana.
La bella notizia di questa Domenica? Lui vive e noi viviamo! Questo rende conto della mia speranza. Io appartengo a un Dio vivo e Lui a me e queste parole ci fanno dolce compagnia

IV DOMENICA DI PASQUA (A) COMMENTO

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IV DOMENICA DI PASQUA (A) COMMENTO

Gesù, il pastore bello e buono
Enzo Bianchi

Al tempo di Gesù i pastori erano presenti ovunque in Palestina e li si incontrava nelle campagne e nelle città, nelle pianure e sui monti. La figura del pastore era nota e si conoscevano i luoghi nei quali di giorno o di notte stava con le pecore, che fornivano latte, carne e formaggio. Nella Bibbia la figura del pastore è molto presente non solo come protagonista della narrazione, ma anche come parabola e tipologia. Sicché Dio, il Signore, è chiamato e riconosciuto come “Pastore d’Israele” (Sal 80,2), il suo popolo è detto “suo gregge” (cf. Sal 78,52; 95,7; 100,3), pecore che sono la sua proprietà. Le diverse situazioni in cui possono venire a trovarsi il pastore e il gregge servono pertanto a descrivere concrete condizioni storiche, quale lettura dei rapporti tra Dio e il suo popolo.
Dio è il Pastore, ma affinché questa sua qualità sia riconosciuta dai credenti, egli invia al suo gregge dei pastori, scelti “perché la comunità del Signore non sia un gregge senza pastore” (Nm 27,17). Ma questi pastori a volte diventano infedeli alla loro missione, diventano “cattivi pastori”; nello stesso tempo, altri che non sono stati inviati da Dio “si fanno pastori”, assumendo una funzione di servizio finalizzata in realtà al perseguimento dei propri fini. I profeti hanno più volte denunciato queste situazioni, nelle quali il popolo del Signore geme e soffre, ma hanno anche annunciato la venuta di Dio o del suo Messia quale pastore delle sue pecore (cf. Ger 23,1-6; 31,10; Ez 34,1-31).
Nel quarto vangelo, mentre Gesù si trova a Gerusalemme per celebrare la festa della Dedicazione del tempio, viene descritto uno scontro tra Gesù stesso e alcuni farisei, dopo la guarigione da parte sua in giorno di sabato di un cieco nato (cf. Gv 9). Grazie alla fede in Gesù, il cieco giunge a vedere, mentre le guide religiose appaiono cieche, incapaci di riconoscere in lui la missione di Dio. Gesù afferma dunque di essere venuto ad aprire un processo che manifesterà chi è cieco e chi invece vede, chi resta nell’incredulità e chi invece giunge alla luce (cf. Gv 9,40-41).
Questo però costituisce un esodo, un’uscita dal sistema religioso giudaico verso la comunità che aderisce a Gesù. La pretesa di Gesù è lampante e scandalosa, come ci viene presentata dalle espressioni che la comunità giovannea ha forgiato a partire dalle sue parole e azioni, contemplate, meditate e interpretate. Il discorso di Gesù è organizzato attorno alla formulazione di una paroimía (Gv 10,6), ossia di un enigma costruito per immagini (cf. Gv 10,1-6), cui segue la spiegazione che lo risolve in mistero di fede (cf. Gv 10,7-18) e infine una conclusione (cf. Gv 10,19-21).
Ecco dunque l’enigma: “Amen, amen io vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante”. Le solenni parole di Gesù mettono in rilievo un’opposizione: vi sono quelli che entrano nel recinto del gregge non attraverso la porta, che è sorvegliata, ma scavalcando il recinto. Questi sono i ladri e i briganti: le pecore non appartengono a loro, ma essi vogliono impossessarsene. Sono ladri perché rubano e sono briganti, che possono entrare nel recinto solo con l’inganno; sono in realtà lupi (cf. At 20,28-30), falsi pastori che non si curano dei bisogni delle pecore ma pensano solo a se stessi.
Invece “il pastore delle pecore entra attraverso la porta” e il guardiano posto all’ingresso del recinto lo riconosce e gli apre; allora “le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori”. Gesù è questo pastore e il Padre è il guardiano che gli apre. È infatti il Padre che gli ha dato le pecore (cf. Gv 17,6-8), che lo ha inviato (cf. Gv 8,16.42), che gli ha messo tutte nelle mani (cf. Gv 3,35; 5,22). Dunque il Padre riconosce Gesù come pastore unico del gregge, e così fanno anche le pecore: esse riconoscono la sua voce, la ascoltano ed esultano, sentendosi da lui chiamate ciascuna con il proprio nome.
Gesù ha un compito preciso: chiamando le pecore per nome, le fa “uscire”, fa compiere loro un esodo dal recinto ai pascoli aperti, alla libertà. Questa azione è più del far uscire di Mosè dall’Egitto verso la terra promessa, perché è un far uscire dalla schiavitù alla libertà, dalla morte alla vita per sempre. In queste poche parole è delineato tutto il cammino del discepolo, pecora del gregge di Gesù: deve ascoltare la voce del pastore, deve riconoscerla come parola per sé, deve dunque conoscere il pastore e quindi seguirlo verso i pascoli della libertà, in vista di una “vita in abbondanza”.
Il pastore si definisce poi anche “porta”. L’enigma viene così spiegato mediante due affermazioni: “io sono la porta ” (Gv 10,7.9) e “io sono il buon pastore” (Gv 10,11.14). Si faccia attenzione: Gesù non dice di essere la porta del recinto, ma la porta delle pecore! Egli non è una porta che fa accedere a un recinto, a un’istituzione, ma una porta a servizio delle pecore. Nell’Antico Testamento l’immagine della porta è rivelativa di un passaggio verso il cielo (cf. Gen 28,17), di un passaggio per accedere alla presenza del Signore, alla sua Shekinah, nel tempio (cf. Is 60,11; Sal 118,19-20); ma qui è Gesù che diventa porta piccola e st . Mt 7,13-14; Lc 13,24), unica via di entrata e di uscita verso Dio, il Padre.
Venuta la pienezza dei tempi, quando “si adora Dio in Spirito e Verità” (cf. Gv 4,23-24), Gesù è ormai l’unico accesso a Dio, l’unica via per far parte del gregge del Signore: è una porta aperta su uno spazio senza limiti. Negli ultimi discorsi ai suoi discepoli dirà: “Io sono la via, la verità e la vita” (Gv 14,6), parole che esplicitano l’affermazione: “Io sono la porta”, che esprimono e sono il cammino che conduce alla conoscenza di Dio e dunque alla vita per sempre (cf. Gv 17,3). Queste parole di Gesù ci possono sorprendere e anche destabilizzare: com’è possibile che un uomo abbia vantato simili pretese? Eppure Giovanni mette in bocca a Gesù tali rivelazioni, perché così vuole la fede in colui che è il Figlio di Dio, il Messia venuto nel mondo.
Ecco allora la richiesta di discernimento su quanti sono venuti prima di Gesù, con la pretesa di essere pastori inviati da Dio: molti sono già venuti, ma erano ladri, briganti, estranei “venuti per rubare e sacrificare” (Gv 10,10), come dice letteralmente il testo (verbo thýo). Gesù non delegittima certo i “pastori” inviati da Dio – da Abramo fino ai profeti –, ma i falsi Messia, come aveva ben inteso già Ignazio di Antiochia: “Cristo è la porta del Padre, attraverso la quale sono entrati Abramo, Isacco, Giacobbe, i profeti, gli apostoli e la chiesa” (Ai filadelfesi 9).
In ogni tempo appaiono nel mondo e anche nella chiesa pretesi “unti”, falsi inviati, che Dio non ha mandato, uomini e donne che imputano al Signore le loro elucubrazioni, ma sono sempre riconoscibili da chi è credente attento in Gesù: non stanno in mezzo al gregge, ma al di sopra; non conoscono le pecore per nome, ma vogliono solo comandarle; non proteggono la pecora debole, ma la abbandonano; non vanno alla ricerca della pecora perduta, ma preferiscono stare con le altre dentro al recinto.
Gesù è dunque la porta da attraversare in libertà per andare e venire, per spingersi verso i pascoli del cielo e rientrare al riparo quando sopraggiunge la minaccia. È una porta di salvezza, che dona una salvezza non transitoria, come quella che talvolta gli umani si danno nella storia. Di conseguenza, è anche il pastore che desidera per le pecore una cosa sola: “la vita in abbondanza”. Per questo le fa uscire in libertà, su cammini di esodo nei quali si aprono orizzonti nuovi e si conoscono nuovi pascoli. Ecco la libertà dei figli di Dio, nella quale c’è anche protezione, perché – dice Gesù – “nessuno può rapire le mie pecore dalla mia mano” (Gv 10,28).
L’altra spiegazione dell’enigma consiste nell’autorivelazione di Gesù quale “pastore bello e buono”: “Io sono il pastore bello e buono (kalós), che depone la propria vita per le pecore” (Gv 10,11). La manifestazione della venuta “pastorale” di Gesù non consiste nelle idee, nella dottrina, nel solo insegnamento, ma nel deporre e spendere la vita per le pecore. Se Dio era cantato nel salmo quale Pastore del credente al quale nulla manca (cf. Sal 23,1), Gesù dice di sé che egli stesso dà la sua vita per le pecore. E se nei vangeli sinottici il pastore della parabola era pieno di amore, fino ad andare a cercare la pecora smarrita per riportarla a casa (cf. Mt 18,12-14; Lc 15,4-7), qui il pastore dà la sua vita sia per la pecora smarrita sia per quella che resta nel recinto.
Viene così individuato il rapporto tra il pastore e le pecore: una conoscenza reciproca che diventa amore, una conoscenza penetrativa attraverso la quale il pastore conosce le pecore in profondità nelle quali esse stesse non giungono a conoscersi; e le pecore giungono a riconoscere il pastore come colui che ha cura di loro perché le ama. Esperienza indicibile, eppure autentica, nella quale si ascolta la voce del pastore, si giunge a discernere la sua presenza elusiva, ma soprattutto ci si sente amati, compresi, perdonati da un amore che è sempre anche misericordia.
Ma accanto al buon pastore appare anche “il pastore salariato” (Gv 10,12), che svolge il suo compito e realizza il suo lavoro solo per il salario. Molti erano i pastori di questo tipo al tempo di Gesù e molti sono ancora oggi: non sono cattivi, non fanno del male, non rubano al popolo di Dio né lo maltrattano, ma sono meri funzionari! Se la chiesa fosse una macchina, potrebbe anche andare avanti così; ma la chiesa è il gregge del Signore, è una realtà viva, un corpo nel quale, se non c’è l’amore gratuito, avviene un triste sfiguramento. Il pastore salariato adempie il suo mestiere per quanto è pagato; per questo, se vede arrivare il lupo, pensa a salvare se stesso, non le pecore (cf. Gv 10,12-13). Gesù invece no! La sua missione di pastore è motivata solo dall’amore, e il Padre lo ama proprio per questo: perché sa donare la vita per le pecore, per poi riceverla di nuovo da lui (cf. Gv 10,14-15.17-18). La sua missione di dare e spendere la vita è indirizzata a tutti gli esseri umani, anche a quelli che appartengono ad altri ovili, non solo a quello di Israele. Verrà il giorno in cui anche queste pecore provenienti dalle genti potranno ascoltare la voce di Cristo e così divenire pecore del gregge che è il suo (cf. Gv 10,16): di lui, il solo pastore dell’umanità, di tutta la creazione.

III DOMENICA DI PASQUA (A) LO RICONOBBERO ALLO SPEZZARE IL PANE – ENZO BIANCHI

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III DOMENICA DI PASQUA (A) LO RICONOBBERO ALLO SPEZZARE IL PANE – ENZO BIANCHI

Il racconto dell’incontro tra Gesù risorto e i due discepoli in cammino verso Emmaus è stato sapientemente collocato da Luca nell’ultimo capitolo del suo vangelo, che vuole significare una conclusione e nello stesso tempo un’apertura della narrazione che proseguirà negli Atti degli apostoli. Siamo di fronte a una sintesi di tutto il vangelo, perché questo testo riassume non solo l’intera vicenda di Gesù di Nazaret, ma anche l’intera storia di salvezza che Gesù stesso traccia “spiegando tutte le Scritture” (cf. Lc 24,27). Proprio la seconda parte dell’opera lucana, gli Atti, sarà un’interpretazione, una spiegazione di tutte le Scritture dell’Antico Testamento compiutesi in Gesù e, nel contempo, la narrazione degli eventi avvenuti nel ricordo delle sue parole.
Con il riconoscimento di Gesù “veramente risorto” da parte degli Undici, ossia di quanti lo avevano seguito – come dice Pietro – “per tutto il tempo nel quale il Signore Gesù ha vissuto tra noi, cominciando dal battesimo di Giovanni fino al giorno in cui è stato di mezzo a noi assunto in cielo” (At 1,21-22), si chiude l’epoca della testimonianza oculare: coloro che sono stati “testimoni oculari” (Lc 1,2) devono diventare “servi della Parola” (ibid.) e dunque “inviati”, “apostoli” (cf. Lc 24,49) per “annunciare a tutte le genti la conversione e la remissione dei peccati” (cf. Lc 24,47). In quest’ultimo capitolo Luca, narrando eventi racchiusi in un solo giorno, il giorno della resurrezione del Signore, ci rivela che si tratta di un giorno senza fine, un giorno unico, il “giorno uno” (Gen 1,5) della nuova creazione, il “giorno uno che solo il Signore conosce” (Zc 14,7). Ma è anche il giorno “nostro”, il nostro tempo, l’oggi nel quale camminiamo sulle strade del mondo, mentre il Risorto cammina con noi, fino a quando lo riconosceremo definitivamente alla tavola del Regno eterno.
Quanto alla struttura di questo capitolo, esso è evidentemente composto da tre racconti:

le donne al sepolcro (vv. 1-12);
i discepoli di Emmaus (vv. 13-35);
gli Undici a Gerusalemme (vv. 36-53).

Innanzitutto le donne recatesi al sepolcro il primo giorno dopo il sabato, di buon mattino, trovano la pietra rotolata via dall’ingresso della tomba e, entrate, non trovano il corpo cadavere di Gesù. Mentre sono nell’aporia (cf. Lc 24,4), due uomini si presentano a loro in vesti sfolgoranti e dicono alle donne impaurite e con il volto chinato a terra: “Perché cercate il Vivente tra i morti? Non è qui, è risorto. Ricordatevi di come vi parlò quando era ancora in Galilea e diceva: ‘È necessario che il Figlio dell’uomo sia consegnato nelle mani di uomini peccatori, sia crocifisso e risorga il terzo giorno’” (Lc 24,5-7). Essi chiedono il ricordo delle parole di Gesù, e le donne effettivamente si ricordano e dunque credono. Subito, ritornate dal sepolcro, annunciano la buona notizia agli Undici e agli altri. Ma “quelle parole parvero a loro come un vaneggiamento”, un’allucinazione, una sciocchezza, “e non credevano a esse. Pietro tuttavia, alzatosi, corse al sepolcro e, chinatosi, vide solo le bende. E tornò indietro, pieno di stupore per l’accaduto” (Lc 24,11-12). Al centro di questa prima parte vi è l’annuncio della resurrezione, fondato sulle parole di Gesù: ricordando le sue parole si giunge alla fede pasquale.
Segue il nostro racconto, a cui dedicheremo uno spazio adeguato. Mi limito per ora a evidenziare il tratto fondamentale, che lo rende parallelo agli altri due brani, in una sapiente costruzione narrativa e teologica. I due discepoli in cammino non riconoscono Gesù risorto, ma vedono solo un viandante il quale annuncia loro che, secondo le parole di Mosè e dei Profeti, il Cristo doveva patire e morire per entrare nella sua gloria: egli chiede la fede nelle parole dei Profeti, nelle Scritture (cf. Lc 24,25).
L’ultima parte ci testimonia che Gesù in persona appare in mezzo agli Undici radunati nella camera alta, a Gerusalemme (cf. Lc 22,12; At 1,13). Il Risorto è là, in mezzo a loro, li saluta donando loro la pace, ma essi, “sconvolti e impauriti, credevano di vedere uno spirito” (Lc 24,37). Gesù allora si fa riconoscere nei segni della passione impressi per sempre nella sua carne, chiede ai discepoli di guardarlo e di toccarlo, ma gli Undici restano increduli, tra gioia e stordimento. Gesù dunque annuncia anche a loro – come già aveva fatto nei suoi giorni terreni – la necessità del compimento nella sua vita di quanto era scritto nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi. “Allora aprì loro la mente, perché comprendessero le Scritture” (Lc 24,45), e con questa operazione terapeutica (cf. Lc 24,31-32) dona loro l’intelligenza delle Scritture, li rende credenti, abilitandoli a essere “testimoni” (mártyres: Lc 24,48). Affinché tutto ciò si realizzi pienamente, Gesù dichiara che presto invierà loro “la promessa del Padre” (Lc 24,49), lo Spirito santo (cf. At 2,1-12), poi li conduce a Betania e, benedicendoli, ascende al cielo. Ora finalmente i discepoli, ritornati a Gerusalemme pieni di gioia, possono innalzare a Dio una lode senza fine.
Ecco il riassunto dell’ultimo capitolo del vangelo secondo Luca, nel quale è rivelato a ogni lettore, a ciascuno di noi, il cammino della fede del discepolo. Occorre ascoltare e comprendere le Scritture dell’Antico Testamento, occorre ricordare le parole di Gesù raccolte nel Nuovo Testamento, e allora sarà possibile credere alla sua resurrezione.
Ma veniamo al brano liturgico, centro del nostro capitolo e sintesi dossologica dell’intero vangelo. Quando Gesù fu catturato, i discepoli fuggirono tutti per la paura, lo scoramento, e qualcuno tra di loro fu anche tentato di abbandonare la comunità. Ecco, infatti, che due di loro partono da Gerusalemme, lasciano gli altri e vanno verso il villaggio di Emmaus, dove quasi sicuramente vi era la loro casa. Sono delusi, pieni di tristezza – sentimento che traspare anche sui loro volti –, ma conversano, dialogano, scambiano parole, riandando agli eventi di cui erano stati testimoni: cattura, condanna e crocifissione di Gesù. Tutto sembra loro un fallimento e grande è la frustrazione delle loro speranze riposte in Gesù: l’avevano seguito credendo in lui, ascoltandolo, ma la sua morte è stata veramente la fine per lui, per la sua comunità, per l’attesa di ogni discepolo. Era un profeta, aveva una parola performativa, compiva azioni significative, ma i capi dei sacerdoti lo hanno consegnato ai romani ed egli è stato crocifisso. Sono passati ormai tre giorni, dunque Gesù è morto per sempre, e la loro vita sembra non avere più senso, direzione, fondamento. È la condizione in cui spesso veniamo a trovarci anche noi, e per questo l’anonimato di uno dei due discepoli ci aiuta a collocarci all’interno del racconto…
Ma su quel cammino ecco apparire un altro viandante che si accosta ai due e pone loro delle domande. Non si avvicina con un messaggio da proclamare, ma con il desiderio di ascoltare quel dialogo, di comprendere cosa i due hanno nel cuore, di accompagnarli. Innanzitutto chiede loro: “Che cosa sono questi discorsi che fate camminando, pensosi?”. In risposta, Gesù – di cui per il momento solo il lettore conosce l’identità – ascolta un racconto pieno di affetto per il loro rabbi: ascolta quello che è successo, ascolta ciò che dicono su di lui, ascolta le loro speranze deluse, e solo alla fine li interroga con molta delicatezza sulla loro fede, sul loro affidamento alle Scritture. Perché non sono capaci di credere ai profeti? Perché non sono capaci di leggere le Scritture?
Allora Gesù, come tante volte aveva fatto con i suoi discepoli, rilegge la Torah di Mosè e i profeti, e attraverso le Scritture fa comprendere ai due la necessitas della sua morte. Attenzione, non il destino ma la necessitas illumina la morte di Gesù: in un mondo ingiusto, il giusto viene rifiutato, osteggiato e tolto di mezzo, perché “è insopportabile al solo vederlo” (Sap 2,14); e se il giusto, il Servo del Signore, resta fedele a Dio e alla sua volontà, rifiutando le tentazioni del potere, della ricchezza e del successo, allora è condotto alla morte rigettato da tutti. Quegli eventi che a una lettura umana significano solo fallimento e vuoto, possono anche essere compresi diversamente, se Dio lo concede, con i suoi doni. Ma proprio perché quei discepoli non credono alle Scritture, non possono neppure riconoscere Gesù nel viandante che cammina con loro.
Giunti a casa, il misterioso viandante sembra voler proseguire da solo, ma i due, che stando accanto a Gesù hanno imparato da lui almeno l’attenzione per gli altri, si mostrano ospitali. Per questo insistono: “Resta con noi, perché si fa sera e il giorno ormai è al tramonto”. E così il viandante rimane con loro, entra nella loro casa. Quando sono a tavola, dopo le parole, egli compie dei gesti sul pane, soprattutto lo spezza per darlo loro. A questo gesto, il più eloquente compiuto da Gesù nell’ultima cena (cf. Lc 22,19), segno di un’intera vita offerta e donata per amore, “si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero”: ma subito il viandante, il forestiero, il pellegrino scompare dalla loro vista. Presenza elusiva ma sufficiente per i due discepoli, i quali riconoscono che alla sua parola il cuore ardeva nel loro petto e che con la sua vita eterna egli poteva farsi presente e spezzare il pane.
In questo mirabile racconto si parla di camminare insieme, di ricordare e pensare, di rispondere a chi chiede conto e quindi di celebrare la presenza vivente di Gesù, il Risorto per sempre. Ma ciò può avvenire in pienezza solo nella comunità cristiana, nella chiesa: per questo i due “fanno ritorno a Gerusalemme, dove trovano riuniti gli Undici e gli altri”, che li precedono e annunciano loro la resurrezione. È ciò che avviene anche a noi ogni domenica, giorno pasquale; è ciò che avviene anche oggi, nella comunità radunata dal Signore: la Parola contenuta nelle Scritture, l’Eucaristia e la comunità sono i segni privilegiati della presenza del Risorto, il quale non si stanca di donarsi a noi, “stolti e lenti di cuore”, ma da lui amati, perdonati, riuniti nella sua comunione.

II DOMENICA DI PASQUA (A) COMMENTO

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II DOMENICA DI PASQUA (A) COMMENTO

Dall’incredulità alla fede
Clarisse Sant’Agata

Con questa Domenica, detta “In Albis”, si conclude “l’Ottava di Pasqua”, come unico giorno “il giorno del Signore”(Ap. 1,10): “otto giorni dopo”, la Domenica di Resurrezione, e la Liturgia si sofferma sul mistero della vita del Risorto, presente nella vita di tutti i giorni nella Sua Chiesa: “sta in mezzo a loro” nel radunarsi domenicale.
L’Evangelista Luca nel brano degli Atti degli Apostoli ci presenta uno spaccato di vita delle prime comunità cristiane parlandoci di quattro modi di vivere: “erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli, nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nella preghiera” (At 3,42). Se notiamo sono tutte realtà che dicono a noi una vera relazione con il Cristo, il Crocifisso Risorto.
Questo tema è ben presente nella pagina che leggiamo oggi dell’Evangelista Giovanni: il Signore si fa riconoscere da Tommaso non quando è separato dalla comunità, ma quando finalmente, “otto giorni dopo” è di nuovo con i suoi fratelli. D’altro canto l’incredulità di Tommaso si era dimostrata proprio nel non accogliere la testimonianza della comunità: quella di Maria di Magdala prima, e quella degli altri discepoli poi.
Tommaso quindi è il grande assente quando Gesù “la sera di quello stesso giorno, il primo della settimana” entra a porte chiuse nel luogo dove sono riuniti i discepoli ancora sconvolti dall’arresto del loro Maestro, dalla sua crocifissione e dalla sua morte, e “sta in mezzo a loro”.
Non sappiamo perché Tommaso non fosse presente, ma è presente “otto giorni dopo”. Forse i discepoli, che si erano dispersi, come aveva loro annunciato Gesù a motivo della sua morte, ora sono di nuovo insieme proprio per il racconto di ciò che Maria di Magdala ha visto e ascoltato nel giardino davanti al sepolcro vuoto: “Ho visto il Signore” e “Va dai miei fratelli e di loro : io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro” (Gv 20,17). Probabilmente Tommaso non crede al racconto di Maria, è incapace di accogliere il suo annuncio, come pure quello degli altri discepoli quando gli dicono con insistenza “abbiamo visto il Signore”. Tommaso dimostra qui il suo limite cioè la mancanza di fede nella comunità e qui sta la radice della sua incredulità: “se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e la mia mano nel suo costato non crederò”.
Tommaso, che ha bisogno di vedere e toccare per credere, lo troviamo presente altre volte nel corso del quarto Vangelo: al capitolo 11 manifesta la sua disponibilità a rischiare la propria vita insieme a Gesù: “andiamo anche noi a morire con lui” (v. 10), mentre gli altri discepoli, alla decisione di Gesù di tornare in Giudea per andare a trovare l’amico Lazzaro, manifestano la loro paura. Ancora al capitolo 14 dopo che Gesù aveva annunciato ai suoi discepoli che sarebbe andato a preparare un posto per loro di cui però essi non conoscevano la via, Tommaso interviene con una domanda: “Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via?”(v. 5). Quindi Tommaso da una parte dichiara di voler seguire Gesù lungo la sua stessa via, anche se conduce alla morte, dall’altra afferma di non conoscere la via, di non sapere dove il Signore va.
Tommaso forse non conosce la via perché la coglie solo come via che conduce alla morte (“morire con lui”). In realtà né lui né gli altri discepoli andranno a morire con lui, ma si disperderanno. Tutti non hanno capito che la via che percorre Gesù non è una via di morte, anche se passa attraverso la morte, ma è vita, e il posto che Gesù va a preparare è lì dove lui è cioè, presso il Padre.
Tornando al nostro brano dicevamo che Tommaso ha bisogno di vedere e di toccare. Tommaso vuole vedere le piaghe, i segni della passione che rimangono nel corpo risorto di Gesù. D’altro canto Tommaso vuole vedere quello che il Risorto stesso, per farsi riconoscere, ha mostrato agli altri discepoli quando Gesù è apparso loro mentre Tommaso era assente.
Quindi Tommaso pretende di verificare personalmente la verità del corpo del Risorto: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non crederò” (v. 25). Tuttavia il testo non dice che Tommaso abbia toccato, abbia messo il dito nel segno dei chiodi. Su questo il racconto tace.
Quando Gesù “otto giorni dopo” viene di nuovo in mezzo a loro e incontra Tommaso gli dice subito: “Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!” (v. 27). Gesù, il Risorto, riprende le parole della richiesta di Tommaso e gliele ripete. E’ qui che Tommaso arriva a fare la più alta professione di fede: “Mio Signore e mio Dio” (v. 28). Tommaso è raggiunto dalla parola di Gesù, si sente toccato da questa parola, conosciuto, potremmo dire amato. Non ha più bisogno di toccare perché lui stesso è stato toccato e trasformato. Tommaso ha fatto il passaggio pasquale, dall’incredulità alla fede.
Ancora una volta l’evangelista Giovanni ci dice che non bastano i segni a fondare la fede, ma è sempre necessario l’ascolto della Parola che li accompagna, li interpreta, ne svela il significato e così anche noi siamo interpellati a dare la nostra risposta di fede, proprio come Tommaso: “Mio Signore e mio Dio”.
Noi discepoli di oggi non possiamo più vedere il corpo del Risorto, ma possiamo riconoscerlo presente nei sacramenti, nella Chiesa riunita nel suo nome e nell’ascolto della sua Parola. Quindi come dice Pietro nella sua prima lettera: “Voi lo amate, pur senza averlo visto; e ora senza vederlo credete in lui”(1 Pt 1,8). Si, siamo chiamati a credere in quel Dio, Gesù Cristo, morto e risorto, che si rivela così, con quelle mani bucate, con quel costato trafitto che mostrano a quale debolezza e consegna di sé è giunto l’amore. Amore che rivela l’assoluto dell’Amore: il Padre.

http://www.clarissesantagata.it

PAPA FRANCESCO – UDIENZA GENERALE – 8 aprile 2020

http://www.vatican.va/content/francesco/it/audiences/2020/documents/papa-francesco_20200408_udienza-generale.html

PAPA FRANCESCO – UDIENZA GENERALE – 8 aprile 2020

Biblioteca del Palazzo Apostolico

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

In queste settimane di apprensione per la pandemia che sta facendo soffrire tanto il mondo, tra le tante domande che ci facciamo, possono essercene anche su Dio: che cosa fa davanti al nostro dolore? Dov’è quando va tutto storto? Perché non ci risolve in fretta i problemi? Sono domande che noi facciamo su Dio.
Ci è di aiuto il racconto della Passione di Gesù, che ci accompagna in questi giorni santi. Anche lì, infatti, si addensano tanti interrogativi. La gente, dopo aver accolto Gesù trionfalmente a Gerusalemme, si domandava se avrebbe finalmente liberato il popolo dai suoi nemici (cfr Lc 24,21). Si aspettavano, loro, un Messia potente, trionfante, con la spada. Invece ne arriva uno mite e umile di cuore, che chiama alla conversione e alla misericordia. Ed è proprio la folla, che prima l’aveva osannato, a gridare: «Sia crocifisso!» (Mt 27,23). Quelli che lo seguivano, confusi e spaventati, lo abbandonano. Pensavano: se la sorte di Gesù è questa, il Messia non è Lui, perché Dio è forte, Dio è invincibile.
Ma, se andiamo avanti a leggere il racconto della Passione, troviamo un fatto sorprendente. Quando Gesù muore, il centurione romano che non era credente, non era ebreo ma era un pagano, che lo aveva visto soffrire in croce e lo aveva sentito perdonare tutti, che aveva toccato con mano il suo amore senza misura, confessa: «Davvero quest’uomo era Figlio di Dio» (Mc 15,39). Dice proprio il contrario degli altri. Dice che lì c’è Dio, che è Dio davvero.
Possiamo chiederci oggi: qual è il volto vero di Dio? Di solito noi proiettiamo in Lui quello che siamo, alla massima potenza: il nostro successo, il nostro senso di giustizia, e anche il nostro sdegno. Però il Vangelo ci dice che Dio non è così. È diverso e non potevamo conoscerlo con le nostre forze. Per questo si è fatto vicino, ci è venuto incontro e proprio a Pasqua si è rivelato completamente. E dove si è rivelato completamente? Sulla croce. Lì impariamo i tratti del volto di Dio. Non dimentichiamo, fratelli e sorelle, che la croce è la cattedra di Dio. Ci farà bene stare a guardare il Crocifisso in silenzio e vedere chi è il nostro Signore: è Colui che non punta il dito contro qualcuno, neppure contro coloro che lo stanno crocifiggendo, ma spalanca le braccia a tutti; che non ci schiaccia con la sua gloria, ma si lascia spogliare per noi; che non ci ama a parole, ma ci dà la vita in silenzio; che non ci costringe, ma ci libera; che non ci tratta da estranei, ma prende su di sé il nostro male, prende su di sé i nostri peccati. E questo, per liberarci dai pregiudizi su Dio, guardiamo il Crocifisso. E poi apriamo il Vangelo. In questi giorni, tutti in quarantena e a casa, chiusi, prendiamo queste due cose in mano: il Crocifisso, guardiamolo; e apriamo il Vangelo. Questa sarà per noi – diciamo così – come una grande liturgia domestica, perché in questi giorni non possiamo andare in chiesa. Crocifisso e Vangelo!
Nel Vangelo leggiamo che, quando la gente va da Gesù per farlo re, ad esempio dopo la moltiplicazione dei pani, Egli se ne va (cfr Gv 6,15). E quando i diavoli vogliono rivelare la sua maestà divina, Egli li mette a tacere (cfr Mc 1,24-25). Perché? Perché Gesù non vuole essere frainteso, non vuole che la gente confonda il Dio vero, che è amore umile, con un dio falso, un dio mondano che dà spettacolo e s’impone con la forza. Non è un idolo. È Dio che si è fatto uomo, come ognuno di noi, e si esprime come uomo ma con la forza della sua divinità. Invece, quando nel Vangelo viene proclamata solennemente l’identità di Gesù? Quando il centurione dice: “Davvero era Figlio di Dio”. Viene detto lì, appena ha dato la vita sulla croce, perché non ci si può più sbagliare: si vede che Dio è onnipotente nell’amore, e non in altro modo. È la sua natura, perché è fatto così. Egli è l’Amore.
Tu potresti obiettare: “Che me ne faccio di un Dio così debole, che muore? Preferirei un dio forte, un Dio potente!”. Ma sai, il potere di questo mondo passa, mentre l’amore resta. Solo l’amore custodisce la vita che abbiamo, perché abbraccia le nostre fragilità e le trasforma. È l’amore di Dio che a Pasqua ha guarito il nostro peccato col suo perdono, che ha fatto della morte un passaggio di vita, che ha cambiato la nostra paura in fiducia, la nostra angoscia in speranza. La Pasqua ci dice che Dio può volgere tutto in bene. Che con Lui possiamo davvero confidare che tutto andrà bene. E questa non è un’illusione, perché la morte e resurrezione di Gesù non è un’illusione: è stata una verità! Ecco perché il mattino di Pasqua ci viene detto: «Non abbiate paura!» (cfr Mt 28,5). E le angoscianti domande sul male non svaniscono di colpo, ma trovano nel Risorto il fondamento solido che ci permette di non naufragare.
Cari fratelli e sorelle, Gesù ha cambiato la storia facendosi vicino a noi e l’ha resa, per quanto ancora segnata dal male, storia di salvezza. Offrendo la sua vita sulla croce, Gesù ha vinto anche la morte. Dal cuore aperto del Crocifisso, l’amore di Dio raggiunge ognuno di noi. Noi possiamo cambiare le nostre storie avvicinandoci a Lui, accogliendo la salvezza che ci offre. Fratelli e sorelle, apriamogli tutto il cuore nella preghiera, questa settimana, questi giorni: con il Crocifisso e con il Vangelo. Non dimenticatevi: Crocifisso e Vangelo. La liturgia domestica, sarà questa. Apriamogli tutto il cuore nella preghiera, lasciamo che il suo sguardo si posi su di noi e capiremo che non siamo soli, ma amati, perché il Signore non ci abbandona e non si dimentica di noi, mai. E con questi pensieri, vi auguro una Santa Settimana e una Santa Pasqua.

 

DOMENICA DELLE PALME (05-04-2020)

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/48408.html

DOMENICA DELLE PALME (05-04-2020)

don Luca Garbinetto
L’intimità della Passione

Farò la Pasqua da te, con i miei discepoli? (26,18). Inizia una Settimana Santa speciale. Siamo tutti reclusi in casa, raccolti in famiglia. Sembra proprio che quest’anno Gesù voglia venire a fare Pasqua con i suoi discepoli dentro casa nostra! È un’occasione davvero unica, che ci riporta alle origini di questa festa, sorta nella dura notte della fuga dall’Egitto, quando il popolo celebra la liberazione consumando un agnello nel circolo ristretto della famiglia. Così è stato per la Chiesa dei primi secoli: il gusto di una celebrazione domestica, che richiamava proprio la notte del dolore e la luce sfolgorante della risurrezione, che Gesù anticipa nella sera dell’ultima cena.
?Farò la Pasqua da te?, nell’intimità della tua casa. Siamo noi quel ?tale? interpellato dai discepoli, affinché mettesse a disposizione la sua sala perché Gesù ?possa mangiare la Pasqua? (26,17). E di segni di intimità è intessuto il racconto di Matteo, che narra le drammatiche vicende delle ultime ore del Maestro fra noi.
Vi è l’intimità di una tavola imbandita, di un banchetto che fa memoria dei legami d’affetto di un popolo e di una famiglia, legami nei quali si realizza ogni giorno la presenza del Dio che salva. Mangiare assieme significa condividere la vita, farsi carico del vissuto dell’altro, partecipare dei suoi progetti e aprirsi a consegnare i propri. La tavola preparata e il cibo semplice, ma che nutre, è il luogo della cura e dell’amore che genera speranza: pensiamo alle nostra mamme e nonne, che con tanta premura inventano ricette nuove per rendere più fraterna la vita in casa e addolcire i rapporti tra vicini. A tavola Gesù si consegna ai suoi, nel pane spezzato e nel vino versato: desideriamo gustare questo sapore di intimità quando accediamo alla celebrazione eucaristica. Chissà che questo tempo di digiuno dal Corpo e Sangue di Cristo non ci restituisca la consapevolezza di un dono per nulla scontato!
Vi è poi l’intimità del Getsemani, dell’agonia e dell’angoscia. Lì dove Gesù affronta la decisione ultima di andare fino in fondo nel dono di sé, quando la tristezza scende nel suo cuore e irrigidisce le membra, accanto a lui ci sono i tre discepoli più intimi. La sofferenza necessita di sostegno e consolazione da parte di amici e confidenti. Portare il peso l’uno dell’altro è gesto di grande intimità, e anche Gesù ne ha bisogno. Egli lo ha fatto per tutti, e si prepara a farlo fino in fondo, portando la croce sul Calvario per espiare il peccato e il dolore del mondo. I suoi amici, però, non sanno fare altrettanto, si addormentano, lo rinnegano: l’intimità a volte è dura, troppo dura, e potremmo desiderare di evaderla, di sfuggirla. A volte è la storia che ne traccia i confini: tante vittime di questi giorni di prova muoiono senza la consolazione dei loro cari; ma è anche vero che tanti innocenti dell’umanità, da sempre, lasciano questa vita senza il rispetto e la cura che merita ogni figlio di Dio. Gesù ci invita a condividere la sua intimità dolorosa perché non dimentichiamo mai i suoi fratelli e amici – i poveri – che non hanno accanto nessuno a consolarli.
Vi è anche l’intimità coniugale che si affaccia nella vicenda del processo di Gesù. Matteo racconta della moglie di Pilato, che mette in guardia il marito perché ?quel giusto? (27,19) l’ha molto turbata in sogno, nell’intimità del sonno. Una donna intuisce e suggerisce uno sguardo più profondo, la necessità di un altro registro per guardare al mistero. Come ci sentiamo toccare da questo spiraglio di dolcezza e premura femminile, da questo dialogo di sposi nel quale la forza dell’amore tenta di scardinare le vili consuetudini della violenza! È un appello a ritrovare il senso della nostra convivenza familiare, nel reciproco ascolto, nell’attenzione agli altri, nella custodia dei valori più autentici che spesso riaffiorano quando nel talamo nuziale ci si spoglia delle proprie maschere. Gesù chiede permesso di essere Signore anche della nostra relazione più intima, quella sponsale.
E in tanta vigorosa intimità, ci sentiamo attratti ma anche chiamati a una irrinunciabile responsabilità. Poiché la confidenza dei rapporti familiari e amicali è un appello a farsi carico dell’altro, senza scampo. Forse per questo ci fa meno paura una esistenza frenetica e un tempo oberato di corse e di impegni, che rimpiangiamo mentre poi, nel viverlo, lo rifiutiamo e ci lamentiamo. Il tempo rallentato dell’intimità ci disarma, ci svela l’uno all’altro, ci smonta ogni scusa: non possiamo evadere alla verità di noi stessi. E così dobbiamo scegliere.
Forse quel ?tale?, come pure il Cireneo (27,32), non ebbero molte opportunità di scelta: si trovarono dentro la vicenda di Gesù quasi per caso. Ma Pietro, Giacomo e Giovanni, Giuda e gli altri discepoli, Pilato…: loro no, loro furono posti davanti a una scelta responsabile: ?voglio davvero stare con Gesù?’. Più cresce l’intimità con lui e si affaccia a noi l’esperienza del suo amore, più siamo chiamati a una risposta. E questa risposta, purtroppo, può essere di fuga, di rifiuto, addirittura di aggressione e di rabbia. Gesù lo sa bene, perché conosce il cuore dell’uomo. Eppure corre il rischio, desideroso com’è di scendere fin nel più intimo di ciascuno di noi. Lì dove abitano le nostre paure e siamo più vulnerabili, si affaccia il volto del Signore, che sarà sfigurato anche dal nostro orgoglio e dalle nostre codardie. Eppure, non ci lascerà soli.
Perché l’intimità che in Gesù si rivela e che trasfigura ogni altra esperienza di confidenza è quella con il Padre. È il rapporto con Lui che non si affievolisce, che rende lo spazio del dolore un assoluto dono di amore. Nell’angoscia dell’Orto come dentro il grido della croce, in Gesù mai scompare la relazione vitale con Colui che lo ha mandato. L’intimità salvifica del Figlio con il Padre, per fare solo la Sua volontà, svela il cuore del mistero e ci spinge a scegliere, con fiduciosa responsabilità, di diventare anche noi intimi a Lui. Anche in famiglia può accadere la Pasqua, nella misura in cui tutti assieme ci riscopriamo figli amati al cospetto del Padre, che facendosi prossimo al Figlio Gesù anche nell’ora estrema della morte, trasforma in vita grazie all’amore ciò che ai nostri occhi può sembrare solo disperazione.
Gesù, in questa passione, quest’anno più che mai, sceglie di venire a casa nostra per stare nella nostra intimità. Desideroso di trasfigurare le nostre relazioni, soprattutto quelle più quotidiane, nelle gioie e nelle fatiche. Desideroso anche, proprio attraverso di esse, di scavare la profondità del nostro cuore, per far fiorire vita dalle spine.

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