Archive pour la catégorie 'OMELIE PREDICH, DISCORSI E…♥♥♥'

XXII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (A) COMMENTO

https://combonianum.org/2020/08/25/xxii-domenica-del-tempo-ordinario-a-commento/

XXII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (A) COMMENTO

Prendere la croce di Cristo è abbracciare il giogo dell’amore
Ermes Ronchi

Se qualcuno vuole venire dietro a me… Ma perché seguirlo? Perché andare dietro a lui e alle sue idee? Semplice: per essere felice. Quindi Gesù detta le condizioni. Condizioni da vertigine. La prima: rinnegare se stesso. Parole pericolose, se capite male. Gesù non vuole dei frustrati al suo seguito, ma gente dalla vita piena, riuscita, compiuta, realizzata. Rinnegare se stessi non significa mortificare la propria persona, buttare via talenti e capacità. Significa piuttosto: il mondo non ruota attorno a te; esci dal tuo io, sconfina oltre te. Non mortificazione, allora, ma liberazione.
Seconda condizione: Prenda la sua croce e mi segua. Una delle frasi più celebri, più citate e più fraintese del Vangelo, che abbiamo interpretato come esortazione alla rassegnazione: soffri con pazienza, accetta, sopporta le inevitabili croci della vita. Ma Gesù non dice “sopporta”, dice “prendi”. Al discepolo non è chiesto di subire passivamente, ma di prendere, attivamente.
Che cos’è allora la croce? È il riassunto dell’intera vita di Gesù. Prendi la croce significa: “Prendi su di te una vita che assomigli alla sua”. La vocazione del discepolo non è subire il martirio ma una vita da Messia; come lui anche tu passare nel mondo da creatura pacificata e amante.
La croce nel Vangelo indica la follia di Dio, la sua lucida follia d’amore. Il sogno di Gesù non è uno sterminato corteo di uomini, donne, bambini, anziani, tutti con la loro croce addosso, in una perenne Via Crucis dolorosa. Ma l’immensa migrazione dell’umanità verso più vita. Sostituiamo croce con amore. Ed ecco: se qualcuno vuole venire con me, prenda su di sé il giogo dell’amore, tutto l’amore di cui è capace, e mi segua. Ciascuno con l’amore addosso, che però ha il suo prezzo: “Là dove metti il tuo cuore, là troverai anche le tue spine e le tue ferite”.
All’orizzonte si stagliano Gerusalemme e i giorni supremi. Gesù li affronta scegliendo di non assomigliare ai potenti del mondo. Potere vero per lui è servire, è venuto a portare la supremazia della tenerezza, e i poteri del mondo saranno impotenti contro di essa: il terzo giorno risorgerò. Quindi la parola centrale del brano: chi perderà la propria vita così, la troverà. Ci hanno insegnato a mettere l’accento sul perdere la vita. Ma se l’ascolti bene, senti che l’accento non è sul perdere, ma sul trovare.

L’esito finale è “trovare vita”. Quella cosa che tutti gli uomini cercano, in tutti gli angoli della terra, in tutti i giorni che è dato loro di gustare: la fioritura della vita. Perdere per trovare. È la fisica dell’amore: se dai ti arricchisci, se trattieni ti impoverisci. Noi siamo ricchi solo di ciò che abbiamo donato.

OMELIA XXI SETTIMANA DEL T.O.

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/50197.html

OMELIA XXI SETTIMANA DEL T.O.

padre Ermes Ronchi

La domanda con cui Gesù getta in noi un amo

Ogni anno, verso la fine dell’estate, la liturgia ripropone la bellissima domanda di Gesù, ogni anno con un evangelista diverso: ma voi chi dite che io sia? Inizia con un «ma», una avversativa, quasi in opposizione a ciò che dice la gente, perché non si crede per sentito dire, né per tradizione o per allinearsi alla maggioranza.
Come un amo da pesca (la forma del punto di domanda ricorda quella di un amo), che scende in noi per agganciare la risposta vera: ma voi, voi dalle barche abbandonate, voi che camminate con me da anni, voi amici che ho scelto a uno a uno, che cosa sono io per voi? Gesù non cerca parole, cerca rapporti (io per te); non vuole definizioni esatte ma coinvolgimenti: che cosa ti è successo, quando mi hai incontrato? La sua domanda assomiglia a quelle degli innamorati: quanto conto per te? Che posto ho, che importanza ho nella tua vita?
Gesù non ha bisogno della risposta dei dodici, e della mia, per sapere se è più bravo degli altri profeti, ma per sapere se sono innamorato, se gli ho aperto il cuore. Cristo non è nelle mie parole, ma in ciò che di Lui arde in me. Il nostro cuore può essere la culla o la tomba di Dio. La risposta di Pietro ha due tempi: Tu sei il Messia, sei la mano di Dio, la sua carezza, il suo progetto di libertà. Poi aggiunge: sei il figlio del Dio vivente. Colui che fa viva la vita, il miracolo che la fa fiorire, grembo gravido, fontana da cui la vita sgorga potente, inesauribile e illimitata.
Beato te, Simone, roccia… Pietro decifrando la sacralità di Gesù, ha esplorato qualcosa della propria. L’ho provato anch’io: ogni volta che mi sono avvicinato a lui, che mi sono fermato e l’ho pregato davvero ho scoperto qualcosa di me; ho capito meglio chi sono e che cosa sono venuto a fare quaggiù. Forse anch’io piccola roccia? Non certo macina da mulino, ma piccola pietruzza soltanto. Eppure, per lui, nessuna piccola pietra è inutile.
Ciò che legherai, ciò che scioglierai… Non si tratta del potere di assolvere o scomunicare gente, ma la rivelazione che in noi cielo e terra si abbracciano. Gesù non è venuto a instaurare altri poteri, ma ha capovolto il sistema del potere in quello del servizio. Non porta in dote un potere, ma una possibilità: diventare una presenza trasfigurante anche nelle esperienze più squallide, più impure, più alterate dell’uomo. Facendo cose che Dio solo sa fare: perdonare i nemici, trasfigurare il dolore, immedesimarsi nel prossimo, vivere vita donata, gesti che dentro hanno eternità. Un potere trasfigurante che porta Dio nel mondo, e il mondo in Dio. Che può fare di ciascuno di noi una piccola pietruzza sulla quale edificare una porzione di mondo nuovo.

OMELIA – MARIA ASSUNTA IN CIELO – padre Antonio Rungi (15-08-2020) Maria segno di speranza e consolazione nel tempo della prova

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/50106.html

OMELIA – MARIA ASSUNTA IN CIELO – padre Antonio Rungi (15-08-2020)
Maria segno di speranza e consolazione nel tempo della prova

E’ una solennità dell’Assunta del tutto speciale, straordinaria, unica, quella che stiamo vivendo oggi, 15 agosto 2020.

Mai ci saremmo aspettati che nel XXI secolo, tutta l’umanità dovesse fare i conti con una pandemia devastante, che di fatto ha bloccato non solo la vita sociale, economica ed umana di intere nazioni, ma anche la vita ecclesiale, le manifestazioni esterne della nostra sincera devozione alla Madre di Dio. Anche per la solennità dell’Assunta è purtroppo così.
E nonostante questa sofferenza che ci accompagna da mesi ormai, noi oggi fissiamo il nostro sguardo su Maria, assunta alla gloria del cielo. E come afferma il concilio Vaticano II: ?La madre di Gesù, come in cielo, in cui è già glorificata nel corpo e nell’anima, costituisce l’immagine e l’inizio della Chiesa che dovrà avere il suo compimento nell’età futura, così sulla terra brilla ora innanzi al peregrinante popolo di Dio quale segno di sicura speranza e di consolazione, fino a quando non verrà il giorno del Signore (cfr. 2 Pt 3,10). (Lumen Gentium, 68).
In Maria, oggi e sempre, vogliamo porre la nostra sicura speranza e recuperare quella consolazione spirituale che ci ha mancato in tutti questi mesi. A lei ci affidiamo anche in questo giorno di festa intima, familiare e riservato, in cui ci ritroviamo a festeggiare la madre di tutti, la madre della Chiesa, la Madre di Dio e di Gesù, nostro salvatore e redentore.
Papa Benedetto XVI, il 15 agosto del 2012, in occasione della solennità dell’Assunta disse che ?per capire l’Assunzione dobbiamo guardare alla Pasqua, il grande Mistero della nostra Salvezza, che segna il passaggio di Gesù alla gloria del Padre attraverso la passione, la morte e la risurrezione. Maria, che ha generato il Figlio di Dio nella carne, è la creatura più inserita in questo mistero, redenta fin dal primo istante della sua vita, e associata in modo del tutto particolare alla passione e alla gloria del suo Figlio. L’Assunzione al Cielo di Maria è pertanto il mistero della Pasqua di Cristo pienamente realizzato in Lei. Ella è intimamente unita al suo Figlio risorto, vincitore del peccato e della morte, pienamente conformata a Lui?.
Sappiamo che il dogma dell’Assunzione fu solennemente proclamato da Papa Pio XII il 1º novembre 1950, portando a compimento un lungo cammino di riflessione in tutta la Chiesa e lungo i secoli, con la Costituzione dogmatica Munificentissimus Deus.
In essa è detto espressamente che «È dogma divinamente rivelato che Maria, Madre di Dio, immacolata e sempre Vergine, dopo il termine del corso terreno della sua vita, è stata assunta in corpo e anima nella gloria celeste».
I motivi per arrivare a tale decisione erano stati tantissimi, come si evidenzia nel testo della proclamazione del dogma.
Maria fu sempre unita al suo figlio Gesù mentre Questi viveva, redimeva il mondo e comunicava la Sua salvezza: sia nell’infanzia che nella vita pubblica la Vergine accompagna sempre Gesù, condividendo ogni cosa quanto alla gioia e al dolore, fino alla morte sulla croce.
Maria è stata associata nel suo corpo a Gesù anche nella gloria del cielo.
Nel corpo di Maria il Verbo aveva trovato il luogo privilegiato e incorrotto per la propria Incarnazione fra gli uomini; per questo grande privilegio è stato preservato dalla corruzione e dall’abbandono nella tomba. Il Cielo, luogo per eccellenza della divina maestà e della gloria ha dunque accolto anche Maria. Mentre però Gesù è asceso al cielo, in quanto Dio, Egli stesso, Maria, sua Madre, vi è stata portata.
Maria è la Madre del Signore (Lc 1,48), e Dio nel suo disegno salvifico le riserva un posto accanto al Figlio.
L’Assunzione di Maria Vergine esalta la grandezza dell’amore di Dio che dà a ciascuno il premio proporzionato alla misura dei meriti.
Quindi come ricorda il Vaticano II ?mentre la Chiesa ha già raggiunto nella beatissima Vergine quella perfezione, che la rende senza macchia e senza ruga (cfr. Ef 5,27), i fedeli del Cristo si sforzano ancora di crescere nella santità per la vittoria sul peccato; e per questo innalzano gli occhi a Maria, la quale rifulge come modello di virtù davanti a tutta la comunità degli eletti?.
Oggi quindi noi tutti devoti della Beata Vergine Maria assunta in cielo fissiamo il nostro sguardo su questa creatura unica ed eccezionale, che Dio ha riservata tutto per se nello splendore dell’anima, del corpo e della dignità di Madre e donna.
A lei dobbiamo attribuire un culto sincero ed una devozione autentica, come ci raccomanda il Concilio: ?Questo culto, quale sempre è esistito nella Chiesa sebbene del tutto singolare, differisce essenzialmente dal culto di adorazione reso al Verbo incarnato cosi come al Padre e allo Spirito Santo, ed è eminentemente adatto a promuoverlo. Infatti le varie forme di devozione verso la madre di Dio, che la Chiesa ha approvato, mantenendole entro i limiti di una dottrina sana e ortodossa e rispettando le circostanze di tempo e di luogo, il temperamento e il genio proprio dei fedeli, fanno si che, mentre è onorata la madre, il Figlio, al quale sono volte tutte le cose (cfr Col 1,15-16) e nel quale «piacque all’eterno Padre di far risiedere tutta la pienezza» (Col 1,19), sia debitamente conosciuto, amato, glorificato, e siano osservati i suoi comandamenti.
In questo giorno a noi particolarmente caro ci rivolgiamo alla Beata Vergine Maria con le stesse parole della sua cugina Elisabetta, nel mistero della visitazione, che accompagna la preghiera e la riflessione della Chiesa in questa solennità dell’Assunta 2020: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me? Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto». Rinnoviamo ogni giorno questo inno di lode a Maria con la preghiera più nota ed utilizzata per cantare le glorie della Madre di Dio. Ave Maria, piena di grazia. Tu sei benedetta e noi beneficiamo di questa benedizione, perché ci donato il Signore, con il tuo sì al progetto di Dio. In te contempliamo la bellezza assoluta di ogni creatura e in te riponiamo ogni nostra fiducia ora e sempre. Amen.

XIX DOMENICA TEMPO ORDINARIO (A) COMMENTO

XIX DOMENICA TEMPO ORDINARIO (A) COMMENTO

“Coraggio, Io sono, non abbiate paura!” -Enzo Bianchi

https://combonianum.org/2020/08/05/xix-domenica-tempo-ordinario-a-commento/

Nella XVIII domenica per annum abbiamo la lettura del racconto della moltiplicazione dei pani secondo Matteo (cf. Mt 14,13-21). Le folle, sapendo che Gesù è andato in disparte, in un luogo solitario, lo seguono dalle loro città e lo precedono sull’altra riva del lago di Genesaret. Scendendo dalla barca Gesù, sorpreso di vedere tante persone, è colto da viscerale compassione e, dopo aver donato “la parola del Regno” e aver guarito i malati, dona loro il pane condiviso, in modo che tutti siano saziati.
Subito dopo, rinviate le folle alle loro case, costringe i discepoli a salire sulla barca e a fare ritorno alla riva da cui erano partiti. Rimasto solo, sale sul monte, in disparte, a pregare, e venuta la sera è ancora là in preghiera solitaria. Secondo il quarto vangelo, dopo la moltiplicazione dei pani, quella gente in attesa di un liberatore politico che faccia regnare la giustizia e colmi tutti i poveri di cibo, vorrebbe proclamare Gesù Re Messia, ed è per questo che Gesù si ritira sul monte tutto solo (cf. Gv 6,14-15). Ecco dunque Gesù in solitudine e in preghiera, sulla montagna, luogo non abitato, dove trova silenzio e quiete, montagna che per la Bibbia è il luogo delle grandi rivelazioni di Dio. Sappiamo che Matteo presenta la montagna come luogo della tentazione di Gesù (cf. Mt 4,8-19), della proclamazione del discorso del Regno (cf. Mt 5-7), della trasfigurazione (cf. Mt 17,1-8), della missione consegnata ai discepoli dal Risorto (cf. Mt 28,16-20). Ma qui è luogo di solitudine e di preghiera.
Per noi umani la solitudine può essere buona o cattiva ma non possiamo dimenticare che essa è una dimensione essenziale della nostra vita, perché non è solo la verità più profonda che incontreremo nella morte ma resta una dimensione da cercare, da vivere per essere pienamente noi stessi nella libertà, per potere, in assenza di voci umane, ascoltare la voce di Dio che parla a ciascuno di noi nel cuore. Gesù nella solitudine è un’icona che dovremmo tenere più presente, proprio perché, nella sua umanità piena e assoluta, assunta nell’incarnazione, ha cercato nella solitudine la volontà del Padre, ha sentito e vissuto la propria vocazione messianica in un modo altro rispetto all’attesa dominante di un Messia potente e dominatore; ha lottato nella solitudine contro le tentazioni, vincendo Satana grazie all’unico sostegno della Parola di Dio, custodita, interpretata e pregata nel cuore. Nella solitudine Gesù si è preparato ad acconsentire alla logica della croce, al perdono dei suoi nemici, all’amare i suoi discepoli fino alla fine (cf. Gv 13,1). Ha vissuto almeno trent’anni di solitudine prima della sua missione pubblica, dunque la solitudine non è stata per lui luogo di assenza ma di presenza di Dio.
E la vera solitudine, per essere luogo di tale presenza, deve essere piena di preghiera. Ecco perché i vangeli testimoniano a più riprese che Gesù si ritirava in disparte per pregare. Ma cos’era la preghiera di Gesù? Innanzitutto ascolto di Dio, del padre, l’“Abba” (Mc 14,36), come egli lo invocava, educato dall’ascolto delle sante Scritture del suo popolo. Gesù le leggeva, le meditava, le interpretava, le pregava, le contemplava, operazione che per lui, come per ogni essere umano, avveniva nel cuore, organo centrale in cui ciascuno può discernere la voce di Dio: senza questo passaggio della parola di Dio nel cuore umano, la Parola stessa non raggiunge l’uomo, dunque non può essere efficace. In questa sosta sulla montagna, dopo il segno-miracolo della moltiplicazione dei pani e dopo aver ricevuto “l’applauso” dalle folle, Gesù ancora una volta ascolta il Padre e sceglie nuovamente di essere il Messia povero, debole, che accetta anche il fallimento umano della sua missione, il Messia preda delle sofferenze, del rigetto e della morte ignominiosa del maledetto sulla croce (cf. Gal 3,13). Questo è il Gesù che la chiesa e ciascuno di noi dobbiamo avere presente nel nostro vivere quotidiano, nella nostra lotta, nei nostri fallimenti, nelle nostre fragilità.
Ma ecco che improvvisamente il Gesù solitario e orante sulla montagna diventa il Gesù Signore sulle acque in tempesta. La barca dei discepoli, durante la traversata notturna del lago, si trova in mezzo alla tempesta, è sbattuta dalle onde a causa del forte vento contrario. Sembra una notte interminabile in cui i discepoli lottano contro i marosi, nel buio fitto e nella paura. Come non vedere in questa barca un’icona della comunità di Gesù, della chiesa? I padri della chiesa hanno sempre interpretato così questa barca lontana dalla riva e sbattuta dalle onde (apò tês ghês apeîchen basanizómenon hypò tôn kymáton). In ogni ora della storia la barca dei discepoli di Gesù incrocia venti contrari e tempeste: non può essere diversamente in questo mondo, dove contro i discepoli di Gesù si scatenano spesso opposizioni, inimicizie, persecuzioni. Qualcuno dice che quello attuale è un tempo in cui “la barca si è riempita di acqua fino quasi a capovolgersi”, ed è vero; ma io direi che sempre, oggi come ieri, finché la barca non approderà alle rive del regno di Dio, sarà così. Il vero problema non sta nella tempesta ma nella paura di quanti sono sulla barca, perché la paura è segno di poca fede nel Signore il quale, anche se non è sulla barca, è tuttavia il Signore della terra e del mare, di tutta la storia che, nelle sue mani, resta e resterà storia di salvezza.
Verso la fine della notte i discepoli sulla barca vedono qualcuno che cammina sulle acque venendo verso di loro; ma invece di cogliere in quella figura Gesù il Signore, pensano che sia un fantasma e hanno paura fino a gridare. Ma Gesù, stando sulle acque, li rassicura: “Coraggio, Io sono, non abbiate paura!”. Non è un fantasma che mette paura, ma è Gesù, Signore sugli abissi della morte, sui vortici e sui marosi della vita, che viene e chiede di sconfiggere la paura, di esercitare il coraggio e la fede, la fiducia, perché lui è “Io sono”. Ecco apparire sulle labbra di Gesù il Nome santo e glorioso di Dio rivelato a Mosè (cf. Es 3,14) e ripetuto dai profeti: “Io sono” (Egó eimi). Colui che sembra assente, in verità è presente più che mai, e la sua barca resta la sua barca, sia che lui non vi sia sopra, sia che si trovi su di essa e dorma appoggiato a un cuscino (cf. Mc 4,37; Mt 8,24). E sempre, quando Gesù ci viene incontro, prima che discerniamo pienamente la sua presenza, ci dice: “Coraggio, non temete!”.
Pietro, secondo Marco e Matteo il primo chiamato (cf. Mc 1,16; Mt 4,18), reagisce dicendo: “Signore (Kýrie), se sei tu, comandami di venire verso di te sulle acque”. Egli vorrebbe essere dotato dei poteri di Gesù, vorrebbe essere Signore delle acque, e allora quasi lo tenta: lo chiama Signore, con fede, ma cosa vuole provare? Gesù gli risponde: “Vieni!”, e Pietro scende dalla barca e cammina sulle acque verso di lui; ma non appena sente la potenza del vento, ha paura e comincia a sprofondare, gridando: “Signore, salvami!”. Ha provato, ma non è stato capace di rimanere in piedi sulle acque del mare di Galilea e, affondando, deve comprendere la propria debolezza, la propria incapacità di stare a galla, il che lo porta a invocare il Signore. Lo ripeto, Pietro comprende la propria fragilità e debolezza: quella di un “uomo di poca fede” – come Gesù lo definisce – che ha paura, che a volte tenta il Signore, ma che in ogni caso è riportato alla consapevolezza della propria miseria. È così che impara la verità di quell’esclamazione profondamente cristiana che sarà coniata da Bernardo di Clairvaux: “Optanda infirmitas!”, “O desiderabile, beata debolezza!” (Discorsi sul Cantico dei cantici 25,7).
Sì, Gesù accetta la debolezza della nostra fede e ci tende la mano ogni volta che noi cadiamo o sprofondiamo. Pietro conoscerà ancora questa esperienza, quando, dopo aver rinnegato Gesù, si sentirà nuovamente tendere da lui la mano, attraverso lo sguardo del Signore che si volta verso di lui (cf. Lc 22,61). “Kýrie eleíson!”, “Signore, abbi pietà di me!”, ecco la preghiera del cristiano sempre, preghiera che nel profondo del cuore deve essere presenza costante, pronta a diventare parole che si fanno invocazione, in ogni momento di consapevolezza della propria fragilità.
Poi Pietro e Gesù risalgono sulla barca e il vento cessa. Allora tutti gli altri si prostrano davanti a Gesù e confessano: “Davvero tu sei Figlio di Dio!”, mostrando di aver compreso la parola di Gesù (“Io sono”) e riconoscendo in lui il Signore, il Kýrios. Il cammino della chiesa, di ogni comunità cristiana, di ciascuno di noi, conosce e conoscerà contrarietà, ore di paura, sofferenze e fatiche. Chi pensa che Gesù Cristo sia un “fantasma”, un abbaglio, mostra di non avare la fede necessaria per dirsi ed essere suo discepolo e non riesce ad andare verso di lui, a raggiungerlo. Ma chi ha fede, a costo di camminare su acque in tempesta – metafora efficacissima –, riesce a stare dietro a Gesù, a incontrarlo come il Signore che gli dice: “Non avere paura, Io sono!”

XVIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A) (02/08/2020)

https://www.qumran2.net/parolenuove/commenti.php?mostra_id=50012

XVIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A) (02/08/2020)

Condividere e benedire
don Alberto Brignoli

Fare l’elemosina o un’azione caritativa non è mai stato facile, ancora meno lo è ai nostri tempi. Non si sa mai se sia giusto dare o meno, se sia meglio dare soldi oppure beni materiali (cibo, vestiti e quant’altro), se le persone siano da aiutare in maniera incondizionata oppure vadano valutate per le loro reali necessità, se tocca a noi aiutare chi è nella necessità o se sia meglio affidarli a chi ha competenze e risorse maggiori delle nostre, eccetera. Spesso, le domande che ci facciamo al riguardo sono talmente numerose e talmente complesse che, alla fine, perdiamo del tempo prezioso per fare il bene, soprattutto quando si tratta di un’emergenza. Per contro, se facciamo le cose senza ponderarle e senza pensarci, rischiamo a volte di fare danni peggiori rispetto al bene che vorremmo fare. La carità, insomma, va pensata, e va pensata bene: ma senza trascurare la sua essenza, quella di elemosina, di “compassione” e quindi della necessità di un dono gratuito.
Carità ponderata e carità elemosinata: è un dilemma che ci accompagna da sempre, forse – per noi cristiani – da quella sera in cui Gesù, scendendo dalla barca per andare in un luogo solitario a pregare, vide una gran folla, soprattutto di malati, e ne ebbe compassione. Come i discepoli, del resto, compassionati da una folla che, sul far della sera, si trovava ancora nel deserto e non aveva possibilità di mangiare qualcosa se non tornando nei villaggi vicini: molto intelligentemente, i discepoli avevano già individuato una soluzione a una situazione emergenziale di fame e di penuria, ovvero avvicinare la gente ai centri abitati. La carità dei discepoli era una carità pensata, programmata, previdente. La carità di Gesù, invece, era immediata, compassionevole, incondizionata, senza troppe teorie: “Non occorre che vadano: voi stessi date loro da mangiare”. Se volessimo attualizzare queste parole, potremmo dire: “Non c’è bisogno che vadano alla mensa della Caritas o al refettorio popolare: provvedete voi alle loro necessità”. Come poi vada a finire, lo sappiamo bene: ma quello che a noi importa non è il miracolo compiuto da Gesù (che, non c’è ombra di dubbio, avrebbe potuto benissimo fare a meno del misero contributo dei discepoli), bensì il modo con cui lo ha compiuto e con il quale ha voluto far capire ai discepoli, e a noi, cosa significhi essere solleciti verso le necessità dei fratelli, cosa significhi, in fondo, fare la carità, fare del bene a chi ha bisogno.
Che cosa significa, allora, fare la carità? Che cosa significa dare e fare del bene a chi si trova nel bisogno?
Significa, innanzi, avere gli stessi sentimenti del Maestro, che, sceso dalla barca, alla vista della grande folla, “sentì compassione per loro”: e questo, nel momento in cui stava recandosi in un luogo solitario a pregare. Quante volte anche noi, giustamente e doverosamente, vogliamo ritagliarci degli spazi di riposo, di intimità, di isolamento dal mondo nei quali non vogliamo vedere e sentire parlare di nessuno, men che meno di problemi e di necessità: eppure, anche lì, non possiamo esimerci dal chiudere gli occhi di fronte a una situazione di miseria, la quale assume un’importanza enorme, unica, rispetto a qualsiasi nostro desiderio di solitudine e di isolamento dal mondo
Fare del bene a chi ha bisogno significa, poi, evitare di prendere decisioni affrettate, immediate, anche se a volte sembrano ragionevoli, perché spesso possono nascondere un’insidia, così come è stato per i discepoli: l’insidia di risolvere le cose “delegando” la carità agli altri, a chi è competente, a chi sa come si fanno le cose, alle strutture adatte, nascondendo noi stessi dietro le nostre responsabilità, dicendo – come fecero i discepoli – che “ormai è tardi”, che “non abbiamo qui nulla”, che quello che possiamo fare noi è poco, quindi è inutile farlo. E soprattutto, l’insidia della soluzione più facile e più immediata: quella del denaro, quella di fare in modo che la folla vada a “comprarsi da mangiare”, perché in fondo, si sa, dove ci sono i soldi si può comprare tutto, mercanteggiare tutto…spesso anche la carità stessa…
Ma Gesù non mercanteggia, e non ragiona con la logica del “comprare”, bensì con la logica del “condividere”. Poco o tanto che esso sia, “condividere” ciò che abbiamo può fare molto, può fare la differenza. Con i soldi, la folla non si sarebbe potuta sfamare: perché ci siano negozi sufficienti per cinquemila uomini (senza contare donne e bambini) non basterebbero certo i villaggi di una zona desertica della Galilea. Quindi, come spesso accade, quando si ragiona con la logica del denaro, quella sera avrebbe mangiato solo “qualcuno” e, ovviamente, “qualcuno” che il denaro ce l’aveva e che, avidamente, avrebbe comprato tutto quello che poteva, perché abituato a negoziare, a fare “negozio”.
La carità, invece, non ragiona con la logica del “negoziare”, bensì – come dicevamo – del “condividere”, poco o tanto che esso sia: quando un bene è condiviso, la carità fa miracoli, e li fa in maniera abbondante, in proporzioni spaventose e inimmaginabili (uno a mille, ci dice il Vangelo, un pane per mille persone, un pane solo per l’eternità…come Cristo Pane del Cielo).
E non è una carità fatta “in qualche modo”: è una carità fatta bene, in abbondanza (ne avanza anche per un’altra situazione di necessità) e soprattutto fatta con dignità, con la gente invitata a mangiare “seduta sull’erba”, cosa che a noi pare normale o addirittura dettata dall’emergenza, ma che per l’ebreo viaggiatore e pellegrino (abituato a mangiare in piedi) era una cosa inconsueta, riservata solo ai signori, che non mangiavano se non sdraiati, ben comodi. Una carità ben fatta ha bisogno di questo: di un pane “dato”, e non “gettato” a qualche modo; di un pane “consegnato” perché condiviso, e non “preso” perché comprato.
Fare la carità, per chi segue il Maestro, significa, in definitiva, avere compassione, condividere, spezzare per moltiplicare, donare dignità insieme con il pane; e, soprattutto, “recitare la benedizione”, benedire il pane, dire bene di quel poco che abbiamo.
Perché quando il poco che hai sei capace di benedirlo, stai pur certo che non avrai mai necessità di nulla. Per te, e per il mondo intero.

 

XVII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (A) COMMENTO

https://combonianum.org/2020/07/21/prepararsi-alla-domenica-17/

XVII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (A) COMMENTO

IL TESORO DI GESÙ CRISTO E DEL REGNO – ENZO BIANCHI

Il vangelo di questa domenica ci presenta le ultime parabole raccolte da Matteo nel capitolo tredicesimo, detto appunto “discorso parabolico”. Come nelle precedenti parabole, Gesù non fa ricorso a idee astratte ma consegna delle immagini, affinché gli ascoltatori accolgano facilmente la parola, la conservino nel cuore e, ricordandola, la attualizzino nel loro quotidiano. Queste immagini mirano ancora una volta a far comprendere la dinamica del regno dei cieli, il modo in cui Dio può regnare ed effettivamente regna in quanti sono capaci di ritornare a lui, di convertirsi e di aderire alla buona notizia portata da Gesù Cristo.

Delle tre parabole odierne le prime due sono inseparabili, mentre la terza, a livello tematico, sembra una ripresa della parabola del buon grano e della zizzania (cf. Mt 13,24-30.36-43). Gesù dice innanzitutto: “Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo”. C’è un tesoro nascosto, dunque a lungo ignorato e sotterrato in un campo, certamente per proteggerlo da eventuali rapine: se però è stato nascosto, è per essere ritrovato al tempo opportuno. Il contadino che possiede quel campo disseppellisce il tesoro e, colto da grande stupore, agisce come un uomo accorto: subito nasconde nuovamente il tesoro, poi mette in vendita tutto ciò che possiede, valutato molto poco rispetto al tesoro scoperto. Con il denaro ricavato può dunque comprare quel campo, così da diventare proprietario anche di quel tesoro preziosissimo.
La parabola è semplice, comprensibilissima, perché “l’altra cosa” significata dal tesoro è proprio il regno dei cieli, l’unica realtà che giustifica la vendita di tutto ciò che si ha per poter prendere parte ad esso, come Gesù afferma più avanti, rivolto a un giovane ricco: “Va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo. Poi vieni, seguimi!” (Mt 19,21). Allo stesso modo, qui Gesù rivela all’ascoltatore di allora, così come a noi oggi, che il regno di Dio è il tesoro che non ha prezzo e proprio per questo al fine di acquisirlo occorre spogliarsi di tutti gli averi, le ricchezze, le proprietà. Se infatti queste sono una presenza nella vita dell’essere umano e regnano su di lui, impediscono proprio a Dio di regnare (cf. Mt 6,24: “Non potete servire Dio e Mammona, l’idolo della ricchezza!”).
D’altronde, già nel discorso della montagna Gesù aveva avvertito con chiarezza: “Non accumulate tesori sulla terra, dove tarma e ruggine consumano e dove ladri scassìnano e rubano; accumulate invece per voi tesori in cielo, dove né tarma né ruggine consumano e dove ladri non scassìnano e non rubano. Perché, dov’è il tuo tesoro, là è anche il tuo cuore” (Mt 6,19-21). Chi vuole seguire Gesù e prendere parte al Regno veniente, deve spogliarsi di tutto ciò che ha, di ciò che nella vita umana è assicurazione e garanzia. Questo lo si può fare se si comprende il mistero del regno dei cieli affidato proprio ai discepoli (cf. Mt 13,11) e se si resta consapevoli di portare questo tesoro in vasi di creta, mostrando così che esso viene da Dio e non da noi stessi (cf. 2Cor 4,7).
Qualcosa di analogo accade anche a un mercante, che nell’esercizio del suo mestiere un giorno scopre una perla di grandissimo valore. Da mercante qual è, si esercita anche alla ricerca di perle preziose, ma pure lui è sorpreso e stupito quando trova questa perla unica. Come fare per possederla? Vende tutti i suoi averi e la compra, perché ai suoi occhi essa ha un valore inestimabile: vale la pane vendere tutto, sacrificare tutto per questa realtà scoperta e valutata come incomparabile. Entrambe le parabole hanno come veri protagonisti gli oggetti, il tesoro e la perla, che si impadroniscono dei due uomini, li afferrano e causano le loro azioni. Nello stesso tempo, per l’appunto, entrambe mettono l’accento sulle azioni, cioè sulla risposta umana di fronte al dono incommensurabile del regno dei cieli.
Sì, siamo di fronte al radicalismo evangelico di Gesù, che ci chiede di spogliarci per accogliere il Regno. E si faccia attenzione: non si tratta di spogliarsi solo all’inizio della sequela, una volta per tutte, ma di rinnovare ogni giorno questa rinuncia, in situazioni diverse e in diverse tappe della vita. Durante il cammino della vita, infatti, anche se all’inizio ci siamo spogliati di ciò che avevamo, riceviamo ancora tante cose e ne acquistiamo di altre. Quella dell’avere, la libido possidendi, è una minaccia che sempre si oppone alla signoria del regno di Dio sulla nostra vita. Per questo con molta sapienza un padre del deserto, abba Pambo, ammoniva: “Dobbiamo esercitarci a spogliarci di ciò che abbiamo fino alla morte, quando ci sarà chiesto di dire ‘amen’ allo spogliarci della nostra stessa vita”.
Questa esigenza radicale ci fa paura, forse oggi più che mai, immersi come siamo nella società del benessere; ma se comprendiamo il dono del Regno, la gioia della buona notizia che è il Vangelo, allora diventa possibile viverla, proprio in virtù della grazia che ci attira e ci fa compiere ciò che non vorremmo e non saremmo capaci di realizzare con le sole nostre forze. Allora potremo dire, insieme all’Apostolo Paolo: “A causa di Cristo … ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura, al fine di guadagnare Cristo e di essere trovato in lui” (Fil 3,7-9). E tutto questo – non va dimenticato – può essere compiuto solo animati dalla gioia, quella di cui Gesù ci parla esplicitamente a proposito del contadino. Chi segue Gesù, dunque, non dice: “Ho lasciato”, ma: “Ho trovato un tesoro”; e non umilia nessuno, non si sente migliore degli altri, ma è semplicemente nella gioia per aver trovato il tesoro. In ultima analisi, infatti, la misura dell’essere discepolo di Gesù è l’appartenenza a lui, non il distacco dalle cose (che se mai ne è una conseguenza): una vera sequela si fa spinti dalla gioia!
La terza parabola narra di “una rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere di pesci. Quando è piena, i pescatori la tirano a riva, si mettono a sedere, raccolgono i pesci buoni nei canestri e buttano via i cattivi. Così”, spiega Gesù, “sarà alla fine del mondo. Verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti”. C’è un tempo per pescare e un tempo per valutare le diverse qualità di pesci finiti nella rete. Vi sono pesci buoni e pesci cattivi, come nella comunità cristiana, composta di uomini e donne “pescati” attraverso l’annuncio del Vangelo (cf. Mt 4,19) e riuniti in una comunità che non può essere soltanto di puri e giusti. Ma verrà il giorno del giudizio, e allora vi sarà il discernimento: sarà l’ora della separazione tra quelli che parteciperanno in pienezza al Regno e quelli che, avendo scelto la morte, la gusteranno…
Questa immagine ci spaventa e non vorremmo trovarla tra le parole di Gesù: facciamo fatica a pensarla come Vangelo, come buona notizia. Ma mediante quest’ultima parabola Gesù vuole darci un avvertimento: egli non destina nessuno alla morte eterna, ma mette in guardia, perché sa che il giudizio dovrà esserci. Sarà nella misericordia ma ci sarà, come confessiamo nel Credo: “Il Signore Gesù Cristo … verrà nella gloria per giudicare i vivi e i morti, e il suo Regno non avrà fine”. D’altronde, rifiutare il dono del Regno non può equivalere ad accoglierlo: è dono, è grazia, è amore!A conclusione del lungo discorso, Matteo registra un dialogo tra Gesù e i suoi discepoli:
Avete compreso tutte queste cose?
Gli risposero: “Sì”.
Ed egli disse loro: “Per questo ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche”.
Chi comprende queste parabole di Gesù è come uno scriba che, diventato discepolo di Gesù, possiede un grande tesoro: il tesoro della sapienza (cf. Sap 8,17-18; Pr 2,1-6), tesoro inestimabile e inesauribile (cf. Sap 7,14). Se un discepolo è consapevole di questo tesoro, per dono di Dio può estrarre da esso cose nuove e cose antiche, perché riconosce in ogni parola dell’Antico e del Nuovo Testamento “Gesù Cristo, Sapienza di Dio” (1Cor 1,24). “In Cristo”, infatti, “sono nascosti tutti i tesori della sapienza di Dio” (Col 2,3). Si tratta semplicemente di ribadire questo, di esserne convinti, di non stancarsi di attingere a questo tesoro giorno dopo giorno. È infatti al tesoro di Gesù Cristo, al tesoro che è Gesù Cristo, che ci riconduce ogni nostra ricerca: più passa il tempo, più ci rendiamo conto che è sempre a lui che ritorniamo per confrontare i nostri piccoli passi nell’acquisizione della sapienza. È lui la sua parola, il suo sentire, il suo vivere in noi che potenzia ogni nostro cammino. È lui che sempre di nuovo dice al nostro cuore: “Va’ al largo (cf. Lc 5,4), non stancarti di cercare (cf. Mt 7,7), apri i tuoi orizzonti, perché io sono sempre con te (cf. Mt 28,20)!”.

 

XVI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (A) COMMENTO

https://combonianum.org/2020/07/14/prepararsi-alla-domenica-16/

XVI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (A) COMMENTO

Il discepolo e l’incompiuto
Parabola del grano e la zizzania

Portiamo tutti nel nostro cuore il desiderio recondito di un tempo e di un luogo in cui fiorisca soltanto del buon grano, un tempo e un luogo in cui, finalmente, cessi quella strana mescolanza di bene e di male che è la nostra vita.
Se solo potessimo ritornare a un agognato paradiso terrestre… che nel nostro immaginario suona come il tempo e il luogo in cui non c’erano inconvenienti e magagne di ogni genere. Lo desideriamo a livello sociale, in ambito ecclesiale, lo desideriamo sul piano relazionale e – perché no? – anche su quello più strettamente personale. E, invece, è come se giorno dopo giorno vedessimo svanire ogni prospettiva di miglioramento e quei brevi tentativi di tregua che talvolta abbiamo assaporato, sfumano come una bolla di sapone.
Perché tutto deve essere così complicato e difficile quando – a nostro dire – le nostre intenzioni attingono alla migliore rettitudine? Che cos’è quel mio continuo sbagliare quando con onestà mi sembra di voler realizzare il meglio per me e per chi mi sta attorno? Come giustificare quella continua incoerenza nella quale cado ogni volta di nuovo senza neppure accorgermene? E perché quella malignità che traspare anche nelle buone intenzioni o quelle distorsioni interpretative che non poche volte finiscono per accendere conflitti relazionali che altrimenti non conosceremmo? Perché sono fatto così male? Ci sarà mai un tempo in cui vedere trionfare il bene sul male?
Come stare di fronte all’incompiuto? È a questa domanda che risponde la pagina della parabola del grano e della zizzania.
Come stare di fronte all’incompiuto? Così come fa Dio: con pazienza. La pazienza, infatti, è la capacità di vivere l’incompiuto nella fiducia che si tratta di un non-ancora-compiuto, è la disponibilità a rispettare e attendere i tempi dell’altro. La pazienza è un frutto di quella fede che è capace di rimettersi completamente nelle mani di Dio e perciò riconosce che non spetta a noi decidere tempi e modi.Non poche volte ci scopriamo abitati da uno zelo non equilibrato che indica un rapporto malsano con il tempo: il tempo che ci è donato, infatti, è segno dell’amore di Dio e perciò va vissuto come occasione per esercitare la sua stessa misericordia nei rapporti con gli uomini.
Corriamo tutti il rischio di stare di fronte alla realtà in modo superficiale e sbrigativo, proprio come pretenderebbero i servi della parabola: quanta fretta nel giudicare le scelte altrui, quanta fretta nel vagliare il loro operato, quanta fretta nel decidere cosa accettare e cosa rifiutare, quanta fretta nell’eliminare tutto ciò che non corrisponde alle nostre aspettative!
Che cosa c’è alle radici della mia fretta? Essa, infatti, non è per nulla una dimostrazione di forza: è piuttosto indice di un nostro malessere personale. L’impazienza finisce per allearsi ben presto con l’insipienza di chi sradica tutto. Siamo convinti di conquistare l’onnipotenza mediante delle prove di forza: ma questa è soltanto un’illusione. Troppi nostri metodi sommari finiscono per diventare eccessivamente determinati e per nulla riguardosi. Non poca nostra irruenza, infatti, finisce per celare mali segreti che continuiamo a portarci dentro senza volerli riconoscere.
C’è un nemico dentro e fuori di noi che può essere vinto non già con un odio più intenso bensì con un amore più grande. È necessario, perciò, guardare all’atteggiamento del Padre il quale non ha fretta perché è consapevole che il grano, malgrado tutto, può crescere comunque rigoglioso.
Dio manifesta la sua forza attraverso l’esercizio della pazienza: è la moderazione la prova della sua onnipotenza, consapevole che non c’è peccato che possa tagliare irrimediabilmente i ponti con la misericordia di Dio. La zizzania può diventare buon grano: questo crede Dio e per questo sa attendere. L’Incarnazione del Figlio di Dio non ha provocato come per incanto la trasformazione del mondo. Gesù ha vinto il male proprio riconoscendolo, assumendolo e attraversandolo.

Antonio Savone
http://acasadicornelio.wordpress.com

XV DOMENICA TEMPO ORDINARIO (A) COMMENTO

https://combonianum.org/2020/07/07/xv-domenica-tempo-ordinario-a-commento/

XV DOMENICA TEMPO ORDINARIO (A) COMMENTO

“Il seminatore uscì a seminare…”
Enzo Bianchi

L’ordo liturgico ci fa ascoltare per tre domeniche alcune parabole raccolte in Matteo 13, il terzo lungo discorso di Gesù in questo vangelo, detto appunto “discorso parabolico”. Il tempo dell’ascolto entusiasta di Gesù da parte delle folle sembra esaurito e ormai si è palesata l’ostilità dei capi religiosi giudaici, che sono giunti alla decisione di “farlo fuori” (cf. Mt 12,14).
Sì, è accaduto così e accade così anche oggi nei confronti di chi predica e annuncia veramente il Vangelo. E noi possiamo essere non solo perplessi, ma a volte sgomenti: ogni domenica nella nostra terra d’Italia più di dieci milioni di uomini e donne che credono, o dicono di credere, in Gesù Cristo si radunano nelle chiese per ascoltare la parola di Dio e diventare eucaristicamente un solo corpo in Cristo. Eppure constatiamo che a questa partecipazione alla liturgia non consegue un mutamento: non accade qualcosa che manifesti il regno di Dio veniente. Perché succede questo? La parola di Dio è inefficace? Chi la predica, predica in realtà parole sue? E chi ascolta, ascolta veramente e accoglie la parola di Dio? E chi l’accoglie, è poi conseguente, fino a realizzarla nella propria vita?
Quando Matteo scrive questa pagina che presenta Gesù sulla barca intento ad annunciare le parabole, interrogativi simili risuonano anche nella sua comunità cristiana. I cristiani, infatti, sanno che la parola di Dio è dabar, è evento che si realizza; sanno che, uscita da Dio, produce sempre il suo effetto (cf. Is 55,10-11): e allora perché tanta Parola predicata, a fronte di un risultato così scarso? Ma le parabole di Gesù, racconti che vogliono rivelare un senso nascosto, ci possono illuminare. Gesù fa ricorso alla realtà, al mondo contadino di Galilea, a ciò che ha visto, contemplato e pensato, perché si dava del tempo per osservare e trovare ispirazione per le sue parole, che raggiungevano non gli intellettuali, ma gente semplice, disposta ad ascoltare. Avendo visto più volte il lavoro dei contadini, così Gesù inizia a raccontare, con parole molto note, che per questo vanno ascoltate con ancor più attenzione:
Ecco, il seminatore uscì a seminare. Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada; vennero gli uccelli e la mangiarono. Un’altra parte cadde sul terreno sassoso, dove non c’era molta terra; germogliò subito, perché il terreno non era profondo, ma quando spuntò il sole, fu bruciata e, non avendo radici, seccò. Un’altra parte cadde sui rovi, e i rovi crebbero e la soffocarono. Un’altra parte cadde sul terreno buono e diede frutto: il cento, il sessanta, il trenta per uno. Chi ha orecchi, ascolti!
In questa parabola stupisce la quantità di seme gettato dal seminatore, e chi non sa che in Palestina prima si seminava e poi si arava per seppellire il seme, potrebbe pensare a un contadino sbadato… Invece il seme è abbondante perché abbondante è la parola di Dio, che deve essere seminata, gettata come un seme, senza parsimonia. Ma il predicatore che la annuncia sa che ci sono innanzitutto ascoltatori i quali la sentono risuonare ma in verità non l’ascoltano. Superficiali, senza grande interesse né passione per la Parola, la sentono ma non le fanno spazio nel loro cuore, e così essa è subito sottratta, portata via. Ci sono poi ascoltatori che hanno un cuore capace di accogliere la Parola, possono addirittura entusiasmarsi per essa, ma non hanno vita interiore, il loro cuore non è profondo, non offre condizioni per farla crescere, e allora quella predicazione appare sterile: qualcosa germoglia per un po’ ma, non nutrito, subito si secca e muore. Altri ascoltatori avrebbero tutte le possibilità di essere fecondi; accolgono la Parola, la custodiscono, sentono che ferisce il loro cuore, ma hanno nel cuore altre presenze potenti, dominanti: la ricchezza, il successo e il potere. Questi sono gli idoli che sempre si affacciano, con volti nuovi e diversi, nel cuore del credente. Queste presenze non lasciano posto alla presenza della Parola, che viene contrastata e dunque muore per mancanza di spazio. Ma c’è anche qualcuno che accoglie la Parola, la pensa, la interpreta, la medita, la prega e la realizza nella propria vita. Certo, il risultato di una semina così abbondante può sembrare deludente: tanto seme, tanto lavoro, piccolo il risultato… Ma la piccolezza non va temuta: ciò che conta è che il frutto venga generato!
Questi racconti in parabole non erano comuni tra i rabbini del tempo di Gesù, e anche per questo i discepoli gli chiedono conto del suo stile particolare nell’annunciare il Regno che viene. Gesù risponde loro con parole che ci stupiscono, ci intrigano e ci chiedono grande responsabilità: “A voi è stata consegnata la conoscenza dei misteri del regno dei cieli”. Nel passo parallelo di Marco, a cui Matteo si ispira, queste parole di Gesù sono ancora più forti: “A voi è stato consegnato il mistero del regno di Dio” (Mc 4,11). Sì, proprio ai poveri discepoli è stato affidato e consegnato, da Dio (passivo divino), ciò che riguarda il suo regno. Per dono di Dio essi hanno accesso a una conoscenza che li rende capaci di vedere il velo alzato sul mistero, su ciò che era stato nascosto per essere svelato. Non è un privilegio per i discepoli, ma una grande responsabilità: a loro è stata data la conoscenza di come Dio agisce nella storia di salvezza!
Ecco però, subito dopo, l’annuncio di una contrapposizione: vi sono invece altri che vedendo non vedono, udendo non ascoltano e non comprendono, restando chiusi nella loro autosufficienza, nella loro autoreferenzialità religiosa. E si badi bene ai semitismi di queste parole di Gesù, ispirate al profeta Isaia (cf. Is 6,9-10): esse non vogliono indicare arbitrio da parte di Dio, il quale consegnerebbe il Regno ad alcuni e lo negherebbe ad altri. Si deve invece comprendere che chi è destinatario della parola predicata da Dio e non l’ascolta, ma la lascia cadere, non resta nella situazione di partenza. La “parola di Dio”, sempre “viva ed efficace” (Eb 4,12), quando è accolta, salva, guarisce e vivifica; al contrario, quando è rifiutata, causa la malattia della sclerocardia, della durezza del cuore, che diventa sempre più insensibile alla Parola, sempre più incapace di sentirsi toccato e ferita da essa. È così, ma non per volontà di Dio, bensì per il rifiuto da parte dell’essere umano: gli viene offerta la vita, ma non la accoglie, e di conseguenza va verso la morte…
Sovente il popolo di Israele, ma anche il popolo dei discepoli di Gesù, ha un cuore indurito, ha orecchi chiusi, ha occhi accecati, e così non solo non comprende ma neppure discerne la parola del Signore e non fa nessun tentativo di conversione, di ritorno a Dio, il quale sempre ci attende per guarire i nostri orecchi e i nostri occhi. Basterebbe riconoscere e affermare: “Siamo ciechi, siamo sordi, parlaci Signore!”. Eppure quella dei giorni terreni di Gesù era “un’ora favorevole” (2Cor 6,2), l’ora della visita di Dio (cf. Lc 19,44), l’ora della misericordia del Signore (cf. Lc 4,19). Perciò Gesù dice ai discepoli che lo circondano: “Beati i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché ascoltano. In verità io vi dico: molti profeti e molti giusti dell’antica alleanza hanno desiderato di essere presenti nei giorni del Messia, hanno sognato di vederlo in azione e di ascoltare le sue parole, ma a loro non è stato possibile. Voi invece, voi che ho chiamato e che mi avete seguito, avete potuto vedere con i vostri occhi e ascoltare con i vostri orecchi”. Addirittura il discepolo amato potrà aggiungere, con audacia: “Avete potuto palpare con le vostre mani la Parola della vita” (cf. 1Gv 1,1). Non un’idea, non un’ideologia, non una dottrina, non un’etica, ma un uomo, Gesù di Nazaret, il Figlio di Dio, venuto da Dio! “Voi lo avete incontrato e ne avete fatto esperienza con i vostri sensi. Sì, beati voi!”.
Dunque, a noi che ogni domenica ascoltiamo la Parola e accogliamo la sua semina nel nostro cuore, non resta che vigilare e stare attenti: la Parola viene a noi e noi dobbiamo anzitutto interiorizzarla, custodirla, meditarla e lasciarci da lei ispirare; dobbiamo perseverare in questo ascolto e in questa custodia nel nostro cuore; dobbiamo infine predisporci alla lotta spirituale per custodirla, farle spazio, difenderla da quelle presenze che ce la vorrebbero rubare. In breve, basta avere fede in essa: la Parola, “il Vangelo è potenza di Dio” (Rm 1,16).

OMELIA XIV DOMENICA DEL T.O.

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/49623.html

OMELIA XIV DOMENICA DEL T.O.
don Luca Garbinetto
Il Vangelo è dei piccoli

Gli anawin, nell’Antico Testamento, erano i poveri d’Israele che vivevano in atteggiamento di totale fiducia e abbandono verso il Signore, desiderosi di essere fedeli agli insegnamenti e ai precetti della Legge. Consapevoli della propria debolezza, a volte scoprendo a proprie spese il peso della vita, sceglievano di abbassare la fronte per riconoscere l’assoluta Maestà di Dio. Erano gli umili, senza pretese né abilità particolari da rivendicare o esporre dal punto di vista della Legge, eppure totalmente consegnati al Signore della Legge. A volte inevitabilmente impuri, eppure fortemente radicati nella Parola.
Al loro stile fa riferimento Gesù, che esulta di gioia nel riconoscere la presenza del Padre dentro i cuori dei piccoli. Gode della loro presenza, il Maestro, scegliendoli come propri compagni di strada e discepoli. E ne manifesta l’identità più intima, proponendo se stesso come modello. La via della piccolezza, riconosciuta e consegnata, infatti, è la via della gioia. Solo il povero si può riconoscere figlio.
Ecco perché Gesù ha scelto la follia della kenosis, dell’abbassamento. Dio si è mostrato debole non per porre una parentesi nella sua esistenza onnipotente, ma per svelare il segreto dell’onnipotenza: la relazione, la fiducia, l’affidamento. Il legame intimo tra Padre e Figlio, possibile solamente perché l’uno ha bisogno dell’altro per essere se stesso, diviene paradigma, ma anche ambiente vitale per gli uomini religiosi – ?religo’ significa ?legare’ – che accolgono la bellezza di un vincolo liberatore.
Nel linguaggio biblico, il giogo fa riferimento alla Legge. Nei campi, si tratta di un attrezzo necessario affinché i buoi possano essere orientati da chi guida verso il giusto sentiero e compiere adeguatamente la loro missione, scavando solchi affinché venga innestata la vita. Una dinamica di necessità e dipendenza, ma anche di servizio e di fecondità. Gli Ebrei cercavano di sottostare al giogo della Legge per essere felici, cioè graditi a Dio.
Ma ?i dotti e i sapienti’ a un certo punto tendono sempre a presumere di saperne di più della guida, a voler gestire da soli lo strumento: fuor di metafora, a imporre e a imporsi norme e criteri insopportabili pur di guadagnarsi il merito di imbastire il giogo migliore. Rinunciando però a portarlo, troppo carico di orpelli intollerabili; e scaricandolo sulle spalle dei più piccoli, di chi non ha ragioni e forze per scrollarsi di dosso l’inutile.
Gesù allora non evita il giogo, non lo toglie. Lo trasforma. Consegna il suo. Il giogo è attrezzo sempre a doppio posto; proponendo di prendere il suo giogo su di noi, Gesù implicitamente promette e rassicura: dall’altra parte c’è Lui, a portare la sua parte. E dietro, a guidare il cammino, c’è il Padre, l’Agricoltore, Colui che conosce bene non solo il campo da lavorare e la linea da seguire, ma soprattutto i figli che lo aiutano nel lavoro.
Il ristoro proveniente dal Figlio, allora, non è l’oziosa paralisi di chi, riconoscendosi inadeguato, viene posto al lato del sentiero della vita. È invece l’avventura entusiasmante del percorso da intraprendere insieme, è l’invito a fare strada, alzandosi in piedi anche se la fatica è tanta, è l’entusiasmo di avviarsi insieme su per il sentiero, pur in salita, ma con una prospettiva di vita.
Così il peso diventa leggero. Perché ci sente degni di camminare e di portarlo. Si porta in due, si hanno le spalle coperte, si prospetta un orizzonte, uno scopo, un valore che ha il sapore di frutti da raccogliere. Mistero grande, rivelato a coloro che rinunciano a saperne più del contadino e, alla scuola del Figlio, raccolgono l’eredità di essere anch’essi figli. Una fragilità, infatti, una debolezza pesa più di un macigno se è portata da soli, se non vi è un legame a farci da contrappeso.
La benevolenza del Padre, la sua infinita prodigalità, ha voluto trasformare l’indigenza in opportunità di affidamento. E così, schierato tra i miti, identificato con gli anawin, Gesù coinvolge e raccoglie, quasi come una chioccia i suoi pulcini, l’interminabile schiera degli scartati, schiacciati dal giudizio dei legislatori – anziché rinnovati dalla freschezza della Legge. E avviene in questo modo il miracolo della Chiesa, comunità dei discepoli, carovana di piccoli che hanno teso la mano e, lasciandosi sollevare dalla dolce fermezza del Fratello, hanno intrapreso con Lui la paziente opera di aratura e seminagione nel campo del mondo.
Perché i poveri evangelizzeranno la terra.

prendere la croce di Gesù

it

123456...100

PUERI CANTORES SACRE' ... |
FIER D'ÊTRE CHRETIEN EN 2010 |
Annonce des évènements à ve... |
Unblog.fr | Annuaire | Signaler un abus | Vie et Bible
| Free Life
| elmuslima31