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II DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – CHE COSA CERCATE? – ENZO BIANCHI

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II DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – CHE COSA CERCATE? – ENZO BIANCHI

Ecco la dinamica del nostro incontro con il Signore: cercare, seguire, dimorare. Queste sono anche le attitudini essenziali per conoscere e vivere l’amore. L’amore è cercato dal desiderio, deve essere seguito su cammini a volte faticosi e pieni di contraddizioni, ma, se lo si segue, alla fine lo si conosce e in esso si resta, si dimora.
Dopo il solenne prologo (cf. Gv 1,1-18), il quarto vangelo inizia il suo racconto presentando la settimana inaugurale della vita pubblica di Gesù (cf. Gv 1,19-2,12), quei giorni nei quali Gesù ha incominciato ad apparire come un rabbi predicatore. In quel momento, a circa trent’anni, Gesù era un discepolo del profeta Giovanni il Battista e viveva con lui e altri discepoli nei territori intorno al Giordano, là dove il fiume sfocia nel mar Morto.
Ebbene, cosa accade? C’è un primo giorno in cui una delegazione di sacerdoti viene da Gerusalemme nel deserto per interrogare Giovanni sulla sua identità (cf. Gv 1,19-28); segue un secondo giorno (cf. Gv 1,29-34) in cui il Battista indica il suo discepolo come “Servo” oppure “Agnello di Dio” (l’aramaico talja’ può rivestire entrambi questi significati). Il terzo giorno – quello narrato dal brano evangelico odierno – Giovanni indica Gesù a due suoi discepoli, Andrea e il discepolo amato, invitandoli a seguirlo. Il quarto giorno è Gesù stesso a chiamare dietro a sé altri due discepoli, Filippo e Natanaele (cf. Gv 1,43-51).
Ormai dunque Gesù ha una comunità, come uno sposo ha una sposa, e inizia una vicenda di comunione di vita e di azione. Gesù “ha trovato casa”, nel senso che “ha famiglia”, e per questo “tre giorni dopo” (Gv 2,1), dunque nel settimo giorno, a Cana si celebrano le nozze, si beve il vino abbondante del Regno”: “Gesù fece vedere la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui” (Gv 2,12). Le nozze messianiche tra il Messia e la sua comunità sono state celebrate, e così inizia una nuova storia di salvezza, una nuova creazione. Potremmo dire che con questo primo capitolo il quarto vangelo mette in scena Gesù ormai adulto, che inizia la sua missione, non da solo ma con la sua comunità. Ma in questi racconti vi sono alcune parole sulle quali possiamo sostare e meditare.
Giovanni è un maestro riconosciuto e affermato, ha dei discepoli attorno a sé, è ritenuto un profeta, e dopo un silenzio durato alcuni secoli in lui la voce profetica torna a risuonare. È un maestro tra i tanti ai quali si faceva riferimento in un tempo carico di attese escatologiche e messianiche: si pensi alla comunità essenica di Qumran, alla vita di quegli uomini e donne che si impegnavano in un ritorno a Dio, cioè in una conversione, e attendevamo il suo Giorno. Ma ecco venire una pienezza del tempo, un tempo che si compie, e in quel kairós, “tempo maturato e opportuno”, la parola di Dio echeggia attraverso le parole del Battista. Egli annuncia che tra i suoi discepoli c’è una presenza non ancora conosciuta dagli altri (cf. Gv 1,26), la presenza di un uomo che, pur seguendo lo stesso Giovanni come discepolo (cf. Gv 1,27: opíso mou), è più grande di lui, al punto che egli si dice indegno di slegargli il laccio dei sandali. Giovanni va però oltre a questo annuncio e a due discepoli indica colui del quale ha parlato, definendolo Agnello-Servo di Dio. Questi due discepoli per primi intraprendono un esodo, lasciano Giovanni per seguire Gesù. Si mettono sulle sue tracce, nel deserto; Gesù allora si volta e, guardandoli negli occhi, chiede loro: “Che cosa cercate?”.
È la sua prima parola nel quarto vangelo, sotto forma di domanda, un interrogativo che Gesù rivolge ancora oggi a te, lettore del vangelo: “Che cosa cerchi? Qual è il tuo desiderio?”. È straordinario, Gesù non fa un’affermazione, una dichiarazione, come verrebbe spontaneo a tanti ecclesiastici abituati sempre e solo ad affermare, ma pone una domanda: “Cercate qualcosa? E che cosa?”. Così chi si mette sulle tracce di Gesù deve cercare di rispondere innanzitutto a questa domanda, deve cercare di conoscere il proprio cuore, di leggerlo e scrutarlo, in modo da essere consapevole di ciò che desidera e cerca. Pensiamoci, ma solo quando accogliamo o ci facciamo domande contraddiciamo la chiusura che ci stringe, e ci apriamo. L’emergere e il suono di una domanda vera sono come la grazia che viene e apre, anzi a volte scardina…
Ma la ricerca, quando è assunta e consapevole, chiede di muoverci, di fare un movimento, di andare, cioè di seguire chi ha suscitato la domanda: “Venite e vedrete”, come Gesù risponde alla contro-domanda dei due: “Rabbi, dove dimori (verbo ménein)?”. Seguendo si fa cammino dietro a Gesù e si arriva dove lui sta, dimora. E dove lui dimora, il chiamato, diventato discepolo, può dimorare, restare, abitare, sentirsi a casa. Ecco la dinamica del nostro incontro con il Signore: cercare, seguire, dimorare. Queste sono anche le attitudini essenziali per conoscere e vivere l’amore. L’amore è cercato dal desiderio, deve essere seguito su cammini a volte faticosi e pieni di contraddizioni, ma, se lo si segue, alla fine lo si conosce e in esso si resta, si dimora. Il vero amore è un abitare nell’amore dato e ricevuto.
Quel giorno in cui i primi discepoli hanno cercato Gesù, lo hanno seguito e sono restati presso di lui, è stato decisivo per tutta la loro vita, che da quel momento in poi non è stata altro che un cercare Gesù, un seguirlo e un cercare di vivere con lui, perseveranti con lui: è la vita cristiana! Davanti al discepolo c’è sempre e solo un Agnello, un Servo, in ogni caso una creatura mite, inoffensiva, che “porta” (cf. Gv 1,29) i pesi degli altri e non li mette sulle spalle degli altri; c’è qualcuno che dà la propria vita, spende la propria vita e la offre in sacrificio.

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DOMENICA DEL BATTESIMO DEL SIGNORE – TU SEI MIO FIGLIO. – COMMENTO AL VANGELO DI ENZO BIANCHI.

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DOMENICA DEL BATTESIMO DEL SIGNORE – TU SEI MIO FIGLIO. – COMMENTO AL VANGELO DI ENZO BIANCHI.

Con questa domenica si conclude il tempo di Natale, il tempo delle manifestazioni-epifanie del Signore Gesù, venuto al mondo in mezzo a noi nascendo da Maria, come uomo che solo Dio suo Padre ci poteva dare. Questa dunque è la manifestazione di Gesù ai discepoli e a quanti erano impegnati in un cammino di “ritorno” a Dio, di conversione, sotto la spinta della predicazione del profeta Giovanni.
Gesù, chiamato il galileo, viene al Giordano per essere immerso anche lui nelle acque di quel fiume, il fiume che discende. Siamo così posti di fronte a un evento decisivo nella vita sia di Gesù sia del Battista: Gesù, che è un discepolo di Giovanni, che si era messo alla sequela del profeta (“dietro a me”, come precisa Giovanni), ora chiede al Battista di essere come uno di quei peccatori che in fila attendevano l’immersione, chiede di essere immerso in modo che i peccati siano inabissati nell’acqua e dall’acqua possa risorgere quale nuova creatura.
Questa scelta di Gesù deve essere sembrata così scandalosa alle prime generazioni cristiane, che solo l’evangelista Marco l’ha riportata in tutto il suo realismo: “Gesù venne da Nazaret di Galilea e fu battezzato nel Giordano da Giovanni”. Matteo e Luca hanno invece cercato di attutire la realtà di questo evento. In Matteo, per esempio, Giovanni oppone resistenza alla richiesta di Gesù: “Sono io che ho bisogno di essere battezzato da te, e tu vieni da me?” (Mt 3,14). È vero, Gesù non ha peccati da sommergere nell’acqua, sta dietro al Battista ma è più forte di lui, che resta un uomo addirittura indegno di slegare i lacci dei suoi sandali. Gesù, inoltre, battezzerà anche lui, ma non con acqua, bensì con il fuoco dello Spirito santo… Ma a Giovanni che resiste, Gesù risponde: “Lascia ora, per noi è conveniente compiere ogni giustizia” (Mt 3,15). Gesù è un uomo libero e maturo, ha coscienza della sua missione, non vuole privilegi, ma vuole compiere, realizzare ciò che Dio gli chiede come cosa giusta: essere solidale con i peccatori che hanno bisogno dell’immersione, essere un uomo credente come tutti gli altri.
Giovanni allora si mostra profeta obbediente a un suo discepolo, Gesù, del quale però conosce la missione affidatagli da Dio. Non sappiamo se il Battista abbia compreso fino in fondo, sappiamo però che ha obbedito a questa umiliazione del Messia, a questo mutamento dell’immagine del Messia che Gesù inaugurava, quale uomo in mezzo ai suoi fratelli, spogliato di tutti i suoi privilegi. Così ecco avvenire il battesimo, l’immersione, e quando Gesù esce dalle acque del Giordano “vede squarciarsi i cieli e lo Spirito discendere su di lui come una colomba”. Gesù contempla lo Spirito quale “suo compagno inseparabile” (Basilio di Cesarea), che viene dal cielo, dal Padre, e lo seguirà in tutta la sua vicenda umana. E anche il Padre fa sentire la sua voce che proclama: “Tu sei mio Figlio, l’amato, in te ho posto la mia gioia” (Sal 2,7; Gen 22,2; Is 42,1), tutto il mio amore. Questa dovrebbe essere la vera domenica epifania della Trinità di Dio, che si manifesta operando: c’è l’unto, il Cristo; c’è chi lo unge, il Padre; e c’è l’unzione dello Spirito santo.
Noi lettori in ascolto di questo vangelo siamo chiamati innanzitutto ad adorare il mistero. Nella sua prima manifestazione pubblica da adulto Gesù appare come uomo in stretta comunione con Dio, il Padre, e il vincolo permanente di tale comunione è lo Spirito santo. Per questo egli riceve l’unzione profetica e messianica: “Lo Spirito del Signore Dio è su di me, perché il Signore mi ha unto, mi ha mandato a portare la buona notizia (il Vangelo!) ai miseri” (Is 61,1; Lc 4,18).
Dovremmo inoltre riflettere sul nostro battesimo, ricevuto in conformità a quello di Gesù. Su ciascuno di noi è risuonata la voce di Dio che ha detto: “Tu sei mio figlio, io ti amo come un figlio, cioè fedelmente, e voglio trovare compiacimento, gioia in te, in tutta la tua vita”. E lo Spirito, sceso insieme alla voce, resta in noi e ci ricorda questa parola di Dio, ci dà la forza di rispondere con tutta la nostra vita al “Ti amo come un figlio”, detto a ognuno di noi da Dio stesso. Ogni giorno, quando ci alziamo e diciamo: “Ti adoro, mio Dio … Ti ringrazio di avermi fatto cristiano”, pensando al nostro battesimo dovremmo gioire e dovremmo sentire “la voce di un silenzio trattenuto” (1Re 19,12) che nel cuore ci canta: “Tu sei mio figlio, ti amo, voglio gioire in te!”. Se sentiamo questa voce, la giornata sarà diversa, illuminata da un amore promesso e donato, e anche il sole sarà più luminoso.

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II DOMENICA DOPO NATALE – 3 GENNAIO 2021 – GESÙ CRISTO, DIO FATTO UOMO – ENZO BIANCHI

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II DOMENICA DOPO NATALE – 3 GENNAIO 2021 – GESÙ CRISTO, DIO FATTO UOMO – ENZO BIANCHI

Il mistero dell’incarnazione di Dio, del Dio che si è fatto uomo, è così ricco da richiedere la lettura di molti brani dei vangeli, i quali con prospettive diverse ci testimoniano il grande evento della nostra salvezza. Il tempo di Natale è il tempo delle manifestazioni (epifanie) del Signore, e in esso feste e domeniche ci testimoniano alcune di queste “rivelazioni” avvenute per i poveri, per le genti, per l’umanità intera. Cerchiamo dunque di comprendere, per quanto ci è concesso, questo mistero plurale.
Nel tempo, nei giorni della storia umana, Gesù è nato a Betlemme da Maria e per l’efficacia della forza dello Spirito santo. C’è stato un concepimento, una gravidanza, un parto, e a “Betlemme di Efrata” (Mi 5,1), Betlemme la feconda, in una stalla è nato un bambino, dono di Dio, è nato colui che era stato promesso dai profeti, il Messia, uomo discendente della stirpe di David (cf. 2Sam 7,1-17). Quando la parola di Dio si è fatta sentire su questa nascita, ha svelato che l’infante deposto in una mangiatoia era il Salvatore, il Messia, il Kýrios-Signore (cf. Lc 2,11).
Questo bambino, nato solo perché Dio l’aveva voluto, ha un’identità profonda che non appare, che non è visibile nella sua carne fragile e mortale, ma un’identità che non poteva essere taciuta. È il quarto vangelo, il vangelo secondo Giovanni, a spiegarcela, nel suo prologo. Nell’in-principio (cf. Gen 1,1), prima della creazione del mondo, era realtà vivente la Parola, la Parola di Dio, la Parola che era Dio. Una Parola certamente generata da Dio nella sua qualità di Padre, una Parola che era “Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio”, come professiamo nel Credo. Siamo così ammessi e immersi nella contemplazione della vita più intima e segreta di Dio. In Dio c’è una comunicazione, c’è una vita condivisa, c’è un dialogo: il Padre genera costantemente il Figlio nella forza dello Spirito divino. Potremmo dire che in “Dio” che “è amore” (1Gv 4,8.16) c’è costantemente un flusso d’amore, per cui il Padre ama il Figlio che è l’amato, e l’amore tra i due è lo Spirito santo.
Prima che il mondo fosse, c’era dunque la Parola di Dio, viva, operante, per mezzo della quale Dio ha creato l’universo. Proprio guardando a questa Parola che era suo Figlio, Dio ha plasmato l’uomo: l’immagine del Figlio nella vita divina ha definito l’immagine dell’uomo nella creazione (cf. Col 1,15-17). Ma questa Parola di Dio eterna, celeste, immortale, è uscita – per così dire – da Dio “molte volte e in diversi modi” (Eb 1,1) per tentare un dialogo con l’umanità: da Abramo fino a Mosè e ai profeti questa Parola di Dio si è fatta parola umana, proclamata, predicata, detta e ridetta dai servi di Dio i quali, per la missione ricevuta da Dio stesso, proponevano un dialogo, cercavano di instaurare la comunione di vita tra Dio e gli uomini.
Infine, “venuta la pienezza del tempo” (Gal 4,4), questa Parola che era in Dio ed era Dio “ha parlato a noi per mezzo del Figlio” (Eb 1,2), ha voluto farsi carne, diventare essa stessa carne d’uomo in Gesù di Nazaret. La Parola eterna si è fatta mortale, la Parola celeste si è fatta terrestre, la Parola potente si è fatta debole, povera. Le prerogative divine di questa Parola di Dio sono state come “messe tra parentesi”, non perdute ma tralasciate, perché la Parola ha voluto la kénosis, la spogliazione dalle qualità divine, per essere in tutto come noi, pienamente solidale con l’umanità peccatrice (cf. Fil 2,6-8). Vi è dunque una nascita eterna del Figlio di Dio e vi è una nascita terrena, nel mondo, del Figlio, e noi non possiamo contemplare l’una senza l’altra, perché questa è la fede cristiana: non un Dio solo trascendente, non un uomo divino, ma un Dio fatto uomo, Gesù Cristo.
Allora possiamo solo ascoltare il solenne prologo di Giovanni e adorare: “La Parola si è fatta carne e ha posto la sua tenda tra di noi, e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria che riceve dal Padre come Figlio unico, pieno di grazia e di verità”. Se abbiamo un fratello che è il Figlio di Dio, anche noi siamo fatti figli di Dio, e soprattutto lui, nostro fratello nella carne ma Figlio di Dio, venuto da Dio, ci “racconta” (exeghésato) Dio, il Dio invisibile che nessuno ha mai visto né può vedere (cf. 1Tm 6,16). Chi guarda a lui, a Gesù, alla sua umanità, vede e contempla il vero Dio vivente (cf. Gv 14,6.9).

 

 

SOLENNITÀ DELL’EPIFANIA DEL SIGNORE – BENEDETTO XVI – (I MAGI) – 6 gennaio 2013

http://www.vatican.va/content/benedict-xvi/it/homilies/2013/documents/hf_ben-xvi_hom_20130106_epifania.html

SOLENNITÀ DELL’EPIFANIA DEL SIGNORE – BENEDETTO XVI – (I MAGI) – 6 gennaio 2013

OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

Basilica Vaticana

Cari fratelli e sorelle!

Per la Chiesa credente ed orante, i Magi d’Oriente che, sotto la guida della stella, hanno trovato la via verso il presepe di Betlemme sono solo l’inizio di una grande processione che pervade la storia. Per questo, la liturgia legge il Vangelo che parla del cammino dei Magi insieme con le splendide visioni profetiche di Isaia 60 e del Salmo 72, che illustrano con immagini audaci il pellegrinaggio dei popoli verso Gerusalemme. Come i pastori che, quali primi ospiti presso il Bimbo neonato giacente nella mangiatoia, personificano i poveri d’Israele e, in genere, le anime umili che interiormente vivono molto vicino a Gesù, così gli uomini provenienti dall’Oriente personificano il mondo dei popoli, la Chiesa dei gentili – gli uomini che attraverso tutti i secoli si incamminano verso il Bambino di Betlemme, onorano in Lui il Figlio di Dio e si prostrano davanti a Lui. La Chiesa chiama questa festa “Epifania” – l’apparizione, la comparsa del Divino. Se guardiamo il fatto che, fin da quell’inizio, uomini di ogni provenienza, di tutti i Continenti, di tutte le diverse culture e tutti i diversi modi di pensiero e di vita sono stati e sono in cammino verso Cristo, possiamo dire veramente che questo pellegrinaggio e questo incontro con Dio nella figura del Bambino è un’Epifania della bontà di Dio e del suo amore per gli uomini (cfr Tt 3,4).
Seguendo una tradizione iniziata dal Beato Papa Giovanni Paolo II, celebriamo la festa dell’Epifania anche quale giorno dell’Ordinazione episcopale per quattro sacerdoti che d’ora in poi, in funzioni diverse, collaboreranno al Ministero del Papa per l’unità dell’unica Chiesa di Gesù Cristo nella pluralità delle Chiese particolari. Il nesso tra questa Ordinazione episcopale e il tema del pellegrinaggio dei popoli verso Gesù Cristo è evidente. Il Vescovo ha il compito non solo di camminare in questo pellegrinaggio insieme con gli altri, ma di precedere e di indicare la strada. Vorrei, però, in questa liturgia, riflettere con voi ancora su una domanda più concreta. In base alla storia raccontata da Matteo possiamo sicuramente farci una certa idea di quale tipo di uomini debbano essere stati coloro che, in seguito al segno della stella, si sono incamminati per trovare quel Re che, non soltanto per Israele, ma per l’umanità intera avrebbe fondato una nuova specie di regalità. Che tipo di uomini, dunque, erano costoro? E domandiamoci anche se, malgrado la differenza dei tempi e dei compiti, a partire da loro si possa intravedere qualcosa su che cosa sia il Vescovo e su come egli debba adempiere il suo compito.
Gli uomini che allora partirono verso l’ignoto erano, in ogni caso, uomini dal cuore inquieto. Uomini spinti dalla ricerca inquieta di Dio e della salvezza del mondo. Uomini in attesa, che non si accontentavano del loro reddito assicurato e della loro posizione sociale forse considerevole. Erano alla ricerca della realtà più grande. Erano forse uomini dotti che avevano una grande conoscenza degli astri e probabilmente disponevano anche di una formazione filosofica. Ma non volevano soltanto sapere tante cose. Volevano sapere soprattutto la cosa essenziale. Volevano sapere come si possa riuscire ad essere persona umana. E per questo volevano sapere se Dio esista, dove e come Egli sia. Se Egli si curi di noi e come noi possiamo incontrarlo. Volevano non soltanto sapere. Volevano riconoscere la verità su di noi, e su Dio e il mondo. Il loro pellegrinaggio esteriore era espressione del loro essere interiormente in cammino, dell’interiore pellegrinaggio del loro cuore. Erano uomini che cercavano Dio e, in definitiva, erano in cammino verso di Lui. Erano ricercatori di Dio.
Ma con ciò giungiamo alla domanda: come dev’essere un uomo a cui si impongono le mani per l’Ordinazione episcopale nella Chiesa di Gesù Cristo? Possiamo dire: egli deve soprattutto essere un uomo il cui interesse è rivolto verso Dio, perché solo allora egli si interessa veramente anche degli uomini. Potremmo dirlo anche inversamente: un Vescovo dev’essere un uomo a cui gli uomini stanno a cuore, che è toccato dalle vicende degli uomini. Dev’essere un uomo per gli altri. Ma può esserlo veramente soltanto se è un uomo conquistato da Dio. Se per lui l’inquietudine verso Dio è diventata un’inquietudine per la sua creatura, l’uomo. Come i Magi d’Oriente, anche un Vescovo non dev’essere uno che esercita solamente il suo mestiere e non vuole altro. No, egli dev’essere preso dall’inquietudine di Dio per gli uomini. Deve, per così dire, pensare e sentire insieme con Dio. Non è solo l’uomo ad avere in sé l’inquietudine costitutiva verso Dio, ma questa inquietudine è una partecipazione all’inquietudine di Dio per noi. Poiché Dio è inquieto nei nostri confronti, Egli ci segue fin nella mangiatoia, fino alla Croce. “Cercandomi ti sedesti stanco, mi hai redento con il supplizio della Croce: che tanto sforzo non sia vano!”, prega la Chiesa nel Dies irae. L’inquietudine dell’uomo verso Dio e, a partire da essa, l’inquietudine di Dio verso l’uomo devono non dar pace al Vescovo. È questo che intendiamo quando diciamo che il Vescovo dev’essere soprattutto un uomo di fede. Perché la fede non è altro che l’essere interiormente toccati da Dio, una condizione che ci conduce sulla via della vita. La fede ci tira dentro uno stato in cui siamo presi dall’inquietudine di Dio e fa di noi dei pellegrini che interiormente sono in cammino verso il vero Re del mondo e verso la sua promessa di giustizia, di verità e di amore. In questo pellegrinaggio, il Vescovo deve precedere, dev’essere colui che indica agli uomini la strada verso la fede, la speranza e l’amore.
Il pellegrinaggio interiore della fede verso Dio si svolge soprattutto nella preghiera. Sant’Agostino ha detto una volta che la preghiera, in ultima analisi, non sarebbe altro che l’attualizzazione e la radicalizzazione del nostro desiderio di Dio. Al posto della parola “desiderio” potremmo mettere anche la parola “inquietudine” e dire che la preghiera vuole strapparci alla nostra falsa comodità, al nostro essere chiusi nelle realtà materiali, visibili e trasmetterci l’inquietudine verso Dio, rendendoci proprio così anche aperti e inquieti gli uni per gli altri. Il Vescovo, come pellegrino di Dio, dev’essere soprattutto un uomo che prega. Deve essere in un permanente contatto interiore con Dio; la sua anima dev’essere largamente aperta verso Dio. Le sue difficoltà e quelle degli altri, come anche le sue gioie e quelle degli altri le deve portare a Dio, e così, a modo suo, stabilire il contatto tra Dio e il mondo nella comunione con Cristo, affinché la luce di Cristo splenda nel mondo.
Torniamo ai Magi d’Oriente. Questi erano anche e soprattutto uomini che avevano coraggio, il coraggio e l’umiltà della fede. Ci voleva del coraggio per accogliere il segno della stella come un ordine di partire, per uscire – verso l’ignoto, l’incerto, su vie sulle quali c’erano molteplici pericoli in agguato. Possiamo immaginare che la decisione di questi uomini abbia suscitato derisione: la beffa dei realisti che potevano soltanto deridere le fantasticherie di questi uomini. Chi partiva su promesse così incerte, rischiando tutto, poteva apparire soltanto ridicolo. Ma per questi uomini toccati interiormente da Dio, la via secondo le indicazioni divine era più importante dell’opinione della gente. La ricerca della verità era per loro più importante della derisione del mondo, apparentemente intelligente.
Come non pensare, in una tale situazione, al compito di un Vescovo nel nostro tempo? L’umiltà della fede, del credere insieme con la fede della Chiesa di tutti i tempi, si troverà ripetutamente in conflitto con l’intelligenza dominante di coloro che si attengono a ciò che apparentemente è sicuro. Chi vive e annuncia la fede della Chiesa, in molti punti non è conforme alle opinioni dominanti proprio anche nel nostro tempo. L’agnosticismo oggi largamente imperante ha i suoi dogmi ed è estremamente intollerante nei confronti di tutto ciò che lo mette in questione e mette in questione i suoi criteri. Perciò, il coraggio di contraddire gli orientamenti dominanti è oggi particolarmente pressante per un Vescovo. Egli dev’essere valoroso. E tale valore o fortezza non consiste nel colpire con violenza, nell’aggressività, ma nel lasciarsi colpire e nel tenere testa ai criteri delle opinioni dominanti. Il coraggio di restare fermamente con la verità è inevitabilmente richiesto a coloro che il Signore manda come agnelli in mezzo ai lupi. “Chi teme il Signore non ha paura di nulla”, dice il Siracide (34,16). Il timore di Dio libera dal timore degli uomini. Rende liberi!
In questo contesto mi viene in mente un episodio degli inizi del cristianesimo che san Luca narra negli Atti degli Apostoli. Dopo il discorso di Gamaliele, che sconsigliava la violenza verso la comunità nascente dei credenti in Gesù, il sinedrio chiamò gli Apostoli e li fece flagellare. Poi proibì loro di predicare nel nome di Gesù e li rimise in libertà. San Luca continua: “Essi allora se ne andarono via dal sinedrio, lieti di essere stati giudicati degni di subire oltraggi per il nome di Gesù. E ogni giorno … non cessavano di insegnare e di annunciare che Gesù è il Cristo” (At 5,40ss). Anche i successori degli Apostoli devono attendersi di essere ripetutamente percossi, in maniera moderna, se non cessano di annunciare in modo udibile e comprensibile il Vangelo di Gesù Cristo. E allora possono essere lieti di essere stati giudicati degni di subire oltraggi per Lui. Naturalmente vogliamo, come gli Apostoli, convincere la gente e, in questo senso, ottenerne l’approvazione. Naturalmente non provochiamo, ma tutt’al contrario invitiamo tutti ad entrare nella gioia della verità che indica la strada. L’approvazione delle opinioni dominanti, però, non è il criterio a cui ci sottomettiamo. Il criterio è Lui stesso: il Signore. Se difendiamo la sua causa, conquisteremo, grazie a Dio, sempre di nuovo persone per la via del Vangelo. Ma inevitabilmente saremo anche percossi da coloro che, con la loro vita, sono in contrasto col Vangelo, e allora possiamo essere grati di essere giudicati degni di partecipare alla Passione di Cristo.
I Magi hanno seguito la stella, e così sono giunti fino a Gesù, alla grande Luce che illumina ogni uomo che viene in questo mondo (cfr Gv 1,9). Come pellegrini della fede, i Magi sono diventati essi stessi stelle che brillano nel cielo della storia e ci indicano la strada. I santi sono le vere costellazioni di Dio, che illuminano le notti di questo mondo e ci guidano. San Paolo, nella Lettera ai Filippesi, ha detto ai suoi fedeli che devono risplendere come astri nel mondo (cfr 2,15).
Cari amici, ciò riguarda anche noi. Ciò riguarda soprattutto voi che, in quest’ora, sarete ordinati Vescovi della Chiesa di Gesù Cristo. Se vivrete con Cristo, a Lui nuovamente legati nel Sacramento, allora anche voi diventerete sapienti. Allora diventerete astri che precedono gli uomini e indicano loro la via giusta della vita. In quest’ora noi tutti qui preghiamo per voi, affinché il Signore vi ricolmi con la luce della fede e dell’amore. Affinché quell’inquietudine di Dio per l’uomo vi tocchi, perché tutti sperimentino la sua vicinanza e ricevano il dono della sua gioia. Preghiamo per voi, affinché il Signore vi doni sempre il coraggio e l’umiltà della fede. Preghiamo Maria che ha mostrato ai Magi il nuovo Re del mondo ( Mt 2,11), affinché ella, quale Madre amorevole, mostri Gesù Cristo anche a voi e vi aiuti ad essere indicatori della strada che porta a Lui. Amen.

DOMENICA DELLA SANTA FAMIGLIA – IL BAMBINO CRESCEVA E SI FORTIFICAVA… ENZO BIANCHI

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DOMENICA DELLA SANTA FAMIGLIA – IL BAMBINO CRESCEVA E SI FORTIFICAVA… ENZO BIANCHI

Se nel giorno di Natale abbiamo contemplato l’evento puntuale della nascita di Gesù a Betlemme e la sua adorazione da parte dei pastori, i poveri di Israele (cf. Lc 2,1-20), la pagina evangelica odierna attira la nostra attenzione su un altro aspetto del mistero della sua venuta nella carne. L’incarnazione comprende anche la crescita di Gesù, il suo divenire uomo nello spazio di una famiglia precisa e di un ambiente sociale e religioso determinato: è in questo contesto terreno e ordinario che “il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui”.
Gesù ha conosciuto una crescita umana e spirituale, affettiva e psicologica, così come ogni essere umano è chiamato a fare nella propria limitatezza, nella propria particolare situazione esistenziale: il Figlio di Dio, divenuto figlio dell’uomo “mettendo tra parentesi la sua forma divina” (Adolphe Gesché), ha assunto la forma umana (cf. Fili 2,6-7) e ha condiviso in tutto la nostra condizione umana, senza però commettere peccato (cf. Eb 2,15), restando cioè pienamente fedele e obbediente al Padre. È importante sottolineare il quotidiano e faticoso “divenire uomo” da parte di Gesù, che abbraccia tutti gli aspetti della sua umanità, a partire dall’obbedienza ai suoi genitori: da loro, come ogni neonato, egli dipende totalmente nei primi tempi della sua vita. È proprio passando attraverso questo amore accolto su di sé che egli diverrà una persona capace di relazioni e di “amore fino alla fine” (cf. Gv 13,1), fino al dono puntuale della vita per amore del Padre e degli uomini e donne, suoi fratelli e sorelle.
Ma oltre all’ambiente familiare Gesù ha conosciuto anche un ambiente sociale e religioso in cui è stato inserito fin dalla sua nascita. E così al compimento degli otto giorni egli viene circonciso, con il gesto che lo rende appartenente al popolo dell’alleanza e delle benedizioni (cf. Lc 2,21); poi al quarantesimo giorno Maria e Giuseppe, in obbedienza alla Torah, lo portano al tempio di Gerusalemme “per presentarlo al Signore”. Essi offrono “il sacrificio dei poveri” – cioè una coppia di colombi invece di un agnello (cf. Lv 5,7; 12,8), per loro troppo costoso – e in questo modo adempiono le norme di purificazione previste.
Ma questa obbedienza diviene ormai, per la presenza di Gesù, compimento della Legge: presentato al tempio, Gesù non viene riscattato mediante il pagamento di una somma di denaro, perché è lui stesso il riscatto, “la redenzione di Gerusalemme”, colui che è venuto a dare la vita in riscatto per tutti (cf. Mc 10,45; Mt 20,28); non viene santificato, come esigeva la Legge per ogni primogenito (cf. Es 13,2), ma viene riconosciuto Santo, come già era stato proclamato per bocca dell’angelo (cf. Lc 1,35). Insomma, per quanto al momento possa apparire paradossale – ma è il paradosso cristiano della forza nella debolezza (cf. 2Cor 12,10) – il neonato Gesù “entra nel suo tempio come Signore”, secondo le parole di Malachia (cf. Ml 3,1), l’ultimo profeta dell’Antico Testamento!
Al tempio il riconoscimento di Gesù avviene innanzitutto ad opera di Simeone e Anna, due anziani credenti che vivono la condizione di “poveri del Signore” (‘anawim), quell’umile resto di Israele che confidava solo nel Signore (cf. Sof 3,12-13) e attendeva con trepidazione la venuta del suo Messia. Illuminato dallo Spirito santo, Simeone, “uomo giusto e timorato di Dio”, accoglie tra le sue braccia il bambino e scioglie a Dio il suo canto di benedizione, il celebre Nunc dimittis (che la chiesa ci fa proclamare ogni sera nell’ultima preghiera della giornata prima di coricarci, l’ufficio di compieta): egli ormai può morire in una grande pace, perché i suoi occhi hanno contemplato in quel bambino la salvezza di Dio, colui che è “luce per la rivelazione alle genti e gloria del popolo di Israele”. A Simeone si può dunque applicare la beatitudine riferita da Luca più avanti e rivolta da Gesù ai suoi discepoli: “Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete. Io vi dico che molti profeti e re hanno voluto vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo ascoltarono” (Lc 10,23-24).
L’incontro tra Gesù e Simeone è inoltre carico di suggestioni e di molteplici significati: sono l’uno davanti all’altro un vecchio e un bambino, l’Antico e il Nuovo Testamento, la secolare attesa e il definitivo compimento… Di più, Simeone rivela a Maria che Gesù lungo tutta la sua vita sarà “un segno che viene contraddetto e che svela i pensieri profondi di molti cuori”. Di fronte a Gesù, “venuto a portare sulla terra la divisione” (cf. Lc 12,51), occorre prendere posizione qui e ora; meglio, occorre decidere se accettare o rifiutare che sia lui a giudicare con la sua luce la nostra vita, a rischiarare le nostre tenebre (cf. Gv 1,5)…
Al tempio c’è anche Anna, un’anziana profetessa, vedova, che da molti anni vive nel luogo santo, “servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere”. Dopo essersi lungamente preparata con tutte le sue forze all’incontro decisivo con la salvezza di Dio, questa donna credente intuisce grazie all’intelligenza della fede che è finalmente arrivata l’ora del compimento atteso. Così, alla sera della sua vita, Anna loda il Dio fedele, che mantiene sempre le sue promesse, e annuncia il bambino quale Redentore e Salvatore. Nell’ottica dell’evangelista Luca, ella incarna già la missione del discepolo di Gesù Cristo, che – come il suo Maestro (cf. Lc 4,16-21; Is 61,1-2) – annuncia a tutti coloro che incontra la liberazione, il riscatto da ogni forma di male e di schiavitù, la possibilità di un concreto mutamento delle vicende umane alla luce del Regno che viene (cf. Lc 9,1-2).
I due anziani profeti non “trattengono” per sé Gesù ma si rallegrano di condividere con tutti la rivelazione della salvezza compiutasi in questo bambino. Più si è spogli di sé, poveri, più si è liberi, dunque capaci di accogliere la buona notizia de Vangelo, di assumerla nella propria vita e dunque di testimoniarla con chiarezza e semplicità a chi desidera accoglierla; si è capaci di condividerla con quella gioia che, secondo Luca, è il tratto distintivo dei discepoli di Gesù Cristo. In questo stile di vita, che accoglie e condivide con gratuità i doni del Signore, sempre più grandi delle attese umane, consiste la ricompensa sovrabbondante concessa a Simeone e Anna, che anche ciascuno di noi può sperimentare.
Leggendo questa pagina evangelica, siamo dunque condotti a comprendere che, per incontrare in verità il Signore Gesù e riconoscere la sua qualità di Salvatore di tutta l’umanità, sono necessarie la povertà di spirito e l’attesa perseverante testimoniate da questi due anziani credenti, nonché l’obbedienza alla volontà di Dio vissuta dai suoi genitori. È richiesta la disponibilità a “offrire i propri corpi”, cioè tutta la propria vita, “in sacrificio vivente, santo e gradito a Dio” (cf. Rm 12,1): questo è il modo più efficace per esprimere il nostro desiderio dell’incontro già oggi e poi definitivo, dopo la morte, con il Signore delle nostre vite.
Fin dai primi giorni terreni di Gesù, un neonato ancora incapace di parlare, si manifesta nella storia il disegno d’amore realizzato da Dio attraverso di lui: la venuta del Figlio di Dio nella carne “ci insegna a vivere” (cf. Tt 2,12), facendo della vita un cammino di obbedienza alla nostra condizione di creature volute e amate da Dio; e ci insegna a morire, facendo liberamente della nostra morte un atto d’amore per Dio e per i fratelli e le sorelle, alla sequela del Signore Gesù.

IV DOMENICA DI AVVENTO (B) COMMENTO – GESÙ, L’UOMO CHE SOLO DIO POTEVA DARCI ENZO BIANCHI

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IV DOMENICA DI AVVENTO (B) COMMENTO – GESÙ, L’UOMO CHE SOLO DIO POTEVA DARCI
ENZO BIANCHI

La quarta domenica di Avvento, che sempre cade all’interno delle ferie maggiori di Avvento (gli otto giorni che precedono la memoria della nascita di Gesù), ci narra l’azione di Dio in una donna, Maria di Nazaret: davvero “grandi cose ha fatto in lei l’Onnipotente” (cf. Lc 1,49)!
In una terra ai margini della Palestina, in un villaggio insignificante, in una casa semplice e sconosciuta, in una famiglia quotidiana si realizza il mistero dell’umanizzazione di Dio: Dio, l’eterno, si fa mortale, il forte si fa debole, il celeste si fa terrestre. L’Apostolo Paolo, quando cercherà di cantare questo evento nella fede cristiana ormai professata da ebrei e da greci, affermerà: “Colui che era Dio svuotò se stesso, diventando uomo” (cf. Fil 2,6-7).
Questo evento inaudito e impossibile per noi umani, è avvenuto perché “tutto è possibile a Dio”, ma come raccontarlo? La verità da esprimere è che un uomo come Gesù, il Figlio di Dio divenuto carne mortale, solo Dio ce lo poteva dare. Non poteva essere il frutto di volontà umana, non poteva essere generato dalla sola umanità, non poteva essere semplicemente il figlio di una coppia umana. Ed ecco, per rivelare la verità profonda di questo evento, al di là di ciò che risultava visibile agli occhi della gente di Nazaret, una narrazione che cerca di dirci come Dio è intervenuto e ha agito, come Gesù è un dono che solo Dio poteva darci. A una giovane donna ebrea, chiamata Maria, Dio guarda con amore, fino a sentirla e proclamarla come “amata”, “riempita e trasformata dalla sua grazia, dal suo amore”. Dio le fa sentire la sua presenza, la sua vicinanza, le fa sentire che “è con lei”, per questo Maria deve rallegrarsi. Del resto, Dio-con-noi, ‘Immanuel (Is 7,14; Mt 1,23), non è forse uno dei nomi di Dio?
Maria era una donna di fede, dunque sempre in attesa dell’azione e della presenza di Dio, e proprio per questo nei confronti del suo Signore non aveva alcuna pretesa né vantava alcun merito. Perciò è sorpresa, timorosa e stupita per questa grazia di Dio che la invade nella quotidianità dei suoi giorni. Eppure Maria sa ascoltare la voce del Signore che le chiede di non temere, di avere fede: il figlio che concepirà dovrà chiamarlo Gesù, Jeshu’a, “il Signore salva”, così che egli sia riconosciuto nella sua vera identità di Figlio dell’Altissimo, discendente di David, dunque Messia.
Maria però confessa: “Io non conosco uomo!”, riconoscendo cioè l’impossibilità umana di dare alla luce un figlio in quella condizione, dunque la sua incapacità a concepire e a partorire un tale figlio. In lei c’è soltanto un vuoto, più radicale di quello di una donna anziana e sterile come sua cugina Elisabetta (cf. Lc 1,18.36), un vuoto dal quale non può avvenire generazione. Ma il Signore Dio nella sua potenza fa cose inaudite e grandi, e le opera in lei: sarà come una nuova creazione! Come lo Spirito del Signore planò sulle acque nell’in-principio, per generare la vita (cf. Gen 1,2), così ora lo stesso Spirito santo scende su Maria, e la sua Shekinah, la sua Presenza che la copre come ombra, renderà possibile che la Parola di Dio si faccia carne (cf. Gv 1,14) e che quel vuoto diventi il “sito” in cui Dio raggiunge l’uomo, generando suo Figlio quale “Figlio nato da donna” (Gal 4,4).
Ecco il mistero dell’incarnazione, di fronte al quale si può soltanto adorare, contemplare e ringraziare. Solo Dio poteva darci un uomo come Gesù, e a questo dono ha risposto con un “amen”, un sì disponibile, Maria, la donna di Nazaret che Dio ha scelto facendola oggetto della sua grazia, della sua benevolenza, del suo amore totalmente gratuito.

 

III DOMENICA DI AVVENTO (B) COMMENTO – GIOVANNI, IL TESTIMONE DELLA LUCE – ENZO BIANCHI

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III DOMENICA DI AVVENTO (B) COMMENTO – GIOVANNI, IL TESTIMONE DELLA LUCE – ENZO BIANCHI

Già in questi brevi versetti del prologo è sintetizzato tutto il senso della venuta di Giovanni, un uomo definito da Gesù “il più grande tra i nati di donna” (cf. Mt 11,11; Lc 7,28), mandato da Dio. Sì, solo Dio poteva darci e inviarci un uomo come lui. Egli è il segno che “il Signore fa grazia” (questo il significato del suo nome), è un “testimone” (mártys), anzi è il primo testimone di Gesù in quel processo che quest’ultimo ha subito dalla nascita alla morte, processo intentatogli dal “mondo”, cioè dall’umanità malvagia, violenta, philautica. Ministero difficile, faticoso, a prezzo della vita spesa e data, quello di Giovanni: nella consapevolezza di non avere luce propria, egli ha solo offerto il volto alla luce, ha contemplato la luce, è rimasto sempre rivolto alla luce, in modo così convincente e autorevole che chi guardava a lui si sentiva costretto a volgere lo sguardo verso la luce, verso colui di cui Giovanni era solo testimone.
E cosa fa, come si atteggia un vero testimone di Gesù Cristo, cioè della “luce vera, quella che illumina ogni uomo” (Gv 1,9)? In primo luogo si decentra e mette tutte le sue forze a servizio di tale decentramento, dicendo costantemente: “Non io, ma lui; non a me ma a lui vadano lo sguardo e l’ascolto”. Questo è un atteggiamento di spogliazione, di resistenza a ogni tentazione di guardare a se stessi, è veramente vivere l’adorazione di colui che “è più grande” (Mt 11,11; Lc 7,28), che “è più forte” (Mc 1,7; Lc 3,16), che “passa davanti” (cf. Gv 1,15). Giovanni vive in sé il ministero della percezione della presenza di Dio, al quale l’aveva abituato il deserto in cui era cresciuto (cf. Lc 1,80), e ora percepisce questa presenza di Dio in Gesù, che ormai è un uomo tra gli altri, è tra coloro che vanno da lui a farsi battezzare, è un suo discepolo. “In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete … Neanch’io lo conoscevo, ma proprio colui che mi ha inviato a battezzare nell’acqua mi disse: ‘Colui sul quale vedrai discendere e rimanere lo Spirito, è lui che battezza nello Spirito santo’” (Gv 1,26.33-34).
Chi è dunque Giovanni il Battista? Se lo chiedono innanzitutto quanti vanno ad ascoltarlo, i giudei: “Chi sei tu?”. E Giovanni risponde con semplicità: “Non sono il Messia, il Cristo da voi atteso”. Gli chiedono ancora: “Sei tu Elia?”, colui che, profetizzato da Malachia, era atteso davanti al Signore nel suo giorno temibile (cf. Ml 3,23)? “Non lo sono”, risponde Giovanni. Infine gli chiedono: “Sei tu il profeta”, il profeta escatologico promesso a Mosè e simile a lui (cf. Dt 18,15)? Ma ancora, per la terza volta, Giovanni nega anche quest’ultima identità proiettata su di sé.
“Gli dissero allora: ‘Chi sei? Che cosa dici di te stesso? Qual è la tua identità?’”. Ed egli risponde: “Io sono soltanto una voce, una voce imprestata a un altro, eco di una parola non mia”. Anche questo essere voce è frutto dell’obbedienza puntuale e completa di quest’uomo alla parola del Signore annunciata dal profeta Isaia (cf. Is 40,3; Mc 1,3 e par.). Solo voce, che si sente, si ascolta, ma non si può vedere, né contemplare, né trattenere. In Giovanni nessun protagonismo, nessuna volontà di occupare il centro, di stare in mezzo, ma solo di essere solidale con gli altri. C’è chi sta al centro, c’è chi è in mezzo e noi non lo conosciamo, c’è chi è Parola rivolta a noi: è Gesù Cristo, sempre “in incognito”, sempre da cercare, ma noi non lo cerchiamo e non lo riconosciamo. Forse solo nel giudizio finale sapremo che chi sta accanto a noi, chi ci è prossimo… è Gesù Cristo, e allora lo riconosceremo. Nel frattempo, abbiamo bisogno di Giovanni, di ascoltare la sua voce, di vedere il suo dito che indica Gesù come colui che ci immerge nello Spirito santo (cf. Gv 1,33; Mc 1,8 e par.) e che può fare di noi delle “vite salvate”.

 

II DOMENICA DI AVVENTO (B) COMMENTO – IL VANGELO RICOMINCIA SEMPRE – ENZO BIANCHI

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II DOMENICA DI AVVENTO (B) COMMENTO – IL VANGELO RICOMINCIA SEMPRE – ENZO BIANCHI

Ascoltiamo oggi i primi versetti del vangelo secondo Marco. L’evangelista così apre la sua opera: “Inizio (arché) del Vangelo di Gesù Cristo”, parallelamente all’incipit del primo libro della Bibbia, la Genesi: “All’inizio Dio creò il cielo e la terra” (Gen 1,1). Anche nel quarto vangelo troviamo come prime parole: “All’inizio era la Parola…” (Gv 1,1).
Secondo la Bibbia ci sono stati degli inizi, ci sono stati eventi che ricominciavano una storia, eventi considerati come nuove partenze, eventi che segnavano una novità. Nella storia di salvezza, la storia come Dio la legge, c’è un inizio, un ricominciare: quando Dio crea il cielo e la terra; quando la Parola di Dio inizia il suo percorso di incarnazione; quando inizia la vicenda di Gesù sulla terra; quando verrà il Signore Gesù nella gloria per darci cieli nuovi e terra nuova (cf. 2Pt 3,13; Ap 21,1)… Leggendo questa dinamica, Gregorio di Nissa afferma che anche la vita cristiana “va di inizio in inizio, attraverso inizi che non hanno fine”. Io amo ripetere che il cristianesimo, il Vangelo vissuto nella carne di uomini e donne, ricomincia sempre: ancora oggi, come ieri e come domani, sempre si constaterà un rinascere, un ricominciare del Vangelo, che appare qua e là nella vita di alcuni che vogliono, tentano con tutte le loro forze di essere alla sequela di Gesù, sulle sue tracce (cf. 1Pt 2,21). È il miracolo dei miracoli questo ricominciare del Vangelo vissuto, oserei dire della chiesa più vera, del fuoco del Vangelo che, conservato sotto la brace, ricomincia a divampare, a essere fuoco.
Ecco dunque “l’inizio del Vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio”, cioè della notizia bella e buona che è portata e rappresentata da Gesù di Nazaret, il Messia venuto da Dio e da lui inviato nel mondo, la sua Parola eterna fatta carne fragile e mortale (cf. Gv 1,14), il suo Figlio venuto tra gli uomini. Il termine Vangelo (euanghélion) è attestato nella versione greca del profeta Isaia, nel passo che in questa domenica viene letto come prima lettura: Consolate, consolate il mio popolo – dice il vostro Dio –. Parlate al cuore di Gerusalemme e gridatele che la sua schiavitù è finita, che il suo peccato è stato perdonato …Sali su un alto monte, tu che annunci la buona notizia (verbo euanghelízo) a Sion. Alza la tua voce con forza, tu che annunci la buona notizia (verbo euanghelízo) a Gerusalemme. Alza la voce, non temere; annuncia alle città della Giudea: “Ecco il vostro Dio!” (Is 40,1-2.9).
Ecco il Vangelo, la bella e buona notizia: Dio viene! Nel vangelo secondo Marco questa buona notizia è che Dio viene in Gesù suo Figlio. Tutto avviene come sta scritto nello stesso brano del profeta Isaia: Ecco – dice il Signore –, io invio il mio messaggero davanti a te, egli preparerà la tua strada. Voce di uno che grida nel deserto: “Preparate la strada del Signore, raddrizzate i suoi sentieri” (Is 40,3; cf. Es 23,20; Ml 3,1).
Gesù non è qualcuno che arriva per caso, ma giunge secondo la promessa fatta dai profeti, ed è colui che è atteso da quanti hanno ascoltato i profeti stessi. Gesù viene dunque preceduto da un messaggero, Giovanni il Battista, che gli prepara una strada e chiede di ritornare a Dio mutando il comportamento, cambiando la propria vita nel pensare e nell’agire. Ecco la metánoia, la conversione che esige di non fare più ciò che si faceva, di tralasciare di fare il male, di fare il bene secondo la volontà di Dio (cf. Is 1,16-17). Occorre cambiare, avere questo coraggio e questa forza per collocarsi in una novità di vita, in modo da poter incontrare colui che viene, il Signore veniente, colui che Dio ha inviato nel mondo, in mezzo all’umanità.
Per dire che erano convinti e che iniziavano questo nuovo cammino di accoglienza della buona notizia, molti andavano da Giovanni nel deserto e sigillavano questo nuovo inizio facendosi da lui immergere nelle acque del Giordano. In tal modo essi dicevano visibilmente che accettavano di seppellire il loro vivere mondano, ed erano tirati fuori dalle acque quali creature nuove, impegnati in una vita nuova, riconciliati con Dio che rimetteva, perdonava i loro peccati. Giovanni è il messaggero inviato da Dio davanti a Gesù, è l’uomo del deserto, dove si fa raggiungere dai credenti, perché nel deserto, luogo di solitudine e di spogliazione, potessero ascoltare la voce di Dio e discernere il Veniente (ho erchómenos), che è ormai vicino, imminente, tanto da poter essere annunciato dal precursore. Giovanni non ne dice il nome, ma lo indica come “il più forte che viene dietro di me”, che presto sarà rivelato, farà la sua comparsa. Per ora sta umilmente, come discepolo, dietro a Giovanni, il maestro, colui che immerge nell’acqua per sigillare la conversione e il perdono dei peccati da parte di Dio. Ma ecco, sta per venire, e il Battista quale messaggero e precursore deve annunciarlo e deve confessare di non essere degno neppure di slegargli i sandali: è il Veniente, mandato da Dio, munito della forza dello Spirito santo!
La chiamata di Giovanni ieri era rivolta ai giudei, annuncio di una buona notizia riguardante Gesù, il Veniente, il Messia, il Figlio di Dio. Ma questa chiamata riguarda ancora noi, oggi: vogliamo ascoltare la bella e buona notizia? Vogliamo convertirci e cambiare vita? Vogliamo andare incontro al Veniente, Gesù Cristo, nella forza dello Spirito santo? Vogliamo, in altre parole, ricominciare il cammino di conversione a Dio, fidandoci di Gesù, della sua buona notizia, fidandoci della forza dello Spirito santo che può trascinarci in questo cammino di ritorno a Dio e di comunione con lui? La buona e bella notizia, il Vangelo di Gesù Cristo, riesce a farci ricominciare la sequela sulle sue tracce?
Sì, il Vangelo vissuto non fa che chiamarci a ricominciare sempre, proprio come annuncia il vangelo secondo Marco con una significativa inclusione. All’inizio del vangelo, in Galilea, Gesù chiama degli uomini, dei pescatori (cf. Mc 1,16-20); alla fine il Risorto li chiama di nuovo, dopo le loro contraddizioni alla sequela e i loro misconoscimenti della sua buona e bella notizia: “Vadano in Galilea. Là mi vedranno” (cf. Mc 16,7). Dove li ha chiamati a cominciare, li richiamerà a ricominciare: è l’avventura cristiana, che sempre ricomincia! È Avvento, fratelli e sorelle, è ora di ricominciare!

 

I DOMENICA DI AVVENTO (B) COMMENTO – “VEGLIATE!” – ENZO BIANCHI

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I DOMENICA DI AVVENTO (B) COMMENTO – “VEGLIATE!” – ENZO BIANCHI

Entriamo nel tempo dell’Avvento (adventus, venuta), ascoltando le ultime parole del discorso escatologico di Gesù nel vangelo secondo Marco (cf. Mc 13,1-37). Un discorso che Gesù aveva iniziato rivolgendosi ai quattro discepoli chiamati per primi e più coinvolti nella sua vita – Pietro, Giacomo, Giovanni e Andrea (cf. Mc 13,3-4) –, e che ora egli termina indirizzandosi “a tutti”, con un’esortazione impellente: “Vegliate!”. Questo imperativo appare nel nostro brano come un ritornello incessante, accanto all’altro: “Guardate!” (cf. Mc 13,5.9.23). Tutte le parole di Gesù, e soprattutto la parabola dell’uomo partito per un lungo viaggio, sono finalizzate al comando del vegliare.
Ma cosa significa vegliare? Vuol dire “stare svegli”, stare con gli occhi aperti, “fare attenzione”, come traduce la versione italiana. È la postura della sentinella che veglia, lottando contro il sonno e soprattutto contro l’intontimento spirituale; che tiene gli occhi ben aperti e scruta l’orizzonte per cogliere chi e che cosa sta per giungere. Vegliare è un esercizio faticoso, perché in esso occorre impegnare la mente e il corpo, ma è un esercizio generato e sostenuto da una speranza salda: c’è qualcuno che giunge, qualcuno che è alla porta; qualcuno che, amato, invocato, ardentemente desiderato, sta per venire. Non è un caso che sanno vegliare soprattutto le sentinelle e gli amanti…
Per noi cristiani la veglia è una necessitas imposta dalla nostra fede nel Signore Gesù Cristo che viene nella gloria. Egli è venuto nell’umiltà della carne in mezzo a noi, condividendo la nostra umanità, “insegnandoci a vivere in questo mondo” (cf. Tt 2,12), e viene presto nella gloria. La sua venuta si imporrà, perché davanti a lui staranno tutta l’umanità e tutta la creazione (cf. Mt 25,31-46). E siccome quel “giorno” verrà all’improvviso, non sarà fissato né provocato da alcuna ragione appartenente a questo mondo, ma risponderà solo a un decreto di Dio, estrinseco alla storia e al mondo, allora occorre essere preparati, e ci si prepara esercitandosi a una lotta senza tregua contro ogni tentazione di abbassare la guardia, di chiudere gli occhi, di non accorgersi di nulla.
Lungo tutto il vangelo Gesù invita a tenere gli occhi aperti per ascoltare la parola di Dio (cf. Mc 4,12; Is 6,9-10), per discernere il lievito dei farisei che si insinua facilmente in noi (cf. Mc 8,15), per non credere a quelli che predicono il futuro come se lo conoscessero (cf. Mc 13,5.21-23). Qui invita a tenere gli occhi aperti per vigilare e vegliare, compito che riassume e dà senso a tutti precedenti. Sì, noi non sappiamo né il giorno né l’ora in cui si compirà questa parola del Signore, parola definitiva su tutta la creazione; non sappiamo quando Gesù Cristo, risorto e vivente in Dio quale Signore, verrà: e questa attesa che dura ormai da quasi duemila anni è faticosa. Nella fede, però, sappiamo che “il Signore non ritarda nel compiere la sua promessa” (2Pt 3,9) e che ai suoi occhi “un solo giorno è come mille anni e mille anni come un solo giorno” (2Pt 3,8); nella fede siamo certi che la sua parola non può mentire e non può non realizzarsi. Ecco perché lo attendiamo, perseveranti nella preghiera che grida: “Maràna tha! Vieni, Signore” (1Cor 16,22; Ap 22,20).
Questa attesa è dipinta da Gesù nella parabola in cui il Figlio dell’uomo è assente, come un uomo partito per un viaggio. Lasciando la sua casa, costui ha dato ai suoi servi facoltà e responsabilità sulla casa stessa e ha raccomandato al portinaio di vegliare alla porta su chi entra e chi esce. Per quei servi e quel portinaio questo è il tempo della responsabilità: ciascuno ha un compito preciso da svolgere, ciascuno un lavoro di cui rendere conto. Comprendiamo che qui Gesù sta evocando la sua comunità, con dei servi responsabili e un portinaio vigilante, colui che presiede.
Chissà quando il Signore verrà… Potrebbe venire nella sera quando uno dei Dodici, Giuda, lo consegna (cf. Mc 14,17.43) e Pietro, Giacomo e Giovanni dormono, invece di vegliare con lui (cf. Mc 14,32-42); o forse a mezzanotte, quando regna l’oscurità e dominano le tenebre; o forse al canto del gallo, quando il portinaio, Pietro, lo rinnega (cf. Mc 14,72); o forse al mattino, quando ormai la notte è diventata lunga, insopportabile. In ogni caso, arriverà certamente all’improvviso, per questo occorre non essere addormentati ma restare vigilanti, memori del semplice ma decisivo monito di un padre del deserto, abba Poemen: “Non abbiamo bisogno di nient’altro che di uno spirito vigilante”.

 

DOMENICA DI CRISTO RE (A) COMMENTO – GIUDICATI SULL’AMORE – ENZO BIANCHI

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DOMENICA DI CRISTO RE (A) COMMENTO – GIUDICATI SULL’AMORE – ENZO BIANCHI

Nell’ultima domenica dell’anno liturgico ascoltiamo la pagina che conclude il discorso escatologico nel vangelo secondo Matteo, quella in cui Gesù annuncia il giudizio finale. È un brano straordinario, che sintetizza in modo semplice la singolarità cristiana, ponendo con chiarezza ogni discepolo di Cristo di fronte alla propria concreta responsabilità verso i fratelli, in particolare verso gli ultimi.
“Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, si siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno riunite tutte le genti”. Gesù parla di sé alla terza persona quale Figlio dell’uomo (cf. Dn 7,13), ossia quella figura di Giudice escatologico che alla fine della storia verrà per stabilire la giustizia di Dio. La sua regalità consiste nel compiere quel giudizio che è una misura di giustizia verso tutti coloro che sulla terra sono stati vittime, privati della possibilità di una vita degna di questo nome; in questo modo Gesù porterà a compimento ciò che ha iniziato durante il suo passare tra gli uomini facendo il bene (cf. At 10,38). Il giudizio è assolutamente necessario affinché la storia abbia un senso e tutte le nostre azioni trovino la loro oggettiva verità davanti al Dio che “ama giustizia e diritto” (Sal 33,5).
Servendosi di un’immagine tratta dal profeta Ezechiele Gesù afferma che il Figlio dell’uomo “separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra” (cf. Ez 34,17). Questo giudizio, che è a un tempo universale e personale, non avviene – come potremmo attenderci – al termine di un processo: qui viene solo presentata la sentenza, perché tutta la nostra vita è il luogo di un “processo” particolarissimo. Ed è proprio per risvegliare in noi questa consapevolezza che Gesù descrive il duplice dialogo simmetrico tra il Re/Figlio dell’uomo e quanti si trovano rispettivamente alla sua destra e alla sua sinistra. Ai primi, definiti “benedetti del Padre”, il Re dona in eredità il Regno con questa motivazione: “Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, in ero carcere e siete venuti a trovarmi”. Per non aver fatto questo agli altri è invece riservata una sorte opposta.
Il metro di questa separazione non è costituito da questioni morali o teologiche: no, la salvezza dipende semplicemente dall’aver o meno servito i fratelli e le sorelle, dalle relazioni di comunione con quanti siamo stati disposti a incontrare sul nostro cammino. E ciò che colpisce è lo stupore manifestato da coloro cui il Figlio dell’uomo si rivolge: “Quando ti abbiamo visto affamato… e ti abbiamo (o non ti abbiamo) servito?”, cui segue la risposta decisiva: “Amen, io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”. Sì, il povero che manca del necessario per vivere con dignità è “sacramento” di Gesù Cristo, perché con lui Cristo stesso ha voluto identificarsi (cf. 2Cor 8,9): chi serve il bisognoso serve Cristo, lo sappia o meno.
Di più, per noi cristiani i poveri sono anche “sacramento del peccato del mondo” (Giovanni Moioli), dell’ingiustizia che regna sulla terra, e nell’atteggiamento verso di essi si misura la nostra capacità di vivere nel mondo quale corpo di Cristo. Quando infatti vediamo una persona oppressa dalla povertà, dovremmo saper interpretare questa situazione come il frutto dell’ingiustizia di cui anche noi siamo responsabili in prima persona. Da tale presa di coscienza scaturirà poi la disponibilità a farci prossimi a chi soffre per lottare contro il bisogno che lo angustia; e quando avremo operato per eliminare il bisogno, anzi mentre operiamo, ecco che il povero diventa per noi sacramento di Cristo, anche se forse lo scopriremo solo alla fine dei tempi…
Nell’ultimo giorno tutti, cristiani e non cristiani, saremo giudicati sull’amore, e non ci sarà chiesto se non di rendere conto del servizio amoroso che avremo praticato quotidianamente verso i fratelli e le sorelle, soprattutto verso i più bisognosi. E così il giudizio svelerà la verità profonda della nostra vita quotidiana, il nostro vivere o meno l’amore qui e ora: “impariamo dunque a meditare su un mistero tanto grande e a servire Cristo come egli vuole essere servito” (Giovanni Crisostomo).

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