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Padre Camtalamessa, Più diminuisce il timore di Dio, più cresce la paura degli uomini!”

dal sito: 

http://www.zenit.org/article-14755?l=italian

“Più diminuisce il timore di Dio, più cresce la paura degli uomini!”

Padre Raniero Cantalamessa commenta la liturgia domenicale

ROMA, venerdì, 20 giugno 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il commento di padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap. – predicatore della Casa Pontificia -, alla liturgia di domenica prossima.

* * *

XII Domenica del tempo ordinario

Geremia 20, 10-13; Romani 5, 12-15; Matteo 10, 26-33

Abbiate timore, ma non abbiate paura!

Il vangelo di questa domenica contiene diversi spunti, ma tutti si possono riassumere in questa frase apparentemente contraddittoria: « Abbiate timore, non abbiate paura ». Dice Gesù: « Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima; temete piuttosto colui che ha il potere di far perire e l’anima e il corpo nella Geenna ». Degli uomini non dobbiamo avere né timore, né paura; di Dio dobbiamo avere timore, ma non paura.

C’è dunque differenza tra paura e timore e cerchiamo in questa occasione di capire perché e in che consiste. La paura è una manifestazione del nostro istinto fondamentale di conservazione. È la reazione a una minaccia portata alla nostra vita, la risposta a un pericolo vero o presunto: dal pericolo più grande di tutti, che è quello della morte, ai pericoli particolari che minacciano o la tranquillità, o la incolumità fisica, o il nostro mondo affettivo. A seconda che si tratti di pericoli reali, o immaginari, si parla di

paure giustificate e di paure ingiustificate e patologiche. Come le malattie, le paure possono essere o acute o croniche. Le paure acute sono stati determinati da una situazione di pericolo straordinario. Se io sto per essere investito da un’auto, o comincio a sentire la terra tremarmi sotto i piedi per il terremoto, queste sono paure acute. Questi spaventi, come sorgono improvvisamente e senza preavviso, così scompaiono con il cessare del pericolo, lasciando semmai solo un brutto ricordo. Le paure croniche sono quelle che vivono con noi, che ci portiamo dietro dalla nascita o dall’infanzia che crescono con noi, che diventano parte del nostro essere, e alle quali finiamo a volte perfino per affezionarci. Li chiamiamo complessi o fobie: claustrofobia, agorafobia e via dicendo.

Il vangelo ci aiuta a liberarci da tutte queste paure rivelando il carattere relativo, non assoluto, dei pericoli che le causano. C’è qualcosa di noi che niente e nessuno al mondo può veramente toglierci o danneggiare: per i credenti è l’anima immortale, per tutti la testimonianza della propria coscienza. Ben diverso dalla paura

è il timore di Dio. Il timore di Dio si deve imparare: « Venite, figli, ascoltatemi, dice un salmo; vi insegnerò il timore del Signore » (Sal 33,12); la paura invece, non c’è bisogno di impararla a scuola; sopraggiunge d’improvviso davanti al pericolo; le cose si incaricano da sole di incuterci paura.

Ma è il senso stesso del timore di Dio che è diverso dalla paura. Esso è una componente della fede: nasce dal sapere chi è Dio. È lo stesso sentimento che ci coglie davanti a uno spettacolo grandioso e solenne della natura. È il sentirsi piccoli di fronte a qualcosa di immensamente più grande di noi; è stupore, meraviglia, misti ad ammirazione. Di fronte al miracolo del paralitico che si alza in piedi e cammina, si legge nel vangelo, « tutti rimasero stupiti e davano lode a Dio; pieni di timore dicevano: Oggi abbiamo visto cose prodigiose » (Lc 5, 26). Il timore è qui semplicemente un altro nome dello stupore e della lode.Questo genere di timore

è compagno e alleato dell’amore: è la paura di dispiacere all’amato che si nota in ogni vero innamorato anche nell’esperienza umana. È chiamato spesso « principio della sapienza » perché porta a fare le scelte giuste nella vita. È addirittura uno dei sette doni dello Spirito Santo (cf. Is 11, 2)!

Come sempre, il vangelo non illumina solo la nostra fede, ma ci aiuta anche a capire la nostra realtà quotidiana. La nostra è stata definita un’epoca di angoscia (W. H. Auden). L’ansia, figlia della paura, è diventata la malattia del secolo ed è, dicono, una delle cause principali del moltiplicarsi degli infarti. Come spiegare questo fatto dal momento che noi abbiamo oggi, rispetto al passato, tante maggiori sicurezze economiche, assicurazioni sulla vita, mezzi per fronteggiare le malattie e ritardare la morte?Il motivo

è che è diminuito, se non scomparso del tutto, nella nostra società il santo timore di Dio. « Non c’è più timor di Dio! », lo ripetiamo a volte come battuta scherzosa, ma contiene una tragica verità. Più diminuisce il timore di Dio, più cresce la paura degli uomini! È facile da capire il perché di ciò. Dimenticando Dio, noi riponiamo ogni fiducia nelle cose di quaggiù, cioè in quelle cose che, a dire di Cristo, « il ladro può portare via e la tignola consumare ». Cose aleatorie che ci possono venir meno da un momento all’altro, che il tempo (la tignola!) inesorabilmente consuma. Cose che tutti ambiscono e che scatenano perciò concorrenza e rivalità (il famoso « desiderio mimetico » di cui parla René Girard), cose che bisogna difendere a denti stretti e a volte con il fucile in mano.

La caduta del timore di Dio, anziché più liberi dalla paure, ci ha resi impastati di esse. Guardiamo cosa succede nel rapporto tra genitori e figli nella nostra società. I padri hanno abbandonato il timore di Dio e i figli hanno abbandonato il timore dei padri! Il timore di Dio ha il suo riflesso e il suo equivalente in terra nel timore riverenziale dei figli verso i genitori. La Bibbia associa continuamente le due cose. Ma il fatto di non avere più nessun timore o rispetto dei genitori, rende forse i ragazzi e gli adolescenti di oggi più liberi e sicuri di sé? Sappiamo bene che è vero esattamente il contrario.

La via per uscire dalla crisi è riscoprire la necessità e la bellezza del santo timore di Dio. Gesú ci spiega proprio nel vangelo di domani che compagna inseparabile del timore è la fiducia in Dio. « Due passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure neanche uno di essi cadrà a terra senza che il Padre vostro lo voglia. Quanto a voi, perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati; non abbiate dunque timore: voi valete più di molti passeri! ». Dio non vuole incuterci timore, ma fiducia. Il contrario di quell’imperatore romano che diceva: « Oderint dum metuant« : mi odino pure, perché mi temano! Così dovrebbero fare anche i padri terreni: non incutere timore, ma fiducia. È proprio così che si alimenta il rispetto, l’ammirazione, la confidenza, tutto ciò che va sotto il nome di « sano timore ».

Padre Cantalamessa – Omelia per il Corpus Domini

dal sito: 

http://www.cantalamessa.org/it/omelieView.php?id=324

sollenità del « Corpus Domini » 25 maggio 2008

Padre Cantalamessa

Nella seconda lettura san Paolo ci presenta l’Eucaristia come mistero di comunione: « Il calice che benediciamo non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che spezziamo non è forse comunione con il corpo di Cristo? » Comunione significa scambio, condivisione. Ora la regola fondamentale della condivisione è questa: quello che è mio è tuo e quello che è tuo è mio. Proviamo ad applicare questa regola alla comunione eucaristica e ci renderemo conto della « enormità » della cosa.

Che cosa ho io di propriamente « mio »? La miseria, il peccato: questo solo è esclusivamente mio. E che cosa ha di « suo » Gesú se non santità, perfezione di tutte le virtù? Allora la comunione consiste nel fatto che io do a Gesú il mio peccato e la mia povertà, e lui mi da la sua santità. Si realizza il « meraviglioso scambio », come lo definisce la liturgia.

Conosciamo diversi tipi di comunione. Una comunione assai intima è quella tra noi e il cibo che mangiamo, perché questo diventa carne della nostra carne e sangue del nostro sangue. Ho sentito delle mamme dire alla loro creatura, mentre se la stringevano al petto e la baciavano: « Ti voglio così bene che ti mangerei! ».

È vero che il cibo non è una persona vivente e intelligente con la quale possiamo scambiarci pensieri e affetti, ma supponiamo, per un momento, che il cibo sia esso stesso vivente e intelligente, non si avrebbe, in tal caso, la perfetta comunione? Ma questo è precisamente ciò che avviene nella comunione eucaristica. Gesù, nel brano evangelico, dice: « Io sono il pane vivo disceso dal cielo…La mia carne è vero cibo…Chi mangia la mia carne avrà la vita eterna ». Qui il cibo non è una semplice cosa, ma è una persona vivente. Si ha la più intima, anche se la più misteriosa, delle comunioni.

Guardiamo cosa avviene in natura, nell’ambito della nutrizione. È il principio vitale più forte che assimila quello meno forte. È il vegetale che assimila il minerale; è l’animale che assimila il vegetale. Anche nei rapporti tra l’uomo e Cristo si attua questa legge. È Cristo che assimila noi a sé; noi ci trasformiamo in lui, non lui in noi. Un famoso materialista ateo ha detto: « L’uomo è ciò che mangia ». Senza saperlo ha dato un’ottima definizione dell’Eucaristia. Grazie ad essa, l’uomo diventa davvero ciò che mangia, cioè corpo di Cristo!

Ma leggiamo il seguito del testo iniziale di S. Paolo: « Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane ». È chiaro che in questo secondo caso la parola « corpo » non indica più il corpo di Cristo nato da Maria, ma indica « tutti noi », indica quel corpo di Cristo più grande che è la Chiesa. Questo vuol dire che la comunione eucaristica è sempre anche comunione tra noi. Mangiando tutti dell’unico cibo, noi formiamo un solo corpo.

Quale la conseguenza? Che non possiamo fare vera comunione con Cristo, se siamo divisi tra noi, ci odiamo, non siamo pronti a riconciliarci. Se tu hai offeso un tuo fratello, diceva S. Agostino, se hai commesso un’ingiustizia contro di lui, e poi vai a ricevere la comunione come niente fosse, magari pieno di fervore nei confronti di Cristo, tu somigli a una persona che vede venire verso di sé un amico che non vede da molto tempo. Gli corre incontro, gli getta le braccia al collo e si alza in punta di piedi per baciarlo sulla fronte…Ma, nel fare questo, non si accorge che gli sta calpestando i piedi con scarpe chiodate. I fratelli infatti, specie i più poveri e derelitti, sono le membra di Cristo, sono i suoi piedi posati ancora sulla terra. Nel darci l’ostia il sacerdote dice: « Il corpo di Cristo », e noi rispondiamo: « Amen! ». Adesso sappiamo a chi diciamo « Amen », cioè sì, ti accolgo: non solo a Gesù, il Figlio di Dio, ma anche al prossimo.

Nella festa del Corpus Domini non posso nascondere una tristezza. Ci sono delle forme di malattia mentale che impediscono di riconoscere le persone che sono accanto. Continuano a gridare per ore: « Dov’è mio figlio? Dove mia moglie? Perché non si fa vivo? » e, magari, il figlio o la moglie sono lì che gli stringono la mano e gli ripetono: « Sono qui, non mi vedi? Sono con te! ». Succede così anche a Dio. Gli uomini nostri contemporanei cercano Dio nel cosmo o nell’atomo; discutono se ci fu o meno un creatore all’inizio del mondo. Continuiamo a domandare: « Dov’è Dio? » e non ci accorgiamo che è con noi e si è fatto cibo e bevanda per essere ancora più intimamente unito a noi.

Giovanni Battista dovrebbe ripetere mestamente: « In mezzo a voi c’è uno che voi non conoscete ». La festa del Corpus Domini è nata proprio per aiutare i cristiani a prendere coscienza di questa presenza di Cristo in mezzo a noi, per tenere desto quello che Giovanni Paolo II chiamava « lo stupore eucaristico ».

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