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La tentazione del Natale (O.R.)

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(L’Osservatore Romano 24 dicembre 2011)

La tentazione del Natale

di JULIÁN CARRÓN

Per descrivere la nostra umanità e per guardare in modo adeguato noi stessi in questo momento della storia del mondo, difficilmente potremmo trovare una parola più opportuna di quella contenuta in questo brano del profeta Sofonia: « Rallegrati, figlia di Sion, grida di gioia, Israele ». Perché? Che ragione c’è di rallegrarsi, con tutto quello che sta accadendo nel mondo? Perché « il Signore ha revocato la tua condanna ».
Il primo contraccolpo provocato in me da queste parole è per la sorpresa di come il Signore ci guarda: con occhi che riescono a vedere cose che noi non saremmo in grado di riconoscere se non partecipassimo di quello stesso sguardo sulla realtà: « Il Signore revoca la tua condanna », cioè il tuo male non è più l’ultima parola sulla tua vita; lo sguardo solito che hai su di te non è quello giusto; lo sguardo con cui ti rimproveri in continuazione non è vero. L’unico sguardo vero è quello del Signore. E proprio da questo potrai riconoscere che Egli è con te: se ha revocato la tua condanna, di che cosa puoi avere paura? « Tu non temerai più alcuna sventura ». Una positività inesorabile domina la vita. Per questo, continua il brano biblico, « non temere Sion, non lasciarti cadere le braccia ». Perché? Perché « il Signore, tuo Dio, in mezzo a te è un salvatore potente ». Non c’è un’altra sorgente di gioia che questa: « Gioirà per te, ti rinnoverà con il suo amore, esulterà per te con grida di gioia » (3, 14-17).
Che queste non sono rimaste solo parole, ma si sono compiute, è ciò che ci testimonia il Vangelo; nel bambino che Maria porta in grembo, quelle parole sono diventate carne e sangue, come ci ricorda in modo commovente Benedetto XVI: « La vera novità del Nuovo Testamento non sta in nuove idee, ma nella figura stessa di Cristo, che dà carne e sangue ai concetti – un realismo inaudito » (Deus caritas est, 12). Ed è un fatto talmente reale nella vita del mondo che non appena Elisabetta riceve il saluto da Maria, il bimbo che porta nel grembo, Giovanni, sussulta di gioia (cfr. Luca, 1, 39-45). Quelle del profeta non sono più soltanto parole, ma si sono fatte carne e sangue, fino al punto che questa gioia è diventata esperienza presente, reale.
Domandiamoci: il cristianesimo è un devoto ricordo o è un avvenimento che accade oggi esattamente come è accaduto duemila anni fa? Guardiamo i tanti fatti che i nostri occhi vedono in continuazione, che ci sorprendono e ci stupiscono, a cominciare da quel fatto imponente che si chiama Benedetto XVI e che ogni volta fa sussultare le viscere del nostro io. C’è uno in mezzo a noi che fa sussultare il « bambino » che ciascuno di noi porta in grembo, nel nostro intimo, nella profondità del nostro essere. Questa esperienza presente ci testimonia che l’episodio della Visitazione non è soltanto un fatto del passato, ma è stato l’inizio di una storia che ci ha raggiunto e che continua a raggiungerci nello stesso modo, attraverso incontri, nella carne e nel sangue di tanti che incontriamo per la strada, che ci muovono nell’intimo.
È con questi fatti negli occhi che possiamo entrare nel mistero di questo Natale, evitando il rischio del « devoto ricordo », di ridurre la festa a un puro atto di pietà, a devozione sentimentale. In fondo, tante volte la tentazione è di non aspettarsi granché dal Natale. Ma a chi è data la grazia più grande che si possa immaginare – vederlo all’opera in segni e fatti che lo documentano presente – è impossibile cadere nel rischio di celebrare la nascita di Gesù come un « devoto ricordo ». Non ci è consentito! E non perché siamo più bravi degli altri fratelli uomini, non perché non siamo fragili come tutti, ma perché siamo riscattati di continuo da questo nostro venir meno per la forza di Uno che accade ora e che revoca la nostra condanna. È solo con questi fatti negli occhi che potremo guardare il Natale che viene: non con una nostalgia devota, non col sentimento naturale che sempre provoca in noi un bambino che nasce e neppure con un vago sentimento religioso, ma in forza di una esperienza (perché tutto il resto non produce altro che una riduzione di « quella » nascita). Dove si rivela veramente chi è quel Bambino è in questa esperienza reale: il figlio di Elisabetta ha sussultato di gioia nel suo grembo. È il rinnovarsi continuo di questo avvenimento che ci impedisce di ridurre il Natale e che ce lo può fare gustare come la prima volta.

II. Rappresentazioni ed interpretazioni della stella nella tradizione

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Betlemme, Stella di

(ho messo già la prima parte: I. La stella di Betlemme e i Magi nella Sacra Scrittura)

II. Rappresentazioni ed interpretazioni della stella nella tradizione

In quasi tutte le rappresentazioni artistiche della Natività che mostrano l’adorazione dei Magi compare anche la “stella”, ma questa viene spesso presentata come elemento caratterizzante del solo “luogo della nascita” in quanto tale. L’immagine più famosa è assai probabilmente l’affresco del ricco ciclo biblico che decora la cappella degli Scrovegni a Padova, opera di Giotto all’inizio del Trecento. In tale affresco la stella viene dipinta con una coda, a voler indicare l’apparenza di una cometa, oggetto celeste non particolarmente frequente, ma ben noto fin dall’antichità. È comune ritenere che nel disegnarne i tratti, particolarmente realistici, Giotto si sia ispirato alla cometa di Halley, in orbita attorno al sole con un periodo di rivoluzione di circa 76 anni e visibile ad occhio nudo nell’anno 1301, in occasione di uno dei suoi passaggi vicino alla terra. Le immagini più antiche mostrano invece una stella senza coda. Sono a otto punte quelle del mosaico di s. Maria Maggiore a Roma del 433 e di s. Apollinare Nuovo a Ravenna del VI secolo, che curiosamente riporta due stelle, una dentro l’altra. Nel sarcofago in marmo di Adelfia, trovato nelle catacombe di s. Giovanni a Siracusa, e risalente al IV secolo, uno dei Magi indica una stella a sette raggi. Dello stesso secolo, verso il terzo decennio, è il fronte di sarcofago trovato in Vaticano: uno dei tre Magi in adorazione, accanto a due cammelli, indica una stella a sei punte a forma di ruota. La più antica rappresentazione dei Magi, in un affresco delle catacombe di Priscilla a Roma, è del II secolo: ne riporta tre, ma la stella non è visibile, forse perché la parte più alta della raffigurazione è molto rovinata; vi appare invece nell’affresco che raffigura la Madonna, con Balaam che la indica. Tra gli elementi comuni di buona parte di queste rappresentazioni, va menzionata la diversificazione somatica dei Magi — che col passare dei secoli ha conosciuto varianti a seconda delle nuove scoperte geografiche — ad indicare l’universalità della redenzione cristiana e della chiamata di tutti i popoli alla salvezza.
Tra gli autori più antichi che specularono su una origine fenomenica naturale della stella di Betlemme troviamo Origene (185 ca. -253 ca.), che ne parla due secoli dopo l’evento della nascita di Gesù di Nazaret. Egli ne difende un’interpretazione fisica e, per distanziare la reazione dei Magi dalle pratiche astrologiche dei Caldei, la descrive come una “nuova” stella, diversa da quelle conosciute (e dunque non assimilabile a congetture già prestabilite, di tipo oroscopico), analoga a quei fenomeni celesti che appaiono ogni tanto, come le comete (cfr. Contra Celsum, I, 58-59). Cita al riguardo un trattato Sulle comete dello stoico Cheremone, precettore di Nerone, ricordando che era prassi accettata che l’apparizione di comete o di nuovi astri segnalasse la nascita di importanti personaggi, ricordando al suo avversario Celso la profezia riportata da Nm 24,17 (vedi supra, I) e giustificando in base ad essa il viaggio dei Magi. Ireneo di Lione (II secolo) parla della stella in riferimento all’avverarsi della profezia di Balaam, ma non si sbilancia sulla sua possibile origine naturale (cfr. Adversus haereses, III, 9,2). Diversamente, s. Giovanni Crisostomo (350 ca. – 407) considera la stella un vero e proprio miracolo, perché non riesce a conciliare quanto il racconto evangelico narra a proposito dell’astro con quelli che sarebbero i comportamenti abituali degli oggetti celesti.
In particolare, il Crisostomo dedicherà alla stella di Betlemme e al suo simbolismo tutta la VI omelia del Commento al Vangelo di Matteo (cfr. PG 57, 61-72). A motivo del contesto ellenico in cui scrive, chiarirà immediatamente che quanto la Scrittura dice a proposito dell’apparizione della stella non può essere assimilato ad alcun vaticinio od oroscopo di natura astrologica (cfr. V, 1). Lo stesso viaggio dei Magi verso la Giudea presenta lati paradossali, perché implica delle disposizioni di umiltà che consentano loro di riconoscere un re appena nato laddove non si sarebbe mai cercato… L’autore pare concludere che «la stella dei Magi non fu una stella ordinaria, ancor più non fu una vera stella, ma una forza invisibile che prese le apparenze di una stella […] Considerate dunque donde venne ai Magi l’idea del viaggio e ciò che li spinse ad intraprenderlo. A me pare che non fu solo opera della stella, ma anche opera di Dio che mosse le loro anime» (VI, 2.4). Egli vuole in sostanza mettere in luce la dimensione spirituale del viaggio e del riconoscimento, ma non nega l’esistenza di un segno sensibile, però miracoloso, in quanto non legato a fenomeni naturali — ordinari o straordinari che siano — del cielo stellato.
Un’attenzione particolare al commento all’episodio dei Magi viene prestata anche da papa Leone Magno (440-461) nei suoi otto Sermoni sull’Epifania (PL 54, 234-263). Nel terzo di essi leggiamo: «Una stella, più fulgente delle altre, attira l’attenzione dei Magi, abitanti dell’estremo oriente. Essi erano uomini non ignari nell’arte di osservare le stelle e la loro luminosità, per questo comprendono l’importanza del segno. Certamente operava nei loro cuori la divina ispirazione, affinché non fosse nascosto a essi il mistero significato da questa grande visione e non restasse oscuro per l’animo ciò che era mostrato agli occhi» (Sermones, XXXIII, 2). L’autore, pur sviluppando in questo ed altri sermoni la valenza allegorico-spirituale della narrazione, propende dunque per un evento naturale come avvio che spinse i Magi a comprendere il più alto significato cui esso puntava. L’articolazione si fa esplicita nel primo sermone: «Per questo ai tre Magi apparve in Oriente una stella di straordinaria luminosità […] perché facilmente attirasse la loro attenzione. Così poterono rendersi conto che non avveniva a caso ciò che sembrava loro tanto insolito. Infatti, colui che aveva dato il segno, diede a quei che l’osservavano anche l’intelligenza per poterlo comprendere (dedit ergo aspicientibus intellectum, qui praestitit signum). E poi fece ricercare ciò che aveva fatto comprendere e, ricercato, si fece trovare» (Sermones, XXXI, 1). Di certo interesse in merito all’universalità con cui parla il linguaggio del cosmo, oggetto anche delle scienze, è il collegamento proposto da s. Leone fra la dimensione celeste, in qualche modo pubblica, del segno e la vocazione universale di tutte le genti a conoscere l’evento e la grazia di Gesù Cristo. Egli commenta che, mentre il riconoscimento del Messia da parte del Battista, all’inizio della sua vita pubblica, e ancor prima l’annunciazione a Maria e la notizia della nascita data ai pastori erano stati conosciuti da pochi, «questo segno che muove efficacemente i Magi da lontani paesi e li attira irresistibilmente a Gesù, Signore, senza dubbio è il segno sacro di quella grazia e l’inizio di quella vocazione per cui non solo nella Giudea, ma in tutto il mondo si sarebbe predicato il Vangelo. […] Il significato di questi mistici fatti persiste ancora: ciò che era iniziato nell’immagine si compie oggi nella realtà. Infatti irraggia dal cielo, come grazia, la stella, e i tre Magi, chiamati dal fulgore della luce evangelica, ogni giorno in tutte le nazioni accorrono ad adorare la potenza del sommo Re» (Sermones, XXXV, 1-2).
Per quanto concerne l’esegesi biblica, occorre osservare che non di rado è stata incline ad una lettura della narrazione evangelica nel quadro della Midrash, un modo di interpretare le Scritture proprio del giudaismo. L’autore del Vangelo secondo Matteo, che scrive in ambiente ebraico dirigendosi principalmente ad ebrei, potrebbe averne fatto egli stesso uso, ricostruendo cioè gli eventi alla luce della tradizione biblica precedente, associando quanto accaduto in quegli anni ad episodi o immagini già descritte nell’AT. Tutto il racconto dei Magi, oppure anche solo l’episodio dell’apparizione della stella, potrebbero essere un esempio di midrash haggadico (che a differenza di quello halakhico non fa riferimento a legislazione, ma ad aspetti morali, filosofici e teologici), costruito dall’evangelista per dimostrare il compimento delle profezie di Balaam o di Michea, oppure quella di Isaia (cfr. Is 41,2-3). Quest’ultima parla del re persiano Ciro (di cui la stella apparsa in oriente o gli stessi Magi che provenivano da quel luogo sarebbero un’immagine) che libera il popolo d’Israele dalla schiavitù babilonese. Si tratterebbe, con terminologia moderna televisiva, di una fiction, cioè di una rappresentazione verosimile, basata su fatti realmente accaduti. Ciò non toglierebbe fondamento alla storicità di quanto rivelato, ma influirebbe solo sulla scelta degli elementi della narrazione. In linea con la lettura midrashica, la stella e il suo fulgore potrebbero essere anche un modo di riproporre la gloria di Dio (eb. kabôd Jahvè), che si manifestava in modo visibile con una nube, una luce o un bagliore, coprendo il luogo ove Jahvè scendeva con la sua presenza, il Tabernacolo (eb. ’ohel) dell’Esodo e, successivamente, il Tempio di Gerusalemme (cfr. Es 40,30-34; 1Re 8,10). Il luogo della nascita di Gesù Cristo, visibile con l’umiltà di una tenda o di una sistemazione di fortuna, ma figura del vero tempio, quello invisibile, verrebbe così ricoperto dallo splendore “luminoso” della stella, come “luminosa” era la nube della gloria divina nell’AT. L’esegesi non ha invece esplorato interpretazioni di tipo astrologico-divinatorio, trattandosi di una pratica condannata nell’AT (cfr. Is 47,13-15; Ger 10,1-2; Cielo, II.2) e rifiutata dal cristianesimo ( Padri della Chiesa, IV).


La Stella di Betlemme: I. La stella di Betlemme e i Magi nella Sacra Scrittura

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La Stella di Betlemme

Michele Crudele

I. La stella di Betlemme e i Magi nella Sacra Scrittura

Nelle rappresentazioni artistiche tradizionali della Natività di Gesù di Nazaret compare un riferimento di natura astronomica, legato alle apparenze del cielo, comunemente indicato col nome «stella di Betlemme». All’origine di tale richiamo vi è un motivo di carattere biblico, essenzialmente il testo del Vangelo secondo Matteo (cfr. Mt 2,1-11). Il modo più diffuso di riferirsi a questa “stella”, specie nel linguaggio comune, è quello di chiamarla “stella cometa”. È con le apparenze di una cometa, appunto, che la stella di Betlemme viene ritratta nelle opere artistiche più famose e riprodotta nella maggior parte dei presepi, artistici o familiari, conosciuti dalla tradizione cristiana.
Accanto a commenti di natura spirituale e teologica — alcuni fra i quali hanno semplicemente qualificato la stella come un “evento miracoloso” — nel corso della storia non sono mancate domande sulla reale possibilità e sulla natura di un fenomeno celeste come quello descritto dal Vangelo. Quest’ultimo interrogativo possiede, in linea generale, dei riflessi interdisciplinari, in quanto uno studio su cosa abbia dato origine al fenomeno visto dai Magi è in fondo ancora un’indagine sui rapporti tra Rivelazione biblica e mondo naturale. In ambito teologico, una tale indagine riguarderebbe la ricerca di quei significati, allegorici o simbolici, legati alla stella, che l’ermeneutica biblica può scoprire e valutare alla luce della tradizione teologica ed ecclesiale. In ambito scientifico, l’aspetto interdisciplinare concerne invece l’eventualità di ricercare se e come la stella di Betlemme possa venire associata ad un determinato fenomeno astronomico realmente avvenuto: fra le possibili ricadute positive di tale riconoscimento vi sarebbe anche quella di fornire utili elementi — senza dubbio fra i più decisivi — alla datazione storica della nascita di Gesù (cfr. Firpo, 1983). A testimonianza dell’interesse che la stella di Betlemme ha suscitato e continua a suscitare anche fra gli scienziati depone ormai una certa bibliografia, sotto forma di molteplici articoli ed alcune qualificate monografie (cfr. Hughes, 1979; Martin, 1996, Teres, 2000). Minore, ma non trascurabile, l’attenzione rivoltale dalla teologia e dall’esegesi (cfr. Holzmeister, 1942; Rosenberg, 1972; Quéré e Léna, 1996).

I. La stella di Betlemme e i Magi nella Sacra Scrittura
Il Vangelo di Matteo è l’unica fonte del NT che parla di questo oggetto, indicandolo col nome di «stella» (gr. astér). Riportiamo qui il testo completo: «Gesù nacque a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode. Alcuni Magi giunsero da oriente a Gerusalemme e domandavano: “Dov’è il re dei Giudei che è nato? Abbiamo visto sorgere la sua stella (tòn astéra en têi anatolêi) e siamo venuti per adorarlo”. All’udire queste parole, il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme. Riuniti tutti i sommi sacerdoti e gli scribi del popolo, s’informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Messia. Gli risposero: “A Betlemme di Giudea, perché così è scritto per mezzo del profeta: E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero il più piccolo capoluogo di Giuda: da te uscirà infatti un capo che pascerà il mio popolo, Israele”. Allora Erode, chiamati segretamente i Magi, si fece dire con esattezza da loro il tempo in cui era apparsa la stella e li inviò a Betlemme esortandoli: “Andate e informatevi accuratamente del bambino e, quando l’avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch’io venga ad adorarlo”. Udite le parole del re, essi partirono. Ed ecco la stella (o astér), che avevano visto nel suo sorgere (en têi anatolêi), li precedeva (proêghen autoús), finché giunse e si fermò sopra (estáthe epáno) il luogo dove si trovava il bambino. Al vedere la stella, essi provarono una grandissima gioia. Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, e prostratisi lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. Avvertiti poi in sogno di non tornare da Erode, per un’altra strada fecero ritorno al loro paese […]. Erode, accortosi che i Magi si erano presi gioco di lui, si infuriò e mandò ad uccidere tutti i bambini di Betlemme e del suo territorio dai due anni in giù, corrispondenti al tempo su cui era stato informato dai Magi» (Mt 2,1-12.16)
Come è noto, il testo del Vangelo di Matteo a noi trasmesso è quello greco. Su un possibile originale aramaico si fanno solamente supposizioni. Il problema dell’interpretazione del testo va quindi fatto partire dalle espressioni greche. Le parole en têi anatolêi dei vv. 2 e 9 sono state tradotte spesso in passato con la forma «in oriente», facendo sembrare che si riferissero al “luogo” in cui i Magi si trovavano quando videro la stella. La traduzione italiana ufficiale contemporanea riporta più correttamente: «nel suo sorgere». Infatti, l’espressione è usata per indicare un oggetto stellare il quale, seguendo la rotazione della volta celeste dovuta alla rotazione della terra, “sorge”; si tratterebbe, secondo alcuni, precisamente del suo sorgere in opposizione al sole: vorrebbe dire, cioè, che mentre il sole tramonta, quell’oggetto sorge. Vale la pena subito notare che questa prima e più semplice interpretazione porterebbe a considerare la menzione o l’apparizione della stella come un riferimento di natura simbolica, ma non come una vera e propria indicazione di direzione: se i Magi venivano «da oriente», come si dice infatti al v. 1, essi non potevano avere, come guida materiale verso occidente (Gerusalemme), un oggetto che, almeno in quel momento dell’anno, appariva a levante. Non conosciamo quale sia stata la fonte di Matteo riguardo l’episodio dei Magi. Se alla sua base vi fosse una narrazione risalente alla madre di Gesù, sarebbe forse più plausibile non attribuire un eccessivo peso tecnico ai termini utilizzati.
Nell’AT, il Libro dei Numeri riporta la seguente affermazione: «Una stella spunta da Giacobbe e uno scettro sorge da Israele» (Nm 24,17). Sono parole di Balaam, indovino o mago il quale, chiamato dal re moabita Balac a maledire Israele, invece lo benedice e ne profetizza un futuro radioso perché riceve una rivelazione divina al riguardo. Le interpretazioni di questo testo spaziano dall’identificare la stella con il re Davide (trae qui origine il simbolo del popolo di Israele noto come «stella di Davide»), fino a vederne un anticipo della manifestazione della stella di Betlemme. La stella che spunta da Giacobbe potrebbe essere però lo stesso Messia: così era già letto da alcuni commentatori ebrei dei primi secoli avanti Cristo.
La profezia riferita in Mt 2,6 dai sacerdoti interpellati da Erode è quella del Libro di Michea: «E tu, Betlemme di Efrata così piccola per essere fra i capoluoghi di Giuda, da te mi uscirà colui che deve essere il dominatore in Israele» (Mi 5,1). Si può notare la differenza con la trascrizione da parte di Matteo che capovolge l’affermazione «così piccola» in «non sei davvero il più piccolo»: ciò non cambia il senso, ma piuttosto lo rafforza. È una delle numerose dimostrazioni dell’uso delle citazioni dell’AT, tanto frequenti in Matteo, alla luce degli eventi accaduti nel NT. Contrariamente al nostro atteggiamento moderno, all’autore sacro non interessava la perfetta corrispondenza testuale, ma il senso e il simbolismo delle profezie. Gli altri evangelisti ( Vangeli) non parlano dei Magi, né della stella. Per Marco e Giovanni non c’è da stupirsi in quanto la loro narrazione inizia con la vita pubblica di Gesù, mentre Luca, molto dettagliato sull’infanzia, curiosamente non cita nulla di questo episodio. Forse Luca conosceva il Vangelo di Matteo e non volle ripetere quanto vi si trovava già scritto. C’è anche chi attribuisce a Luca una certa prudenza nell’evitare di parlar bene dei persiani (popolo di provenienza dei Magi), perché nemici di Roma.
Secondo Erodoto (V sec. a.C.), i Magi (gr. mágoi) sarebbero stati una casta dei Medi, appartenenti alla classe dotta dei sacerdoti, studiosi dei libri sacri e dediti all’osservazione del cielo (cfr. Storie, lib. I, 101), ma la ricerca storiografica più recente ne colloca l’origine più probabilmente a Babilonia e in Persia, piuttosto che nella Media. Nell’Antico e Nuovo Testamento con quel nome si indicano persone dedite alla magia, seppur ampiamente intesa. Matteo non parla di “re”, né sono definiti così dai Padri della Chiesa più antichi; eppure già Tertulliano all’inizio del 200 scrive che i Magi in Oriente erano considerati re. La spiegazione può essere nel desiderio di applicare profezie come quella di Isaia: «Cammineranno i popoli alla tua luce, i re allo splendore del tuo sorgere» (Is 60,3), oppure del Salmo 68: «Per il tuo tempio, in Gerusalemme, a te i re porteranno doni» (Sal 68,30). Il fatto che l’evangelista Matteo non citi queste e altre profezie, pur così opportune e applicabili agli eventi narrati, potrebbe essere un indizio della storicità del racconto dei Magi: sapendo che non erano re, non ritiene che queste citazioni siano pertinenti alla loro adorazione del Bambino. Se avesse avuto come obiettivo solamente il compimento di profezie, non avrebbe perso l’occasione di utilizzare anche queste. Presto, però, nella cristianità si cominciò a chiamare Re i Magi, anche per indicare la loro importanza e, con la loro adorazione, la sottomissione dei potenti della terra al Dio fatto Bambino.
I personaggi in questione erano quasi certamente di religione zoroastriana e cultori dell’osservazione del cielo, assai probabilmente astrologi, nel senso che questo termine indicava all’epoca, nella sua accezione assiro-babilonese e non ellenica. Ricordiamo che nell’originale tradizione mesopotamica le apparenze del cielo venivano viste come un “riflesso” e a volte una “anticipazione” di quanto avveniva sulla terra, ma senza implicazioni di carattere causale ed astrolatrico ( Cielo, II.1). Dei Magi non se ne conosce il numero: la tradizione cristiana ne rappresenta due in un affresco del IV secolo nelle catacombe dei santi Marcellino e Pietro a Roma, tre o quattro in altre note rappresentazioni catacombali, ma anche fino a quattordici. Sui loro nomi, a partire dal VII secolo si trovano fonti a favore di Gaspare, Melchiorre e Baldassarre, come riferisce il Venerabile Beda (673-735), che specifica inoltre come il terzo fosse anche negro. I loro presunti resti furono trovati in Persia, portati a Costantinopoli da s. Elena o dall’imperatore Zenone, quindi trasferiti a Milano nel V secolo e poi portati definitivamente a Colonia nel XII secolo, nel cui Duomo esiste tuttora un sepolcro oggetto di grande venerazione. Il discorso rivolto nel 1980 da Giovanni Paolo II a scienziati ed universitari riuniti proprio in quella cattedrale a Colonia ne fa un esplicito riferimento in chiusura (cfr. Insegnamenti, III,2 (1980), p. 1211).
Riuscire a identificare la loro provenienza può aiutare a stimare il tempo di percorrenza dalla loro terra a Gerusalemme. A seconda della localizzazione nel vicino Oriente mesopotamico, le distanze dalla Città Santa variano tra gli 800 e i 2000 km; con una media di 50 km al giorno (un’andatura tranquilla per i cammelli delle carovane che attraversavano il deserto), la durata netta del viaggio potrebbe essere stata di 15-40 giorni. Ma non è escluso che un simile viaggio implicasse un tempo anche più lungo. In merito alla loro provenienza, Tertulliano dirà che essi venivano dall’Arabia, applicando alla lettera uno dei salmi messianici: «i re degli Arabi e di Saba offriranno tributi» (Sal 72,10).
È ragionevole ipotizzare, sempre alla luce dei pochi dati presenti nei Vangeli, che la visita dei Magi non sia avvenuta nel luogo, provvisorio e di fortuna, ove nacque Gesù. Al v. 11 del testo di Matteo è esplicito l’utilizzo del termine «casa» (gr. oikía); la cronologia degli eventi sembra propendere per la collocazione della visita tra la circoncisione, avvenuta otto giorni dopo la nascita (cfr. Lc 2,21), e la successiva presentazione di Gesù al tempio con la purificazione di sua madre al quarantesimo giorno dal parto (cfr. Lc 2,22). Esiste infine un riferimento alla stella di Betlemme nel Protovangelo di Giacomo, un testo apocrifo del II secolo ( Vangeli, III). Come accade di frequente in queste fonti, le descrizioni sono spesso esagerate ed enfatizzate, per cui il riferimento alla stella come “tanto brillante da far scomparire le altre stelle” non può essere utilizzato come un dato attendibile per ricostruire l’eventuale natura fisica del corpo celeste e le modalità della sua comparsa.
Riassumendo quanto fin qui visto a partire dall’analisi del testo evangelico e dalle conseguenze che da esso possono dedursi, è possibile fare alcune considerazioni sulle condizioni minime che una spiegazione naturale della «stella di Betlemme» (cioè come corpo o fenomeno fisico realmente apparso) debba soddisfare. La stella deve essere stata vista da un Paese ad est della Palestina, al momento del suo sorgere. Non deve essere stato un fenomeno tanto eclatante da risultare chiaramente visibile a Gerusalemme, altrimenti non si comprenderebbero la sorpresa ed il turbamento di Erode — e con lui di tutta la città — a quanto i Magi narrarono circa l’apparizione della stella. È possibile anche pensare che a Gerusalemme il fenomeno fosse stato visto, ma non fosse stato associato alla nascita del Messia; in questo modo si spiegherebbe la richiesta fatta ai Magi, da parte di Erode, di conoscere «con esattezza da loro il tempo in cui era apparsa». Siamo dunque di fronte ad un fenomeno la cui congiuntura è sufficientemente chiara da motivare un viaggio a Gerusalemme, ma al tempo stesso sufficientemente discreto da essere riconosciuto facilmente solo da “professionisti” dell’osservazione del cielo. Il testo evangelico non parla in alcun modo di una stella “che indichi il cammino” dal Paese dei Magi a Gerusalemme, mentre il v. 9, segnalando che la stella «li precedeva», si riferisce solo alla parte finale del tragitto, quella da Gerusalemme a Betlemme. In linea generale va comunque affermato che, sempre secondo il testo, il motivo che spinge i Magi a recarsi in Palestina non consiste in una “indicazione direzionale”, ma va cercato altrove.
Nella narrazione può risultare inusuale il fatto che Erode non abbia seguito o fatto seguire i Magi a Betlemme, pensando che questa si trova a circa 10 km da Gerusalemme. Pur se i Vangeli ce lo descrivono di solito molto sospettoso, è possibile che Erode si fosse fidato di loro, oppure non avesse voluto mancare di riguardo a ospiti così illustri. Meno strano è il fatto che li abbia convocati segretamente: ciò risulta in linea con quanto ci viene detto circa il carattere del re giudeo; si può immaginare che egli non volesse dare adito a chiacchiere sul suo interessamento verso un futuro Messia, il cui ruolo sarebbe stato quello di spodestarlo. Nella visione giudaica dell’epoca, il Messia era atteso infatti come un re ed un liberatore terreno, che avrebbe riscattato il suo popolo dalla dominazione straniera.
Nel partire verso Betlemme i Magi videro nuovamente la stella, che «li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino» (Mt 2,9). Questa descrizione, se interpretata alla lettera, è la più stringente e difficile da associare ad un fenomeno naturale. Si sta dicendo innanzi tutto che la “stella” si vede da Gerusalemme verso sud (cioè nella direzione di Betlemme), mentre non è chiaro il significato dell’espressione «si ferma sopra», che può indicare una posizione sulla verticale, in alto, oppure in basso avanti, traguardando da lontano la casa. Il verbo greco, nella forma passiva, indica semplicemente lo «stare fermo», mentre l’avverbio «sopra» ne individua la posizione. Il testo segnala infine che i Magi provarono una «grandissima gioia» nel rivedere la stella, in quanto la sua chiara ricomparsa viene subito interpretata come una conferma dell’esattezza della loro decisione di andare a Betlemme, un’emozione particolare forse non lontana da quella che prova uno studioso quando riceve la conferma sperimentale di una deduzione teorica o di una previsione scientifica.

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Buon Natale a tutti

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25 DICEMBRE – NATALE DEL SIGNORE – OMELIA

http://digilander.libero.it/unaparolaalgiorno/B06_Natale.htm

25 DICEMBRE – NATALE DEL SIGNORE

OMELIA

Oggi, più che mai sento che il mio compito è quello di annunciare la gioia del Dio con noi. Giovanni, nel cammino dell’avvento, in modo serio e austero ce lo ha indicato, oggi Maria con la sua tenerezza di madre, ce lo presenta. Natale è Gesù, Dio incarnato, non una bella favola che serve a far star buoni i bambini e a dare una parvenza di bontà agli adulti, non è un mito, uno dei tanti in cui un dio non sapendo cosa fare di meglio viene a farsi un giro sulla terra e così si spiega la nascita di un popolo o il nome di una città. Gesù è concreto. Colpisce come Matteo cerchi proprio di mettercela tutta per darci il tempo della nascita. « L’imperatore Cesare Augusto… Quirinio, governatore della Siria… Erode ». Gesù è davvero nato. Diceva uno storico che ci sono più prove materiali della nascita concreta di Gesù che di quella di Napoleone. E allora facciamo attenzione alle mistificazioni del Natale: A quella del rumore e del folclore, pacchiano, superficiale, consumistico, gastronomico, dispersivo, prova generale per l’altra grande carnevalata di fine d’anno. A quella del Natale dei facili sentimenti, condito di infantilismi, incrostato di buonismo tirato fuori per l’occasione, di vaghi sentimenti di tolleranza (magari oggi posso anche dare qualche soldo al marocchino di turno e, ma sì, è un bel gesto: invitiamolo anche a pranzo!) e di altruismo. Attenzione alla mistificazione del Natale delle vacanze invernali da dedicare alla neve o alla scelta di quei luoghi esotici che fanno tanto « in ». Alla mistificazione del Natale di chi boccia il Natale per parlarne poi con superiorità e vanagloria culturale. Alla mistificazione del Natale di una certa religiosità tradizionale e formale che fa sì che qualcuno vada a Messa di mezzanotte, perché fa chic e poi è una tassa annuale che si può pagare; o a quella ci certi preti e di certe organizzazioni ‘benefiche’ che facendo leva sui buoni sentimenti della gente ne fanno una ghiotta occasione per far soldi. Natale è il dono di Gesù, il figlio di Dio. Un giorno, un bambino mi ha messo in crisi. Si era durante la novena di Natale e « sto soldo di cacio di non più di sei anni », guardandomi con aria seria mi dice: « Ho bisogno di parlarti a tu per tu, e che non ci senta la mamma ». Dopo la funzione lo prendo da parte e lui, guardandosi intorno per accertarsi che nessuno ci sentisse, mi dice: « Tu sei un prete e non puoi raccontare bugie, dimmi ma è proprio Gesù che porta i doni di Natale o sono i genitori? Perché io qualche sospetto ce l’ho, ho persino visto i miei regali di Natale nascosti all’ultimo piano dell’armadio! » Cercai di cavarmela dicendo la verità ma anche tenendo conto di quanto i suoi genitori gli avevano detto, ma ad un certo punto la risposta bella che mi sentii dirgli era questa: « Noi pensiamo ai doni, ai nostri giocattoli, perché ci piacciono e sia Gesù che i genitori che ci vogliono bene ci vogliono accontentare per quello che possono anche in questo, ma c’è qualcuno che si dona totalmente a noi. Vedi, anche se Gesù non porta Lui personalmente i doni, è Lui il dono, la cosa più bella che potevamo aspettarci! » Natale è la storia stupefacente di un Dio che si fa uomo, di un Dio pieno d’amore che, non pago dei tanti « no » che gli uomini gli hanno risposto, decide di parlarci con un linguaggio che potevamo capire: farsi uno di noi, donare la sua vita perché comprendessimo la sua misericordia. Le prove, le malattie, la solitudine, le delusioni si abbattono su di noi e tutto il positivo che c’è nella vita sembra improvvisamente sparire, le speranze perdono lucentezza, uno spirito di pessimismo porta a lasciarci vivere. Il più grande deluso dovrebbe essere proprio Dio: dopo 2000 anni di cristianesimo, ancora guerre, divisioni, violenze e gli stessi che portano il nome di suo Figlio, i cristiani, che spesso non sono meglio degli altri. Eppure Dio, rinnovando anche quest’anno il Natale del suo Figlio grida alla nostra umanità e a ciascuno: « Ho ancora fiducia in te! Ho fiducia in te, perché nel tuo cuore porti i segni della mia presenza, i desideri di bello, di giusto, di vero, di infinito. Ho fiducia in te perché sei fratello di mio Figlio Gesù, vali il suo sangue versato per te. Ho fiducia in te, perché se vuoi sei capace di meraviglia, di preghiera, di perdono, di gesti di carità e di solidarietà. Ho talmente fiducia in te che chiedo proprio a te, come ho chiesto a Maria, di far nascere mio figlio Gesù in questo mondo. » E noi, che cosa possiamo rispondere? Innanzitutto stupirci di questo amore immenso che Dio ha per noi, passare da questa meraviglia al ringraziamento, all’amore, sentirci investiti di questa responsabilità, lasciar scaturire da noi il bene, guardare a Gesù per « rivestirci di Lui », aprire come Lui il cuore a tutti gli uomini. Se Gesù viene a cercarci, anche noi dobbiamo cercare Lui. Gesù nasce in una grotta. La nostra ricerca allora deve partire dalle cose semplici, non dai grandi castelli dell’intellettualismo, del consumismo ma da quella semplicità profonda che è nel fondo di ogni nostro cuore. Gesù nasce bambino, piccolo. E’ inutile cercarlo nei palazzi del potere o aspettarsi da Lui, secondo la logica dei potenti, miracoli, intrallazzi, raccomandazioni. Un bimbo sorride, piange, ha fame, ha freddo… ma la sua presenza riempie il cuore. Gesù nasce povero. Ma non basta: Egli si identifica con i poveri, gli ultimi, i piccoli, i più abbandonati. Quindi se vogliamo incontrare Cristo, ricordiamocelo quando incontriamo un povero. Celebrare il Natale sia allora per tutti noi, proprio celebrare Gesù e in Lui ricordarci che siamo figli di Dio, fratelli deboli, sofferenti, peccatori ma amati, non soli. Sia riscoprire che l’uomo ha una dignità che va ben oltre i pochi anni e i tanti affanni della nostra vita. Si usa in queste feste farci gli auguri. Io faccio a voi e a me questo: « Che tu possa incontrare Cristo. Se lo avrai incontrato continuerai a soffrire ma in un modo diverso. Cercherai la pace non solo per te ma nel rispetto degli altri, griderai per le ingiustizie, ma non diventerai ingiusto a tua volta, gioirai della vita ma non la brucerai in gioie che passano e lasciano l’amaro in bocca, porrai le tue speranze in valori che non deludono per sempre, imparerai che la strada del perdono è più dolce di quella della vendetta, aprirai gli occhi e ti vedrai subissato dal dolore dei fratelli ma avrai imparato a vedere i fratelli, vivrai nella lotta quotidiana tra squali feroci e forse ne perirai, ma saprai che anche il morire è vivere.

Natale presso i Copti

http://www.mariedenazareth.com/9996.0.html?&L=4

Natale presso i Copti

La festività del Natale celebra l’avvenimento della nascita di Gesù, Figlio di Dio , nato dalla Vergine Maria. Egli è nato a Betlemme , in Giudea, e le prime visite furono quelle di semplici pastori che trovarono Maria, Giuseppe e il Bambino Gesù deposto in una mangiatoia. Questo avvenimento ci ha portato la salvezza. Ci unisce a Dio, ce lo rivela, ci rende liberi.
L’angelo da ai pastori un segno: essi vanno a vedere il segno e vedono Maria e Giuseppe e il neonato che dorme in una mangiatoia : in altre parole Maria fa parte del grande segno del Natale.
La festa di Natale è celebrata dai copti 9 mesi dopo l’Annunciazione, il 29 di kîahk, corrispondente al 25 dicembre del calendario giuliano, al 6/7 gennaio del calendario gregoriano.
Questa solennità è preceduta da un digiuno tutti i giorni fino alle 15.00.
Dunque si celebra :
L’attesa (vigilia) del Natale il 28 kîahk
Natale, il 29 kîahk, Preceduto da una veglia con la Messa di mezzanotte.
Il giorno successivo, il 30 kîahk, in cui si commemora l’adorazione dei Magi e il re David, Antenato del Signore.
Infatti: « [...] I Padri della Chiesa hanno deciso di festeggiare il Natale in due giorni perché la nascita è avvenuta alla fine della notte del 28 kîahk . e si manifestò al mondo il giorno 29»
(Sinassario 29 kîahk, ed. Forget, in CSCO 48, 179
testo in arabo ; 78, 287 tradotto in latino.
Gabriele Giamberardini, Il culto mariano in Egitto,
Gerusalemme 1974, vol 3, p.49)
Il ruolo di Maria è molto importante, come possiamo vedere nei testi liturgici.

Nel 28 kîahk :
« In questo giorno avvenne il natale glorioso del nostro Signore Gesù Cristo secondo la carne. Fu dato alla luce dalla Vergine illibata, la nostra Signora Maria. »
(Sinassario 28 kîahk, ed. Forget, in CSCO 48, 178
testo in arabo ; 78, 286 tradotto in latino.
Gabriele Giamberardini, Il culto mariano in Egitto,
Gerusalemme 1974, vol 3, p.48)

Nel 29 kîahk
« I magi se ne andarono e divennero gli annunziatori e i predicatori del Dio incarnato.Questo pertanto, è il giorno preannunziato dal profeta Isaia, il quale disse : « Ecco che una Vergine concepirà e partorirà un figlio, il cui nome sarà Emmanuele ». Di questa vergine vaticinò Ezechiele, che disse : ‘Vidi ad oriente una porta chiusa. Nessuno entrerà o uscirà da essa, all’infuori del Dio d’Israele.’ [Ez 44, 1-2].’ »
(Sinassario 29 kîahk, ed. Forget,
in CSCO 48, 179-191; 78, 287-289
Gabriele Giamberardini, Il culto mariano in Egitto,
Gerusalemme 1974, vol 3, p.51)

Sono numerosi gli inni natalizi. Abbiamo scelto un inno che è stato inserito nello stesso Euchologion :
Ave Maria, o Regina,
o albero della vita che mai appassisce !
Ave o Colei nella quale, senza che l’agricoltore vi lavorasse,
è stato trovato il grappolo della vita.
‘In verità, il Figlio di Dio ha preso carne dalla Vergine !
Lei lo ha generato, e lui ha salvato noi dai nostri peccati.
‘Tu, o Sposa, hai trovato grazia !
Molti parlano della tua onorificenza,
poiché il Verbo di Dio è venuto, ed ha preso carne da te.
‘Quale donna sulla terra è diventata madre di Dio all’infuori di te ?
Tu infatti, donna terrena, sei diventata madre del Redentore !
‘Molte donne sono state onorate, ed hanno ottenuto il regno :
nessuna però ha potuto ottenere l’onore tuo,
o tu che tra le donne sei la più bella !
‘Ti infatti sei la fortezza sublime,
nella quale si trova la gemma, cioè l’Emmanuele,
Colui che è venuto ed ha abitato nel tuo seno !
‘Lodiamo la verità della Sposa, di colei che è senza macchia, e pura,
e Tutta Santa, della madre di Dio, Maria !
‘Tu sei più sublime del cielo, tu sei più generosa della terra
e di tutte le creature che in essa si trovano : poiché sei la madre del creatore !
‘Tu sei veramente il talamo puro del Cristo,
di Colui che, secondo la voce profetica, è lo sposo !
Intercedi per noi, o Signora, o Padrona di noi tutti,
o Madre di Dio, Maria,
o Madre di Gesù Cristo ! »

(Messale copto, Cairo, 1960, p. 629-631,
in Gabriele Giamberardini, Il culto mariano in Egitto,
Gerusalemme 1974, vol 3, p.105-106)

Nota : quando si dice che Maria è la Madre di Dio (Theotokos) o la Madre del Creatore bisogna ricordare le definizioni del Concilio di Efeso, secondo il quale è Madre di Dio non nel senso che la natura del Verbo e la sua divinità ha avuto origine dalla Vergine Maria , ma che avendo Egli tratto da lei il sacro corpo, perfezionato dalla Sua anima intelligente e ad essa unito in ipostasi viene dichiarato nato da lei secondo la carne. Un autore copto del XX° secolo ne parla in questo modo: «Noi cristiani affermiamo che la Vergine è madre di Dio perché in lei si è incarnato il Verbo. Non diciamo che abbia generato la divinità astratta, o l’umanità astratta e divisa dalla divinità: ma diciamo che ha generato Dio incarnato, secondo il santo Vangelo..» (Shihatah, Maria vergine, Cairo 1934, p. 86)

BENEDETTO XVI – Udeinza prima delle festività Natalizie

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2010/documents/hf_ben-xvi_aud_20101222_it.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI

Mercoledì, 22 dicembre 2010

Cari fratelli e sorelle!

Con quest’ultima Udienza prima delle Festività Natalizie, ci avviciniamo, trepidanti e pieni di stupore, al “luogo” dove per noi e per la nostra salvezza tutto ha avuto inizio, dove tutto ha trovato un compimento, là dove si sono incontrate e incrociate le attese del mondo e del cuore umano con la presenza di Dio. Possiamo già ora pregustare la gioia per quella piccola luce che si intravede, che dalla grotta di Betlemme comincia ad irradiarsi sul mondo. Nel cammino dell’Avvento, che la liturgia ci ha invitato a vivere, siamo stati accompagnati ad accogliere con disponibilità e riconoscenza il grande Avvenimento della venuta del Salvatore e a contemplare pieni di meraviglia il suo ingresso nel mondo.
L’attesa gioiosa, caratteristica dei giorni che precedono il Santo Natale, è certamente l’atteggiamento fondamentale del cristiano che desidera vivere con frutto il rinnovato incontro con Colui che viene ad abitare in mezzo a noi: Cristo Gesù, il Figlio di Dio fatto uomo. Ritroviamo questa disposizione del cuore, e la facciamo nostra, in coloro che per primi accolsero la venuta del Messia: Zaccaria ed Elisabetta, i pastori, il popolo semplice, e specialmente Maria e Giuseppe, i quali in prima persona hanno provato la trepidazione, ma soprattutto la gioia per il mistero di questa nascita. Tutto l’Antico Testamento costituisce un’unica grande promessa, che doveva compiersi con la venuta di un salvatore potente. Ce ne dà testimonianza in particolare il libro del profeta Isaia, il quale ci parla del travaglio della storia e dell’intera creazione per una redenzione destinata a ridonare nuove energie e nuovo orientamento al mondo intero. Così, accanto all’attesa dei personaggi delle Sacre Scritture, trova spazio e significato, attraverso i secoli, anche la nostra attesa, quella che in questi giorni stiamo sperimentando e quella che ci mantiene desti per l’intero cammino della nostra vita. Tutta l’esistenza umana, infatti, è animata da questo profondo sentimento, dal desiderio che quanto di più vero, di più bello e di più grande abbiamo intravisto e intuito con la mente ed il cuore, possa venirci incontro e davanti ai nostri occhi diventi concreto e ci risollevi.
“Ecco viene il Signore onnipotente: sarà chiamato Emmanuele, Dio-con-noi” (Antifona d’ingresso, S. Messa del 21 dicembre). Frequentemente, in questi giorni, ripetiamo queste parole. Nel tempo della liturgia, che riattualizza il Mistero, è ormai alle porte Colui che viene a salvarci dal peccato e dalla morte, Colui che, dopo la disobbedienza di Adamo ed Eva, ci riabbraccia e spalanca per noi l’accesso alla vita vera. Lo spiega sant’Ireneo, nel suo trattato “Contro le eresie”, quando afferma: “Il Figlio stesso di Dio scese «in una carne simile a quella del peccato» (Rm 8,3) per condannare il peccato, e, dopo averlo condannato, escluderlo completamente dal genere umano. Chiamò l’uomo alla somiglianza con se stesso, lo fece imitatore di Dio, lo avviò sulla strada indicata dal Padre perché potesse vedere Dio, e gli diede in dono lo stesso Padre” (III, 20, 2-3).
Ci appaiono alcune idee preferite di sant’Ireneo, che Dio con il Bambino Gesù ci richiama alla somiglianza con se stesso. Vediamo com’è Dio. E così ci ricorda che noi dovremmo essere simili a Dio. E dobbiamo imitarlo. Dio si è donato, Dio si è donato nelle nostre mani. Dobbiamo imitare Dio. E infine l’idea che così possiamo vedere Dio. Un’idea centrale di sant’Ireneo: l’uomo non vede Dio, non può vederlo, e così è nel buio sulla verità, su se stesso. Ma l’uomo che non può vedere Dio, può vedere Gesù. E così vede Dio, così comincia a vedere la verità, così comincia a vivere.
Il Salvatore, dunque, viene per ridurre all’impotenza l’opera del male e tutto ciò che ancora può tenerci lontani da Dio, per restituirci all’antico splendore e alla primitiva paternità. Con la sua venuta tra noi, Dio ci indica e ci assegna anche un compito: proprio quello di essere somiglianti a Lui e di tendere alla vera vita, di arrivare alla visione di Dio nel volto di Cristo. Ancora sant’Ireneo afferma: “Il Verbo di Dio pose la sua abitazione tra gli uomini e si fece Figlio dell’uomo, per abituare l’uomo a percepire Dio e per abituare Dio a mettere la sua dimora nell’uomo secondo la volontà del Padre. Per questo, Dio ci ha dato come «segno» della nostra salvezza colui che, nato dalla Vergine, è l’Emmanuele” (ibidem). Anche qui c’è un’idea centrale molto bella di sant’Ireneo: dobbiamo abituarci a percepire Dio. Dio è normalmente lontano dalla nostra vita, dalle nostre idee, dal nostro agire. È venuto vicino a noi e dobbiamo abituarci a essere con Dio. E audacemente Ireneo osa dire che anche Dio deve abituarsi a essere con noi e in noi. E che Dio forse dovrebbe accompagnarci a Natale, abituarci a Dio, come Dio si deve abituare a noi, alla nostra povertà e fragilità. La venuta del Signore, perciò, non può avere altro scopo che quello di insegnarci a vedere e ad amare gli avvenimenti, il mondo e tutto ciò che ci circonda, con gli occhi stessi di Dio. Il Verbo fatto bambino ci aiuta a comprendere il modo di agire di Dio, affinché siamo capaci di lasciarci sempre più trasformare dalla sua bontà e dalla sua infinita misericordia.
Nella notte del mondo, lasciamoci ancora sorprendere e illuminare da questo atto di Dio, che è totalmente inaspettato: Dio di fa Bambino. Lasciamoci sorprendere, illuminare dalla Stella che ha inondato di gioia l’universo. Gesù Bambino, giungendo a noi, non ci trovi impreparati, impegnati soltanto a rendere più bella la realtà esteriore. La cura che poniamo per rendere più splendenti le nostre strade e le nostre case ci spinga ancora di più a predisporre il nostro animo ad incontrare Colui che verrà a visitarci, che è la vera bellezza e la vera luce. Purifichiamo quindi la nostra coscienza e la nostra vita da ciò che è contrario a questa venuta: pensieri, parole, atteggiamenti e azioni, spronandoci a compiere il bene e a contribuire a realizzare in questo nostro mondo la pace e la giustizia per ogni uomo e a camminare così incontro al Signore.
Segno caratteristico del tempo natalizio è il presepe. Anche in Piazza San Pietro, secondo la consuetudine, è quasi pronto e idealmente si affaccia su Roma e sul mondo intero, rappresentando la bellezza del Mistero del Dio che si è fatto uomo e ha posto la sua tenda in mezzo a noi (cfr Gv 1,14). Il presepe è espressione della nostra attesa, che Dio si avvicina a noi, che Gesù si avvicina a noi, ma è anche espressione del rendimento di grazie a Colui che ha deciso di condividere la nostra condizione umana, nella povertà e nella semplicità. Mi rallegro perché rimane viva e, anzi, si riscopre la tradizione di preparare il presepe nelle case, nei posti di lavoro, nei luoghi di ritrovo. Questa genuina testimonianza di fede cristiana possa offrire anche oggi per tutti gli uomini di buona volontà una suggestiva icona dell’amore infinito del Padre verso noi tutti. I cuori dei bambini e degli adulti possano ancora sorprendersi di fronte ad essa.
Cari fratelli e sorelle, la Vergine Maria e san Giuseppe ci aiutino a vivere il Mistero del Natale con rinnovata gratitudine al Signore. In mezzo all’attività frenetica dei nostri giorni, questo tempo ci doni un po’ di calma e di gioia e ci faccia toccare con mano la bontà del nostro Dio, che si fa Bambino per salvarci e dare nuovo coraggio e nuova luce al nostro cammino. E’ questo il mio augurio per un santo e felice Natale: lo rivolgo con affetto a voi qui presenti, ai vostri familiari, in particolare ai malati e ai sofferenti, come pure alle vostre comunità e a quanti vi sono cari.

Meditazione sul Natale : Il Bambino abbandonato (Osservatore Romano)

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/commenti/2010/299q01b1.html

da: L’Osservatore Romano

Meditazione sul Natale

Il Bambino abbandonato

La notte di Natale del 1994, Christian de Chergé, priore del monastero cistercense Notre-Dame de Atlas a Tibhirine, in Algeria, teneva un’omelia a commento del passo evangelico « Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia ». Del testo della meditazione, tratto da L’Autre que nous attendons (Editions de Bellefontaine, 2006), pubblichiamo passi in una traduzione di Ferdinando Cancelli.

di Christian de Chergé

Questo è il segno per i pastori (…) per noi ancora, qui, lo stesso segno perché Gesù, nella sua umanità, ci dice qui qualcosa di definitivo. Gli anni sono passati. La vita pubblica è iniziata, e alla fine quell’essere avvolto nel suo lenzuolo, e quell’altro giacere nel freddo del sepolcro, a vedere bene, il Segno resta lo stesso.
La meraviglia di Dio per noi, la meraviglia dell’uomo per Dio è questo piccolo bambino avvolto in fasce, giacente, legato, affidato, abbandonato!
« Gesù abbandonato »: il grande sostegno spirituale di Monsignor Miloslav Vlk durante i suoi anni neri potrebbe non essere che il passivo del verbo abbandonare: noi sappiamo che vi sono allo stesso modo « bambini abbandonati » dalla loro nascita, come degli adulti (un uomo di 45 anni è morto questa notte su una panchina a Parigi), intere nazioni (Bosnia, Cecenia). Da qualche parte molti algerini si sentono abbandonati, lasciati al loro destino, tenuti in nessuna considerazione – e Dio stesso tace!
Si è potuto così contemplare Gesù abbandonato da tutti, anche da suo Padre. Si udirà questo grido « Mio Dio! Mio Dio! Perché mi hai abbandonato? ». Questa parola dell’uomo scritta in un salmo che fu veramente, per Lui, parola di Dio. Il vangelo non ha timore di metterla nella sua bocca. Si trova là un mistero che bisogna cercare altrove. Maria, sua madre, non l’ha abbandonato. E neanche Dio poteva abbandonare il suo Santo, il suo Giusto… Luca mette allora sulla bocca di Gesù in croce un altro versetto di un salmo che offre la chiave di lettura del « Gesù abbandonato »: « nelle tue mani consegno il mio spirito »!
Abbandonato anche un significato attivo, di colui che si lascia fare, condurre, portare, guidare; colui che abbandona la volontà propria per quella di un altro. Questo tipo di abbandono è « la morte della propria volontà », diceva Francesco di Sales. È anche il « muoio prima di morire » dei sufi. Il bambino che cade all’indietro nelle braccia di suo Padre (Teresa del Bambino Gesù).
Per me « Gesù abbandonato » è là ed è il segno che ci è donato nella nostra notte, in tutte le nostre notti – non c’è abbandono senza notte, senza quest’atto di fiducia che implica l’ignoto. È questo che distingue l’abbandono dall’obbedienza, dalla sottomissione a una volontà espressa, manifestata, conosciuta (a differenza dell’islam).
L’abbandono non è nemmeno rassegnazione, accettazione, indifferenza dal momento che in tutte queste cose vi è qualcosa di passivo, di subìto, una nota negativa.
L’abbandono è vicino a quello che l’arabo (musulmano) chiama tawakkul. Dipende innanzitutto dal buon volere di Dio, ridâ, da una volontà che si manifesta passo passo, istante dopo istante, oltre la legge. Ed ecco precisamente che su questa culla di neonato, tutto abbandonato, è proclamata la Buona Novella della Pace per gli uomini che Dio ama, gli uomini ai quali va la sua benevolenza, ai quali vuole bene! Pace agli uomini che si abbandonano all’amore di Dio allo stesso modo di Questi, « il Figlio in cui si è compiaciuto ».
Questo significa: che l’umanità può dare ormai un volto a Dio, quello di questo piccolo bambino, così dipendente in tutto, e liberamente offerto per restare tale – stadio spirituale che non potrebbe essere superato: quello in cui lo Spirito può sussurrarci senza trattenersi: « Abbà, Padre! » (…); che Dio ha anche assunto un altro volto per l’uomo: non più l’Onnipotente che si impone dall’alto, da lontano, ma questo Dio che si abbandona, fragile, dipendente, consegnato al ben volere di una madre, di una famiglia, e anche ai capricci di un popolo. In Dio, il Figlio non è che questo nelle mani del Padre. Ed è questo che viene a vivere tra le nostre mani affinché noi possiamo entrare in corrispondenza di cuore con Dio attraverso la piccola via di Natale, quella dell’abbandono amoroso al quotidiano dell’Eterno una piccola via per noi, qui, adesso.

(L’Osservatore Romano 29 dicembre 2010)

Publié dans:Natale 2011, OSSERVATORE ROMANO (L') |on 22 décembre, 2011 |Pas de commentaires »

BENEDETTO XVI: « IL VALORE RELIGIOSO DEL NATALE NON DEVE ESSERE ASSORBITO DAI SUOI ASPETTI ESTERIORI »

http://www.zenit.org/article-29074?l=italian

« IL VALORE RELIGIOSO DEL NATALE NON DEVE ESSERE ASSORBITO DAI SUOI ASPETTI ESTERIORI »

Benedetto XVI riflette sul mistero del Natale durante l’Udienza del mercoledì

CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 21 dicembre 2011 (ZENIT.org) – Riportiamo di seguito le parole pronunciate dal Santo Padre nel corso dell’Udienza Generale di questa mattina, nell’Aula Paolo VI, a cui hanno partecipato gruppi di pellegrini e fedeli giunti dall’Italia e da ogni parte del mondo.
Nel discorso in lingua italiana, il Papa si è soffermato sul mistero del Natale ormai prossimo. Dopo aver riassunto la Sua catechesi in diverse lingue, il Santo Padre ha rivolto particolari espressioni di saluto ai gruppi di fedeli presenti.
*****
Cari fratelli e sorelle,
Sono lieto di accogliervi in Udienza generale a pochi giorni dalla celebrazione del Natale del Signore. Il saluto che corre in questi giorni sulle labbra di tutti è « Buon Natale! Auguri di buone feste natalizie! ». Facciamo in modo che, anche nella società attuale, lo scambio degli auguri non perda il suo profondo valore religioso, e la festa non venga assorbita dagli aspetti esteriori, che toccano le corde del cuore. Certamente, i segni esterni sono belli e importanti, purché non ci distolgano, ma piuttosto ci aiutino a vivere il Natale nel suo senso più vero, quello sacro e cristiano, in modo che anche la nostra gioia non sia superficiale, ma profonda.
Con la liturgia natalizia la Chiesa ci introduce nel grande Mistero dell’Incarnazione. Il Natale, infatti, non è un semplice anniversario della nascita di Gesù, è anche questo, ma è di più, è celebrare un Mistero che ha segnato e continua a segnare la storia dell’uomo – Dio stesso è venuto ad abitare in mezzo a noi (cfr Gv 1,14), si è fatto uno di noi -; un Mistero che interessa la nostra fede e la nostra esistenza; un Mistero che viviamo concretamente nelle celebrazioni liturgiche, in particolare nella Santa Messa.
Qualcuno potrebbe chiedersi: come è possibile che io viva adesso questo evento così lontano nel tempo? Come posso prendere parte fruttuosamente alla nascita del Figlio di Dio avvenuta più di duemila anni fa? Nella Santa Messa della Notte di Natale, ripeteremo come ritornello al Salmo Responsoriale queste parole: «Oggi è nato per noi il Salvatore». Questo avverbio di tempo, «oggi», ricorre più volte in tutte le celebrazioni natalizie ed è riferito all’evento della nascita di Gesù e alla salvezza che l’Incarnazione del Figlio di Dio viene a portare. Nella Liturgia tale avvenimento oltrepassa i limiti dello spazio e del tempo e diventa attuale, presente; il suo effetto perdura, pur nello scorrere dei giorni, degli anni e dei secoli.
Indicando che Gesù nasce «oggi», la Liturgia non usa una frase senza senso, ma sottolinea che questa Nascita investe e permea tutta la storia, rimane una realtà anche oggi alla quale possiamo arrivare proprio nella liturgia. A noi credenti la celebrazione del Natale rinnova la certezza che Dio è realmente presente con noi, ancora « carne » e non solo lontano: pur essendo col Padre è vicino a noi. Dio, in quel Bambino nato a Betlemme, si è avvicinato all’uomo: noi Lo possiamo incontrare adesso, in un «oggi» che non ha tramonto.
Vorrei insistere su questo punto, perché l’uomo contemporaneo, uomo del « sensibile », dello sperimentabile empiricamente, fa sempre più fatica ad aprire gli orizzonti ed entrare nel mondo di Dio. La redenzione dell’umanità avviene certo in un momento preciso e identificabile della storia: nell’evento di Gesù di Nazaret; ma Gesù è il Figlio di Dio, è Dio stesso, che non solo ha parlato all’uomo, gli ha mostrato segni mirabili, lo ha guidato lungo tutta una storia di salvezza, ma si è fatto uomo e rimane uomo.
L’Eterno è entrato nei limiti del tempo e dello spazio, per rendere possibile «oggi» l’incontro con Lui. I testi liturgici natalizi ci aiutano a capire che gli eventi della salvezza operata da Cristo sono sempre attuali, interessano ogni uomo e tutti gli uomini. Quando ascoltiamo o pronunciamo, nelle celebrazioni liturgiche, questo «oggi è nato per noi il Salvatore», non stiamo utilizzando una vuota espressione convenzionale, ma intendiamo che Dio ci offre «oggi», adesso, a me, ad ognuno di noi la possibilità di riconoscerlo e di accoglierlo, come fecero i pastori a Betlemme, perché Egli nasca anche nella nostra vita e la rinnovi, la illumini, la trasformi con la sua Grazia, con la sua Presenza.
Il Natale, dunque, mentre commemora la nascita di Gesù nella carne, dalla Vergine Maria – e numerosi testi liturgici fanno rivivere ai nostri occhi questo o quell’episodio -, è un evento efficace per noi. Il Papa san Leone Magno, presentando il senso profondo della Festa del Natale, invitava i suoi fedeli con queste parole: «Esultiamo nel Signore, o miei cari, e apriamo il nostro cuore alla gioia più pura, perché è spuntato il giorno che per noi significa la nuova redenzione, l’antica preparazione, la felicità eterna.
Si rinnova infatti per noi nel ricorrente ciclo annuale l’alto mistero della nostra salvezza, che, promesso all’inizio e accordato alla fine dei tempi, è destinato a durare senza fine» (Sermo 22, In Nativitate Domini, 2,1: PL 54,193).E, sempre san Leone Magno, in un’altra delle sue Omelie natalizie, affermava: «Oggi l’autore del mondo è stato generato dal seno di una vergine: colui che aveva fatto tutte le cose si è fatto figlio di una donna da lui stesso creata. Oggi il Verbo di Dio è apparso rivestito di carne e, mentre mai era stato visibile a occhio umano, si è reso anche visibilmente palpabile.
Oggi i pastori hanno appreso dalla voce degli angeli che era nato il Salvatore nella sostanza del nostro corpo e della nostra anima» (Sermo 26, In Nativitate Domini, 6,1: PL 54,213).
C’è un secondo aspetto al quale vorrei accennare brevemente: l’evento di Betlemme deve essere considerato alla luce del Mistero Pasquale: l’uno e l’altro sono parte dell’unica opera redentrice di Cristo. L’Incarnazione e la nascita di Gesù ci invitano già ad indirizzare lo sguardo verso la sua morte e la sua risurrezione: Natale e Pasqua sono entrambe feste della redenzione. La Pasqua la celebra come vittoria sul peccato e sulla morte: segna il momento finale, quando la gloria dell’Uomo-Dio splende come la luce del giorno; il Natale la celebra come l’entrare di Dio nella storia facendosi uomo per riportare l’uomo a Dio: segna, per così dire, il momento iniziale, quando si intravede il chiarore dell’alba. Ma proprio come l’alba precede e fa già presagire la luce del giorno, così il Natale annuncia già la Croce e la gloria della Risurrezione.
Anche i due periodi dell’anno, in cui sono collocate le due grandi feste, almeno in alcune aree del mondo, possono aiutare a comprendere questo aspetto. Infatti, mentre la Pasqua cade all’inizio della primavera, quando il sole vince le dense e fredde nebbie e rinnova la faccia della terra, il Natale cade proprio all’inizio dell’inverno, quando la luce e il calore del sole non riescono a risvegliare la natura, avvolta dal freddo, sotto la cui coltre, però, pulsa la vita e comincia di nuovo la vittoria del sole e del calore.
I Padri della Chiesa leggevano sempre la nascita di Cristo alla luce dall’intera opera redentrice, che trova il suo vertice nel Mistero Pasquale. L’Incarnazione del Figlio di Dio appare non solo come l’inizio e la condizione della salvezza, ma come la presenza stessa del Mistero della nostra salvezza: Dio si fa uomo, nasce bambino come noi, prende la nostra carne per vincere la morte e il peccato. Due significativi testi di san Basilio lo illustrano bene. San Basilio diceva ai fedeli: «Dio assume la carne proprio per distruggere la morte in essa nascosta.
Come gli antidoti di un veleno una volta ingeriti ne annullano gli effetti, e come le tenebre di una casa si dissolvono alla luce del sole, così la morte che dominava sull’umana natura fu distrutta dalla presenza di Dio. E come il ghiaccio rimane solido nell’acqua finché dura la notte e regnano le tenebre, ma subito si scioglie al calore del sole, così la morte che aveva regnato fino alla venuta di Cristo, appena apparve la grazia di Dio Salvatore e sorse il sole di giustizia, « fu ingoiata dalla vittoria » (1 Cor 15,54), non potendo coesistere con la Vita» (Omelia sulla nascita di Cristo, 2: PG 31,1461).
E ancora san Basilio, in un altro testo, rivolgeva questo invito: «Celebriamo la salvezza del mondo, il natale del genere umano. Oggi è stata rimessa la colpa di Adamo. Ormai non dobbiamo più dire: « Sei in polvere e in polvere ritornerai » (Gn 3,19), ma: unito a colui che è venuto dal cielo, sarai ammesso in cielo » (Omelia sulla nascita di Cristo, 6: PG 31,1473).
Nel Natale noi incontriamo la tenerezza e l’amore di Dio che si china sui nostri limiti, sulle nostre debolezze, sui nostri peccati e si abbassa fino a noi. San Paolo afferma che Gesù Cristo «pur essendo nella condizione di Dio… svuotò se stesso, assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini» (Fil 2,6-7). Guardiamo alla grotta di Betlemme: Dio si abbassa fino ad essere adagiato in una mangiatoia, che è già preludio dell’abbassamento nell’ora della sua passione. Il culmine della storia di amore tra Dio è l’uomo passa attraverso la mangiatoia di Betlemme e il sepolcro di Gerusalemme.
Cari fratelli e sorelle, viviamo con gioia il Natale che si avvicina. Viviamo questo evento meraviglioso: il Figlio di Dio nasce ancora «oggi», Dio è veramente vicino a ciascuno di noi e vuole incontrarci, vuole portarci a Lui. Egli è la vera luce, che dirada e dissolve le tenebre che avvolgono la nostra vita e l’umanità. Viviamo il Natale del Signore contemplando il cammino dell’amore immenso di Dio che ci ha innalzati a Sé attraverso il Mistero di Incarnazione, Passione, Morte e Risurrezione del suo Figlio, poiché – come afferma sant’Agostino – «in [Cristo] la divinità dell’Unigenito si è fatta partecipe della nostra mortalità, affinché noi fossimo partecipi della sua immortalità» (Epistola 187,6,20: PL 33,839-840).
Soprattutto contempliamo e viviamo questo Mistero nella celebrazione dell’Eucaristia, centro del Santo Natale; lì si rende presente in modo reale Gesù, vero Pane disceso dal cielo, vero Agnello sacrificato per la nostra salvezza.
Auguro a tutti voi e alle vostre famiglie di celebrare un Natale veramente cristiano, in modo che anche gli scambi di auguri in quel giorno siano espressione della gioia di sapere che Dio ci è vicino e vuole percorrere con noi il cammino della vita. Grazie.
[Dopo aver riassunto la Sua catechesi in diverse lingue, il Santo Padre ha rivolto particolari espressioni di saluto ai gruppi di fedeli presenti. Agli italiani ha detto:]
Nel clima di serena attesa, tipico di questi giorni prossimi alla solennità del Natale, mi è gradito salutare con grande affetto i pellegrini di lingua italiana. In particolare, la delegazione del comune di Bolsena con l’Arcivescovo Mons. Giovanni Marra, i rappresentanti della Fattoria Autonoma Tabacchi di Città di Castello e gli Zampognari di Bojano, che ringrazio per la bella musica.
Un saluto speciale rivolgo ai giovani, agli ammalati e agli sposi novelli. Cari giovani, specialmente voi alunni del liceo Braucci di Caivano, possiate accostarvi al mistero di Betlemme con gli stessi sentimenti di fede della Vergine Maria; sia dato a voi, cari ammalati, di attingere dal presepe quella gioia e quell’intima pace che Gesù viene a portare nel mondo; e voi, cari sposi novelli, vogliate contemplare con assiduità l’esempio della santa Famiglia di Nazaret, per improntare alle virtù in essa praticate il cammino di vita familiare da poco iniziato.
Nel ricambiare gli auguri, auspico per tutti un Santo Natale ricolmo di ogni bene.
[L’Udienza Generale si è conclusa con il canto del Pater Noster e la Benedizione Apostolica impartita insieme ai Vescovi presenti].

QUAL È LA “PACE SULLA TERRA” DELL’INNO ANGELICO?

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QUAL È LA “PACE SULLA TERRA” DELL’INNO ANGELICO?

Pochissimi passi della sacra Scrittura sono stati così malintesi quanto il passo di Lc 2, 14. Si tratta dell’Inno cantato dagli Angeli durante la magnifica notte in cui avvenne la nascita nella carne del Dio Verbo senza inizio, il Signore nostro Gesù Cristo. Tale errata interpretazione da parte di molti ortodossi, non è evidentemente volontaria e intenzionale (soltanto gli eretici interpretano male volontariamente) ma è dovuta all’ignoranza del senso generale della sacra Scrittura. A causa di quest’ignoranza, ogni anno nel giorno di Natale, vengono sentite delle prediche o si leggono delle pubblicazioni di vari maestri del Vangelo della nostra Madre Chiesa, da parte di chierici e laici, in cui ci si lamenta perché le guerre non hanno ancora fine e le armi non sono state abolite mentre la pace dell’Inno Angelico non ha ancora prevalso sulla terra. Si nota che queste interpretazioni vengono persino formulate nelle Encicliche Ecclesiastiche ufficiali, nonché nelle suppliche a Dio, perché Egli consenta finalmente il prevalere della pace sulla terra, la pace di quest’Inno Angelico “il quale per circa duemila anni continua ad essere una realtà lontana, una semplice speranza, unicamente un semplice sogno, una semplice e ansiosa aspettativa”.
Invece questi benedetti ignorano che la pace dell’Inno Angelico è già una realtà ed è prevalsa sulla terra sin dall’incarnazione stessa del Signore. È sbagliato ed è frutto di malinteso interpretare questa pace come qualcosa di esteriore, come una situazione di amicizia tra gli uomini, di una persona verso l’altra, di un popolo verso l’altro, come della cessazione delle guerre e delle battaglie. L’Evangelo non ha mai promesso una tale pace. La pace dell’Evangelo è interna, è una situazione di serenità che regna nell’anima dell’uomo credente, dell’uomo che ha un legame di amicizia e comunione con Dio. Si tratta della pace tra l’uomo e Dio e non tra gli uomini. È l’abolizione del “divisorio, della barriera” che divideva terra e Cielo, uomo e Dio, è la fine della ribellione, la fine della rivoluzione della creatura verso il Creatore. È questa la pace che il Figlio di Dio ha portato venendo al mondo. E da allora ogni persona che crede in Gesù Cristo Incarnato, Crocifisso e Risorto, ha ormai per amico Dio, si trova in una comunione filiale con Lui. Non è più un ribelle, un apostata, non è più nemico di Dio; si è “riconciliato” ed è ritornato ad essere amico con Lui attraverso l’eterno Mediatore, il Signore Gesù Cristo. La situazione di ribellione e di ostilità dovuta alla disobbedienza di Adamo appartiene ormai al passato e, per l’uomo credente, risulta un semplice ricordo amaro. Dal tempo del Signore, per mezzo del Suo Sacrificio sulla Croce, l’uomo è entrato in una nuova era, in un nuovo stato, uno stato di Grazia, d’Amicizia e d’Adozione. Le promesse del Santo Vangelo si riferiscono a questa pace, non alla pace mondana esteriore. “Vi lascio la pace”, diceva il Signore agli Apostoli, “vi do la mia pace”. E per sottolineare che questa pace è di una specie diversa, aggiunge: “Io non ve la do, come il mondo la dà” (Gv 14, 27). Lo costatiamo anche in un altro punto in cui, parlando della pace esteriore, afferma di non portare tale pace. Al contrario, prevede che la fede in Lui causerà guerre tra gli uomini. Gli increduli perseguiteranno i credenti di Gesù e così le guerre non solo non diminuiranno ma aumenteranno, poiché a quelle già presenti si aggiungerà anche quella contro la nuova fede. “Non crediate”, dice, “che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada. Sono venuto, infatti, a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera”. Prima d’essere volontariamente condotto al Golgota per bere l’orribile calice della morte, consegnò agli Apostoli la pace interiore, che non è influenzata da migliaia di tristezze e persecuzioni. Malgrado tutto, essa rimase in loro proprio perché interiore: “Vi ho detto queste cose perché abbiate pace in me. Voi avrete tribolazione nel mondo, ma abbiate fiducia; io ho vinto il mondo” (Gv 16, 33). Donava la pace ai Suoi Apostoli, pur sapendo che sarebbero toccate loro morti dolorose, mentre diceva chiaramente che li mandava “come pecore in mezzo ai lupi” (Mt 10, 16). Può essere mai possibile che avesse concesso loro una pace esteriore? Indubbiamente no!
Pure il divino Paolo è predicatore e apostolo di questa pace interiore verso Dio. “Giustificati dunque per la fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo”, scrive ai Romani (5, 1). Scrivendo agli Efesini, dice che nostro Signore Gesù Cristo è “la nostra pace”, è colui che ha “riconciliato con Dio” gli uomini attraverso la croce; è venuto, quindi, ad “annunziare pace… perché per mezzo di lui abbiamo accesso… al Padre” (Ef 2, 14-18).
In conclusione: la pace dell’Inno Angelico è la pace che l’uomo ha nei confronti di Dio, non una pace esteriore. Questa pace è, infatti, prevalsa “sulla terra”, nel momento in cui la terra si è riconciliata con il cielo attraverso l’umiliazione di nostro Signore Gesù Cristo che lo condusse fino alla Croce.
È evidentemente inutile aggiungere che l’uomo in “pace verso Dio” è pure pacifico nei confronti di coloro che lo circondano. Egli ama tutti e non odia nessuno. Solo lui è in grado di dire: “ero pacifico con quelli che odiavano la pace”[1] (Sl 119, 7). Egli ama e benefica anche i suoi stessi nemici. La pace interiore è il presupposto della pace esteriore. Invece, la pace esteriore non è soltanto irraggiungibile ma risulta impensabile senza quella interiore. La tragedia della nostra epoca consiste proprio in questo: Mentre essa ha dichiarato guerra contro Dio chiede, pure ansiosamente, la pace tra gli uomini. Mentre non ha alcuna cura per la pace interiore, cerca clamorosamente quella esteriore. Sradica l’albero e attende i frutti, demolisce la casa e cerca il conforto, si allontana dal sole e vuole la luce!…
La pace, “questa cosa e questo nome dolce”, è sempre stata “sospirata da tutti gli uomini” (Est 3, 12a). Eppure nessuna epoca ne ha avuto tanto desiderio, tanta sete, quanto la nostra. Riuscirà a raggiungerla, mentre tutte le altre epoche hanno miserabilmente fallito? Cioè, ce la farà a edificare la pace senza Dio? Abolirà gli orribili armamenti odierni? Riuscirà a rendere le guerre un lontano ricordo storico? Con l’aiuto di chi? Della scienza? Della tecnologia? Dell’umanesimo? Della filosofia? Dei sistemi politici, economici e sociali? Eppure, dal fondo di lontani secoli si sente lo sconvolgente avviso, chiaro e categorico, il cui valore e verità confermano – ahimè! – l’amarissima esperienza, di circa tremila anni attraversati: “Se siete disposti ad ubbidire, mangerete i frutti della terra. Ma se vi ostinate e vi ribellate, sarete divorati dalla spada; poiché la bocca del Signore ha parlato” (Is 1, 19-20). Se la “spada” sarà quella solita, quella tradizionale o di altro genere, di nuova costruzione, prodotta dalle industrie dell’energia nucleare, questo ha poca importanza…

“Signore, tu stabilirai la pace per noi, perché Tu compi per noi ogni nostra opera; Signore Dio nostro, edificaci…”[2] (Is 26, 12-13).

Archimandrita Epifanios Theodoropoulos

Publié dans:Bibbia - Nuovo Testamento, Natale 2011 |on 21 décembre, 2011 |Pas de commentaires »
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