Archive pour la catégorie 'musica sacra'

NOT(T)E DI PASQUA – UNA CANTATA DI BACH PER PREGARE

https://www.google.it/

NOT(T)E DI PASQUA

UNA CANTATA DI BACH PER PREGARE

È molto significativo che la musica ispirata dalla vicenda della morte e risurrezione di Gesù sia nettamente a favore della passione e a svantaggio della risurrezione. Forse è più facile « identificarsi » in un Signore crocifisso … che in un Risorto un po’ incorporeo. Basta fare un breve confronto nella produzione musicale di un compositore prolifico come Bach: di lui conosciamo che abbia composto ben quattro passioni, due delle quali celeberrime e molto eseguite anche nei concerti, la Passione secondo Matteo e la Passione secondo Giovanni. Per la risurrezione, un solo oratorio, l’Oratorio di Pasqua, un lavoro interessante, ma non certo paragonabile alla sublimità delle due Passioni citate, anche per lunghezza (40 minuti contro le due ore e mezzo di ciascuna Passione…).
Si può facilmente intuire la ragione di questo. Bach, il Kantor, è legato a una confessione, quella luterana, è pienamente imbevuto della sua teologia, che è decisamente una theologia crucis, e della sua pietà. La sua preoccupazione principale è la certezza della giustificazione, del perdono dei peccati, della salvezza che ci viene dalla sofferenza vicaria che Cristo sulla croce ha patito per noi. Il senso del peccato, della contrizione, della responsabilità degli uomini di fronte alla condanna dell’Innocente predominano infatti nell’interpretazione del testo evangelico.
 Ma, fortunatamente, Bach si è trovato a dover creare musica, settimana per settimana, in commento ai testi biblici del servizio liturgico domenicale. Ci sono così conservate diverse cantate legate alle diverse domeniche di Pasqua, che tra l’altro superano in numero quelle dedicate alla quaresima… perché in questo tempo liturgico la musica era ridotta al minimo essenziale, in accordo col suo carattere penitenziale.
Scegliamo tra le tante possibili una cantata di Bach, la BWV 67 « Halt im Gedächtnis Jesum Christ » (Ricordati di Gesù Cristo), composta per la domenica dopo Pasqua (domenica detta allora Quasimodogeniti). Le letture della domenica nella chiesa di Lipsia, dove la cantata fu presentata il 16 aprile 1724, erano tratte dalla Prima lettera di Giovanni 5,4-10 (La nostra fede è la vittoria che ha vinto il mondo) e dal Vangelo di Giovanni 20,19-31 (Gesù appare agli apostoli – l’incredulità di Tommaso).
La cantata si riallaccia al testo del vangelo indirettamente, attraverso la frase tratta dalla Seconda lettera a Timoteo (2,8), che menziona la risurrezione di Cristo (in relazione alla sofferenza dell’apostolo). La frase è ripresa nel coro iniziale (n.1): « Ricordati che Gesù Cristo è risorto dai morti ». La vittoria di Gesù sulla morte è ancora rievocata dopo nel recitativo del contralto (n.3), con un’allusione a 1 Corinzi 15,55 (che a sua volta allude a Osea 13,14):
O mio Gesù, Tu sei chiamato veleno della morte e pestilenza dell’inferno: ahimé, che ancora pericolo e orrore mi colpiscono! Tu stesso hai posto sulle nostre lingue un canto di lode, che ora noi cantiamo.
Ma la certezza della risurrezione di Cristo, affermata nel coro iniziale con la frase di san Paolo, sembra subito essere contraddetta dall’aria seguente del tenore (n.2):

Il mio Gesù è risorto:
tuttavia, cosa ancora mi spaventa?
La mia fede conosce la vittoria del Salvatore,
eppure il mio cuore sente contesa e lotta;
o mia Salvezza, appari dunque!

Nonostante la fede, il cuore non ha ancora pace. Con ciò che segue l’incredulo Tommaso diventa sempre più chiaramente simbolo del cristiano tentato dai dubbi: benché Cristo sia « veleno della morte e pestilenza dell’inferno » (n.3), benché si sia salutata la risurrezione di Cristo con le parole di un inno pasquale di Nikolaus Herman (1480-1561) (n. 4):

È apparso il mirabile giorno
di cui nessuno può gioire a sufficienza:
Cristo, il nostro Signore, oggi trionfa,
Tutti i suoi nemici Egli conduce prigionieri,
Alleluja!

tuttavia il nemico continuerebbe ad opprimerci se non ci fosse Gesù che incessantemente combatte per noi (n.5):
Tuttavia pare che il resto dei nemici, che io trovo troppo grande e spaventevole, non mi lasci in pace. Ma se Tu mi hai conquistato la vittoria, allora combatti Tu stesso con me, col tuo figlio. Sì, sì, noi nella fede già presagiamo che Tu, o Principe della pace, adempirai in noi la tua parola e la tua opera.
Ma il culmine della cantata si trova nel n.6: Gesù si presenta ancora oggi, come una volta ai suoi discepoli, ai cristiani, per aiutarli, con il saluto ‘La pace sia con voi’ (Giovanni 20,19), che, ripetuto ben quattro volte, serve come cornice a una poesia in tre strofe:

‘La pace sia con voi!’
O noi felici! Gesù ci aiuta a combattere
e a smorzare la furia dei nemici:
inferno, Satana, arrendetevi!

‘La pace sia con voi!’
Gesù ci chiama alla pace
e rinvigorisce noi stanchi,
lo spirito e insieme il corpo.

‘La pace sia con voi!’
O Signore aiutaci e fa’ che riusciamo
a penetrare, attraverso la morte,
nel tuo regno glorioso!

‘La pace sia con voi!’

Con il corale conclusivo (n.7), tratto da un inno di Jakob Ebert (1549-1614), l’assemblea radunata, rappresentata dal coro, riconosce Cristo come colui che porta la pace:

Tu principe della pace, Signore Gesù Cristo,
vero uomo e vero Dio,
un potente soccorritore sei Tu
in vita e in morte:
Perciò noi soltanto
nel tuo nome
gridiamo al Padre tuo.

Nella sua risolutezza, nei suoi contrasti crescenti tra dubbio da una parte e certezza e fiducia dall’altra, fino al grandioso culmine ‘La pace sia con voi’, il testo è attraversato da un insolito carattere drammatico, che per il compositore diventa uno stimolo potente per la trasposizione musicale.

Vediamo i singoli movimenti un po’ più in dettaglio.
N.1. I due temi principali di questo movimento rappresentano in modo plastico i due motivi centrali « Ricordati » (in tedesco sono tre parole, cioè: « tieni nella memoria », « tieni a mente ») e della risurrezione. Il motivo del « Ricordati » è affidato a una melodia a valori più lunghi, che non a caso, come hanno notato alcuni commentatori, sembra alludere alla melodia « O Agnello di Dio innocente, / Ucciso sull’albero della croce [1] » inserita proprio nel coro d’apertura… della Passione secondo Matteo! Come a dire: il Risorto è anche colui che è stato messo in croce per i nostri peccati. Questo è quello che dobbiamo ricordare e tenere a mente.
La complessa costruzione simmetrica del brano, che sarebbe interessante analizzare, rivela una maestria senza eguali.
N.2. Non da meno è il carattere immaginoso del tema di questo movimento nella cui sola prima frase sono riconoscibili la certezza dell’affermazione (« Il mio Gesù »), la risurrezione (« è risorto »), lo spavento (« cosa mi spaventa ») e infine la domanda (rappresentata dall’innalzarsi della voce). Quasi un’immagine icastica dell’ondeggiare tra fede e incredulità, confidenza e paura di affidarsi….
Nn. 3-5. Questi tre movimenti formano un’unità. I due recitativi visti del contralto (nn. 3 e 5) incorniciano un semplice corale (n.4), che è la prima strofa di un inno pasquale di Nikolaus Herman del 1560.

N.6. Benché sia denominato « aria », si tratta in realtà di una costruzione in realtà più complessa, ossia di un movimento corale a più strofe. Le tre strofe sono inframmezzate dall’a solo del basso che canta « La pace sia con voi ».
Il movimento inizia con una introduzione strumentale degli archi, il cui carattere impetuoso rappresenta l’assalto del nemico. Calmatasi questa introduzione, inizia l’arioso del basso (« La pace sia con voi »), dal carattere parlante e rassicurante, con un accompagnamento dei fiati, in ritmo più tranquillo e puntato. Alla triplice ripetizione del « La pace sia con voi », segue il coro con la prima strofa, accompagnato dalla ripresa della tumultuosa introduzione strumentale dell’inizio. Il movimento prosegue con questa alternanza, leggermente variata, tra interventi corali e a soli del basso. Solo nell’ultimo intervento del basso (« La pace sia con voi »), gli archi (che nell’introduzione rappresentavano l’assalto del nemico) si uniscono ai legni che accompagnavano il basso. Un modo per suggerire che il nemico è vinto, è ristabilita la pace.
Tutti le risorse musicali vengono sfruttate dal compositore per evidenziare il contrasto tra l’uomo che viene tentato e Cristo che porta la pace: movimento – quiete, coro – solista, voci acute – voce bassa (che per Bach è sempre la vox Christi), archi – legni, tempo pari – tempo in tre quarti.

Esempio musiale
http://www.sanpaolo.org/pj-online/RUBRICHE/solo-pan/Tematico/Bach/bach%20Layer-3.wav

 Esempio musicale (file WMA)
N.7. La cantata si chiude con una semplice melodia corale sulle parole dell’inno di Jakob Ebert (1601).

Vincenzo Vitale

[1] Il testo completo dell’inno, scritto da Nicola Decius come parafrasi dell’Agnus Dei e ben noto agli ascoltatori del tempo di Bach come melodia di corale: « O Agnello di Dio innocente / Ucciso sull’albero della croce / sempre trovato paziente / sebbene deriso da tutti. / Hai preso su di te le nostre colpe / altrimenti avremmo dovuto disperare. / Gesù, abbi pietà di noi ».

« In cielo c’è una danza » : Musica ed esperienza del sacro

http://www.credereoggi.it/upload/1999/articolo114_17.asp

Musica ed esperienza del sacro

Aldo Natale Terrin

«In cielo c’è una danza»
(Van der Leeuw)

1. Introduzione: crisi delle rappresentazioni e nuova dinamica musicale
Ha ancora senso parlare del rapporto musica ed esperienza religiosa sulla scia, ad esempio, del rapporto che vi vede iscritto R. Otto, quando considera la musica in stretta analogia con il sentimento religioso? C’è ancora un connubio vincolante tra il suono, la musica, il linguaggio musicale e il senso che abbiamo di Dio, dell’Assoluto dell’incommensurabile, di ciò che è indicibile? Nella crisi delle rappresentazioni del mondo contemporaneo post-moderno sembra che la cultura non sia più in grado di creare sistemi di significato, la mousiké, l’armonia del nostro vivere al mondo si è frantumata e sembra essere inesorabilmente tramontata parallelamente al collasso che si è prodotto di tutti i sistemi simbolici consolidati e classici. Non ci sono più possibilità di dire. Ogni discorso è irrisorio prima ancora di annunciarsi, ogni parola è di troppo ancora prima che sia stata pronunciata. Una specie di rifiuto istintivo precede e accompagna ogni discorso che intenda ancora farsi interprete del mondo. Il discorso, la comunicazione è ridotta sempre più a informazione tecnica, a mezzo di mercato, a funzione unilineare, è svuotata di ogni contenuto simbolico. Il mondo nella sua totalità non è più dicibile e ogni simbolica è sospetta quando intende «tra-guardare» l’orizzonte di significatività in cui siamo posti, noi mortali, abitatori della terra.
In questa «terra desolata», – per usare l’espressione di Eliot – anche la musica sembra votata a un destino di morte. La «musica è finita». La musica è in uno stato di depauperamento e di degrado come l’ambiente. Il collasso dei simboli, dei referenti classici non permette nessuna uscita di sicurezza. C’è un appiattimento mortificante di tutti i prodotti culturali intesi come semplici prodotti di consumo, c’è un’irrilevanza di tutto ciò ci circonda proporzionale alla cosificazione, oggettivizzazione del mondo avvenuta via via a partire dal positivismo dove l’industria culturale non ha fatto altro che assolutizzare la copia, la fotocopia, la registrazione, il doppio, il multiplo mercificando tutto, compresa la stessa opera d’arte. Il moderno ha declassato i simboli e ha schiacciato la trascendenza verso il basso riducendo il discorso religioso a discorso etico e assegnando alla musica soltanto un compito formale e vuoto. La razionalità, l’ambito razioide (ratioides Gebiet) – come lo chiamerebbe Musil – ama la musica soltanto come sintassi e come struttura grammaticale. Per esso la musica è soltanto un codice e le note musicali una alterazione strutturale di movenze in vista di un riequilibrio. Il formalismo contemporaneo è fondamentale per comprendere e dissolvere la musica nelle sue strutture diacritiche nella stessa misura in cui esso si fa complice dello svuotamento simbolico col trasformare ogni componente simbolica in struttura semiotica. Così il mondo si presente sempre più simile al gioco della scatole cinesi. L’una dentro l’altra fino al vuoto. E la vita diventa davvero «una lotta contro il Nulla», come osservava G. Marcel. Nel mondo giapponese questa indicazione del vuoto è ancora più illusoria e irridente: il pacchetto delle scatole infatti appare molto elegante, raffinato, perfetto. In un certo senso è ancora più in grado di differire la scoperta dell’oggetto e di creare la curiosità e così alla fine il contrasto tra il lusso dell’involucro e l’oggetto insignificante che racchiude diventa lacerante e crudele.
Ma tutto non finisce qui. Occorre vedere anche alcuni risvolti positivi che incominciano ad apparire all’orizzonte. Oggi ci si sta muovendo verso qualcosa di nuovo, si torna a una nuova forma di leggerezza. Sembra che vi sia una nostalgia di qualcosa di più originario, sembra che si cerchi un nuovo inizio e che si tentino altre strade. Si cerca di nuovo il non detto e il non dicibile, oltre il senso stesso della realtà. Non si tratta della «nostalgia del totalmente altro» di cui parlava Horkheimer; è una nostalgia più umile, che nasce dall’humus, dalla terra che noi siamo. È il desiderio di essere noi stessi semplicemente, sinceramente. È la necessità di sopravvivere ricominciando daccapo. In un mondo in cui regna sempre più la citazione, il gioco dell’arte combinatoria, la simulazione, l’affabulazione e ultimamente il nulla, si sente il bisogno di leggere ciò che non è mai stato scritto, di recuperare una lingua originaria, quella delle viscere della terra, proveniente forse dalle stelle o dalle danze: forse è il bisogno più semplice e immediato di ritornare soltanto alla spontaneità, per raggiungere un paesaggio spirituale nuovo che la nostra lingua è incapace di scoprire dietro il chiacchiericcio che ormai sovrasta e consuma ogni realtà.
E in questo nuovo incipit il linguaggio musicale resiste, almeno come il bunraku giapponese, come il teatro delle bambole, per il bisogno di esprimere – se non altro – le nostre emozioni, i nostri slanci, le paure, i traumi. Sembra che una incipiente riorganizzazione di un qualche positivo orientamento avvenga all’insegna del linguaggio musicale, di quel linguaggio che non dice e non nomina le cose, ma le evoca soltanto, le annuncia quasi volando al di sopra di esse. Se c’è una crisi dell’oggettività e anche della soggettività, in questa caduta dei due referenti – oltre la povertà espressiva dei simboli –, sembra che l’unico aspetto fungente del nostro modo di comprendere e di abbracciare il mondo sia quello estetico-musicale che ha il suo risvolto più immediato a livello religioso nel misticismo chiamato a ergersi sulle ceneri del positivismo e dello scientismo.
C’è così un incamminamento verso ciò che è nascosto e ciò che è possibile, c’è il bisogno di «tra-guardare» al mondo attraverso il liminale e il sub-liminale, attraverso l’estasi, il sogno, il mondo onirico, il virtuale, il paranormale, l’irreale. In questa tensione dove l’estremo desiderio è che l’irreale diventi il vero reale assegniamo alla musica il compito di sottrarci all’insipienza del principio di non contraddizione e di compiere un’opera di «sconnessione» dei legami di causa/effetto per farci percepire concretamente il potere che abbiamo di immaginarci diversi da quello che siamo.
Si ritorna così al «mistico» dopo la religione e si ritorna in concomitanza a un senso primitivo della musica, si ritorna all’estetico, come a un «campanello d’allarme» del bisogno di recupero del pre-verbale, appunto come nel Bunraku giapponese, dopo i diversi linguaggi musicali e aldilà di essi. Abbiamo bisogno di dare forma alle emozioni non ai discorsi, visto che non crediamo più alla logica delle idee. E se la religiosità di oggi è di carattere essenzialmente emotivo, pare che ci sia il bisogno di recuperare una «musica emotiva», musica discontinua, cifrata, sottomessa a un’opera di auto-ironia dove, se di significati ancora si parla, si è pronti a confessare anche la propria prostituzione a significati multipli e dissonanti.
Il senso religioso allora appare ancora strettamente connesso al fatto musicale, ma l’uno e l’altro sono sottomessi a uno stato di usura e di fibrillazione dove occorre ripensare il legame originario che unisce i due modi di sentire per non perdere gli archetipi stessi di un rapporto immemoriale e pre-categoriale.

2. L’originario intreccio di musica e sacro
Schneider scopre alcuni passaggi assai significativi per capire l’intreccio originario di musica e sacro a partire dalle antiche Upanishad. Egli osserva, ad esempio, che la Chandogya Up. parla del fatto che«il mondo fu generato dalla sillaba OM, che costituisce l’essenza del saman (canto) e del soffio. Ma oltre questo suono originario, che ricorda quel suono primordiale che ha dato origine al big bang e che nel 1965 fu scoperto ancora presente negli spazi astrali dagli scienziati di Princeton, la Chandogya enumera le differenti tappe che segnano la progressiva materializzazione del mondo a partire da una musica originaria: il mondo sarebbe l’essenza della musica tradotta in metro poetico, il metro è l’essenza del linguaggio , il linguaggio è l’essenza dell’uomo, l’uomo è l’essenza delle piante, le piante sono l’essenza dell’acqua e l’acqua è l’essenza della terra».
Musica ed esperienza religiosa non appaiono perciò scindibili nella preistoria della nostra comprensione del mondo, in quella realtà iniziale in cui abbiamo incominciato a prendere coscienza del mondo e di noi stessi in una totalità senza distinzioni, senza dicotomie, senza effrazioni, senza specchi.
L’India antica per questo è forse il paese che più di ogni altro ha amato la musica, si è immedesimato con essa fino al punto da congiungere strettamente e in maniera inscindibile concezione filosofica, religiosa, cosmologica e musicale[1]. La mitologia qui è molto ricca. Prajapati, il dio delle origini, il signore delle creature nacque da un concerto di diciassette tamburi. Secondo la concezione indù, il principio che dà origine ai mondi è un principio armonico e ritmico, simboleggiato dal ritmo dei tamburi. E Shiva, in quanto creatore del mondo, non profferisce il mondo: non dice qualcosa come il fiat lux, ma crea il mondo danzando[2]. Sono famosi i tre passi di danza con cui Shiva misura il mondo. In un passo dello Shiva Pradosa Stotra si sostiene che mentre Shiva «danza sulla cima del monte Kailasa, è circondato da tutti gli dèi. Sarasvati – dea delle arti e delle scienze – suona il vina (strumento a corda con la cassa a forma di barca), Indra (dio del cielo) suona il flauto, Brahma (il creatore) tiene i cimbali e segna il tempo, Laksmi (la Fortuna) intona una canzone, Vishnu suona il tamburo. Tutti gli dèi li circondano… Tutti gli abitanti dei tre mondi si radunano per vedere la danza e per ascoltare la musica dell’orchestra divina nell’ora del crepuscolo».
La musica per sua natura non soltanto ha a che fare con il rituale e la religione, ma è vimuktida, cioè «portatrice di salvezza» e libera dal ciclo delle reincarnazioni: è una parte importante del mondo religioso Il Rigveda per esempio ci segnala i sette rsi, poeti mitici il cui canto generò la prima aurora. Gli dèi amano la musica, ma fanno musica, sono musicisti e Shiva avrebbe detto espressamente ed esclamato: «Mi piace più la musica di strumenti e di voci che mille bagni e preghiere»[3]. Per altro sappiamo che il dio Krishna si presenta sempre come il più grande suonatore di flauto e così viene ancora oggi rappresentata la sua immagine in tutto il mondo indù.
La stessa distinzione più antica dei Veda contempla il cosiddetto Samaveda che non è altro che la trascrizione musicale del Rigveda. Dunque si può dire che il rituale religioso fin dal suo sorgere aveva previsto una parte musicale talmente vincolante al rito stesso che non vi erano inni vedici che non avessero una melodia o una recitazione melodica appropriata per il culto alle divinità. Il precentor chiamato Udgatar che cantava, con i suoi accoliti, servendosi della parte musicale propria del Samaveda[4] costituiva la regola del mondo religioso antico.
Anche la Cina ci dà delle coordinate della musica antica in rapporto al sacro nella misura in cui ha amato immensamente la musica e l’ha messa in relazione con i riti e con l’intera vita religiosa secondo delle concordanze e dei parallelismi che appaiono a noi stupefacenti. Naturalmente qui si può soltanto accennare al complesso mondo cinese che ordina e ritrova armonia in ogni vera attività umana positiva e religiosa.
Tutto l’ordine del mondo si modula nella Cina antica sulla scala pentatonica indicata dagli intervalli kung (fa), shang (sol), chueh (la), chih (do) e yu (re). Questa scala veniva poi trasposta ogni mese affinché la musica si trovasse sempre in armonia con il suono fondamentale della natura, il quale variava di mese in mese. Ma la teoria musicale di incontro tra natura società e momento religioso si trova nel Li Chi dove la musica non è altro che la sostanza dei rapporti armonici che devono regnare tra cielo e terra. Per tale motivo gli antichi re facevano della musica uno strumento d’ordine e di buon governo. Quando infatti i cinque suoni sono alterati, le categorie sconfinano le une nelle altre e ciò viene chiamato «insolenza». Se le cose stanno così, in meno di un giorno può sopraggiungere la perdita del regno[5]. Dunque la musica era correlata all’ordine ad ogni livello: ordine cosmico, ordine stagionale, ordine astrofisico e soprattutto ordine sociale. A loro volta queste armonie particolari erano cooptate nel grande concerto dell’armonia universale che si faceva carico allora e sovranamente del significato religioso in senso pieno.
In maniera più prossima a noi, mi piace accennare appena alla musica rituale e liturgica del mondo tibetano. I buddhisti tibetani ritengono che la musica prepari la mente all’illuminazione spirituale e danno molto risalto al suono in rapporto al rituale e alla meditazione. Il mondo si trasforma e si unifica attraverso il suono, un suono che può essere costituito da un «mono-tono», basso, viscerale, ma che esprime l’intensità dell’esperienza ed è il rispecchiamento di una visione originaria, non contaminata, non deturpata dalle cose, dalla dispersione caotica del nostro vivere come cose in mezzo a oggetti. Seduti in fila a gambe incrociate, nei loro abiti variopinti, i monaci tibetani ancora oggi intonano e cantano i loro canti e inni quasi in un gesto di suprema e sovrana libertà dal mondo, dimenticando i segni e penetrando oltre la maya, quel velo che ci nasconde la vera realtà, maya come indice di ogni classificazione, moltiplicazione, come espressione di tutti gli epifenomeni mondani.

3. Suono e sensi. La musica sciamanica come religione «totale»
Forse il più grande antropologo che prestò attenzione alla musica ai nostri tempi è stato Lévi-Strauss, secondo il quale c’è un legame stretto tra musica e mito – potremmo omologare il mito al «mondo religioso» –, in quanto sono tutti e due strumenti per «dimenticare il tempo». La musica, ancora per Lévi-Strauss, è il mistero supremo delle scienze dell’uomo. Questo appare significativo anche se in fondo si tratta di uno sguardo gettato dall’esterno al senso che la musica ha in rapporto all’uomo e all’esperienza religiosa. Infatti «dimenticare il tempo» significa anche «trascendere il tempo», entrare in una dimensione mistico-religiosa appagante. E tutto ciò che cosa significa se non ritornare all’integrità originaria, incamminarsi verso il paradiso perduto?
A livello storico-antropologico oggi va sempre più consolidandosi l’idea, sull’indicazione di Kirby, che la prima esperienza religiosa dell’umanità non sia da attribuirsi al momento sacrificale, ma piuttosto alla danza, al suono del tamburo e all’esperienza rituale di trance. Là sembra che si possa recuperare l’originario intreccio tra musica ed esperienza religiosa. Non è difficile immaginare che tale esperienza che è propria del mondo sciamanico e che storicamente sembra collocarsi a livello dell’antica religione bon del Tibet possa essere davvero catalogata come l’originario pre-categoriale di ogni nostra esperienza religiosa nella misura in cui è un’esperienza di totalità, crea un psico-dramma coinvolgente, unisce tutti i codici comunicativi e permettendo di conseguenza un intreccio globale, una Gestalt senza smagliature. Non è un caso infatti che nel mondo sciamanico si ritrovino in unità tutto ciò che altrove è in qualche modo più o meno disgiunto, disarticolato, dislocato o distribuito in tempi diversi. Lo sciamano, infatti, quando si è travestito con apposite maschere prendendo posto all’interno dell’ambito rituale a cui è deputato, incomincia a battere il suo tamburo producendo suoni e ritmi che sono religiosi e che coinvolgono il corpo, la mente, lo spirito, creano una performance totale, dove si ritaglia lo spazio come axis mundi e si condensa il tempo, il mondo visibile e il mondo invisibile. Non batte certo l’aria, ma crea un suono originario chiama a raccolta tutte le forze positive e gli spiriti protettori mentre i suoi canti vengono accompagnati con movimenti, grida, imitazione della voce delle diversi suoni del mondo. Le divinità del cielo, della terra, i regni animali e vegetali sono chiamati in causa per far parte dell’armonia del mondo, di quell’armonia che guarisce e che restituisce la realtà nella sua trasparenza originaria. In definitiva ogni esperienza giocata sul pentagramma dell’universo e ogni armonia che nasce dalla fusione di orizzonti totalizzanti di significato non sono altro che la trascrizione più vera dell’esperienza religiosa stessa. È un’esperienza di totalità unica e indissolubile dove momento musicale e momento religioso si fondono e si confondono. Ma tutto ciò vale anche a livello etnografico per molti popoli presenti oggi sul pianeta terra.
Si possono considerare ad esempio i rapporti che intercorrono a livello musicale tra i popoli a cultura semplice e il mondo religioso corrispondente presso i Zuni Pueblo con la danza cachina, i Soshoni con la famosa danza del sole propria di quasi tutti gli indiani delle praterie, mentre nell’America latina potremmo ricordare soprattutto i Karina con la loro bella mitologia a sfondo mitico-musicale.
I Zuni Pueblo, amanti della musica e della danza come si dimostrano, contemplano due cate­gorie di danzatori e musicisti in maschera: gli dèi mascherati propriamente detti, i cosiddetti cachina e poi i preti cachina (koko). Gli dèi danzanti so­no esseri sovrannaturali, felici, che vivono in fondo a un grande la­go, molto lontano. Essi però, per ascoltare musica e danzare, preferiscono ritornare a Zuni. Impersonarli, perciò, attraverso le maschere significa con­cedere loro la gioia che maggiormente desiderano: quella di poter ve­nire ad ascoltare musica e a danzare a Zuni. E così un uomo, quando indossa la masche­ra del dio, diventa in quel momento il dio stesso, deve assumere pienamente il ruolo relativo a quella divinità e deve godere della musica e della danza come vogliono gli dei.
I danzatori cachina fanno la loro comparsa maggiore in due serie di performances: nelle danze invernali, dopo il solstizio d’inverno. Que­ste danze si tengono nei kiva o stanze dei rituali. La performance maggiore si ha però con la danza della pioggia – danze estive – che si tengono all’aperto, nella piazza del villaggio. Naturalmente tutte queste danze sono connesse con offerte e preghiere e comportano una partecipazione drammatica di tutta la popolazione, che intende con queste grandi manifestazioni far entrare nel mondo del rituale e attraverso la musica tutti gli elementi della natura, intesi secondo una «geografia sacra» che include oltre ai quattro punti cardinali anche l’alto e il basso (lo zenith e il nadir secondo la cosmologia zuni. Vi è dunque una fusione di rito e di musica in una visione altamente contemplativa del mondo e della natura a cui corrisponde una forte emozione religiosa.
Per quanto riguarda la danza del sole, mi riferisco solamente – tra i tanti esempi possibili – alla danza del sole presso i Shoshoni dello Stato dello Wyoming (USA) descritta di recente dal grande etnologo Ake Hultkranz e da Voget[6].
Le danze hanno luogo nei mesi di luglio e di agosto e il motivo di questo mondo di danze che si sprigiona in questi mesi è a circolo: viene in altre parole dalla danza stessa. «Tutto quello che sappiamo – dice la tradizione – l’abbiamo appreso dalla danza del sole»[7]. Qui si assiste a una circolarità assai significativa tra musica, rito ed esperienza religiosa, al punto che il momento religioso viene dalla musica e dalla danza, l’affabulazione mitica è figlia della musica e a sua volta la danza racconta il senso religioso. È una conferma della tesi per cui il rito viene prima del mito.
Nella danza del sole si danza per quattro giorni consecutivi, quasi senza interruzione, secondo una precisa disposizione dello spazio e dell’area sacra in cui si trova il punto centrale di riferimento. Si tiene conto del grande spiazzo, del posto da riservare agli attori, al coro, agli an­ziani; si stabilisce con precisione la disposizione del fuoco e il po­sto e l’orientamento degli spettatori. Sono previste delle pause sol­tanto per cibarsi di qualche cosa e per dormire alcune ore, mentre la danza – così continua, ripetitiva e a volte convulsa – sembra destina­re inesorabilmente i danzatori alla trance, oltre ad essere – secondo la tradizione – un grande atto di ringraziamento al sole e alla natu­ra.
Per i Karina del Venezuela ciascun suono originario è all’origine di una particolare specie animale, una wara. Per questo ora ogni specie di animali ha un suo proprio suono, possiede un suo linguaggio. Ma vi è di più: nella mitologia karina il suono era all’origine uno soltanto e il linguaggio è una frantumazione indebita dell’integrità del suono e della musica delle origini. La conoscenza che viene dalle parole è perciò basata in realtà sulla «morte» del suono in tutta la sua ricchezza simbolica. Dopo la disintegrazione ormai compiuta del suono nel linguaggio si è frantumato di conseguenza anche il significato originario. Ora si può ritornare all’integrità del significato soltanto attraverso il potere dell’immaginazione. In questo contesto di collasso dell’unità del significato è soltanto la danza che nella sua varietà di codici e di scambi di Gestalten offre la vera ermeneutica della vita e permette di recuperare l’originario oltre i linguaggi. La danza, oltre i suoni può recuperare il suono primordiale e dunque l’unità del senso. Ed è in questo senso che il grande musicista Schönberg, intravedendo questa nuova possibilità dopo le varie mortificazioni de linguaggio, tentava di estendere ne La mano felice le leggi musicali a elementi di natura non musicale attraverso componenti sceniche, mimiche facciali, colori, attraverso gesti, fino a voler creare «un coro di sguardi» e un «crescendo di luci».
Ora in tal modo si viene anche a dire che la vera conoscenza è lontana dalla conoscenza attraverso le parole, i segni, la logica delle connessioni. La vera conoscenza è piuttosto quella inconscia, sub-liminale, periferica, retroattiva, registrata in un continuo biofeedback con la natura circostante. Soltanto attraverso il suono e la musica, secondo i Karina del Venezuela, si ha la percezione vera della vita nella sua pienezza[8].

4. Suono, linguaggi e significati. Una meditazione semantica a partire dalla musica
La musica a livello etnologico, l’etnomusica sembra mettere in crisi la nostra visione occidentale della musica stessa. Ma che cosa ci indica la musica a livello etnomusicale? Il tutto del nostro vivere al mondo e il nulla del senso cercato nei dettagli, nelle cose singole, nel qui e là, nell’altrove. Ora sembra possibile affermare che il senso religioso è proprio questo. È la totalità del senso tout court, senza altre inferenze, deduzioni, induzioni, specificazioni. Il suono e con esso la musica e la religione possono allora essere anche il «non senso» nella nostra concezione occidentale o piuttosto è il senso quasi esperito «attraverso i sensi» e non più razionalmente. Forse ha ragione J. Cage e con lui Wittgenstein e il Buddhismo Zen. Da questo punto di vista la parola appare uno stereotipo prodotto al di fuori di ogni magia, di ogni entusiasmo, di ogni immaginazione, come se fosse qualcosa di naturale, parola disinvolta che crede alla propria superiorità di senso e che ambisce alla propria consistenza e invece fa parte del vuoto. «Io considero la musica come incapace di esprimere qualcosa come un sentimento, un atteggiamento o uno stato della mente, una scena naturale, ecc. L’espressione non è mai stata una proprietà immanente della musica», scriveva Strawinsky. Era la concezione della musica priva della «sonorità» della vita. Nel mondo Zen, ad esempio,si ripete la stessa cosa per la parola e in genere per il linguaggio. All’origine occorre fare una semplice osservazione: se si perde il contatto con l’originario si perde sia il senso vero della musica e sia il senso religioso.

5. Musica ed esperienza religiosa oltre i significati
Il nostro mondo occidentale – pur avendo poca dignità da attribuire al mondo – esige che ogni cosa abbia un nome e «inumidisce» di senso ogni realtà come una religione autoritaria che voglia imporre il battesimo all’intera popolazione. In fondo, gli oggetti del nostro linguaggio che cosa sono se non dei «battezzati» di diritto o dei convertiti di diritto attraverso il senso e il significato loro attribuito? Il non senso è considerato come un’infamia. Ora non sembra così per la musica, per l’etnomusica, che ancora più in là della poesia, può rinunciare al legein, al mettere insieme in funzione della ragione, può rinunciare alla connessione per un più immediato rapporto «contemplativo» del mondo, come avviene, ad esempio, in un haiku giapponese. L’haiku giapponese è un tipo di condensazione dell’esperienza difficilmente accessibile al nostro mondo occidentale in quanto non si cura di creare legami di senso, ma crea semplici e immediati rispecchiamenti come in esempi di questo tipo:

«Quante persone sono passate
attraverso la pioggia d’autunno
Sul ponte di Seta».

Oppure:

«Vengo attraverso il sentiero di montagna.
Ah! che meraviglia!
Una violetta!».

Descrittivismo? Impressionismo? Espressionismo? La vita è musica: ha la sua trasparenza e non ha bisogno di niente altro.

6. Conclusione. La musica e la religione vicine a un senso più originario, quasi a un non senso
Abbiamo bisogno ancora del senso delle parole per vivere? Non ci basta il senso della vita? C’è un senso immediato, non logico, non riflesso, non fatto oggetto ancora dei criteri di verità o di falsità, forse è questo l’originario verso il quale inconsciamente ma decisamente ci muoviamo. In questo luogo o meglio in questo «non-luogo» musica ed esperienza religiosa si incontrano ancora e in modo originale. È la teologia apofatica che deve regnare nell’insignificanza che ci circonda. È la musica «spoglia» che deve ritornare, ridotta al suono originario, al nada:suono e nulla ad un tempo.

Aldo Natale Terrin
docente di storia delle religioni e antropologia culturale
all’Università Cattolica di Milano e all’Università di Urbino

Sommario
Musica e sacro, aldilà di una facile omologazione, vengono visti nella crisi delle rappresentazioni del mondo d’oggi e nella difficoltà di far parlare il simbolico. L’impasse viene superata soltanto ad alcune condizioni alla cui origine c’è un nuovo inizio a carattere estetico-mistico. Queste condizioni sono allora una sobrietà espressiva, un pensiero profondo, il recupero di un significato unitario dietro a tutti i sensi e i non sensi del nostro vivere. Musica e sacro vanno insieme alla scoperta di un originario di cui ancora non siamo in grado di rendere conto.

[1] Secondo la lettura che ne fa Schneider. Cfr. M.Schneider, Le basi storiche della simbologia musicale, in «Conoscenza religiosa» 3(1969), 267-302.
[2] Cfr. a. coomaraswamy, The Dance of Shiva, Bombay 1988(4), 67.
[3] Cfr. Mahabharata, cap. 36, 27 cit. da C. sachs, op.cit., 153.
[4] Si veda per un’analisi dettagliata A. Bake, La musica nell’India, cit., in particolare 224.
[5] Per queste osservazioni si veda M. Schneider, La musica primitiva, cit., 91-92.
[6] Cfr. A. HULTKRANZ, Native Religions of North America, Harper and Row, New York 1987; F.W. VOGET, The Shoshoni Crow Sun Dance, Norman Okla. Uni., klahoma 1984.
[7] op.cit., 68.
[8] Cfr. L. E. Sullivan, Sound and Senses. Toward a Hermeneutics of Performance, in «History of Religions’ 26(1986), 1-33.

Publié dans:arte sacra, musica (la), musica sacra |on 11 juillet, 2012 |Pas de commentaires »

Musica, dire « Grazie » a Dio

dal sito:

http://www.hakeillah.com/4_08_06.htm

Giornata della cultura ebraica – Musica

Musica, dire « Grazie » a Dio

di A. S.
 
La musica costituisce una forma di espressione della cultura ebraica fin dalle origini. Nella Genesi (4,21) si attribuisce a Yuvàl la prima fabbricazione di strumenti musicali, in parallelo a Yavàl che istituì per primo la vita pastorale e a Tuval Qayin che cominciò ad affilare gli strumenti di lavoro: ciò significa che fin da antico la musica ebbe almeno altrettanta importanza delle varie attività produttive. Tuttavia, a differenza di altre culture che hanno lasciato una cospicua testimonianza scritta ed una riflessione teorica (trattati, ecc.) sulla propria attività musicale, nell’Ebraismo le testimonianze in proposito sono affidate in massima parte alla tradizione orale. Se si esclude l’epoca moderna, le uniche annotazioni musicali sono praticamente quelle di autori italiani del Rinascimento, ebrei (Salomone Rossi) e non ebrei (Benedetto Marcello) che si sono interessati di musica liturgica ebraica.
Nella Bibbia Ebraica il canto è una manifestazione spontanea di gratitudine all’Eterno in occasione di miracoli o interventi liberatori. Mosè e il suo popolo intonano la « Cantica del Mare » dopo l’attraversamento del Mar Rosso e così fa sua sorella Miriam accompagnata dalle donne con cembali (Esodo, 15). Parimenti Debora cantò quando ottenne la salvezza (Giudici, 5). David è chiamato « il dolce cantore d’Israele » (2 Samuele, 23,1) e a lui la tradizione attribuisce la stesura dei Salmi, una serie di 150 brani poetici ad uso liturgico. Non c’è dubbio che essi furono adoperati per accompagnare il culto sacrificale nel Santuario di Gerusalemme, cantati dai Leviti con l’accompagnamento di strumenti musicali (2 Cron., 5 e 29): la Bibbia stessa menziona 19 strumenti.
Si ritiene concordemente che nei Salmi sia attestata una terminologia musicale anche se il significato dei singoli termini può solo essere oggetto di congettura: non siamo in possesso di un’idea precisa di cosa fosse la musica ebraica nella fase più antica. È peraltro evidente che l’uso di strumenti musicali non era limitato all’ambito religioso: ne è attestato un uso pubblico, o più precisamente militare (Numeri 10, ma si pensi soprattutto alla presa di Gerico); è parimenti riconosciuto il valore terapeutico della musica (David suona l’arpa per il re Saul). La Mishnah fornisce descrizioni approfondite dell’uso del canto e della musica nell’ambito del secondo Tempio: l’affermazione secondo cui l’inizio del Sabato a Gerusalemme era annunciato da un suono di tromba al tramonto del venerdì ha trovato recenti conferme archeologiche.
Dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme (70 dell’E.V.) avvenne nell’Ebraismo una rivoluzione liturgica. Non potendosi celebrare i sacrifici in altro luogo, per disposizione biblica, il Santuario fu sostituito dalla Sinagoga, in cui il sacrificio lasciò il posto ad una preghiera comunitaria e allo studio dei Sacri Testi. Entro il primo millennio dell’Era Volgare si portò a compimento non solo la definizione del Canone Biblico e del testo ufficiale dei vari libri (testo masoretico), ma anche dell’interpunzione, adottando appositi segni grafici per la cantillazione, che sono tuttora alla base della tradizione cantoriale delle diverse comunità, le quali danno dei medesimi segni codici diversi di lettura musicata. Furono adottate melodie diversificate per il Pentateuco, per i libri profetici, per il libro di Ester (letto con tono giocoso in occasione di Purim) e per le Lamentazioni di Geremia, lette con tono luttuoso durante il digiuno del 9 di Av per commemorare la Distruzione del Tempio. Verso il VI secolo nacquero nuovi generi liturgici mutuati dalla cultura circostante, come il piyyut (dal greco poyètes), composizione poetica che fa uso di artifici letterari come il metro e l’acrostico. Questa produzione fu fervida almeno fino al XV secolo, allorché fu inventata la stampa che permise la produzione di formulari liturgici in serie.
Con il tempo si reimpostò una nuova tradizione musicale al servizio delle esigenze mutate. Il ricordo del Santuario distrutto impose un tabù sull’uso di strumenti musicali, con la sola parziale eccezione dei matrimoni. Per questo motivo, presumibilmente, la tradizione musicale antecedente fu accantonata e, in definitiva, dimenticata. Degli antichi strumenti sopravvisse soltanto lo Shofàr, in omaggio alla prescrizione biblica di suonarlo a Rosh ha Shanah. Tale suono evoca sentimenti di reverenza in questo periodo dell’anno particolarmente dedicato al pentimento e al perdono. La tradizione rabbinica, considerando l’ascolto della voce femminile una fonte di possibile distrazione per l’uomo, limitò parimenti la partecipazione attiva delle donne al culto sinagogale in genere.
Nelle Sinagoghe i diversi sentimenti religiosi furono per lo più affidati alla libera espressione vocale della Comunità. Con il tempo, tuttavia, emerse la figura del chazzan (ufficiante), l’ « inviato della Comunità » appositamente incaricato di fungere da « solista » nella conduzione della pubblica preghiera. Lo stile dei chazzanim rifletteva per lo più l’influenza dell’ambiente circostante, con punte assai raffinate: nella Mitteleuropa a partire dal Settecento si affermò la figura del « kantor » con impostazione operistica, non di rado accompagnato da un coro. Anche l’Ebraismo ebbe, a partire dall’Ottocento in Germania e poi in America, una sua Riforma che introdusse l’uso dell’organo e di cori femminili a deroga della tradizione. Il dibattito fu allora particolarmente acceso, in quanto gli Ortodossi addebitarono ai Riformati l’adozione di elementi tipici delle chiese cristiane.
Il movimento chassidico, nato in Polonia nel XVIII secolo, diede alla musicalità un’importanza grandissima come espressione della vita religiosa dell’Ebreo. In quanto mistici, i Chassidim ritenevano che il cuore umano avesse nei confronti del Divino sentimenti troppo profondi per essere espressi a parole e che solo la melodia avrebbe potuto farsene portavoce. La musica chassidica, fortemente legata nelle sue manifestazioni alla musica popolare dell’Europa dell’Est, ha dato origine a produzioni come la musica klezmer (espressione tratta dall’ebraico klì zèmer =strumento musicale), un genere considerato comunemente espressione della cultura ebraica.

A.S.                     

Publié dans:musica (la), musica sacra |on 8 novembre, 2011 |Pas de commentaires »

La musica sacra nell’ebraismo: la lettura della Torah

dal sito:

http://www.eclettico.org/israele/ebraico/musica.htm

La musica sacra nell’ebraismo: la lettura della Torah

Introduzione alla lettura ed ai diversi « modi » La religiosità ebraica è strettamente collegata all’espressione musicale. Lo si riscontra immediatamente entrando in una sinagoga, durante un servizio, in cui si scopre che i versi sacri della Torah (la Bibbia ebraica) e delle preghiere non vengono semplicemente letti in ebraico, ma vengono « cantillenati », cioè cantati secondo una determinata melodia.
Ai tempi del Tempio di Gerusalemme era uso normale impiegare la musica durante il culto; ora questa abitudine si è persa, anche in ricordo del lutto sempre presente per la distruzione del Tempio stesso. Nell’antichità la musica è sempre stata associata al divino e spesso le erano attribuiti poteri divini (presso gli egiziani, fenici, assiri e babilonesi). L’impiego della musica ha anche avuto forti avversatori per la sua carica di sensualità (Talmud, Trattato Berachot) e quindi per i culti venivano usati solo strumenti particolari. All’epoca del Tempio di Gerusalemme venivano impiegati vari strumenti a fiato, per richiamo (lo shofar – il corno di ariete – e la chatzotzera – una tromba) o per fare musica (a fiato: ugabh – piccola zampogna o flauto – halil – grande zampogna – alamoth – flauto doppio – magrepha – siringa. A percussione: tof – tamburello – metziltayim o tziltzal – cimbalo).
Nel Tempio di Gerusalemme erano impiegati il nebhel (arpa grande), il kinnor (arpa piccola), il tziltzal ed il halil; era presente anche un coro composto da uomini. La danza era considerata parte integrante delle cerimonie religiose. Il canto era in forma responsoriale (più cori che si alternano), unisono, a solo, e, raramente, antifonale (canto alternato fra gruppi equivalenti). Le fonti – la Torah e gli altri testi dell’ebraismo – attestano l’uso di cantare e suonare nei momenti di gioia come espressione di lode al Signore (vedi le varie cantiche: di Mosè, di Miriam, etc.). Purtroppo non ci sono arrivate testimonianze scritte delle melodie e quindi molto di questo patrimonio è andato perso. Sappiamo però come leggere la Torah, grazie alla tradizione orale ed a valenti maestri come Aaron ben Asher di Tiberiade del IX sec. – che fu il primo a dare alla Torah un sistema compiuto di accenti – ed i Masoreti (in ebr. « coloro che trasmettono la tradizione ») del X sec.
Il primo sistema di notazione conosciuto (segni mnemonici, con accenti particolari detti « te’amim », e chironomici, dal termine greco « chironomia », cioè segni fatti con la mano per indicare la melodia, tecnica attestata dal Talmud) descriveva, con il movimento di un dito, l’andamento della melodia ascendente (« kadma »), discendente (« tifha ») o prolungato (« zakef »): è possibile vedere l’impiego di questi segni da parte di colui che assiste il Chazzan, cioè il cantore – necessario in quanto non è permessa la lettura da un testo con scritti gli accenti – andando in una sinagoga durante la lettura della Torah. Qualsiasi ebreo può officiare il culto nella sinagoga, ma deve saper leggere la Torah e le preghiere, pratica che richiede ovviamente uno studio. Solo alcuni libri della Torah, la cui lettura pubblica è obbligatoria, sono provvisti di melodia: Pentateuco, Profeti, Ester, Lamentazioni, Ruth, Ecclesiaste, Cantico dei Cantici, Salmi, Giobbe (Proverbi, Esdra, Neemia e Cronache non hanno melodie perché non erano letti durante il servizio).
La musica ebraica sacra è fondata sul sistema modale, composto da un numero di « motivi » (breve figure musicali o gruppi di note) all’interno di una determinata scala. Il modo di leggere la Torah è segnalato fin dal I secolo. Il modo del Pentateuco è influenzato dalla musica greca ed orientale ed esprime dignità ed innalzamento dello spirito. Vi sono vari modi di leggere la Torah, a seconda dell’area geografica. Quello askenazita (Europa dell’Est) – fortemente influenzato dalla musica tedesca ed espressione di sentimenti struggenti e melanconici – è simile a quello in uso nelle comunità ebraiche del sud della Francia – Carpentras, Avignone – e dell’Italia. Il modo sefardita (Spagna ed Africa del nord) ha invece varie somiglianze con il canto gregoriano – che fece propri parecchi elementi dei canti ebraici – ed ovviamente ha molte affinità con le melodie arabe. In Italia, nel XVII secolo, Salomone Rossi – famoso musicista ebreo alla corte di Mantova – introdusse l’armonia e la polifonia nella musica sinagogale ed influenzò anche i paesi di lingua tedesca.
Il modo di cantare la Torah viene effettuato su una base stabilita, che sono appunto i « te’amim », ma il suo svolgimento è diverso non solo tra comunità askenazite, sefardite, italiane, ma anche tra le varie città della stessa nazione. Motivo per cui, per esempio, se si andrà in sinagoga a Roma, Venezia o Torino, non si ascolterà la stessa identica lettura. Ogni comunità ebraica, su una base di regole comuni, ha i propri usi e costumi e ciò è valido anche per il modo della lettura della Torah.

Publié dans:ebraismo, musica sacra |on 25 août, 2011 |Pas de commentaires »

Dieci parole per la musica liturgica: “Espressiva”

dal sito:

http://www.zenit.org/article-25018?l=italian

Dieci parole per la musica liturgica: “Espressiva”

di Aurelio Porfiri*

ROMA, martedì, 21 dicembre 2010 (ZENIT.org).- Espressiva. Una domenica qualunque, mi trovavo in una parrocchia per assistere alla Messa. Ovviamente, per deformazione professionale, ero particolarmente attento ai canti che erano eseguiti e quindi anche in quella occasione il mio orecchio poneva particolare attenzione ai suoni che venivano da un gruppetto che era ormeggiato nei primi banchi della navata centrale. Questo gruppo si dava da fare nella performance, che era praticamente costituita dal repertorio beat aggiornato alle ultime produzioni ricalcanti questo stile. Impugnavano le loro chitarre con malcelata confidenza e baldanza e, fatti sicuri di un microfono a pericolosa distanza di sicurezza, ce la mettevano proprio tutta. Osservavo questi fedeli impegnati nell’animazione e potevo veramente vedere che ponevano tutta la loro buona volontà nel rendere quello che andavano cantando “espressivo”.
Non essendo convinto (tuttora) che quel repertorio sia adeguato alle celebrazioni liturgiche mi chiesi quale doveva essere il rapporto fra la loro buona volontà e il risultato. Mi sembra di poter fare alcune osservazioni: la prima è che solitamente questi gruppi esprimono un’appartenenza, in questo caso quella dell’essere giovani che viene mediata da un certo tipo di musica che si ascolta. La seconda è che quest’appartenenza non deve essere in contrasto con l’appartenenza liturgica. Mi spiego. Nella liturgia noi non celebriamo il presente, ma ci apriamo all’eterno. E’ vero che ogni musica vive nel presente ed è fatta di presente ma è anche vero che ci sono alcuni tipi di musica che sono veramente segno e simbolo del quotidiano. Come già detto, la musica pop è la regina di questi repertori, ed esprime tipicamente ansie e gioie e sentimenti pienamente iscritti nella nostra vita di tutti i giorni, chi più chi meno. Quando chiedo ai miei studenti perché a loro piace la musica pop o rock, mi dicono che si sentono “comodi”, rappresentati. Su questo non ho nulla da dire. Ma nella liturgia noi non ci rappresentiamo di per sé come gruppo (giovani, anziani, dopolavoro…) ma come comunità liturgica, come popolo di Dio. Non siamo noi che viviamo, direbbe san Paolo, ma Cristo che vive in noi. Quindi, tutto ciò che denota un’appartenenza sociale può essere inadeguato.
Mi rendo conto che ci si prodiga in liturgie per tutte le categorie sociali e questo se ben inteso è anche un bene: ma bisogna sempre tenere presente che esse dovrebbero poi essere inserite nell’ambiente liturgico del popolo di Dio, non il contrario. Ci possono essere rare eccezioni (i bambini per esempio o categorie svantaggiate) ma tutti siamo membra dell’unico corpo, ciò che celebriamo è il corpo, non le membra. Quindi sì alle liturgie per i bambini, per i militari, per i giovani ma no alle liturgie dei bambini, dei militari o dei giovani (o di chicchessia). L’espressività della musica liturgica non dovrebbe derivare dall’essere espressione della parzialità ma dovrebbe aprirsi ad una certa universalità (e questa in effetti era una delle caratteristiche che richiedeva san Pio X nel suo Motu Proprio). Quindi bisognerebbe riscoprire l’oggettività della musica liturgica come via alla rappresentazione efficace e mediata delle emozioni che proviamo. Oggettivo non significa non sentimentale ma significa che esprime il sentimento della collettività liturgica, l’insieme della Chiesa terrestre e celeste. Non è una rivendicazione di categoria ma un anelito che unisce il cielo e la terra. Anche qui vorrei chiedere aiuto a Romano Guardini:
“Il singolo deve rinunziare a pensar a modo proprio e a percorrere le vie proprie, giacché deve perseguire fini e intenti e seguire pensieri e vie, che la liturgia gli propone. Deve rinunziare per essa a disporre di sé; deve pregare con gli altri anziché procedere per conto proprio; ascoltare, anziché riflettere tra sé e sé; attenersi alla norma, anziché muoversi secondo il proprio volere. Compito dell’individuo è inoltre di ‘realizzare’ il mondo delle idee liturgiche; deve uscire dalla cerchia consueta dei suoi pensieri e appropriarsi un mondo spirituale piu’ vasto e comprensivo; deve andar oltre i suoi scopi personali per accogliere le finalità formative della grande comunità liturgica umana ” (“Introduzione allo Spirito della Liturgia, Pagg. 39-40).
Credo che sia espresso chiaramente il concetto che cerco di far passare: la musica liturgica non esprime l’io, ma il noi liturgico. Essa è oggettiva nel senso che si pone come scopo quello di mediare l’inconoscibile e quindi esprime ciò che è inesprimibile. Se ci si pone solo da un lato della relazione liturgica (Naturale/Soprannaturale) manca ovviamente l’elemento fondante dell’agire liturgico. Il problema dell’appartenenza sociale non è ovviamente limitato a chi fa la musica per la chiesa di tipo pop, ma anche a chi si nasconde spesso dietro repertori come il canto gregoriano o la polifonia per difendere un’idea del passato che probabilmente è anche irreale. Come ripeto, in questo caso la colpa non è dei repertori ma di chi ne fa l’abuso. Quindi qual è la differenza? La differenza è che nel caso della musica di tipo pop, l’appartenza è insita nella musica stessa, mentre nel secondo caso l’appartenenza è in chi fa un uso sbagliato di un repertorio che di per sé non appartiene a nessuno, se non alla Chiesa come affermato in documenti magisteriali.
Guardini anche diceva che la liturgia nel suo insieme non è favorevole all’esuberanza dei sentimenti. Io credo che questo andrebbe meditato attentamente. In effetti l’esuberanza dei sentimenti, quando prolungata e ostentata, mi fa pensare ad uno squilibrio che possiamo addirittura far riconoscere da quel mistico alla rovescia (come lo chiamava un professore di mia conoscenza) che risponde al nome di Friederich Nietzsche. Egli, ne “La Nascita della Tragedia”, suggeriva che l’unione tra l’apolinneo (ordine e misura) e il dionisiaco (disordine e estasi) dà vita alla tragedia greca. Questi due elementi non sono quindi in contraddizione se non in modo paradossale. Ecco, quando il dionisiaco prende il sopravvento si verifica uno squilibrio espressivo. La musica pop accentua fortemente l’elemento ritmico, proprio delle danze. Questo elemento è ovviamente fondamentale per la musica tutta ma nella pop è messo in particolare prevalenza, con un carattere di tipo ossessivo. Non è ovviamente un problema per la musica pop ma lo è probabilmente quando trasposto nella liturgia. La musica liturgica è espressiva nel senso corale del termine. Non sono io che mi elevo da solo alle altezze inaudite, ma le mie ali sul vento del canto nuovo sbattono all’unisono con mille altre ali per ritrovarsi insieme in un nuovo e più azzurro cielo.
—————————————————-

*Aurelio Porfiri vive a Macao ed è sposato, con un figlio. E’ professore associato di musica liturgica e direzione di coro e coordinatore per l’intero programma musicale presso la University of Saint Joseph a Macao (Cina). Sempre a Macao collabora con il Polytechnic Institute, la Santa Rosa de Lima e il Fatima School; insegna inoltre allo Shanghai Conservatory of Music (Cina). Da anni scrive per varie riviste tra cui: L’Emanuele, la Nuova Alleanza, Liturgia, La Vita in Cristo e nella Chiesa. E’ socio del Centro Azione Liturgica (CAL) e dell’Associazione Professori di Liturgia (APL). Sta completando un Dottorato in Storia. Come compositore ha al suo attivo Oratori, Messe, Mottetti e canti liturgici in latino, italiano ed inglese. Ha pubblicato al momento quattro libri, l’ultimo edito dalle edizioni san Paolo intitolato “Abisso di Luce”.

Publié dans:liturgia, musica sacra |on 27 décembre, 2010 |Pas de commentaires »

il « Tota Pulchra », testo latino, testo italiano e da You Tube il testo cantato:

il « Tota Pulchra », testo latino, testo italiano e da You Tube il testo cantato:

http://www.youtube.com/watch?v=N-uJEr669ts

Canto Mariano del « Tota Pulchra »


Tota Pulchra es Maria       
Tota pulchra es, María !
Tota pulchra es, María !
Et mácula originális non est in te.
Et mácula originális non est in te.
Tu glória Jerúsalem,
tu laetítia Israël,
tu honorificéntia pópuli nostri,
tu advocáta peccátorum.
O María, o María !
Virgo prudentíssima
mater clementíssima,
ora pro nobis,
intercéde pro nobis
ad Dóminum Jesum Christum !

Sei tutta bella, o Maria !
E il peccato originale non è in te.
Tu sei la gloria di Gerusalemme,
tu sei la letizia di Israele,
tu sei l’onore del nostro popolo,
tu sei l’avvocata dei peccatori.
O Maria, o Maria !
Vergine prudentissima,
Madre clementissima,
prega per noi
e intercedi per noi
presso il Signore nostro Gesù Cristo !  

Publié dans:Maria Vergine, musica sacra |on 8 décembre, 2008 |Pas de commentaires »

spiritualità del canto gregoriano : povertà, castità, obbedienza

dal sito: 

http://www.antimo.it/pagine/contenuti/10_gregoriano_spirit.html

spiritualità del canto gregoriano

Il canto gregoriano è musica sacra. Esso ha spinto la consacrazione a Dio fino all’assoluto dei voti religiosi, e per questo la Chiesa romana l’ha proposto come modello supremo di ogni musica sacra. Esso presenta tutte le caratteristiche della consacrazione religiosa: è un canto povero, un canto casto ed obbediente.

Povertà
Innanzi tutto è un canto povero: ha rinunciato definitivamente ad arricchirsi. è sufficiente un colpo d’occhio per accorgersi della povertà, della limitatezza, della modestia dei suoi mezzi tecnici. Di fianco alle ricchezze rutilanti dell’orchestra e della polifonia, il canto gregoriano non avrà da offrire che una linea, una sola. Utilizza solo intervalli piccoli: la seconda, la terza; la quarta e la quinta sono già più rare, la sesta è quasi ignorata; l’ottava, sconosciuta nell’apogeo del gregoriano. Il canto gregoriano, che rinuncia a frazionare i toni in semitoni, rinuncia anche a dividere i tempi; il suo tempo primo, flessibile d’altronde come la sillaba latina, è indivisibile. Il suo ritmo ignora la misura isocrona, la quadratura, le simmetrie sistematiche che mettono ordine e chiarezza nella composizione classica, i tempi forti, la sincope, in breve, tutte le altre conquiste della musica posteriore. « Nato povero e tale è rimasto. Ha fatto veramente voto solenne e perenne di povertà. L’armonizzazione strumentale di cui lo si riveste in maniera esagerata, con il pretesto di sostenere il canto, è un controsenso storico. Quanto ai tentativi di gregoriano polifonico, sono ridicoli, e non sono altro che l’opera di persone che non hanno una nozione molto precisa del canto gregoriano.
Ma questa povertà, veramente evangelica, non ha nulla a che vedere con l’indigenza. Al canto gregoriano non manca nulla. Non è assolutamente insipido o inespressivo, tranne quando è male eseguito. Il vero povero evangelico è in realtà ricco di tutte le vere ricchezze. Possiede una natura umana sgombra, perfettamente libera dalle complicazioni e dal sovrappiù, che lo rende capace di gioire in pieno dell’unica cosa necessaria. Così è anche la nostra linea gregoriana: semplice, elastica, libera nell’andamento, vivace nei movimenti, diretta all’essenziale, staccata dal superfluo, anche quando è lussureggiante di ornamenti: in una parola, bella, di tutta la bellezza franca e diretta di un’arte assolutamente padrona di sé.

Castità
In secondo luogo, la melodia gregoriana è casta. Ciò appare nel suo evitare accuratamente ogni civetteria che attirerebbe l’attenzione su di sè, ogni sensualità, anche attenuata, ogni sentimentalismo e ogni manierismo dei mezzi espressivi, pur così ricchi di sensibilità. Essa ha mirato, e raggiunto, la massima trasparenza al messaggio spirituale di cui è portatrice. Non succede così anche sul piano umano? Non succede forse anche nell’esperienza quotidiana che più una persona è casta, al fine di riservarsi interamente e totalmente all’amore di Dio, più la presenza di Dio in lei è evidente, radiosa e quasi tangibile? Le anime più pure hanno una freschezza di sentimenti e una spontaneità squisite, che le rendono quasi diafane e permettono loro di rivelare esternamente la presenza intima di Dio. Così è per il canto gregoriano.
Se gli capita di esprimere le passioni umane, e ciò succede spesso (amore, paura, speranza, fiducia, coraggio, tristezza, stanchezza, spavento, e altro ancora), come per incanto il canto gregoriano ne cancella il carattere passionale, indipendente e anarchico, per presentarle calmate, ordinate, dominate dall’immensa pace divina. Tutto ciò, beninteso, a condizione che l’interprete voglia entrare a sua volta nel gioco, che conosca lo spirito che anima l’opera che vuole esprimere. Se è una persona volgare, o che cerca solamente di mettersi in mostra, la purezza della cantilena ne sarà alterata, e verrà offuscata l’immagine dello specchio che doveva riflettere un altro mondo. Vedere Dio, e farlo vedere agli altri, è permesso solo ai puri di cuore. Disciplina esigente, certo, ma anche liberatrice. Come ha detto San Paolo, non vi è niente che divide quanto la preoccupazione, e talvolta il dovere, di piacere ad altri che a Dio. Liberata da questa tirannia, la melodia gregoriana, quale voluta di incenso, s’innalza leggera, flessibile, spontanea, più musicale che mai: ancora una volta, libertà e spiritualità vanno di pari passo.

Obbedienza
Infine: l’obbedienza. è forse l’aspetto più positivo della composizione gregoriana. Tutto il resto, povertà di mezzi tecnici, pudore d’espressione, poteva essere considerato come preparatorio. Nella via della rinuncia, mancava ancora l’essenziale. Il sacrificio più radicale che la Chiesa chiede alla musica, per renderla degna della fiducia accordatale, è di essere solo musica, di accettare il ruolo secondario di servitore del testo liturgico. Le melodie gregoriane infatti non esistono per se stesse; esse sono invece al servizio esclusivo del testo liturgico da cui sono nate, nell’atto stesso della preghiera ufficiale della Chiesa. Con una docilità meravigliosa, senza nulla perdere in freschezza e spontaneità, queste melodie si sottomettono effettivamente al testo. Ben lungi dall’essere soffocate, più sovente vi attingono ispirazione immediata, formando con questo un’unità paragonabile a quella di anima e corpo. Ed è precisamente questo servizio esclusivo che strappa definitivamente la melodia a se stessa, che la consacra, realizzando alla lettera la frase del Vangelo già citata: « Chi vuole diventare mio discepolo, rinunci a se stesso e mi segua ». La melodia si fa dunque obbediente alla Parola di Dio: è Lui che in effetti ci ha fornito le formule di lode e di adorazione. La Chiesa riprende questi testi ispirati, li sceglie, li classifica, li mette insieme, li chiarisce a vicenda, operando così una sintesi meravigliosa tra Scrittura e Tradizione, componendo così il poema della Sacra Liturgia nel quale l’unità del piano divino e la grande storia della nostra salvezza si trovano descritti liricamente. Ogni testo delle scritture trova in questo insieme, anch’esso certamente ispirato, come una « canonicità secondaria », che lo rende per così dire due volte espressivo della verità divina. La melodia gregoriana che vi si unisce aggiunge lirismo ai testi, rendendoli più sensibili, più pienamente umani. Se non ne accresce il contenuto intelligibile, ne favorisce certamente la comprensione.

Publié dans:musica sacra |on 30 mai, 2008 |Pas de commentaires »
12

PUERI CANTORES SACRE' ... |
FIER D'ÊTRE CHRETIEN EN 2010 |
Annonce des évènements à ve... |
Unblog.fr | Annuaire | Signaler un abus | Vie et Bible
| Free Life
| elmuslima31