dal sito:
http://www.credereoggi.it/upload/1999/articolo114_17.asp
«In cielo c’è una danza»
(Van der Leeuw)
1. Introduzione: crisi delle rappresentazioni e nuova dinamica musicale
Ha ancora senso parlare del rapporto musica ed esperienza religiosa sulla scia, ad esempio, del rapporto che vi vede iscritto R. Otto, quando considera la musica in stretta analogia con il sentimento religioso? C’è ancora un connubio vincolante tra il suono, la musica, il linguaggio musicale e il senso che abbiamo di Dio, dell’Assoluto dell’incommensurabile, di ciò che è indicibile? Nella crisi delle rappresentazioni del mondo contemporaneo post-moderno sembra che la cultura non sia più in grado di creare sistemi di significato, la mousiké, l’armonia del nostro vivere al mondo si è frantumata e sembra essere inesorabilmente tramontata parallelamente al collasso che si è prodotto di tutti i sistemi simbolici consolidati e classici. Non ci sono più possibilità di dire. Ogni discorso è irrisorio prima ancora di annunciarsi, ogni parola è di troppo ancora prima che sia stata pronunciata. Una specie di rifiuto istintivo precede e accompagna ogni discorso che intenda ancora farsi interprete del mondo. Il discorso, la comunicazione è ridotta sempre più a informazione tecnica, a mezzo di mercato, a funzione unilineare, è svuotata di ogni contenuto simbolico. Il mondo nella sua totalità non è più dicibile e ogni simbolica è sospetta quando intende «tra-guardare» l’orizzonte di significatività in cui siamo posti, noi mortali, abitatori della terra.
In questa «terra desolata», – per usare l’espressione di Eliot – anche la musica sembra votata a un destino di morte. La «musica è finita». La musica è in uno stato di depauperamento e di degrado come l’ambiente. Il collasso dei simboli, dei referenti classici non permette nessuna uscita di sicurezza. C’è un appiattimento mortificante di tutti i prodotti culturali intesi come semplici prodotti di consumo, c’è un’irrilevanza di tutto ciò ci circonda proporzionale alla cosificazione, oggettivizzazione del mondo avvenuta via via a partire dal positivismo dove l’industria culturale non ha fatto altro che assolutizzare la copia, la fotocopia, la registrazione, il doppio, il multiplo mercificando tutto, compresa la stessa opera d’arte. Il moderno ha declassato i simboli e ha schiacciato la trascendenza verso il basso riducendo il discorso religioso a discorso etico e assegnando alla musica soltanto un compito formale e vuoto. La razionalità, l’ambito razioide (ratioides Gebiet) – come lo chiamerebbe Musil – ama la musica soltanto come sintassi e come struttura grammaticale. Per esso la musica è soltanto un codice e le note musicali una alterazione strutturale di movenze in vista di un riequilibrio. Il formalismo contemporaneo è fondamentale per comprendere e dissolvere la musica nelle sue strutture diacritiche nella stessa misura in cui esso si fa complice dello svuotamento simbolico col trasformare ogni componente simbolica in struttura semiotica. Così il mondo si presente sempre più simile al gioco della scatole cinesi. L’una dentro l’altra fino al vuoto. E la vita diventa davvero «una lotta contro il Nulla», come osservava G. Marcel. Nel mondo giapponese questa indicazione del vuoto è ancora più illusoria e irridente: il pacchetto delle scatole infatti appare molto elegante, raffinato, perfetto. In un certo senso è ancora più in grado di differire la scoperta dell’oggetto e di creare la curiosità e così alla fine il contrasto tra il lusso dell’involucro e l’oggetto insignificante che racchiude diventa lacerante e crudele.
Ma tutto non finisce qui. Occorre vedere anche alcuni risvolti positivi che incominciano ad apparire all’orizzonte. Oggi ci si sta muovendo verso qualcosa di nuovo, si torna a una nuova forma di leggerezza. Sembra che vi sia una nostalgia di qualcosa di più originario, sembra che si cerchi un nuovo inizio e che si tentino altre strade. Si cerca di nuovo il non detto e il non dicibile, oltre il senso stesso della realtà. Non si tratta della «nostalgia del totalmente altro» di cui parlava Horkheimer; è una nostalgia più umile, che nasce dall’humus, dalla terra che noi siamo. È il desiderio di essere noi stessi semplicemente, sinceramente. È la necessità di sopravvivere ricominciando daccapo. In un mondo in cui regna sempre più la citazione, il gioco dell’arte combinatoria, la simulazione, l’affabulazione e ultimamente il nulla, si sente il bisogno di leggere ciò che non è mai stato scritto, di recuperare una lingua originaria, quella delle viscere della terra, proveniente forse dalle stelle o dalle danze: forse è il bisogno più semplice e immediato di ritornare soltanto alla spontaneità, per raggiungere un paesaggio spirituale nuovo che la nostra lingua è incapace di scoprire dietro il chiacchiericcio che ormai sovrasta e consuma ogni realtà.
E in questo nuovo incipit il linguaggio musicale resiste, almeno come il bunraku giapponese, come il teatro delle bambole, per il bisogno di esprimere – se non altro – le nostre emozioni, i nostri slanci, le paure, i traumi. Sembra che una incipiente riorganizzazione di un qualche positivo orientamento avvenga all’insegna del linguaggio musicale, di quel linguaggio che non dice e non nomina le cose, ma le evoca soltanto, le annuncia quasi volando al di sopra di esse. Se c’è una crisi dell’oggettività e anche della soggettività, in questa caduta dei due referenti – oltre la povertà espressiva dei simboli –, sembra che l’unico aspetto fungente del nostro modo di comprendere e di abbracciare il mondo sia quello estetico-musicale che ha il suo risvolto più immediato a livello religioso nel misticismo chiamato a ergersi sulle ceneri del positivismo e dello scientismo.
C’è così un incamminamento verso ciò che è nascosto e ciò che è possibile, c’è il bisogno di «tra-guardare» al mondo attraverso il liminale e il sub-liminale, attraverso l’estasi, il sogno, il mondo onirico, il virtuale, il paranormale, l’irreale. In questa tensione dove l’estremo desiderio è che l’irreale diventi il vero reale assegniamo alla musica il compito di sottrarci all’insipienza del principio di non contraddizione e di compiere un’opera di «sconnessione» dei legami di causa/effetto per farci percepire concretamente il potere che abbiamo di immaginarci diversi da quello che siamo.
Si ritorna così al «mistico» dopo la religione e si ritorna in concomitanza a un senso primitivo della musica, si ritorna all’estetico, come a un «campanello d’allarme» del bisogno di recupero del pre-verbale, appunto come nel Bunraku giapponese, dopo i diversi linguaggi musicali e aldilà di essi. Abbiamo bisogno di dare forma alle emozioni non ai discorsi, visto che non crediamo più alla logica delle idee. E se la religiosità di oggi è di carattere essenzialmente emotivo, pare che ci sia il bisogno di recuperare una «musica emotiva», musica discontinua, cifrata, sottomessa a un’opera di auto-ironia dove, se di significati ancora si parla, si è pronti a confessare anche la propria prostituzione a significati multipli e dissonanti.
Il senso religioso allora appare ancora strettamente connesso al fatto musicale, ma l’uno e l’altro sono sottomessi a uno stato di usura e di fibrillazione dove occorre ripensare il legame originario che unisce i due modi di sentire per non perdere gli archetipi stessi di un rapporto immemoriale e pre-categoriale.
2. L’originario intreccio di musica e sacro
Schneider scopre alcuni passaggi assai significativi per capire l’intreccio originario di musica e sacro a partire dalle antiche Upanishad. Egli osserva, ad esempio, che la Chandogya Up. parla del fatto che«il mondo fu generato dalla sillaba OM, che costituisce l’essenza del saman (canto) e del soffio. Ma oltre questo suono originario, che ricorda quel suono primordiale che ha dato origine al big bang e che nel 1965 fu scoperto ancora presente negli spazi astrali dagli scienziati di Princeton, la Chandogya enumera le differenti tappe che segnano la progressiva materializzazione del mondo a partire da una musica originaria: il mondo sarebbe l’essenza della musica tradotta in metro poetico, il metro è l’essenza del linguaggio , il linguaggio è l’essenza dell’uomo, l’uomo è l’essenza delle piante, le piante sono l’essenza dell’acqua e l’acqua è l’essenza della terra».
Musica ed esperienza religiosa non appaiono perciò scindibili nella preistoria della nostra comprensione del mondo, in quella realtà iniziale in cui abbiamo incominciato a prendere coscienza del mondo e di noi stessi in una totalità senza distinzioni, senza dicotomie, senza effrazioni, senza specchi.
L’India antica per questo è forse il paese che più di ogni altro ha amato la musica, si è immedesimato con essa fino al punto da congiungere strettamente e in maniera inscindibile concezione filosofica, religiosa, cosmologica e musicale[1]. La mitologia qui è molto ricca. Prajapati, il dio delle origini, il signore delle creature nacque da un concerto di diciassette tamburi. Secondo la concezione indù, il principio che dà origine ai mondi è un principio armonico e ritmico, simboleggiato dal ritmo dei tamburi. E Shiva, in quanto creatore del mondo, non profferisce il mondo: non dice qualcosa come il fiat lux, ma crea il mondo danzando[2]. Sono famosi i tre passi di danza con cui Shiva misura il mondo. In un passo dello Shiva Pradosa Stotra si sostiene che mentre Shiva «danza sulla cima del monte Kailasa, è circondato da tutti gli dèi. Sarasvati – dea delle arti e delle scienze – suona il vina (strumento a corda con la cassa a forma di barca), Indra (dio del cielo) suona il flauto, Brahma (il creatore) tiene i cimbali e segna il tempo, Laksmi (la Fortuna) intona una canzone, Vishnu suona il tamburo. Tutti gli dèi li circondano… Tutti gli abitanti dei tre mondi si radunano per vedere la danza e per ascoltare la musica dell’orchestra divina nell’ora del crepuscolo».
La musica per sua natura non soltanto ha a che fare con il rituale e la religione, ma è vimuktida, cioè «portatrice di salvezza» e libera dal ciclo delle reincarnazioni: è una parte importante del mondo religioso Il Rigveda per esempio ci segnala i sette rsi, poeti mitici il cui canto generò la prima aurora. Gli dèi amano la musica, ma fanno musica, sono musicisti e Shiva avrebbe detto espressamente ed esclamato: «Mi piace più la musica di strumenti e di voci che mille bagni e preghiere»[3]. Per altro sappiamo che il dio Krishna si presenta sempre come il più grande suonatore di flauto e così viene ancora oggi rappresentata la sua immagine in tutto il mondo indù.
La stessa distinzione più antica dei Veda contempla il cosiddetto Samaveda che non è altro che la trascrizione musicale del Rigveda. Dunque si può dire che il rituale religioso fin dal suo sorgere aveva previsto una parte musicale talmente vincolante al rito stesso che non vi erano inni vedici che non avessero una melodia o una recitazione melodica appropriata per il culto alle divinità. Il precentor chiamato Udgatar che cantava, con i suoi accoliti, servendosi della parte musicale propria del Samaveda[4] costituiva la regola del mondo religioso antico.
Anche la Cina ci dà delle coordinate della musica antica in rapporto al sacro nella misura in cui ha amato immensamente la musica e l’ha messa in relazione con i riti e con l’intera vita religiosa secondo delle concordanze e dei parallelismi che appaiono a noi stupefacenti. Naturalmente qui si può soltanto accennare al complesso mondo cinese che ordina e ritrova armonia in ogni vera attività umana positiva e religiosa.
Tutto l’ordine del mondo si modula nella Cina antica sulla scala pentatonica indicata dagli intervalli kung (fa), shang (sol), chueh (la), chih (do) e yu (re). Questa scala veniva poi trasposta ogni mese affinché la musica si trovasse sempre in armonia con il suono fondamentale della natura, il quale variava di mese in mese. Ma la teoria musicale di incontro tra natura società e momento religioso si trova nel Li Chi dove la musica non è altro che la sostanza dei rapporti armonici che devono regnare tra cielo e terra. Per tale motivo gli antichi re facevano della musica uno strumento d’ordine e di buon governo. Quando infatti i cinque suoni sono alterati, le categorie sconfinano le une nelle altre e ciò viene chiamato «insolenza». Se le cose stanno così, in meno di un giorno può sopraggiungere la perdita del regno[5]. Dunque la musica era correlata all’ordine ad ogni livello: ordine cosmico, ordine stagionale, ordine astrofisico e soprattutto ordine sociale. A loro volta queste armonie particolari erano cooptate nel grande concerto dell’armonia universale che si faceva carico allora e sovranamente del significato religioso in senso pieno.
In maniera più prossima a noi, mi piace accennare appena alla musica rituale e liturgica del mondo tibetano. I buddhisti tibetani ritengono che la musica prepari la mente all’illuminazione spirituale e danno molto risalto al suono in rapporto al rituale e alla meditazione. Il mondo si trasforma e si unifica attraverso il suono, un suono che può essere costituito da un «mono-tono», basso, viscerale, ma che esprime l’intensità dell’esperienza ed è il rispecchiamento di una visione originaria, non contaminata, non deturpata dalle cose, dalla dispersione caotica del nostro vivere come cose in mezzo a oggetti. Seduti in fila a gambe incrociate, nei loro abiti variopinti, i monaci tibetani ancora oggi intonano e cantano i loro canti e inni quasi in un gesto di suprema e sovrana libertà dal mondo, dimenticando i segni e penetrando oltre la maya, quel velo che ci nasconde la vera realtà, maya come indice di ogni classificazione, moltiplicazione, come espressione di tutti gli epifenomeni mondani.
3. Suono e sensi. La musica sciamanica come religione «totale»
Forse il più grande antropologo che prestò attenzione alla musica ai nostri tempi è stato Lévi-Strauss, secondo il quale c’è un legame stretto tra musica e mito – potremmo omologare il mito al «mondo religioso» –, in quanto sono tutti e due strumenti per «dimenticare il tempo». La musica, ancora per Lévi-Strauss, è il mistero supremo delle scienze dell’uomo. Questo appare significativo anche se in fondo si tratta di uno sguardo gettato dall’esterno al senso che la musica ha in rapporto all’uomo e all’esperienza religiosa. Infatti «dimenticare il tempo» significa anche «trascendere il tempo», entrare in una dimensione mistico-religiosa appagante. E tutto ciò che cosa significa se non ritornare all’integrità originaria, incamminarsi verso il paradiso perduto?
A livello storico-antropologico oggi va sempre più consolidandosi l’idea, sull’indicazione di Kirby, che la prima esperienza religiosa dell’umanità non sia da attribuirsi al momento sacrificale, ma piuttosto alla danza, al suono del tamburo e all’esperienza rituale di trance. Là sembra che si possa recuperare l’originario intreccio tra musica ed esperienza religiosa. Non è difficile immaginare che tale esperienza che è propria del mondo sciamanico e che storicamente sembra collocarsi a livello dell’antica religione bon del Tibet possa essere davvero catalogata come l’originario pre-categoriale di ogni nostra esperienza religiosa nella misura in cui è un’esperienza di totalità, crea un psico-dramma coinvolgente, unisce tutti i codici comunicativi e permettendo di conseguenza un intreccio globale, una Gestalt senza smagliature. Non è un caso infatti che nel mondo sciamanico si ritrovino in unità tutto ciò che altrove è in qualche modo più o meno disgiunto, disarticolato, dislocato o distribuito in tempi diversi. Lo sciamano, infatti, quando si è travestito con apposite maschere prendendo posto all’interno dell’ambito rituale a cui è deputato, incomincia a battere il suo tamburo producendo suoni e ritmi che sono religiosi e che coinvolgono il corpo, la mente, lo spirito, creano una performance totale, dove si ritaglia lo spazio come axis mundi e si condensa il tempo, il mondo visibile e il mondo invisibile. Non batte certo l’aria, ma crea un suono originario chiama a raccolta tutte le forze positive e gli spiriti protettori mentre i suoi canti vengono accompagnati con movimenti, grida, imitazione della voce delle diversi suoni del mondo. Le divinità del cielo, della terra, i regni animali e vegetali sono chiamati in causa per far parte dell’armonia del mondo, di quell’armonia che guarisce e che restituisce la realtà nella sua trasparenza originaria. In definitiva ogni esperienza giocata sul pentagramma dell’universo e ogni armonia che nasce dalla fusione di orizzonti totalizzanti di significato non sono altro che la trascrizione più vera dell’esperienza religiosa stessa. È un’esperienza di totalità unica e indissolubile dove momento musicale e momento religioso si fondono e si confondono. Ma tutto ciò vale anche a livello etnografico per molti popoli presenti oggi sul pianeta terra.
Si possono considerare ad esempio i rapporti che intercorrono a livello musicale tra i popoli a cultura semplice e il mondo religioso corrispondente presso i Zuni Pueblo con la danza cachina, i Soshoni con la famosa danza del sole propria di quasi tutti gli indiani delle praterie, mentre nell’America latina potremmo ricordare soprattutto i Karina con la loro bella mitologia a sfondo mitico-musicale.
I Zuni Pueblo, amanti della musica e della danza come si dimostrano, contemplano due categorie di danzatori e musicisti in maschera: gli dèi mascherati propriamente detti, i cosiddetti cachina e poi i preti cachina (koko). Gli dèi danzanti sono esseri sovrannaturali, felici, che vivono in fondo a un grande lago, molto lontano. Essi però, per ascoltare musica e danzare, preferiscono ritornare a Zuni. Impersonarli, perciò, attraverso le maschere significa concedere loro la gioia che maggiormente desiderano: quella di poter venire ad ascoltare musica e a danzare a Zuni. E così un uomo, quando indossa la maschera del dio, diventa in quel momento il dio stesso, deve assumere pienamente il ruolo relativo a quella divinità e deve godere della musica e della danza come vogliono gli dei.
I danzatori cachina fanno la loro comparsa maggiore in due serie di performances: nelle danze invernali, dopo il solstizio d’inverno. Queste danze si tengono nei kiva o stanze dei rituali. La performance maggiore si ha però con la danza della pioggia – danze estive – che si tengono all’aperto, nella piazza del villaggio. Naturalmente tutte queste danze sono connesse con offerte e preghiere e comportano una partecipazione drammatica di tutta la popolazione, che intende con queste grandi manifestazioni far entrare nel mondo del rituale e attraverso la musica tutti gli elementi della natura, intesi secondo una «geografia sacra» che include oltre ai quattro punti cardinali anche l’alto e il basso (lo zenith e il nadir secondo la cosmologia zuni. Vi è dunque una fusione di rito e di musica in una visione altamente contemplativa del mondo e della natura a cui corrisponde una forte emozione religiosa.
Per quanto riguarda la danza del sole, mi riferisco solamente – tra i tanti esempi possibili – alla danza del sole presso i Shoshoni dello Stato dello Wyoming (USA) descritta di recente dal grande etnologo Ake Hultkranz e da Voget[6].
Le danze hanno luogo nei mesi di luglio e di agosto e il motivo di questo mondo di danze che si sprigiona in questi mesi è a circolo: viene in altre parole dalla danza stessa. «Tutto quello che sappiamo – dice la tradizione – l’abbiamo appreso dalla danza del sole»[7]. Qui si assiste a una circolarità assai significativa tra musica, rito ed esperienza religiosa, al punto che il momento religioso viene dalla musica e dalla danza, l’affabulazione mitica è figlia della musica e a sua volta la danza racconta il senso religioso. È una conferma della tesi per cui il rito viene prima del mito.
Nella danza del sole si danza per quattro giorni consecutivi, quasi senza interruzione, secondo una precisa disposizione dello spazio e dell’area sacra in cui si trova il punto centrale di riferimento. Si tiene conto del grande spiazzo, del posto da riservare agli attori, al coro, agli anziani; si stabilisce con precisione la disposizione del fuoco e il posto e l’orientamento degli spettatori. Sono previste delle pause soltanto per cibarsi di qualche cosa e per dormire alcune ore, mentre la danza – così continua, ripetitiva e a volte convulsa – sembra destinare inesorabilmente i danzatori alla trance, oltre ad essere – secondo la tradizione – un grande atto di ringraziamento al sole e alla natura.
Per i Karina del Venezuela ciascun suono originario è all’origine di una particolare specie animale, una wara. Per questo ora ogni specie di animali ha un suo proprio suono, possiede un suo linguaggio. Ma vi è di più: nella mitologia karina il suono era all’origine uno soltanto e il linguaggio è una frantumazione indebita dell’integrità del suono e della musica delle origini. La conoscenza che viene dalle parole è perciò basata in realtà sulla «morte» del suono in tutta la sua ricchezza simbolica. Dopo la disintegrazione ormai compiuta del suono nel linguaggio si è frantumato di conseguenza anche il significato originario. Ora si può ritornare all’integrità del significato soltanto attraverso il potere dell’immaginazione. In questo contesto di collasso dell’unità del significato è soltanto la danza che nella sua varietà di codici e di scambi di Gestalten offre la vera ermeneutica della vita e permette di recuperare l’originario oltre i linguaggi. La danza, oltre i suoni può recuperare il suono primordiale e dunque l’unità del senso. Ed è in questo senso che il grande musicista Schönberg, intravedendo questa nuova possibilità dopo le varie mortificazioni de linguaggio, tentava di estendere ne La mano felice le leggi musicali a elementi di natura non musicale attraverso componenti sceniche, mimiche facciali, colori, attraverso gesti, fino a voler creare «un coro di sguardi» e un «crescendo di luci».
Ora in tal modo si viene anche a dire che la vera conoscenza è lontana dalla conoscenza attraverso le parole, i segni, la logica delle connessioni. La vera conoscenza è piuttosto quella inconscia, sub-liminale, periferica, retroattiva, registrata in un continuo biofeedback con la natura circostante. Soltanto attraverso il suono e la musica, secondo i Karina del Venezuela, si ha la percezione vera della vita nella sua pienezza[8].
4. Suono, linguaggi e significati. Una meditazione semantica a partire dalla musica
La musica a livello etnologico, l’etnomusica sembra mettere in crisi la nostra visione occidentale della musica stessa. Ma che cosa ci indica la musica a livello etnomusicale? Il tutto del nostro vivere al mondo e il nulla del senso cercato nei dettagli, nelle cose singole, nel qui e là, nell’altrove. Ora sembra possibile affermare che il senso religioso è proprio questo. È la totalità del senso tout court, senza altre inferenze, deduzioni, induzioni, specificazioni. Il suono e con esso la musica e la religione possono allora essere anche il «non senso» nella nostra concezione occidentale o piuttosto è il senso quasi esperito «attraverso i sensi» e non più razionalmente. Forse ha ragione J. Cage e con lui Wittgenstein e il Buddhismo Zen. Da questo punto di vista la parola appare uno stereotipo prodotto al di fuori di ogni magia, di ogni entusiasmo, di ogni immaginazione, come se fosse qualcosa di naturale, parola disinvolta che crede alla propria superiorità di senso e che ambisce alla propria consistenza e invece fa parte del vuoto. «Io considero la musica come incapace di esprimere qualcosa come un sentimento, un atteggiamento o uno stato della mente, una scena naturale, ecc. L’espressione non è mai stata una proprietà immanente della musica», scriveva Strawinsky. Era la concezione della musica priva della «sonorità» della vita. Nel mondo Zen, ad esempio,si ripete la stessa cosa per la parola e in genere per il linguaggio. All’origine occorre fare una semplice osservazione: se si perde il contatto con l’originario si perde sia il senso vero della musica e sia il senso religioso.
5. Musica ed esperienza religiosa oltre i significati
Il nostro mondo occidentale – pur avendo poca dignità da attribuire al mondo – esige che ogni cosa abbia un nome e «inumidisce» di senso ogni realtà come una religione autoritaria che voglia imporre il battesimo all’intera popolazione. In fondo, gli oggetti del nostro linguaggio che cosa sono se non dei «battezzati» di diritto o dei convertiti di diritto attraverso il senso e il significato loro attribuito? Il non senso è considerato come un’infamia. Ora non sembra così per la musica, per l’etnomusica, che ancora più in là della poesia, può rinunciare al legein, al mettere insieme in funzione della ragione, può rinunciare alla connessione per un più immediato rapporto «contemplativo» del mondo, come avviene, ad esempio, in un haiku giapponese. L’haiku giapponese è un tipo di condensazione dell’esperienza difficilmente accessibile al nostro mondo occidentale in quanto non si cura di creare legami di senso, ma crea semplici e immediati rispecchiamenti come in esempi di questo tipo:
«Quante persone sono passate
attraverso la pioggia d’autunno
Sul ponte di Seta».
Oppure:
«Vengo attraverso il sentiero di montagna.
Ah! che meraviglia!
Una violetta!».
Descrittivismo? Impressionismo? Espressionismo? La vita è musica: ha la sua trasparenza e non ha bisogno di niente altro.
6. Conclusione. La musica e la religione vicine a un senso più originario, quasi a un non senso
Abbiamo bisogno ancora del senso delle parole per vivere? Non ci basta il senso della vita? C’è un senso immediato, non logico, non riflesso, non fatto oggetto ancora dei criteri di verità o di falsità, forse è questo l’originario verso il quale inconsciamente ma decisamente ci muoviamo. In questo luogo o meglio in questo «non-luogo» musica ed esperienza religiosa si incontrano ancora e in modo originale. È la teologia apofatica che deve regnare nell’insignificanza che ci circonda. È la musica «spoglia» che deve ritornare, ridotta al suono originario, al nada:suono e nulla ad un tempo.
Aldo Natale Terrin
docente di storia delle religioni e antropologia culturale
all’Università Cattolica di Milano e all’Università di Urbino
Sommario
Musica e sacro, aldilà di una facile omologazione, vengono visti nella crisi delle rappresentazioni del mondo d’oggi e nella difficoltà di far parlare il simbolico. L’impasse viene superata soltanto ad alcune condizioni alla cui origine c’è un nuovo inizio a carattere estetico-mistico. Queste condizioni sono allora una sobrietà espressiva, un pensiero profondo, il recupero di un significato unitario dietro a tutti i sensi e i non sensi del nostro vivere. Musica e sacro vanno insieme alla scoperta di un originario di cui ancora non siamo in grado di rendere conto.
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[1] Secondo la lettura che ne fa Schneider. Cfr. M.Schneider, Le basi storiche della simbologia musicale, in «Conoscenza religiosa» 3(1969), 267-302.
[2] Cfr. a. coomaraswamy, The Dance of Shiva, Bombay 1988(4), 67.
[3] Cfr. Mahabharata, cap. 36, 27 cit. da C. sachs, op.cit., 153.
[4] Si veda per un’analisi dettagliata A. Bake, La musica nell’India, cit., in particolare 224.
[5] Per queste osservazioni si veda M. Schneider, La musica primitiva, cit., 91-92.
[6] Cfr. A. HULTKRANZ, Native Religions of North America, Harper and Row, New York 1987; F.W. VOGET, The Shoshoni Crow Sun Dance, Norman Okla. Uni., klahoma 1984.
[7] op.cit., 68.
[8] Cfr. L. E. Sullivan, Sound and Senses. Toward a Hermeneutics of Performance, in «History of Religions’ 26(1986), 1-33.