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MUSICA E CULTO CRISTIANO

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MUSICA E CULTO CRISTIANO

Con l’articolarsi e il successivo sfaldarsi dell’Impero Romano in zone amministrative, centri di attività diplomatica e regioni di supremazia politico-territoriale, le concentrazioni etnico-linguistiche che si vennero a creare ebbero ripercussioni anche sulla vita della Chiesa, favorendone specifici sviluppi liturgici. La liturgia, cioè l’esercizio al culto divino, venne così ad articolarsi secondo distinte famiglie e in primo luogo secondo due sfaccettati raggruppamenti: famiglie orientali (antiochena e bizantina) e famiglie occidentali (liturgia africana; liturgie galliche, ispanica e gallicana; liturgia insulare: celtica, irlandese e bretone; famiglie italiche: milanese e romana). Va tenuto però presente che la distinzione non implicò mai assoluta separazione. Fino al III secolo, infatti, i cristiani cantarono in greco, e ciò spiega altresì la permanenza di alcune forme lessicali greche anche nella liturgia in lingua latina: basti pensare al Ky´rie eleíson adottato permanentemente nell’Ordinarium Missae, cioè fra i testi invariabili dei canti della messa romana. Il latino si impose come lingua ufficiale di Roma solamente verso la metà del III secolo, dopo una sua prima comparsa nelle province africane, ma fin oltre il IV secolo si prolungò una fase di bilinguismo liturgico.

Influenze dalla musica ebraica Come l’Antico Testamento biblico informa circa la musica ebraica, così gli scritti neotestamentari e dell’età apostolica offrono i primi documenti dell’innodia cristiana. Fra i due ceppi, l’ebraico e il cristiano, vi è distinzione e continuità. La musica cristiana certo deve riconoscere in quella ebraica la provenienza di alcuni condizionamenti genetici che non poté evitare. È possibile asserire con certezza che nei primi due secoli dopo Cristo la tradizione ebraica pose le basi strutturali (formule di benedizione, celebrazioni di memorie, uso della Sacra Scrittura e sua proclamazione tramite le complesse norme della cantillazione) della liturgia e del canto cristiano. Lo studio filologico delle fonti orali e letterarie dei Vangeli permette di arretrare l’analisi a strati assai profondi, senza che però sia possibile attingere un’unica fonte da cui si origini la tradizione orale dei primi repertori musicali liturgici. Sulla base di frammenti rinvenuti, sono in ogni caso documentabili coincidenze di alcune melodie di canti ebraici concorrispondenti melodie cristiane, così come, inversamente, pur al cospetto di linee melodiche differenti, l’analisi etnomusicologica ha permesso di verificare un’identità di forme.

Le prime forme della liturgia cristiana: il canto Dei primi due secoli, quando le liturgie erano ancora assai condizionate dalla prassi ebraica, sono pervenuti unicamente alcuni moduli di cantillazione. Va ribadito, però, che le prime manifestazioni del canto liturgico risentirono anche degli influssi greci e orientali. L’intreccio di questi influssi si faceva sentire nell’esecuzione dei canti attuata con una nota costante, intervallata da cadenze melodiche alle interpunzioni. In un processo temporale che investì anche i due secoli successivi (III-IV), il canto s’impreziosì di tutta una gamma di ornamentazioni, in cui regnava sovrano il vocalizzo: anzi, in alcuni canti, specialmente d’origine orientale o africana, il vocalizzo formava tutta la sostanza musicale. Intanto si assistette a una maggiore definizione del ricorso alla musica all’interno delle liturgie cristiane e si costituirono i primi repertori con fisionomie particolari, sia geograficamente, sia culturalmente e musicalmente. A tale scopo presero corpo alcuni generi musicali, quali la salmodia direttanea (costituita dal canto di un salmo non incorniciato o suddiviso da un brano molto breve chiamato antifona), il canto responsoriale (costituito da acclamazioni eseguite da tutto il popolo e da una parte solistica) e l’innodia, che si affermerà definitivamente in Occidente con il vescovo Ambrogio di Milano.

L’innodia cristiana Fra gli elementi caratterizzanti le prime forme del culto cristiano, una collocazione di tutto riguardo viene solitamente assegnata all’innodia. Le sue origini riconducono, sulla scorta delle indicazioni neotestamentarie, alle prime comunità cristiane riunite per render lode a Dio con « salmi, inni e cantici spirituali » (San Paolo). Derivati direttamente o soltanto ispirati dal modello della salmodia ebraica, dal punto di vista formale questi inni non presentano, differentemente, per esempio, dagli inni omerici, né una metrica quantitativa, né una precisa strutturazione strofica. I loro contenuti, espressi in lingua greca, erano o di genere dogmatico, morale o, più direttamente funzionali alla liturgia, motivati dalle intenzioni di glorificazione (dossologia) e di preghiera (eucologia). Di fatto, l’inno entra ovunque nella prassi liturgica dell’Europa latina, tranne che a Roma: qui imperava, infatti, una rigida logica canonica, alla quale difficilmente si sarebbero potuti assoggettare testi dal linguaggio molto sfumato. D’altra parte, proprio questa mentalità marcatamente razionale avrebbe contribuito in seguito alla redazione magistrale del canto gregoriano.

Publié dans:musica (la), musica sacra, MUSICA SACRA |on 5 novembre, 2015 |Pas de commentaires »

LA MUSICA E IL CANTO LITURGICO – (Papa Benedetto, Papa Giovanni Paolo II, Papa Benedetto/ Jospeh Ratzinger)

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 LA MUSICA E IL CANTO LITURGICO

 (Papa Benedetto,  Papa Giovanni Paolo II, Papa Benedetto/ Jospeh Ratzinger)

BENEDETTO XVI, Lettera al Gran Cancelliere del Pontificio Istituto di Musica Sacra in occasione del 100º anniversario di fondazione dell’Istituto, 13 maggio 2011

…Un aspetto fondamentale, a me particolarmente caro, desidero mettere in rilievo a tale proposito: come, cioè, da san Pio X fino ad oggi si riscontri, pur nella naturale evoluzione, la sostanziale continuità del Magistero sulla musica sacra nella Liturgia. In particolare, i Pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II, alla luce della Costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium, hanno voluto ribadire il fine della musica sacra, cioè « la gloria di Dio e la santificazione dei fedeli » (n. 112), e i criteri fondamentali della tradizione, che mi limito a richiamare: il senso della preghiera, della dignità e della bellezza; la piena aderenza ai testi e ai gesti liturgici; il coinvolgimento dell’assemblea e, quindi, il legittimo adattamento alla cultura locale, conservando, al tempo stesso, l’universalità del linguaggio; il primato del canto gregoriano, quale supremo modello di musica sacra, e la sapiente valorizzazione delle altre forme espressive, che fanno parte del patrimonio storico-liturgico della Chiesa, specialmente, ma non solo, la polifonia; l’importanza della schola cantorum, in particolare nelle chiese cattedrali. Sono criteri importanti, da considerare attentamente anche oggi. A volte, infatti, tali elementi, che si ritrovano nella Sacrosanctum Concilium, quali, appunto, il valore del grande patrimonio ecclesiale della musica sacra o l’universalità che è caratteristica del canto gregoriano, sono stati ritenuti espressione di una concezione rispondente ad un passato da superare e da trascurare, perché limitativo della libertà e della creatività del singolo e delle comunità. Ma dobbiamo sempre chiederci nuovamente: chi è l’autentico soggetto della Liturgia? La risposta è semplice: la Chiesa. Non è il singolo o il gruppo che celebra la Liturgia, ma essa è primariamente azione di Dio attraverso la Chiesa, che ha la sua storia, la sua ricca tradizione e la sua creatività. La Liturgia, e di conseguenza la musica sacra, « vive di un corretto e costante rapporto tra sana traditio e legitima progressio », tenendo sempre ben presente che questi due concetti – che i Padri conciliari chiaramente sottolineavano – si integrano a vicenda perché « la tradizione è una realtà viva, include perciò in se stessa il principio dello sviluppo, del progresso » (Discorso al Pontificio Istituto Liturgico, 6 maggio 2011).

GIOVANNI PAOLO II – CHIROGRAFO SULLA MUSICA SACRA
…3. In varie occasioni anch’io ho richiamato la preziosa funzione e la grande importanza della musica e del canto per una partecipazione più attiva e intensa alle celebrazioni liturgiche, ed ho sottolineato la necessità di “purificare il culto da sbavature di stile, da forme trasandate di espressione, da musiche e testi sciatti e poco consoni alla grandezza dell’atto che si celebra”, per assicurare dignità e bontà di forme alla musica liturgica.
In tale prospettiva, alla luce del magistero di san Pio X e degli altri miei Predecessori e tenendo conto in particolare dei pronunciamenti del Concilio Vaticano II, desidero riproporre alcuni principi fondamentali per questo importante settore della vita della Chiesa, nell’intento di far sì che la musica liturgica risponda sempre più alla sua specifica funzione.
4. Sulla scia degli insegnamenti di san Pio X e del Concilio Vaticano II, occorre innanzitutto sottolineare che la musica destinata ai sacri riti deve avere come punto di riferimento la santità: essa di fatto, “sarà tanto più santa quanto più strettamente sarà unita all’azione liturgica”. Proprio per questo, “non indistintamente tutto ciò che sta fuori dal tempio (profanum) è atto a superarne la soglia”, affermava saggiamente il mio venerato Predecessore Paolo VI, commentando un decreto del Concilio di Trento e precisava che “se non possiede ad un tempo il senso della preghiera, della dignità e della bellezza, la musica – strumentale e vocale – si preclude da sé l’ingresso nella sfera del sacro e del religioso. D’altra parte la stessa categoria di “musica sacra” oggi ha subito un allargamento di significato tale da includere repertori i quali non possono entrare nella celebrazione senza violare lo spirito e le norme della Liturgia stessa.
La riforma operata da san Pio X mirava specificamente a purificare la musica di chiesa dalla contaminazione della musica profana teatrale, che in molti Paesi aveva inquinato il repertorio e la prassi musicale liturgica. Anche ai tempi nostri è da considerare attentamente, come ho messo in evidenza nell’Enciclica Ecclesia de Eucharistia, che non tutte le espressioni delle arti figurative e della musica sono capaci “di esprimere adeguatamente il Mistero colto nella pienezza di fede della Chiesa”. Di conseguenza, non tutte le forme musicali possono essere ritenute adatte per le celebrazioni liturgiche.
5. Un altro principio enunciato da san Pio X nel Motu proprio Tra le sollecitudini, principio peraltro intimamente connesso con il precedente, è quello della bontà delle forme. Non vi può essere musica destinata alla celebrazione dei sacri riti che non sia prima “vera arte”, capace di avere quell’efficacia “che la Chiesa intende ottenere accogliendo nella sua liturgia l’arte dei suoni”
E tuttavia tale qualità da sola non basta. La musica liturgica deve infatti rispondere a suoi specifici requisiti: la piena aderenza ai testi che presenta, la consonanza con il tempo e il momento liturgico a cui è destinata, l’adeguata corrispondenza ai gesti che il rito propone. I vari momenti liturgici esigono, infatti, una propria espressione musicale, atta di volta in volta a far emergere la natura propria di un determinato rito, ora proclamando le meraviglie di Dio, ora manifestando sentimenti di lode, di supplica o anche di mestizia per l’esperienza dell’umano dolore, un’esperienza tuttavia che la fede apre alla prospettiva della speranza cristiana.
6. Canto e musica richiesti dalla riforma liturgica ‑ è bene sottolinearlo ‑ devono rispondere anche a legittime esigenze di adattamento e di inculturazione. E’ chiaro, tuttavia, che ogni innovazione in questa delicata materia deve rispettare peculiari criteri, quali la ricerca di espressioni musicali che rispondano al necessario coinvolgimento dell’intera assemblea nella celebrazione e che evitino, allo stesso tempo, qualsiasi cedimento alla leggerezza e alla superficialità. Sono altresì da evitare, in linea di massima, quelle forme di “inculturazione” di segno elitario, che introducono nella Liturgia composizioni antiche o contemporanee che sono forse di valore artistico, ma che indulgono ad un linguaggio ai più incomprensibile.
In questo senso san Pio X indicava – usando il termine universalità – un ulteriore requisito della musica destinata al culto: “… pur concedendosi ad ogni nazione – egli annotava – di ammettere nelle composizioni chiesastiche quelle forme particolari che costituiscono in certo modo il carattere specifico della musica loro propria, queste però devono essere in tal maniera subordinate ai caratteri generali della musica sacra, che nessuno di altra nazione nell’udirle debba provarne impressione non buona. In altri termini, il sacro ambito della celebrazione liturgica non deve mai diventare laboratorio di sperimentazioni o di pratiche compositive ed esecutive introdotte senza un’attenta verifica.
7. Tra le espressioni musicali che maggiormente rispondono alle qualità richieste dalla nozione di musica sacra, specie di quella liturgica, un posto particolare occupa il canto gregoriano. Il Concilio Vaticano II lo riconosce come “canto proprio della liturgia romana” a cui occorre riservare a parità di condizioni il primo posto nelle azioni liturgiche in canto celebrate in lingua latina.San Pio X rilevava come la Chiesa lo ha “ereditato dagli antichi padri”, lo ha ”custodito gelosamente lungo i secoli nei suoi codici liturgici” e tuttora lo “propone ai fedeli” come suo, considerandolo “come il supremo modello della musica sacra”. Il canto gregoriano pertanto continua ad essere anche oggi elemento di unità nella liturgia romana.
Come già san Pio X, anche il Concilio Vaticano II riconosce che “gli altri generi di musica sacra, e specialmente la polifonia, non vanno esclusi affatto dalla celebrazione dei divini uffici”. Occorre, pertanto, vagliare con attenta cura i nuovi linguaggi musicali, per esperire la possibilità di esprimere anche con essi le inesauribili ricchezze del Mistero riproposto nella Liturgia e favorire così la partecipazione attiva dei fedeli alle celebrazioni…
11. Il secolo scorso, con il rinnovamento operato dal Concilio Vaticano II, ha conosciuto uno speciale sviluppo del canto popolare religioso, del quale la Sacrosanctum Concilium dice: “Si promuova con impegno il canto popolare religioso, in modo che nei pii e sacri esercizi, come pure nelle stesse azioni liturgiche, [...] possano risuonare le voci dei fedeli”. Tale canto si presenta particolarmente adatto alla partecipazione dei fedeli non solo alle pratiche devozionali, “secondo le norme e le disposizioni delle rubriche”, ma anche alla stessa Liturgia. Il canto popolare, infatti, costituisce “un vincolo di unità e un’espressione gioiosa della comunità orante, promuove la proclamazione dell’unica fede e dona alle grandi assemblee liturgiche una incomparabile e raccolta solennità”
12. A riguardo delle composizioni musicali liturgiche faccio mia la “legge generale”, che san Pio X formulava in questi termini: “Tanto una composizione per chiesa è più sacra e liturgica, quanto più nell’andamento, nella ispirazione e nel sapore si accosta alla melodia gregoriana, e tanto meno è degna del tempio, quanto più da quel supremo modello si riconosce difforme”. Non si tratta evidentemente di copiare il canto gregoriano, ma piuttosto di far sì che le nuove composizioni siano pervase dallo stesso spirito che suscitò e via via modellò quel canto. Solo un artista profondamente compreso del sensus Ecclesiae può tentare di percepire e tradurre in melodia la verità del Mistero che si celebra nella Liturgia. In questa prospettiva, nella Lettera agli Artisti scrivevo: “Quante composizioni sacre sono state elaborate nel corso dei secoli da persone profondamente imbevute del senso del mistero! Innumerevoli credenti hanno alimentato la loro fede alle melodie sbocciate dal cuore di altri credenti e divenute parte della Liturgia o almeno aiuto validissimo al suo decoroso svolgimento. Nel canto la fede si sperimenta come esuberanza di gioia, di amore, di fiduciosa attesa dell’intervento salvifico di Dio”
E’ dunque necessaria una rinnovata e più approfondita considerazione dei principi che devono essere alla base della formazione e della diffusione di un repertorio di qualità. Solo così si potrà consentire all’espressione musicale di servire in maniera appropriata al suo fine ultimo che “è la gloria di Dio e la santificazione dei fedeli

 LITURGIA E MUSICA SACRA (CARD. J. RATZINGER)
Oggi sperimentiamo il ritorno profanizzato di questo modello nella musica Rock e Pop, i cui festivals sono un anticulto nella stessa dire­zione — smania di distruzione, abolizione delle barriere del quotidiano e illusione di redenzione nella liberazione dall’Io, nell’estasi furiosa del rumore e della massa. Si tratta di pratiche redentive simili alla droga nella loro forma di redenzione e fondamentalmente opposte alla conce­zione di redenzione della fede cristiana. Di conseguenza perciò dilagano oggi sempre di più, in questo ambito, culti e musiche satanistiche il cui potere pericoloso, in quanto volutamente tendente alla distruzione e al disfacimento della persona, non è preso ancora abbastanza sul serio. La disputa che Platone ha condotto tra la musica dionisiaca e quella apolli­nea non è la nostra, poiché Apollo non è Cristo. Ma la questione che egli ha posto ci tocca molto da vicino. In una forma che la generazione a noi precedente non poteva neppure immaginare la musica è diventata oggi il veicolo determinante di una controreligione e pertanto il palco­scenico della divisione degli spiriti. Cercando la salvezza mediante la li­berazione dalla personalità e dalla sua responsabilità, la musica Rock da un lato si inserisce perfettamente nelle idee di libertà anarchiche che oggi in occidente dominano più che non in oriente; ma proprio per que­sto si oppone radicalmente alla concezione cristiana della redenzione e della libertà, è anzi la sua perfetta contraddizione. Perciò non per mo­tivi estetici, non per ostinazione restaurativa, non per immobilismo sto­rico, bensì per motivi antropologici di fondo, questo tipo di musica de­ve essere esclusa dalla Chiesa.
Potremmo concretizzare ulteriormente la nostra questione, se con­tinuassimo ad analizzare la base antropologica di vari tipi di musica.
Abbiamo della musica d’agitazione che anima l’uomo in vista di vari fi­ni collettivi. Esiste della musica sensuale, che introduce l’uomo nella sfera erotica oppure tende in altra maniera essenzialmente a sensazioni di piacere sensibili. Esiste della semplice musica leggera che non vuole dire nulla, bensì rompere soltanto il peso del silenzio. Esiste della mu­sica razionalistica in cui i suoni servono soltanto a delle costruzioni ra­zionali, ma non avviene una penetrazione reale dello spirito e dei sensi. Parecchi canti inconsistenti su testi catechetici, parecchi canti moderni costruiti in commissioni, sarebbero probabilmente da classificare in questo settore.
La musica invece adeguata alla liturgia di Colui che si è incarnato ed è stato elevato sulla croce, vive in forza di un’altra sintesi molto più grande e ampia di spirito, intuizione e suono. Si può dire che la musica occidentale dal canto gregoriano attraverso la musica delle cattedrali e la grande polifonia, la musica del rinascimento e del barocco fino a Bruckner e oltre proviene dalla ricchezza intrinseca di questa sintesi e l’ha sviluppata in un grande numero di possibilità. Questa grandezza esiste soltanto qui, perché poteva nascere soltanto dal fondamento antropologico che collegava elementi spirituali e profani in un’ultima unità umana. Essa si dissolve nella misura in cui svanisce tale antropologia. La grandezza di questa musica rappresenta per me la verifica più immediata e più evidente dell’immagine cristiana dell’uomo e ella concezione cristiana della redenzione, che la storia ci offre. Colui he da essa è realmente colpito, sa in qualche modo, dal suo intimo, che la fede è vera, pur dovendo fare ancora molti passi per completare questa intuizione a livello razionale e volitivo.
Ciò significa che la musica liturgica della Chiesa deve soggiacere a quell’integrazione dell’essere umano, che ci si presenta nella realtà di fede dell’incarnazione. Questa redenzione richiede più fatica che non quel­la dell’ebrezza. Ma questa fatica è lo sforzo della verità stessa. Da un lato deve integrare i sensi nell’intimo dello spirito, deve corrispondere all’impulso del Sursum corda. Non vuole, tuttavia, la pura spiritualizza­zione, bensì l’integrazione di sensi e spirito, di modo che ambedue insie­me diventino la persona. Lo spirito non si avvilisce ricevendo in sé i sen­si, bensì soltanto questa unione gli apporta tutta la ricchezza del crea­to. E i sensi non vengono privati della loro realtà, se vi penetra lo spi­rito, bensì soltanto in questo modo possono partecipare alla sua di­mensione di infinito. Ogni piacere sensuale è strettamente limitato e, in ultima analisi, non suscettibile di accrescimento, perché l’atto dei sensi non può oltrepassare una determinata misura. Colui che da esso si aspetta la redenzione, viene deluso, «frustrato” — come si direbbe oggi —. Ma essendo integrati nello spirito, i sensi acquistano una nuova profondità e penetrano nell’infinito dell’avventura spirituale. Là solo es­si si realizzano totalmente. Ciò però presuppone che anche lo spirito non rimanga chiuso. La musica della fede cerca nel Sursurn corda l’in­tegrazione dell’uomo, ma non trova questa integrazione in se stessa, bensì soltanto nell’autosuperamento, nell’intimo della Parola incarnata. La musica sacrale, ancorata in questa struttura di movimento, diventa purificazione dell’uomo, la sua ascensione. Non dobbiamo però dimen­ticare che questa musica non è l’opera di un momento, bensì partecipa­zione a una storia e suppone la comunione dal singolo individuo con le intuizioni fondamentali di questa storia. Così si esprime proprio in es­sa anche l’ingresso nella storia della fede, l’essere tutti membra del cor­po di Cristo. Dietro di sé lascia gioia, una modalità più alta di estasi, che non cancella la persona, bensì la unisce e nello stesso tempo la libera. Ci fa presentire ciò che è la libertà, che non distrugge, bensì rac­coglie e purifica.

« In cielo c’è una danza » : Musica ed esperienza del sacro

http://www.credereoggi.it/upload/1999/articolo114_17.asp

Musica ed esperienza del sacro

Aldo Natale Terrin

«In cielo c’è una danza»
(Van der Leeuw)

1. Introduzione: crisi delle rappresentazioni e nuova dinamica musicale
Ha ancora senso parlare del rapporto musica ed esperienza religiosa sulla scia, ad esempio, del rapporto che vi vede iscritto R. Otto, quando considera la musica in stretta analogia con il sentimento religioso? C’è ancora un connubio vincolante tra il suono, la musica, il linguaggio musicale e il senso che abbiamo di Dio, dell’Assoluto dell’incommensurabile, di ciò che è indicibile? Nella crisi delle rappresentazioni del mondo contemporaneo post-moderno sembra che la cultura non sia più in grado di creare sistemi di significato, la mousiké, l’armonia del nostro vivere al mondo si è frantumata e sembra essere inesorabilmente tramontata parallelamente al collasso che si è prodotto di tutti i sistemi simbolici consolidati e classici. Non ci sono più possibilità di dire. Ogni discorso è irrisorio prima ancora di annunciarsi, ogni parola è di troppo ancora prima che sia stata pronunciata. Una specie di rifiuto istintivo precede e accompagna ogni discorso che intenda ancora farsi interprete del mondo. Il discorso, la comunicazione è ridotta sempre più a informazione tecnica, a mezzo di mercato, a funzione unilineare, è svuotata di ogni contenuto simbolico. Il mondo nella sua totalità non è più dicibile e ogni simbolica è sospetta quando intende «tra-guardare» l’orizzonte di significatività in cui siamo posti, noi mortali, abitatori della terra.
In questa «terra desolata», – per usare l’espressione di Eliot – anche la musica sembra votata a un destino di morte. La «musica è finita». La musica è in uno stato di depauperamento e di degrado come l’ambiente. Il collasso dei simboli, dei referenti classici non permette nessuna uscita di sicurezza. C’è un appiattimento mortificante di tutti i prodotti culturali intesi come semplici prodotti di consumo, c’è un’irrilevanza di tutto ciò ci circonda proporzionale alla cosificazione, oggettivizzazione del mondo avvenuta via via a partire dal positivismo dove l’industria culturale non ha fatto altro che assolutizzare la copia, la fotocopia, la registrazione, il doppio, il multiplo mercificando tutto, compresa la stessa opera d’arte. Il moderno ha declassato i simboli e ha schiacciato la trascendenza verso il basso riducendo il discorso religioso a discorso etico e assegnando alla musica soltanto un compito formale e vuoto. La razionalità, l’ambito razioide (ratioides Gebiet) – come lo chiamerebbe Musil – ama la musica soltanto come sintassi e come struttura grammaticale. Per esso la musica è soltanto un codice e le note musicali una alterazione strutturale di movenze in vista di un riequilibrio. Il formalismo contemporaneo è fondamentale per comprendere e dissolvere la musica nelle sue strutture diacritiche nella stessa misura in cui esso si fa complice dello svuotamento simbolico col trasformare ogni componente simbolica in struttura semiotica. Così il mondo si presente sempre più simile al gioco della scatole cinesi. L’una dentro l’altra fino al vuoto. E la vita diventa davvero «una lotta contro il Nulla», come osservava G. Marcel. Nel mondo giapponese questa indicazione del vuoto è ancora più illusoria e irridente: il pacchetto delle scatole infatti appare molto elegante, raffinato, perfetto. In un certo senso è ancora più in grado di differire la scoperta dell’oggetto e di creare la curiosità e così alla fine il contrasto tra il lusso dell’involucro e l’oggetto insignificante che racchiude diventa lacerante e crudele.
Ma tutto non finisce qui. Occorre vedere anche alcuni risvolti positivi che incominciano ad apparire all’orizzonte. Oggi ci si sta muovendo verso qualcosa di nuovo, si torna a una nuova forma di leggerezza. Sembra che vi sia una nostalgia di qualcosa di più originario, sembra che si cerchi un nuovo inizio e che si tentino altre strade. Si cerca di nuovo il non detto e il non dicibile, oltre il senso stesso della realtà. Non si tratta della «nostalgia del totalmente altro» di cui parlava Horkheimer; è una nostalgia più umile, che nasce dall’humus, dalla terra che noi siamo. È il desiderio di essere noi stessi semplicemente, sinceramente. È la necessità di sopravvivere ricominciando daccapo. In un mondo in cui regna sempre più la citazione, il gioco dell’arte combinatoria, la simulazione, l’affabulazione e ultimamente il nulla, si sente il bisogno di leggere ciò che non è mai stato scritto, di recuperare una lingua originaria, quella delle viscere della terra, proveniente forse dalle stelle o dalle danze: forse è il bisogno più semplice e immediato di ritornare soltanto alla spontaneità, per raggiungere un paesaggio spirituale nuovo che la nostra lingua è incapace di scoprire dietro il chiacchiericcio che ormai sovrasta e consuma ogni realtà.
E in questo nuovo incipit il linguaggio musicale resiste, almeno come il bunraku giapponese, come il teatro delle bambole, per il bisogno di esprimere – se non altro – le nostre emozioni, i nostri slanci, le paure, i traumi. Sembra che una incipiente riorganizzazione di un qualche positivo orientamento avvenga all’insegna del linguaggio musicale, di quel linguaggio che non dice e non nomina le cose, ma le evoca soltanto, le annuncia quasi volando al di sopra di esse. Se c’è una crisi dell’oggettività e anche della soggettività, in questa caduta dei due referenti – oltre la povertà espressiva dei simboli –, sembra che l’unico aspetto fungente del nostro modo di comprendere e di abbracciare il mondo sia quello estetico-musicale che ha il suo risvolto più immediato a livello religioso nel misticismo chiamato a ergersi sulle ceneri del positivismo e dello scientismo.
C’è così un incamminamento verso ciò che è nascosto e ciò che è possibile, c’è il bisogno di «tra-guardare» al mondo attraverso il liminale e il sub-liminale, attraverso l’estasi, il sogno, il mondo onirico, il virtuale, il paranormale, l’irreale. In questa tensione dove l’estremo desiderio è che l’irreale diventi il vero reale assegniamo alla musica il compito di sottrarci all’insipienza del principio di non contraddizione e di compiere un’opera di «sconnessione» dei legami di causa/effetto per farci percepire concretamente il potere che abbiamo di immaginarci diversi da quello che siamo.
Si ritorna così al «mistico» dopo la religione e si ritorna in concomitanza a un senso primitivo della musica, si ritorna all’estetico, come a un «campanello d’allarme» del bisogno di recupero del pre-verbale, appunto come nel Bunraku giapponese, dopo i diversi linguaggi musicali e aldilà di essi. Abbiamo bisogno di dare forma alle emozioni non ai discorsi, visto che non crediamo più alla logica delle idee. E se la religiosità di oggi è di carattere essenzialmente emotivo, pare che ci sia il bisogno di recuperare una «musica emotiva», musica discontinua, cifrata, sottomessa a un’opera di auto-ironia dove, se di significati ancora si parla, si è pronti a confessare anche la propria prostituzione a significati multipli e dissonanti.
Il senso religioso allora appare ancora strettamente connesso al fatto musicale, ma l’uno e l’altro sono sottomessi a uno stato di usura e di fibrillazione dove occorre ripensare il legame originario che unisce i due modi di sentire per non perdere gli archetipi stessi di un rapporto immemoriale e pre-categoriale.

2. L’originario intreccio di musica e sacro
Schneider scopre alcuni passaggi assai significativi per capire l’intreccio originario di musica e sacro a partire dalle antiche Upanishad. Egli osserva, ad esempio, che la Chandogya Up. parla del fatto che«il mondo fu generato dalla sillaba OM, che costituisce l’essenza del saman (canto) e del soffio. Ma oltre questo suono originario, che ricorda quel suono primordiale che ha dato origine al big bang e che nel 1965 fu scoperto ancora presente negli spazi astrali dagli scienziati di Princeton, la Chandogya enumera le differenti tappe che segnano la progressiva materializzazione del mondo a partire da una musica originaria: il mondo sarebbe l’essenza della musica tradotta in metro poetico, il metro è l’essenza del linguaggio , il linguaggio è l’essenza dell’uomo, l’uomo è l’essenza delle piante, le piante sono l’essenza dell’acqua e l’acqua è l’essenza della terra».
Musica ed esperienza religiosa non appaiono perciò scindibili nella preistoria della nostra comprensione del mondo, in quella realtà iniziale in cui abbiamo incominciato a prendere coscienza del mondo e di noi stessi in una totalità senza distinzioni, senza dicotomie, senza effrazioni, senza specchi.
L’India antica per questo è forse il paese che più di ogni altro ha amato la musica, si è immedesimato con essa fino al punto da congiungere strettamente e in maniera inscindibile concezione filosofica, religiosa, cosmologica e musicale[1]. La mitologia qui è molto ricca. Prajapati, il dio delle origini, il signore delle creature nacque da un concerto di diciassette tamburi. Secondo la concezione indù, il principio che dà origine ai mondi è un principio armonico e ritmico, simboleggiato dal ritmo dei tamburi. E Shiva, in quanto creatore del mondo, non profferisce il mondo: non dice qualcosa come il fiat lux, ma crea il mondo danzando[2]. Sono famosi i tre passi di danza con cui Shiva misura il mondo. In un passo dello Shiva Pradosa Stotra si sostiene che mentre Shiva «danza sulla cima del monte Kailasa, è circondato da tutti gli dèi. Sarasvati – dea delle arti e delle scienze – suona il vina (strumento a corda con la cassa a forma di barca), Indra (dio del cielo) suona il flauto, Brahma (il creatore) tiene i cimbali e segna il tempo, Laksmi (la Fortuna) intona una canzone, Vishnu suona il tamburo. Tutti gli dèi li circondano… Tutti gli abitanti dei tre mondi si radunano per vedere la danza e per ascoltare la musica dell’orchestra divina nell’ora del crepuscolo».
La musica per sua natura non soltanto ha a che fare con il rituale e la religione, ma è vimuktida, cioè «portatrice di salvezza» e libera dal ciclo delle reincarnazioni: è una parte importante del mondo religioso Il Rigveda per esempio ci segnala i sette rsi, poeti mitici il cui canto generò la prima aurora. Gli dèi amano la musica, ma fanno musica, sono musicisti e Shiva avrebbe detto espressamente ed esclamato: «Mi piace più la musica di strumenti e di voci che mille bagni e preghiere»[3]. Per altro sappiamo che il dio Krishna si presenta sempre come il più grande suonatore di flauto e così viene ancora oggi rappresentata la sua immagine in tutto il mondo indù.
La stessa distinzione più antica dei Veda contempla il cosiddetto Samaveda che non è altro che la trascrizione musicale del Rigveda. Dunque si può dire che il rituale religioso fin dal suo sorgere aveva previsto una parte musicale talmente vincolante al rito stesso che non vi erano inni vedici che non avessero una melodia o una recitazione melodica appropriata per il culto alle divinità. Il precentor chiamato Udgatar che cantava, con i suoi accoliti, servendosi della parte musicale propria del Samaveda[4] costituiva la regola del mondo religioso antico.
Anche la Cina ci dà delle coordinate della musica antica in rapporto al sacro nella misura in cui ha amato immensamente la musica e l’ha messa in relazione con i riti e con l’intera vita religiosa secondo delle concordanze e dei parallelismi che appaiono a noi stupefacenti. Naturalmente qui si può soltanto accennare al complesso mondo cinese che ordina e ritrova armonia in ogni vera attività umana positiva e religiosa.
Tutto l’ordine del mondo si modula nella Cina antica sulla scala pentatonica indicata dagli intervalli kung (fa), shang (sol), chueh (la), chih (do) e yu (re). Questa scala veniva poi trasposta ogni mese affinché la musica si trovasse sempre in armonia con il suono fondamentale della natura, il quale variava di mese in mese. Ma la teoria musicale di incontro tra natura società e momento religioso si trova nel Li Chi dove la musica non è altro che la sostanza dei rapporti armonici che devono regnare tra cielo e terra. Per tale motivo gli antichi re facevano della musica uno strumento d’ordine e di buon governo. Quando infatti i cinque suoni sono alterati, le categorie sconfinano le une nelle altre e ciò viene chiamato «insolenza». Se le cose stanno così, in meno di un giorno può sopraggiungere la perdita del regno[5]. Dunque la musica era correlata all’ordine ad ogni livello: ordine cosmico, ordine stagionale, ordine astrofisico e soprattutto ordine sociale. A loro volta queste armonie particolari erano cooptate nel grande concerto dell’armonia universale che si faceva carico allora e sovranamente del significato religioso in senso pieno.
In maniera più prossima a noi, mi piace accennare appena alla musica rituale e liturgica del mondo tibetano. I buddhisti tibetani ritengono che la musica prepari la mente all’illuminazione spirituale e danno molto risalto al suono in rapporto al rituale e alla meditazione. Il mondo si trasforma e si unifica attraverso il suono, un suono che può essere costituito da un «mono-tono», basso, viscerale, ma che esprime l’intensità dell’esperienza ed è il rispecchiamento di una visione originaria, non contaminata, non deturpata dalle cose, dalla dispersione caotica del nostro vivere come cose in mezzo a oggetti. Seduti in fila a gambe incrociate, nei loro abiti variopinti, i monaci tibetani ancora oggi intonano e cantano i loro canti e inni quasi in un gesto di suprema e sovrana libertà dal mondo, dimenticando i segni e penetrando oltre la maya, quel velo che ci nasconde la vera realtà, maya come indice di ogni classificazione, moltiplicazione, come espressione di tutti gli epifenomeni mondani.

3. Suono e sensi. La musica sciamanica come religione «totale»
Forse il più grande antropologo che prestò attenzione alla musica ai nostri tempi è stato Lévi-Strauss, secondo il quale c’è un legame stretto tra musica e mito – potremmo omologare il mito al «mondo religioso» –, in quanto sono tutti e due strumenti per «dimenticare il tempo». La musica, ancora per Lévi-Strauss, è il mistero supremo delle scienze dell’uomo. Questo appare significativo anche se in fondo si tratta di uno sguardo gettato dall’esterno al senso che la musica ha in rapporto all’uomo e all’esperienza religiosa. Infatti «dimenticare il tempo» significa anche «trascendere il tempo», entrare in una dimensione mistico-religiosa appagante. E tutto ciò che cosa significa se non ritornare all’integrità originaria, incamminarsi verso il paradiso perduto?
A livello storico-antropologico oggi va sempre più consolidandosi l’idea, sull’indicazione di Kirby, che la prima esperienza religiosa dell’umanità non sia da attribuirsi al momento sacrificale, ma piuttosto alla danza, al suono del tamburo e all’esperienza rituale di trance. Là sembra che si possa recuperare l’originario intreccio tra musica ed esperienza religiosa. Non è difficile immaginare che tale esperienza che è propria del mondo sciamanico e che storicamente sembra collocarsi a livello dell’antica religione bon del Tibet possa essere davvero catalogata come l’originario pre-categoriale di ogni nostra esperienza religiosa nella misura in cui è un’esperienza di totalità, crea un psico-dramma coinvolgente, unisce tutti i codici comunicativi e permettendo di conseguenza un intreccio globale, una Gestalt senza smagliature. Non è un caso infatti che nel mondo sciamanico si ritrovino in unità tutto ciò che altrove è in qualche modo più o meno disgiunto, disarticolato, dislocato o distribuito in tempi diversi. Lo sciamano, infatti, quando si è travestito con apposite maschere prendendo posto all’interno dell’ambito rituale a cui è deputato, incomincia a battere il suo tamburo producendo suoni e ritmi che sono religiosi e che coinvolgono il corpo, la mente, lo spirito, creano una performance totale, dove si ritaglia lo spazio come axis mundi e si condensa il tempo, il mondo visibile e il mondo invisibile. Non batte certo l’aria, ma crea un suono originario chiama a raccolta tutte le forze positive e gli spiriti protettori mentre i suoi canti vengono accompagnati con movimenti, grida, imitazione della voce delle diversi suoni del mondo. Le divinità del cielo, della terra, i regni animali e vegetali sono chiamati in causa per far parte dell’armonia del mondo, di quell’armonia che guarisce e che restituisce la realtà nella sua trasparenza originaria. In definitiva ogni esperienza giocata sul pentagramma dell’universo e ogni armonia che nasce dalla fusione di orizzonti totalizzanti di significato non sono altro che la trascrizione più vera dell’esperienza religiosa stessa. È un’esperienza di totalità unica e indissolubile dove momento musicale e momento religioso si fondono e si confondono. Ma tutto ciò vale anche a livello etnografico per molti popoli presenti oggi sul pianeta terra.
Si possono considerare ad esempio i rapporti che intercorrono a livello musicale tra i popoli a cultura semplice e il mondo religioso corrispondente presso i Zuni Pueblo con la danza cachina, i Soshoni con la famosa danza del sole propria di quasi tutti gli indiani delle praterie, mentre nell’America latina potremmo ricordare soprattutto i Karina con la loro bella mitologia a sfondo mitico-musicale.
I Zuni Pueblo, amanti della musica e della danza come si dimostrano, contemplano due cate­gorie di danzatori e musicisti in maschera: gli dèi mascherati propriamente detti, i cosiddetti cachina e poi i preti cachina (koko). Gli dèi danzanti so­no esseri sovrannaturali, felici, che vivono in fondo a un grande la­go, molto lontano. Essi però, per ascoltare musica e danzare, preferiscono ritornare a Zuni. Impersonarli, perciò, attraverso le maschere significa con­cedere loro la gioia che maggiormente desiderano: quella di poter ve­nire ad ascoltare musica e a danzare a Zuni. E così un uomo, quando indossa la masche­ra del dio, diventa in quel momento il dio stesso, deve assumere pienamente il ruolo relativo a quella divinità e deve godere della musica e della danza come vogliono gli dei.
I danzatori cachina fanno la loro comparsa maggiore in due serie di performances: nelle danze invernali, dopo il solstizio d’inverno. Que­ste danze si tengono nei kiva o stanze dei rituali. La performance maggiore si ha però con la danza della pioggia – danze estive – che si tengono all’aperto, nella piazza del villaggio. Naturalmente tutte queste danze sono connesse con offerte e preghiere e comportano una partecipazione drammatica di tutta la popolazione, che intende con queste grandi manifestazioni far entrare nel mondo del rituale e attraverso la musica tutti gli elementi della natura, intesi secondo una «geografia sacra» che include oltre ai quattro punti cardinali anche l’alto e il basso (lo zenith e il nadir secondo la cosmologia zuni. Vi è dunque una fusione di rito e di musica in una visione altamente contemplativa del mondo e della natura a cui corrisponde una forte emozione religiosa.
Per quanto riguarda la danza del sole, mi riferisco solamente – tra i tanti esempi possibili – alla danza del sole presso i Shoshoni dello Stato dello Wyoming (USA) descritta di recente dal grande etnologo Ake Hultkranz e da Voget[6].
Le danze hanno luogo nei mesi di luglio e di agosto e il motivo di questo mondo di danze che si sprigiona in questi mesi è a circolo: viene in altre parole dalla danza stessa. «Tutto quello che sappiamo – dice la tradizione – l’abbiamo appreso dalla danza del sole»[7]. Qui si assiste a una circolarità assai significativa tra musica, rito ed esperienza religiosa, al punto che il momento religioso viene dalla musica e dalla danza, l’affabulazione mitica è figlia della musica e a sua volta la danza racconta il senso religioso. È una conferma della tesi per cui il rito viene prima del mito.
Nella danza del sole si danza per quattro giorni consecutivi, quasi senza interruzione, secondo una precisa disposizione dello spazio e dell’area sacra in cui si trova il punto centrale di riferimento. Si tiene conto del grande spiazzo, del posto da riservare agli attori, al coro, agli an­ziani; si stabilisce con precisione la disposizione del fuoco e il po­sto e l’orientamento degli spettatori. Sono previste delle pause sol­tanto per cibarsi di qualche cosa e per dormire alcune ore, mentre la danza – così continua, ripetitiva e a volte convulsa – sembra destina­re inesorabilmente i danzatori alla trance, oltre ad essere – secondo la tradizione – un grande atto di ringraziamento al sole e alla natu­ra.
Per i Karina del Venezuela ciascun suono originario è all’origine di una particolare specie animale, una wara. Per questo ora ogni specie di animali ha un suo proprio suono, possiede un suo linguaggio. Ma vi è di più: nella mitologia karina il suono era all’origine uno soltanto e il linguaggio è una frantumazione indebita dell’integrità del suono e della musica delle origini. La conoscenza che viene dalle parole è perciò basata in realtà sulla «morte» del suono in tutta la sua ricchezza simbolica. Dopo la disintegrazione ormai compiuta del suono nel linguaggio si è frantumato di conseguenza anche il significato originario. Ora si può ritornare all’integrità del significato soltanto attraverso il potere dell’immaginazione. In questo contesto di collasso dell’unità del significato è soltanto la danza che nella sua varietà di codici e di scambi di Gestalten offre la vera ermeneutica della vita e permette di recuperare l’originario oltre i linguaggi. La danza, oltre i suoni può recuperare il suono primordiale e dunque l’unità del senso. Ed è in questo senso che il grande musicista Schönberg, intravedendo questa nuova possibilità dopo le varie mortificazioni de linguaggio, tentava di estendere ne La mano felice le leggi musicali a elementi di natura non musicale attraverso componenti sceniche, mimiche facciali, colori, attraverso gesti, fino a voler creare «un coro di sguardi» e un «crescendo di luci».
Ora in tal modo si viene anche a dire che la vera conoscenza è lontana dalla conoscenza attraverso le parole, i segni, la logica delle connessioni. La vera conoscenza è piuttosto quella inconscia, sub-liminale, periferica, retroattiva, registrata in un continuo biofeedback con la natura circostante. Soltanto attraverso il suono e la musica, secondo i Karina del Venezuela, si ha la percezione vera della vita nella sua pienezza[8].

4. Suono, linguaggi e significati. Una meditazione semantica a partire dalla musica
La musica a livello etnologico, l’etnomusica sembra mettere in crisi la nostra visione occidentale della musica stessa. Ma che cosa ci indica la musica a livello etnomusicale? Il tutto del nostro vivere al mondo e il nulla del senso cercato nei dettagli, nelle cose singole, nel qui e là, nell’altrove. Ora sembra possibile affermare che il senso religioso è proprio questo. È la totalità del senso tout court, senza altre inferenze, deduzioni, induzioni, specificazioni. Il suono e con esso la musica e la religione possono allora essere anche il «non senso» nella nostra concezione occidentale o piuttosto è il senso quasi esperito «attraverso i sensi» e non più razionalmente. Forse ha ragione J. Cage e con lui Wittgenstein e il Buddhismo Zen. Da questo punto di vista la parola appare uno stereotipo prodotto al di fuori di ogni magia, di ogni entusiasmo, di ogni immaginazione, come se fosse qualcosa di naturale, parola disinvolta che crede alla propria superiorità di senso e che ambisce alla propria consistenza e invece fa parte del vuoto. «Io considero la musica come incapace di esprimere qualcosa come un sentimento, un atteggiamento o uno stato della mente, una scena naturale, ecc. L’espressione non è mai stata una proprietà immanente della musica», scriveva Strawinsky. Era la concezione della musica priva della «sonorità» della vita. Nel mondo Zen, ad esempio,si ripete la stessa cosa per la parola e in genere per il linguaggio. All’origine occorre fare una semplice osservazione: se si perde il contatto con l’originario si perde sia il senso vero della musica e sia il senso religioso.

5. Musica ed esperienza religiosa oltre i significati
Il nostro mondo occidentale – pur avendo poca dignità da attribuire al mondo – esige che ogni cosa abbia un nome e «inumidisce» di senso ogni realtà come una religione autoritaria che voglia imporre il battesimo all’intera popolazione. In fondo, gli oggetti del nostro linguaggio che cosa sono se non dei «battezzati» di diritto o dei convertiti di diritto attraverso il senso e il significato loro attribuito? Il non senso è considerato come un’infamia. Ora non sembra così per la musica, per l’etnomusica, che ancora più in là della poesia, può rinunciare al legein, al mettere insieme in funzione della ragione, può rinunciare alla connessione per un più immediato rapporto «contemplativo» del mondo, come avviene, ad esempio, in un haiku giapponese. L’haiku giapponese è un tipo di condensazione dell’esperienza difficilmente accessibile al nostro mondo occidentale in quanto non si cura di creare legami di senso, ma crea semplici e immediati rispecchiamenti come in esempi di questo tipo:

«Quante persone sono passate
attraverso la pioggia d’autunno
Sul ponte di Seta».

Oppure:

«Vengo attraverso il sentiero di montagna.
Ah! che meraviglia!
Una violetta!».

Descrittivismo? Impressionismo? Espressionismo? La vita è musica: ha la sua trasparenza e non ha bisogno di niente altro.

6. Conclusione. La musica e la religione vicine a un senso più originario, quasi a un non senso
Abbiamo bisogno ancora del senso delle parole per vivere? Non ci basta il senso della vita? C’è un senso immediato, non logico, non riflesso, non fatto oggetto ancora dei criteri di verità o di falsità, forse è questo l’originario verso il quale inconsciamente ma decisamente ci muoviamo. In questo luogo o meglio in questo «non-luogo» musica ed esperienza religiosa si incontrano ancora e in modo originale. È la teologia apofatica che deve regnare nell’insignificanza che ci circonda. È la musica «spoglia» che deve ritornare, ridotta al suono originario, al nada:suono e nulla ad un tempo.

Aldo Natale Terrin
docente di storia delle religioni e antropologia culturale
all’Università Cattolica di Milano e all’Università di Urbino

Sommario
Musica e sacro, aldilà di una facile omologazione, vengono visti nella crisi delle rappresentazioni del mondo d’oggi e nella difficoltà di far parlare il simbolico. L’impasse viene superata soltanto ad alcune condizioni alla cui origine c’è un nuovo inizio a carattere estetico-mistico. Queste condizioni sono allora una sobrietà espressiva, un pensiero profondo, il recupero di un significato unitario dietro a tutti i sensi e i non sensi del nostro vivere. Musica e sacro vanno insieme alla scoperta di un originario di cui ancora non siamo in grado di rendere conto.

[1] Secondo la lettura che ne fa Schneider. Cfr. M.Schneider, Le basi storiche della simbologia musicale, in «Conoscenza religiosa» 3(1969), 267-302.
[2] Cfr. a. coomaraswamy, The Dance of Shiva, Bombay 1988(4), 67.
[3] Cfr. Mahabharata, cap. 36, 27 cit. da C. sachs, op.cit., 153.
[4] Si veda per un’analisi dettagliata A. Bake, La musica nell’India, cit., in particolare 224.
[5] Per queste osservazioni si veda M. Schneider, La musica primitiva, cit., 91-92.
[6] Cfr. A. HULTKRANZ, Native Religions of North America, Harper and Row, New York 1987; F.W. VOGET, The Shoshoni Crow Sun Dance, Norman Okla. Uni., klahoma 1984.
[7] op.cit., 68.
[8] Cfr. L. E. Sullivan, Sound and Senses. Toward a Hermeneutics of Performance, in «History of Religions’ 26(1986), 1-33.

Publié dans:arte sacra, musica (la), musica sacra |on 11 juillet, 2012 |Pas de commentaires »

Musica, dire « Grazie » a Dio

dal sito:

http://www.hakeillah.com/4_08_06.htm

Giornata della cultura ebraica – Musica

Musica, dire « Grazie » a Dio

di A. S.
 
La musica costituisce una forma di espressione della cultura ebraica fin dalle origini. Nella Genesi (4,21) si attribuisce a Yuvàl la prima fabbricazione di strumenti musicali, in parallelo a Yavàl che istituì per primo la vita pastorale e a Tuval Qayin che cominciò ad affilare gli strumenti di lavoro: ciò significa che fin da antico la musica ebbe almeno altrettanta importanza delle varie attività produttive. Tuttavia, a differenza di altre culture che hanno lasciato una cospicua testimonianza scritta ed una riflessione teorica (trattati, ecc.) sulla propria attività musicale, nell’Ebraismo le testimonianze in proposito sono affidate in massima parte alla tradizione orale. Se si esclude l’epoca moderna, le uniche annotazioni musicali sono praticamente quelle di autori italiani del Rinascimento, ebrei (Salomone Rossi) e non ebrei (Benedetto Marcello) che si sono interessati di musica liturgica ebraica.
Nella Bibbia Ebraica il canto è una manifestazione spontanea di gratitudine all’Eterno in occasione di miracoli o interventi liberatori. Mosè e il suo popolo intonano la « Cantica del Mare » dopo l’attraversamento del Mar Rosso e così fa sua sorella Miriam accompagnata dalle donne con cembali (Esodo, 15). Parimenti Debora cantò quando ottenne la salvezza (Giudici, 5). David è chiamato « il dolce cantore d’Israele » (2 Samuele, 23,1) e a lui la tradizione attribuisce la stesura dei Salmi, una serie di 150 brani poetici ad uso liturgico. Non c’è dubbio che essi furono adoperati per accompagnare il culto sacrificale nel Santuario di Gerusalemme, cantati dai Leviti con l’accompagnamento di strumenti musicali (2 Cron., 5 e 29): la Bibbia stessa menziona 19 strumenti.
Si ritiene concordemente che nei Salmi sia attestata una terminologia musicale anche se il significato dei singoli termini può solo essere oggetto di congettura: non siamo in possesso di un’idea precisa di cosa fosse la musica ebraica nella fase più antica. È peraltro evidente che l’uso di strumenti musicali non era limitato all’ambito religioso: ne è attestato un uso pubblico, o più precisamente militare (Numeri 10, ma si pensi soprattutto alla presa di Gerico); è parimenti riconosciuto il valore terapeutico della musica (David suona l’arpa per il re Saul). La Mishnah fornisce descrizioni approfondite dell’uso del canto e della musica nell’ambito del secondo Tempio: l’affermazione secondo cui l’inizio del Sabato a Gerusalemme era annunciato da un suono di tromba al tramonto del venerdì ha trovato recenti conferme archeologiche.
Dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme (70 dell’E.V.) avvenne nell’Ebraismo una rivoluzione liturgica. Non potendosi celebrare i sacrifici in altro luogo, per disposizione biblica, il Santuario fu sostituito dalla Sinagoga, in cui il sacrificio lasciò il posto ad una preghiera comunitaria e allo studio dei Sacri Testi. Entro il primo millennio dell’Era Volgare si portò a compimento non solo la definizione del Canone Biblico e del testo ufficiale dei vari libri (testo masoretico), ma anche dell’interpunzione, adottando appositi segni grafici per la cantillazione, che sono tuttora alla base della tradizione cantoriale delle diverse comunità, le quali danno dei medesimi segni codici diversi di lettura musicata. Furono adottate melodie diversificate per il Pentateuco, per i libri profetici, per il libro di Ester (letto con tono giocoso in occasione di Purim) e per le Lamentazioni di Geremia, lette con tono luttuoso durante il digiuno del 9 di Av per commemorare la Distruzione del Tempio. Verso il VI secolo nacquero nuovi generi liturgici mutuati dalla cultura circostante, come il piyyut (dal greco poyètes), composizione poetica che fa uso di artifici letterari come il metro e l’acrostico. Questa produzione fu fervida almeno fino al XV secolo, allorché fu inventata la stampa che permise la produzione di formulari liturgici in serie.
Con il tempo si reimpostò una nuova tradizione musicale al servizio delle esigenze mutate. Il ricordo del Santuario distrutto impose un tabù sull’uso di strumenti musicali, con la sola parziale eccezione dei matrimoni. Per questo motivo, presumibilmente, la tradizione musicale antecedente fu accantonata e, in definitiva, dimenticata. Degli antichi strumenti sopravvisse soltanto lo Shofàr, in omaggio alla prescrizione biblica di suonarlo a Rosh ha Shanah. Tale suono evoca sentimenti di reverenza in questo periodo dell’anno particolarmente dedicato al pentimento e al perdono. La tradizione rabbinica, considerando l’ascolto della voce femminile una fonte di possibile distrazione per l’uomo, limitò parimenti la partecipazione attiva delle donne al culto sinagogale in genere.
Nelle Sinagoghe i diversi sentimenti religiosi furono per lo più affidati alla libera espressione vocale della Comunità. Con il tempo, tuttavia, emerse la figura del chazzan (ufficiante), l’ « inviato della Comunità » appositamente incaricato di fungere da « solista » nella conduzione della pubblica preghiera. Lo stile dei chazzanim rifletteva per lo più l’influenza dell’ambiente circostante, con punte assai raffinate: nella Mitteleuropa a partire dal Settecento si affermò la figura del « kantor » con impostazione operistica, non di rado accompagnato da un coro. Anche l’Ebraismo ebbe, a partire dall’Ottocento in Germania e poi in America, una sua Riforma che introdusse l’uso dell’organo e di cori femminili a deroga della tradizione. Il dibattito fu allora particolarmente acceso, in quanto gli Ortodossi addebitarono ai Riformati l’adozione di elementi tipici delle chiese cristiane.
Il movimento chassidico, nato in Polonia nel XVIII secolo, diede alla musicalità un’importanza grandissima come espressione della vita religiosa dell’Ebreo. In quanto mistici, i Chassidim ritenevano che il cuore umano avesse nei confronti del Divino sentimenti troppo profondi per essere espressi a parole e che solo la melodia avrebbe potuto farsene portavoce. La musica chassidica, fortemente legata nelle sue manifestazioni alla musica popolare dell’Europa dell’Est, ha dato origine a produzioni come la musica klezmer (espressione tratta dall’ebraico klì zèmer =strumento musicale), un genere considerato comunemente espressione della cultura ebraica.

A.S.                     

Publié dans:musica (la), musica sacra |on 8 novembre, 2011 |Pas de commentaires »

La religiosità di Franz Liszt nel bicentenario della nascita

dal sito:

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/cultura/2011/057q04a1.html

La religiosità di Franz Liszt nel bicentenario della nascita

Al fondo della sofferenza umana

di MICHELE CAMPANELLA

Il 10 marzo a Roma, al Parco della Musica, viene presentato il volume Il mio Liszt. Considerazioni di un interprete (Milano, Bompiani, 2011, pagine 220, euro 11) scritto, in occasione del bicentenario della nascita del compositore ungherese, da uno degli esecutori più accreditati per questo repertorio. Ne anticipiamo uno stralcio.

Nella vita di Liszt la fede è una presenza indiscussa, anche da parte degli osservatori più scettici. Si dibatte di come la sua musica sia investita da essa, al di là delle ambizioni e delle intenzioni programmatiche dello stesso Liszt. Nel catalogo delle opere lisztiane la quantità di titoli « spirituali » è veramente cospicua: dalla prima Ave Maria (composta nel 1842) sino al suo ultimo anno di vita (1886), l’elenco dei pezzi dedicati alla fede cattolica, amplissimo, si confonde con i pezzi di carattere puramente meditativo, tanto da non potersi distinguere. Nella sua immaginazione la presenza di eroi, così significativa sino agli anni Cinquanta, si assottiglia per lasciare spazi sempre più vasti alle figure di santi e in particolare alla venerazione della Madonna. Nella creazione di un genere spirituale che trasversalmente abbracciasse pianoforte, coro, orchestra, con le loro diverse esigenze linguistiche, Liszt compie uno sforzo meritorio nel prendere le distanze da quello stile improvvisativo del palcoscenico, dal quale proviene. La maturazione di questo nuovo linguaggio non è indenne da sbavature e incertezze, legata come anche alla conquista del mestiere di orchestratore, abbastanza tardiva rispetto alla fioritura adolescenziale del suo talento pianistico.
La religiosità lisztiana si manifesta in modi difformi, né si potrebbe chiedere diversamente a un artista così orgoglioso della sua libertà. La relazione tra poesia e religione nella sua musica non è ben definita. In molti titoli la ricerca dell’eufonia diventa la cifra stessa del suo approccio alla preghiera, una sorta di conforto morale nella dolcezza del suono: non esiste un confine preciso tra eufonia estetizzante e ascesi. Un po’ come l’Adorazione dei pastori del Correggio, dove la Bellezza rischia di far velo alla Verità, rendendola sentimentale. Inoltre Liszt legge la storia della Chiesa attraverso figure eroiche di santi; alla loro mediazione e alla celebrazione dell’Ecclesia triumphans dedica molte risorse strumentali, soprattutto nelle sue messe per coro e orchestra.
Nella seppur frustrata ambizione di assumere il ruolo di riformatore della musica liturgica, Liszt ha impegnato tutto il suo talento alla ricerca di un punto di equilibrio tra tradizione antica e innovazione. Cosa che gli costò parecchi nemici.
Nonostante la presenza consistente di composizioni spirituali nel repertorio pianistico lisztiano, sarebbe paradossale valutare il volto religioso della sua personalità musicale dimenticando il Christus e la Leggenda di santa Elisabetta, raramente eseguiti in concerto. Vorrei soffermarmi sul Christus perché in questo opus magnum è manifesto il legame sia con la musica italiana a lui contemporanea, sia con la Chiesa cattolica e con la tradizione musicale che da essa discendeva.
Il Christus, senza ambire a un’omogeneità (irrealistica per le sue dimensioni monstre), pretende di essere al contempo sintesi delle esperienze artistiche dell’autore e nuova strada dello stile liturgico romano, attraverso il recupero delle « origini » palestriniane. Per questo motivo l’opera si presenta in giganteschi frammenti distanti tra loro, come avviene per i pezzi « caratteristici » di un ciclo romantico. I differenti organici orchestrali utilizzati nei vari episodi cercano la pluralità di stili e di sintassi, in un difficile equilibrio tra linguaggio della tradizione liturgica, cantabilità italiana, e orchestra moderna, correndo anche qualche rischio (Tristis est anima mea, per esempio, è un brano che rimanda un po’ troppo agli stilemi del melodramma italiano). Ciò che stupisce nel Christus è la capacità di Liszt da una parte di concepire una partitura universale, che si rifà in qualche misura alla classicità delle antiche generazioni di musicisti, e dall’altra di non perdere la fortissima impronta della sua personalità artistica, proprio nel momento in cui si allontana dalla poetica romantica, in lui stesso così autorevolmente incarnata.
Il Christus esprime compiutamente in musica la certezza, la serenità, la forza che scaturiscono dalla Verità. Soltanto alla luce delle grandi opere corali andrebbero esaminati i brani pianistici che si rivolgono alla fede: Vexilla regis prodeunt, che evoca il linguaggio primitivo delle origini; In festo trasfigurationis Domini nostri Jesu Christi, quasi verso l’impronunciabile; le Leggende francescane, composte come in uno stato di estasi. Il valore degli ultimi due brani non sta tanto nel loro straordinario impressionismo quanto nella profonda adesione alle figure dei santi: questi non sono un « pretesto » per fare musica, è la musica il linguaggio privilegiato da Liszt per venerarli. I pezzi di carattere spirituale raggiungono un apice con la stesura, molto meditata, delle Harmonies poétiques et religieuses, che segna un punto importante nello sviluppo del linguaggio lisztiano. (Posso immaginare che il solo titolo Harmonies poétiques et religieuses gli abbia creato già all’epoca antipatia diffusa, tra i cattolici perché la religione non si confonde con la poesia, tra i laici perché la poesia bagnata in acque cattoliche passa al nemico).
Raccogliendo i frutti di un’esperienza quasi trentennale, il musicista ungherese sperimenta la massima potenza oratoria cui può giungere il suono del pianoforte inteso come alternativa al canto umano. I dieci quadri del Kreis non si concentrano più sulla resa virtuosistica e le difficoltà tecniche sono sempre rigorosamente al servizio della concezione sonora della musica.
La santità della Chiesa trionfante, così appassionatamente espressa da pagine memorabili come il poema sinfonico Hunnenschlacht, la Leggenda di san Francesco di Paola che cammina sulle onde, tutte le grandi messe così come i due oratori, non è accolta con favore dalla sensibilità del XXI secolo: non commuove le folle e non convince gli stessi interpreti. I paradigmi di santità insegnati da Georges Bernanos sono meno retorici e si immergono senza enfasi nella sofferenza umana. I santi del XX secolo certo non mancano, ma poco somigliano a quelli descritti da Liszt.
La spiritualità del nostro tempo non chiede di esibirsi sui palcoscenici e si rifugia in più appropriati luoghi dell’anima. Tuttavia svilire il sentimento profondo e continuamente riaffiorante di fedeltà alla dottrina della Chiesa romana così vivo in Liszt, è la facile reazione del cinismo e dello scetticismo della nostra società secolarizzata. È quindi comprensibile la totale svalutazione di quella parte dell’opera di Liszt che era considerata dall’autore come la sua più importante, e destinata a sopravvivergli. Eppure non tutto è perduto: esistono alcuni brani della produzione spirituale di Liszt ancora corrispondenti alla nostra sensibilità ferita. La sua Sancta Dorothea è un miracoloso esempio di veicolazione attraverso la musica: la quieta operosità claustrale, le emozioni rinchiuse nel silenzio vengono descritte in modo toccante. Il mottetto Ossa arida e la Via Crucis lasciano cadere l’oratoria trionfalistica e immergono senza pietà il coltello nella ferita. Con queste opere Liszt giunge al termine di un lungo percorso, principiato dallo stile Biedermeier delle composizioni infantili, dove i sentimenti assomigliano a una stampa di genere da attaccare alle pareti di una casa borghese, e concluso con l’espressionismo di questi brandelli di musica, capaci di andare al fondo della sofferenza umana senza pagare dazio a nessun condizionamento, di qualsiasi genere.

(L’Osservatore Romano 10 marzo 2011)

«In cielo c’è una danza»

dal sito:

http://www.credereoggi.it/upload/1999/articolo114_17.asp

«In cielo c’è una danza»
(Van der Leeuw)

1. Introduzione: crisi delle rappresentazioni e nuova dinamica musicale

            Ha ancora senso parlare del rapporto musica ed esperienza religiosa sulla scia, ad esempio, del rapporto che vi vede iscritto R. Otto, quando considera la musica in stretta analogia con il sentimento religioso? C’è ancora un connubio vincolante tra il suono, la musica, il linguaggio musicale e il senso che abbiamo di Dio, dell’Assoluto dell’incommensurabile, di ciò che è indicibile? Nella crisi delle rappresentazioni del mondo contemporaneo post-moderno sembra che la cultura non sia più in grado di creare sistemi di significato, la mousiké, l’armonia del nostro vivere al mondo si è frantumata e sembra essere inesorabilmente tramontata parallelamente al collasso che si è prodotto di tutti i sistemi simbolici consolidati e classici. Non ci sono più possibilità di dire. Ogni discorso è irrisorio prima ancora di annunciarsi, ogni parola è di troppo ancora prima che sia stata pronunciata. Una specie di rifiuto istintivo precede e accompagna ogni discorso che intenda ancora farsi interprete del mondo. Il discorso, la comunicazione è ridotta sempre più a informazione tecnica, a mezzo di mercato, a funzione unilineare, è svuotata di ogni contenuto simbolico. Il mondo nella sua totalità non è più dicibile e ogni  simbolica è sospetta quando intende «tra-guardare» l’orizzonte di significatività in cui siamo posti, noi mortali, abitatori della terra. 

            In questa «terra desolata», – per usare l’espressione di Eliot – anche la musica sembra votata a un destino di morte. La «musica è finita». La musica è in uno stato di depauperamento e di degrado come l’ambiente. Il collasso dei simboli, dei referenti classici non permette nessuna uscita di sicurezza. C’è un appiattimento mortificante di tutti i prodotti culturali intesi come semplici prodotti di consumo, c’è un’irrilevanza di tutto ciò ci circonda proporzionale alla cosificazione, oggettivizzazione del mondo avvenuta via via a partire dal  positivismo dove l’industria culturale non ha fatto altro che assolutizzare la copia, la fotocopia, la registrazione, il doppio, il multiplo mercificando tutto, compresa la stessa opera d’arte. Il moderno ha declassato i simboli e ha schiacciato la trascendenza verso il basso riducendo il discorso religioso a discorso etico e assegnando alla musica soltanto un compito formale e vuoto. La razionalità, l’ambito razioide (ratioides Gebiet) – come lo chiamerebbe Musil – ama la musica soltanto come sintassi e come struttura grammaticale. Per esso la musica è soltanto un codice e le note musicali una alterazione strutturale di movenze in vista di un riequilibrio. Il formalismo contemporaneo è fondamentale per comprendere e dissolvere la musica nelle sue strutture diacritiche nella stessa misura in cui esso si fa complice dello svuotamento simbolico col trasformare ogni componente simbolica in struttura semiotica.  Così il mondo si presente sempre più simile al gioco della scatole cinesi. L’una dentro l’altra fino al vuoto. E la vita diventa davvero «una lotta contro il Nulla», come osservava G. Marcel.  Nel mondo giapponese questa indicazione del vuoto è ancora più illusoria e irridente: il pacchetto delle scatole infatti appare molto elegante, raffinato, perfetto. In un certo senso è ancora più in grado di differire la scoperta dell’oggetto e di creare la curiosità e così alla fine il contrasto tra il lusso dell’involucro e l’oggetto insignificante che racchiude diventa lacerante e crudele.

            Ma tutto non finisce qui. Occorre vedere anche alcuni risvolti positivi che incominciano ad apparire all’orizzonte. Oggi ci si sta muovendo verso qualcosa di nuovo, si torna a una nuova forma di leggerezza. Sembra che vi sia una nostalgia di qualcosa di più originario, sembra che si cerchi un nuovo inizio e che si tentino altre strade.  Si cerca di nuovo il non detto e il non dicibile, oltre il senso stesso della realtà. Non si tratta della «nostalgia del totalmente altro» di cui parlava Horkheimer; è una nostalgia più umile, che nasce dall’humus, dalla terra che noi siamo. È il desiderio di essere noi stessi semplicemente, sinceramente. È la necessità di sopravvivere ricominciando daccapo. In un mondo in cui regna sempre più la citazione, il gioco dell’arte combinatoria, la simulazione, l’affabulazione e ultimamente il nulla, si sente il bisogno di leggere ciò che non è mai stato scritto, di recuperare una lingua originaria, quella delle viscere della terra, proveniente forse dalle stelle o dalle danze: forse è il bisogno più semplice e immediato di ritornare soltanto alla spontaneità, per raggiungere un paesaggio spirituale nuovo che la nostra lingua è incapace di scoprire dietro il chiacchiericcio che ormai sovrasta e consuma ogni realtà.

            E in questo nuovo incipit il linguaggio musicale resiste, almeno come il bunraku giapponese, come il teatro delle bambole, per il bisogno di esprimere – se non altro – le nostre emozioni, i nostri slanci, le paure, i traumi. Sembra che una incipiente riorganizzazione di un qualche positivo orientamento avvenga all’insegna del linguaggio musicale, di quel linguaggio che non dice e non nomina le cose, ma le evoca soltanto, le annuncia quasi volando al di sopra di esse. Se c’è una crisi dell’oggettività e anche della soggettività, in questa caduta dei due referenti – oltre la povertà espressiva dei simboli –,  sembra che l’unico aspetto fungente del nostro modo di comprendere e di abbracciare il mondo sia quello estetico-musicale che ha il suo risvolto più immediato a livello religioso nel misticismo chiamato a ergersi sulle ceneri del positivismo e dello scientismo.

            C’è così un incamminamento verso ciò che è nascosto e ciò che è possibile, c’è il bisogno di «tra-guardare» al mondo attraverso il liminale e il sub-liminale, attraverso l’estasi, il sogno, il mondo onirico, il virtuale, il paranormale, l’irreale. In questa tensione dove l’estremo desiderio è che l’irreale diventi il vero reale assegniamo alla musica il compito di sottrarci all’insipienza del principio di non contraddizione e di compiere un’opera di «sconnessione» dei legami di causa/effetto per farci percepire concretamente il potere che abbiamo di immaginarci diversi da quello che siamo.

            Si ritorna così al «mistico» dopo la religione e si ritorna in concomitanza a un senso primitivo della musica, si ritorna all’estetico, come a un «campanello d’allarme» del bisogno di recupero del pre-verbale, appunto come nel Bunraku giapponese, dopo i diversi linguaggi musicali e aldilà di essi. Abbiamo bisogno di dare forma alle emozioni non ai discorsi, visto che non crediamo più alla logica delle idee. E se la religiosità di oggi è di carattere essenzialmente emotivo, pare che ci sia il bisogno di recuperare una «musica emotiva», musica discontinua, cifrata, sottomessa a un’opera di auto-ironia dove, se di significati ancora si parla, si è pronti a confessare anche la propria prostituzione a significati multipli e dissonanti.  

            Il senso religioso allora appare ancora strettamente connesso al fatto musicale, ma l’uno e l’altro sono sottomessi a uno stato di usura e di fibrillazione dove occorre ripensare il legame originario che unisce i due modi di sentire per non perdere gli archetipi stessi di un rapporto immemoriale e pre-categoriale.

2. L’originario intreccio di musica e sacro

            Schneider scopre alcuni passaggi assai significativi per capire l’intreccio originario di musica e sacro a partire dalle antiche Upanishad. Egli osserva, ad esempio, che la Chandogya Up. parla del fatto che«il mondo fu generato dalla sillaba OM, che costituisce l’essenza del saman (canto) e del soffio. Ma oltre questo suono originario, che ricorda quel suono primordiale che ha dato origine al big bang e che nel 1965 fu scoperto ancora presente negli spazi astrali dagli scienziati di Princeton,  la Chandogya enumera le differenti tappe che segnano la progressiva materializzazione del mondo a partire da una musica originaria: il mondo sarebbe l’essenza della musica tradotta in metro poetico, il metro è l’essenza del linguaggio , il linguaggio è l’essenza dell’uomo, l’uomo è l’essenza delle piante, le piante sono l’essenza dell’acqua e l’acqua è l’essenza della terra».

Musica ed esperienza religiosa non appaiono perciò scindibili nella preistoria della nostra comprensione del mondo, in quella realtà iniziale in cui abbiamo incominciato a prendere coscienza del mondo e di noi stessi in una totalità senza distinzioni, senza dicotomie, senza effrazioni, senza specchi.

            L’India antica per questo è forse il paese che più di ogni altro ha amato la musica, si è immedesimato con essa fino al punto da congiungere strettamente e in maniera inscindibile concezione filosofica, religiosa, cosmologica e musicale[1]. La mitologia qui è molto ricca. Prajapati, il dio delle origini, il signore delle creature nacque da un concerto di diciassette tamburi. Secondo la concezione indù, il principio che dà origine ai mondi è un principio armonico e ritmico, simboleggiato dal ritmo dei tamburi. E Shiva, in quanto creatore del mondo, non profferisce il mondo: non dice qualcosa come il fiat lux, ma crea il mondo danzando[2]. Sono famosi i tre passi di danza con cui Shiva misura il mondo. In un passo dello Shiva Pradosa Stotra  si sostiene che mentre Shiva «danza sulla cima del monte Kailasa, è circondato da tutti gli dèi. Sarasvati – dea delle arti e delle scienze – suona il vina (strumento a corda con la cassa a forma di barca), Indra (dio del cielo) suona il flauto, Brahma (il creatore) tiene i cimbali e segna il tempo, Laksmi (la Fortuna) intona una canzone, Vishnu suona il tamburo. Tutti gli dèi li circondano… Tutti gli abitanti dei tre mondi si radunano per vedere la danza e per ascoltare la musica dell’orchestra divina nell’ora del crepuscolo».

            La musica per sua natura non soltanto ha a che fare con il rituale e la religione, ma è vimuktida, cioè «portatrice di salvezza» e libera dal ciclo delle reincarnazioni: è una parte importante del mondo religioso Il Rigveda per esempio ci segnala i sette rsi, poeti mitici il cui canto generò la prima aurora.  Gli dèi amano la musica, ma fanno musica, sono musicisti e Shiva avrebbe detto espressamente ed esclamato: «Mi piace più la musica di strumenti e di voci che mille bagni e preghiere»[3]. Per altro sappiamo che il dio Krishna si presenta sempre come il più grande suonatore di flauto e così viene ancora oggi rappresentata la sua immagine in tutto il mondo indù.

            La stessa distinzione più antica dei Veda contempla il cosiddetto Samaveda  che non è altro che la trascrizione musicale del Rigveda. Dunque si può dire che il rituale religioso fin dal suo sorgere aveva previsto una parte musicale talmente vincolante al rito stesso che non vi erano inni vedici che non avessero una melodia o una recitazione melodica appropriata per il culto alle divinità. Il precentor chiamato Udgatar che cantava, con i suoi accoliti, servendosi della parte musicale propria del Samaveda[4] costituiva la regola del mondo religioso antico.

            Anche la Cina ci dà delle coordinate della musica antica in rapporto al sacro nella misura in cui ha amato immensamente la musica e l’ha messa in relazione con i riti e con l’intera vita religiosa secondo delle concordanze e dei parallelismi che appaiono a noi stupefacenti. Naturalmente qui si può soltanto accennare al complesso mondo cinese che ordina e ritrova armonia in ogni vera attività umana positiva e religiosa.

            Tutto l’ordine del mondo si modula nella Cina antica sulla scala pentatonica indicata dagli intervalli kung (fa), shang (sol), chueh (la), chih (do) e yu (re). Questa scala veniva poi trasposta ogni mese affinché la musica si trovasse sempre in armonia con il suono fondamentale della natura, il quale variava di mese in mese. Ma la teoria musicale di incontro tra natura società e momento religioso si trova nel Li Chi dove la musica non è altro che la sostanza dei rapporti armonici che devono regnare tra cielo e terra. Per tale motivo gli antichi re facevano della musica uno strumento d’ordine e di buon governo. Quando infatti i cinque suoni sono alterati, le categorie sconfinano le une nelle altre e ciò viene chiamato «insolenza». Se le cose stanno così, in meno di un giorno può sopraggiungere la perdita del regno[5]. Dunque la musica era correlata all’ordine ad ogni livello: ordine cosmico, ordine stagionale, ordine astrofisico e soprattutto ordine sociale. A loro volta queste armonie particolari erano cooptate nel grande concerto dell’armonia universale che si faceva carico allora e sovranamente del significato religioso in senso pieno.

            In maniera più prossima a noi, mi piace  accennare appena alla musica rituale e liturgica del mondo tibetano. I buddhisti tibetani ritengono che la musica prepari la mente all’illuminazione spirituale e danno molto risalto al suono in rapporto al rituale e alla meditazione. Il mondo si trasforma e si unifica attraverso il suono, un suono che può essere costituito da un «mono-tono», basso, viscerale, ma che esprime l’intensità dell’esperienza ed è il rispecchiamento di una visione originaria, non contaminata, non deturpata dalle cose, dalla dispersione caotica del nostro vivere come cose in mezzo a oggetti. Seduti in fila a gambe incrociate, nei loro abiti variopinti, i monaci tibetani ancora oggi intonano e cantano i loro canti e inni quasi in un gesto di suprema e sovrana libertà dal mondo, dimenticando i segni e penetrando oltre la maya, quel velo che ci nasconde la vera realtà, maya come indice di ogni classificazione, moltiplicazione, come espressione di tutti gli epifenomeni mondani.

3. Suono e sensi. La musica  sciamanica come religione «totale»

            Forse il più grande antropologo che prestò attenzione alla musica ai nostri tempi è stato Lévi-Strauss, secondo il quale c’è un legame stretto tra musica e mito – potremmo omologare il mito al «mondo religioso» –, in quanto sono tutti e due strumenti per «dimenticare il tempo». La musica, ancora per Lévi-Strauss, è il mistero supremo delle scienze dell’uomo. Questo appare significativo anche se in fondo si tratta di uno sguardo gettato dall’esterno al senso che la musica ha in rapporto all’uomo e all’esperienza religiosa. Infatti «dimenticare il tempo» significa anche «trascendere il tempo», entrare in una dimensione mistico-religiosa appagante. E tutto ciò che cosa significa se non ritornare all’integrità originaria, incamminarsi verso il paradiso perduto?

            A livello storico-antropologico oggi va sempre più consolidandosi l’idea, sull’indicazione di Kirby, che la prima esperienza religiosa dell’umanità non sia da attribuirsi al momento sacrificale, ma piuttosto alla danza, al suono del tamburo e all’esperienza rituale di trance. Là sembra che si possa recuperare l’originario intreccio tra musica ed esperienza religiosa. Non è difficile immaginare che tale esperienza che è propria del mondo sciamanico e che storicamente sembra collocarsi a livello dell’antica religione bon del Tibet possa essere davvero catalogata come l’originario pre-categoriale di ogni nostra esperienza religiosa nella misura in cui è un’esperienza di totalità, crea un psico-dramma coinvolgente, unisce tutti i codici comunicativi e permettendo di conseguenza un intreccio globale, una Gestalt senza smagliature. Non è un caso infatti che nel mondo sciamanico si ritrovino in unità tutto ciò che altrove è in qualche modo più o meno disgiunto, disarticolato, dislocato o distribuito in tempi diversi. Lo sciamano, infatti, quando si è travestito con apposite maschere prendendo posto all’interno dell’ambito rituale a cui è deputato, incomincia a battere il suo tamburo producendo suoni e ritmi che sono religiosi e che coinvolgono il corpo, la mente, lo spirito, creano una performance totale, dove si ritaglia lo spazio come axis mundi e si condensa il tempo, il mondo visibile e il mondo invisibile. Non batte certo l’aria, ma crea un suono originario chiama a raccolta tutte le forze positive e gli spiriti protettori mentre i suoi canti vengono accompagnati con movimenti, grida, imitazione della voce delle diversi suoni del mondo. Le divinità del cielo, della terra, i regni animali e vegetali sono chiamati in causa per far parte dell’armonia del mondo, di quell’armonia che guarisce e che restituisce la realtà nella sua trasparenza originaria. In definitiva ogni esperienza giocata sul pentagramma dell’universo e ogni armonia che nasce dalla fusione di orizzonti totalizzanti di significato non sono altro che la trascrizione più vera dell’esperienza religiosa stessa. È un’esperienza di totalità unica e indissolubile dove momento musicale e momento religioso si fondono e si confondono. Ma tutto ciò vale anche a livello etnografico per molti popoli presenti oggi sul pianeta terra.

            Si possono considerare ad esempio i rapporti che intercorrono a livello musicale tra i popoli a cultura semplice e il mondo religioso corrispondente presso i Zuni Pueblo con la danza cachina, i Soshoni con la famosa danza del sole propria di quasi tutti gli indiani delle praterie, mentre nell’America latina potremmo ricordare soprattutto i Karina con la loro bella mitologia a sfondo mitico-musicale.

     I Zuni Pueblo, amanti della musica e della danza come si dimostrano, contemplano due cate­gorie di danzatori e musicisti in maschera: gli dèi mascherati propriamente detti, i cosiddetti cachina e poi i preti cachina (koko). Gli dèi danzanti so­no esseri sovrannaturali, felici, che vivono in fondo a un grande la­go, molto lontano. Essi però, per ascoltare musica e danzare, preferiscono ritornare a Zuni. Impersonarli, perciò, attraverso le maschere significa con­cedere loro la gioia che maggiormente desiderano: quella di poter ve­nire ad ascoltare musica e a danzare a Zuni. E così un uomo, quando indossa la masche­ra del dio, diventa in quel momento il dio stesso, deve assumere pienamente il ruolo relativo a quella divinità e deve godere della musica e della danza come vogliono gli dei.

     I danzatori cachina fanno la loro comparsa maggiore in due serie di performances: nelle danze invernali, dopo il solstizio d’inverno. Que­ste danze si tengono nei kiva o stanze dei rituali. La performance maggiore si ha però con la danza della pioggia – danze estive – che si tengono all’aperto, nella piazza del villaggio. Naturalmente tutte queste danze sono connesse con offerte e preghiere e comportano una partecipazione drammatica di tutta la popolazione, che intende con queste grandi manifestazioni far entrare nel mondo del rituale e attraverso la musica tutti gli elementi della natura, intesi secondo una «geografia sacra» che include oltre ai quattro punti cardinali anche l’alto e il basso (lo zenith e il nadir secondo la cosmologia zuni. Vi è dunque una fusione di rito e di musica in una visione altamente contemplativa del mondo e della natura a cui corrisponde una forte emozione religiosa.

     Per quanto riguarda la danza del sole, mi riferisco solamente – tra i tanti esempi possibili – alla danza del sole presso i Shoshoni dello Stato dello Wyoming (USA) descritta di recente dal grande etnologo Ake Hultkranz e da Voget[6].

     Le danze hanno luogo nei mesi di luglio e di agosto e il motivo di questo mondo di danze che si sprigiona in questi mesi è a circolo: viene in altre parole dalla danza stessa. «Tutto quello che sappiamo – dice la tradizione – l’abbiamo appreso dalla danza del sole»[7]. Qui si assiste a una circolarità assai significativa tra musica, rito ed esperienza religiosa, al punto che il momento religioso viene dalla musica e dalla danza, l’affabulazione mitica è figlia della musica e a sua volta la danza racconta il senso religioso. È una conferma della tesi per cui il rito viene prima del mito.

     Nella danza del sole si danza per quattro giorni consecutivi, quasi senza interruzione, secondo una precisa disposizione dello spazio e dell’area sacra in cui si trova il punto centrale di riferimento. Si tiene conto del grande spiazzo, del posto da riservare agli attori, al coro, agli an­ziani; si stabilisce con precisione la disposizione del fuoco e il po­sto e l’orientamento degli spettatori. Sono previste delle pause sol­tanto per cibarsi di qualche cosa e per dormire alcune ore, mentre la danza – così continua, ripetitiva e a volte convulsa – sembra destina­re inesorabilmente i danzatori alla trance, oltre ad essere – secondo la tradizione – un grande atto di ringraziamento al sole e alla natu­ra.

            Per i Karina del Venezuela ciascun suono originario è all’origine di una particolare specie animale, una wara. Per questo ora ogni specie di animali ha un suo proprio suono, possiede un suo linguaggio. Ma vi è di più: nella mitologia karina il suono era all’origine uno soltanto e il linguaggio è una frantumazione indebita dell’integrità del suono e della musica delle origini. La conoscenza che viene dalle parole è perciò basata in realtà sulla «morte» del suono in tutta la sua ricchezza simbolica. Dopo la disintegrazione ormai compiuta del suono nel linguaggio si è frantumato di conseguenza anche il significato originario. Ora si può ritornare all’integrità del significato soltanto attraverso il potere dell’immaginazione. In questo contesto di collasso dell’unità del significato è soltanto la danza che nella sua varietà di codici e di scambi di Gestalten offre la vera ermeneutica della vita e permette di recuperare l’originario oltre i linguaggi. La danza, oltre i suoni può recuperare il suono primordiale e dunque l’unità del senso. Ed è in questo senso che il grande musicista Schönberg, intravedendo questa nuova possibilità dopo le varie mortificazioni de linguaggio, tentava di estendere ne La mano felice le leggi musicali a elementi di natura non musicale attraverso componenti sceniche, mimiche facciali, colori, attraverso gesti, fino a voler creare «un coro di sguardi» e un «crescendo di luci».

            Ora in tal modo si viene anche a dire che la vera conoscenza è lontana dalla conoscenza attraverso le parole, i segni, la logica delle connessioni. La vera conoscenza è piuttosto quella inconscia, sub-liminale, periferica, retroattiva, registrata in un continuo biofeedback  con la natura circostante. Soltanto attraverso il suono e la musica, secondo i Karina del Venezuela, si ha la percezione vera della vita nella sua pienezza[8].

 4. Suono, linguaggi e significati. Una meditazione semantica a partire dalla musica

            La musica a livello etnologico, l’etnomusica sembra mettere in crisi la nostra visione occidentale della musica stessa. Ma che cosa ci indica la musica a livello etnomusicale? Il tutto del nostro vivere al mondo e il nulla del senso cercato nei dettagli, nelle cose singole, nel qui e là, nell’altrove. Ora sembra possibile affermare che il senso religioso è proprio questo. È la totalità del senso tout court, senza altre inferenze, deduzioni, induzioni, specificazioni. Il suono e con esso la musica e la religione possono allora essere anche il «non senso» nella nostra concezione occidentale o piuttosto è il senso quasi esperito «attraverso i sensi» e non più razionalmente. Forse ha ragione J. Cage e con lui Wittgenstein e il Buddhismo Zen. Da questo punto di vista la parola appare uno stereotipo prodotto al di fuori di ogni magia, di ogni entusiasmo, di ogni immaginazione, come se fosse qualcosa di naturale, parola disinvolta che crede alla propria superiorità di senso e che ambisce alla propria consistenza e invece fa parte del vuoto. «Io considero la musica come incapace di esprimere qualcosa come un sentimento, un atteggiamento o uno stato della mente, una scena naturale, ecc. L’espressione non è mai stata una proprietà immanente della musica», scriveva Strawinsky. Era la concezione della musica priva della «sonorità» della vita. Nel mondo Zen, ad esempio,si ripete la stessa cosa per la parola e in genere per il linguaggio. All’origine occorre fare una semplice osservazione: se si perde il contatto con l’originario si perde sia il senso vero della musica e sia il senso religioso.

5. Musica ed esperienza religiosa oltre i significati

            Il nostro mondo occidentale – pur avendo poca dignità da attribuire al mondo – esige che ogni cosa abbia un nome e «inumidisce» di senso ogni realtà come una religione autoritaria che voglia imporre il battesimo all’intera popolazione. In fondo, gli oggetti del nostro linguaggio che cosa sono se non dei «battezzati» di diritto o dei convertiti di diritto attraverso il senso e il significato loro attribuito? Il non senso è considerato come un’infamia. Ora non sembra così per la musica, per l’etnomusica, che ancora più in là della poesia, può rinunciare al legein, al mettere insieme in funzione della ragione, può rinunciare alla connessione per un più immediato rapporto «contemplativo» del mondo, come avviene, ad esempio, in un haiku giapponese. L’haiku giapponese è un tipo di condensazione dell’esperienza difficilmente accessibile al nostro mondo occidentale in quanto non si cura di creare legami di senso, ma crea semplici e immediati rispecchiamenti come in esempi di questo tipo:

«Quante persone sono passate
attraverso la pioggia d’autunno
Sul ponte di Seta».

Oppure:

«Vengo attraverso il sentiero di montagna.
Ah! che meraviglia!
Una violetta!».

Descrittivismo? Impressionismo? Espressionismo? La vita è musica: ha la sua trasparenza e non ha bisogno di niente altro.

6. Conclusione. La musica e la religione vicine a un senso più originario, quasi a un non senso

            Abbiamo bisogno ancora del senso delle parole per vivere? Non ci basta il senso della vita? C’è un senso immediato, non logico, non riflesso, non fatto oggetto ancora dei criteri di verità o di falsità, forse è questo l’originario verso il quale inconsciamente ma decisamente ci muoviamo. In questo luogo o meglio in questo «non-luogo» musica ed esperienza religiosa si incontrano ancora e in modo originale. È la teologia apofatica che deve regnare nell’insignificanza che ci circonda. È la musica «spoglia» che deve ritornare, ridotta al suono originario, al nada:suono e nulla ad un tempo.

Aldo Natale Terrin
docente di storia delle religioni e antropologia culturale
all’Università Cattolica di Milano e all’Università di Urbino

Sommario

Musica e sacro, aldilà di una facile omologazione, vengono visti nella crisi delle rappresentazioni del mondo d’oggi e nella difficoltà di far parlare il simbolico. L’impasse viene superata soltanto ad alcune condizioni alla cui origine c’è un nuovo inizio a carattere estetico-mistico. Queste condizioni sono allora una sobrietà espressiva, un pensiero profondo, il recupero di un significato unitario dietro a tutti i sensi e i non sensi del nostro vivere. Musica e sacro vanno insieme alla scoperta di un originario di cui ancora non siamo in grado di rendere conto.

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[1] Secondo la lettura che ne fa Schneider. Cfr. M.Schneider, Le basi storiche della simbologia musicale, in «Conoscenza religiosa» 3(1969), 267-302.
[2] Cfr. a. coomaraswamy, The Dance of Shiva,  Bombay 1988(4), 67.
[3] Cfr. Mahabharata, cap. 36, 27 cit. da C. sachs, op.cit., 153.
[4] Si veda per un’analisi dettagliata A. Bake, La musica nell’India, cit., in particolare 224.
[5] Per queste osservazioni si veda M. Schneider, La musica primitiva, cit., 91-92.
[6] Cfr. A. HULTKRANZ, Native Religions of North America, Harper and Row, New York 1987; F.W. VOGET, The Shoshoni Crow Sun Dance, Norman Okla. Uni., klahoma 1984.
[7] op.cit., 68.
[8] Cfr. L. E. Sullivan, Sound and Senses. Toward a Hermeneutics of Performance, in «History of Religions’ 26(1986), 1-33.

Publié dans:musica (la) |on 7 mars, 2009 |Pas de commentaires »

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