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LINGUAGGIO MISTICO E POESIA

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LINGUAGGIO MISTICO E POESIA

Introduzione  

Secondo una definizione ormai consolidata, appartenente al mondo della filosofia e della psicologia, il linguaggio è: «un insieme di codici che permettono di trasmettere, conservare ed elaborare informazioni tramite segni intersoggettivi in grado di significare altro da sé. Il linguaggio umano è in massima parte appreso e si evolve nel corso della vita dell’individuo e della specie e può riferirsi a oggetti astratti mediante l’impiego di simboli che sono portatori di un significato tramite il riferimento a qualcosa di altro da sé, e di concetti, che si riferiscono non a un singolo oggetto, ma a una classe» (Umberto Galimberti, Enciclopedia di Psicologia, Garzanti, Torino 1999). L’esperienza mistica riguarda il rapporto della persona con Dio. Il concetto di esperienza in realtà è di alquanto difficile definizione, come è stato sottolineato in altre pagine (ad es., nella pagina dei CONCETTI FONDAMENTALI RELATIVI ALLA MISTICA). Se è vero che l’esperienza del divino produce nella persona un’esperienza passiva dell’azione di Dio sull’anima, è altrettanto doveroso ricordare come non sia essenziale per parlare di stato mistico (cfr. purificazione passiva, notte dell’anima). Pertanto, la passività, per quanto fondamentale, non è assoluta e non è per sempre: l’anima, si è detto, reagisce in modo vitale sotto la mozione dello Spirito Santo, consente la volontà cooperando alla sua divina azione in una maniera libera e volontaria. Questa premessa serve per evidenziare come il linguaggio, che appartiene a regole fissate e apprese, oltretutto modificabili nel corso del tempo e della storia, sia un modo credibile per raccontare l’esperienza mistica, che non è assoluta o assolutamente ineffabile, e che non è per sempre nell’anima. Come scrive Teresa d’Avila: «Noi non siamo angeli, ma abbiamo un corpo. Voler fare gli angeli, stando sulla terra, è una pazzia; ordinariamente, invece, il pensiero ha bisogno d’appoggio, benché talvolta l’anima esca così fuori di sé, e molte altre volte sia così piena di Dio, da non aver bisogno, per raccogliersi, di alcuna cosa creata. Ma questo non avviene molto di frequente». Con i piedi per terra, dunque, si ritorna dopo l’estasi e si può tentare di raccontare l’esperienza vissuta.    Ineffabilità Il linguaggio narra dunque di questa esperienza particolare, atipica che è l’esperienza mistica. Ma quello che i mistici hanno affermato, riguardo alla loro esperienza, è che il rapporto con Dio, il totalmente Altro, rimane ineffabile, che l’esperienza dell’estasi è spesso indicibile, che le visioni rimangono inesprimibili. L’ineffabilità è il tipico segno dell’esperienza mistica dell’anima. Il contenuto dell’esperienza è talmente particolare che non trova espressione attraverso la normalità del linguaggio comune, ossia del linguaggio frutto della convenzione degli uomini, relativo a quel tempo e a quella storia precisa in cui ci si colloca. Il linguaggio appare dunque subito inappropriato e inadeguato per parlare di ciò il mistico esperisce. Tale concetto di ineffabilità in realtà può essere considerato secondo due aspetti: ineffabilità assoluta: ovviamente, l’esperienza mistica propriamente detta significa un’esperienza con il divino che non può che essere un incontro con l’assoluto e come tale indescrivibile. La stessa esperienza non solo non può essere detta, riferita con un linguaggio condivisibile, ma difficilmente ha modo di essere compresa anche dal soggetto stesso se non nei riverberi, negli echi che lascia. Dinanzi a questo concetto di assoluto, non si può che tacere: il silenzio appare la via eminente per poter rispettare quanto esperito; ineffabilità relativa: non è un concetto che testimonia un’inespressività assoluta, ossia un « non linguistico » o di indescrivibilità: è possibile infatti che, all’interno dell’esperienza mistica ci siano margini di consapevolezza e quindi di riflessione e che sia possibile, dunque, raccontare, verbalizzare o comunque comunicare in modo comprensibile anche ad altri quello che si è vissuto. Mi sembra che sia giusto pensare all’esperienza mistica come un insieme di queste due componenti: se da un lato è impossibile esprimere ciò che ha catturato l’anima, e per cui l’anima è rimasta totalmente passiva, d’altro canto la nostra natura, che rimane terrena, come ricordava Teresa d’Avila, ritornando « con i piedi per terra » non può non tentare di descrivere con parole quello che ha provato.   Il linguaggio mistico Scrive Massimo Baldini che: «per il mistico le parole non sono domestiche, né addomesticabili, esse rimangono per lui sempre allo stato selvaggio. Ecco, quindi, che il suo parlare non è mai un parlare ozioso e routiniero, un inoffensivo esercizio domenicale, bensì è un gesto di grande impertinenza verbale, di grande trasgressività linguistica. I mistici, scrive Massignon, ci fanno « dimenticare la prigione delle regole metriche e retoriche »m i loro scritti « liberano il pensiero dalle regole sintattiche abituali ». Al mistico il linguaggio spesso si impunta, talora egli non fa altro che ripetere a singhiozzi un alfabeto, la parola è sempre una barriera che egli riesce difficile superare». Inoltre, il mistico sembra che aspiri a fabbricare una lingua nuova (glossopoiesi) o a parlarne una (glossolalia). Così il linguaggio, per il mistico, rimane una sorta di battaglia, spesso scandalosa per i più. Scrive ancora Baldini: «Gli scandali linguistici dei mistici, le loro trasgressioni categoriali, le loro innovazioni semantiche, ma soprattutto quel loro mettere a dura prova il vocabolario con cui il teologo lavora, furono a lungo fortemente combattuti dalle istituzioni ecclesiastiche sul finire del sedicesimo e per tutti il diciassettesimo secolo». Ma in realtà, più che creare una lingua nuova, il mistico si accingeva a lavorare su quella esistente. Lo stile del mistico è stilisticamente strano, lessicalmente scorretto. Il linguaggio del mistico «è un linguaggio che vela più cose di quelle che sveli, che ci dice con i suoi eccessi lessicali, con una fastosa abbondanza di parole che il mistero non può essere reso udibile nel linguaggio. Ogni errore grammaticale, dunque, è un segno di questa impossibilità e, nel contempo, afferma Michel de Certeau, « indica un punto miracolato del corpo del linguaggio; è una stimmate. La frase mistica è un artefatto del silenzio che produce silenzio nel rumore delle parole. Attraverso il linguaggio del mistico, linguaggio che è destinato non a dire qualcosa, ma a condurre verso il nulla del pensabile »». Juan Martín Velasco, nell’opera citata in Bibliografia afferma (cfr. p.51ss.): «I tratti generali che caratterizzano questo linguaggio [mistico] sono gli stessi che caratterizzano in generale il linguaggio religioso, di cui quello mistico è una parte eminente. La prima caratteristica del linguaggio mistico sta nella sua condizione di linguaggio di un’esperienza. [...] Il mistico non parla semplicemente di Dio come il teologo; parla di Dio che gli si è manifestato in un’esperienza. Da qui la sua concretezza, in contrasto con l’astrazione propria di altri registri del linguaggio, come nel caso della teologia Da questo deriva l’abbondante contenuto teologico e affetto della maggior arte dei testi mistici, perfino negli autori più speculativi, come Meister Eckhart.» «La proprietà nella quale più vistosamente si manifesta la peculiarità dell’esperienza di chi lo usa o lo crea è quella che, in modo generico e vivido, si è chiamata « trasgressione » del linguaggio mistico. Essa consiste nel togliere il significato primo dei vocaboli fino al limite della loro capacità significativa e nell’utilizzazione simbolica degli stessi. La realizzazione di queste trasgressioni presenta modi svariati e numerosi. Appare soprattutto col ricorso continuo alle metafore più ardite e vivaci, nelle quali si attua nella maniera più perfetta quello che Ricoeur ha detto a proposito della « metafora viva »: « È molto più di una figura stilistica; comporta un’innovazione semantica [...] una testimonianza in favore della virtù creativa del discorso ». La funzione centrale del simbolo nel linguaggio mistico gli conferisce un’indubbia affinità col linguaggio poetico. Affinità che portò H. Bremond a considerare l’attività poetica un abbozzo naturale e profano dell’attività mistica e, esagerando, a chiamare il poeta « un mistico evanescente » o « un mistico mancato ».»   Mistica e poesia  Il linguaggio più adatto ad esprimere ciò che è di per sé inesprimibile, ineffabile (appunto come l’esperienza mistica), è sicuramente il linguaggio poetico, fatto di detto e non detto, di parole e silenzi, entrambi significativi. Scrive Massimo Baldini (op.cit., pagg.44-45) che: «il linguaggio della poesia, come quello della mistica, è un linguaggio intessuto di paradossi. La paradossia risveglia l’attenzione della mente dalla letargia delle comode abitudini linguistiche, crea stupore, sorpresa, pone in nuova luce ciò che il linguaggio ordinario (o quello teologico) avevano opacizzato. Tanto il mistico quanto il poeta tendono ad essere dei sovversivi sul piano della lingua, creano il loro linguaggio via via che procedono. Anche il mistico compie a livello linguistico ciò che Eliot diceva essere tipico del poeta, e cioè « deviare il linguaggio rendendolo significativo », e per entrambi vale ciò che Paul Valéry affermava essere proprio del « vero scrittore », e cioè l’essere « un uomo che non trova le parole ». Il mistico ha bisogno di una lingua giovane, per questo è vittima di una crisi linguistica che lo può spingere sino a cercare di uccidere il linguaggio. Il mistico ama le antitesi, i paradossi, gli ossimori, i termini superlativi. Egli non ascolta il consiglio di Cicerone per il quale la metafora doveva essere riservata (pudens) e non ardita, infatti mostra di prediligere le metafore assolute, audaci, vive. La sua è una metaforicità tanto ardita da essere talora ebbra.» torna all’indice   Come leggere le fonti spirituali Federico Ruiz, nell’opera citata in Bibliografia, afferma che «lo studio, la valutazione e lo sfruttamento delle fonti spirituali richiedono una prospettiva adeguata e una speciale sensibilità.» Occorre pertanto accennare ad alcune modalità: Lettura in chiave spirituale: i documenti e i fatti che la spiritualità considera sue fonti hanno significato e valore in molte altre prospettive differenti, ossia linguistica, psicologica, letteraria, filosofia, storica. Così, di mistica, preghiera e ascesi si occupa la psicologia; alcuni scritti sono opere letterarie di alta qualità. Per questo non basta entrare in contatto con i documenti, ma bisogna saperli leggere spiritualmente, vale a dire con la loro prospettiva e con una specifica sensibilità. Non si tratta comunque di un esercizio ascetico, ma occorre soltanto avere il riguardo di relazionarsi col testo sapendo che si tratta di un’opera di tipo spirituale. Continuità fra passato e presente: occorre saper integrare nella visione autori antichi e moderni, recependo la ricchezza di tutti gli autori e non soffermandosi su uno soltanto come fonte di verità assoluta. Lo Spirito, d’altronde, distribuisce i suoi carismi lungo la storia e molti di essi non si ripetono. Ogni epoca ha le sue luci speciali e le sue congenite cecità, dovute al limite proprio della « coscienza spirituale ». Questa si mostra sensibile a certi valori e insensibile o disattenta ad altri di uguale importanza. Quindi, non ci si deve limitare, nella lettura, all’ultimo testo di spiritualità pubblicato, ma tener in giusto conto tutte le opere precedenti (i cosiddetti « classici della spiritualità »). Ecumenismo storico: occorre contestualizzare, comprendere, rispettare ogni epoca. L’atteggiamento ecumenico, che consiste nel rispetto, nel dialogo, nella comprensione e nella tolleranza con altre chiese e culture religiose, deve estendersi anche alle epoche religiose anteriori alla nostra, che hanno idee e condotte molto diverse da quelle attuali. Occorre quindi saper comprendere il pensiero e l’esperienza all’interno del loro contesto salvifico e culturale. Fra le fonti spirituali troviamo: Storia della spiritualità: fatti di vita, iniziative di persone e gruppi, con i loro insegnamenti. Esperienze personali: narrazione in forma autobiografica e relazioni, come anche biografi e agiografie. Le autobiografie non sono le fonti supreme della spiritualità o della mistica. Esperienza elaborata: la maggior parte delle fonti si presentano in forma dottrinale. In questa funzione pedagogica o mistagogica trasmettono esperienza e dottrina, propria e altrui [la mistagogia è un'iniziazione graduale del credente ai misteri della fede, trasmessa e assimilata per via di esperienza interiore e di prassi impegnata, con l'aiuto di un maestro esperto]. Esposizioni dottrinali: si tratta della produzione più abbondante e riguarda corsi, trattati, temi sviluppati monograficamente. Classici della spiritualità: formano una categoria speciale, che è formata per la propria solidità e continuità, per il riconoscimento e l’uso generalizzato. Conservano (se non aumentano) il loro valore spirituale nel tempo. Sono resi attuali dal loro vigore e dalla loro profondità.

Publié dans:MISTICA |on 25 juillet, 2016 |Pas de commentaires »

Iusti vivent in aeternum – Prediche di Meister Eckhart

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Iusti vivent in aeternum – Prediche di Meister Eckhart

I giusti vivranno in eterno, e la loro ricompensa è presso Dio. Notate bene il senso di queste parole; anche se di suono semplice e comune, sono assai degne di attenzione e molto buone.
I giusti vivranno. Chi sono i giusti? Un testo dice: È giusto chi dà a ciascuno quel che gli spetta; chi dà a Dio ciò che gli spetta, ai santi ed agli angeli ciò che loro spetta, al suo prossimo ciò che gli spetta.
L’onore appartiene a Dio. Chi sono quelli che onorano Dio? Quelli che sono completamente usciti da loro stessi, che non cercano assolutamente niente che sia loro proprio in alcuna cosa, qualsiasi sia, grande o piccola; e non considerano niente, né al di sopra né al di sotto di loro, né accanto né all’interno; che non mirano né al bene né all’onore, né alla soddisfazione né al piacere, né alla utilità né alla interiorità, né alla santità né alla ricompensa né al regno dei cieli; che sono usciti da tutto questo, da tutto ciò che è loro proprio: queste persone rendono onore a Dio, veramente lo onorano e gli danno quel che gli spetta.
Si deve dare della gioia agli angeli ed ai santi. Meraviglia delle meraviglie! Può un uomo nella sua vita mortale dare della gioia a quelli che sono nella vita eterna? Sì, in verità. Ogni santo ha un grandissimo piacere ed una gioia inesprimibile per tutte le opere buone; per una buona volontà o un buon desiderio, essi hanno una gioia così grande che nessuna bocca è capace di esprimerla, né alcun cuore può immaginare quanta gioia provano. Perché è così? Perché essi amano Dio oltremisura, lo amano tanto che il suo onore è loro più caro della propria beatitudine. Ma non solo gli angeli e i santi: Dio stesso ne prova una gioia tanto grande, come se in ciò stesse la propria beatitudine, e vi è legato il suo essere, la sua soddisfazione, il suo piacere. Notatelo bene, dunque! Se non volessimo servire Dio per nessuna altra ragione che la grande gioia che provano quelli che sono nella vita eterna, e Dio stesso, potremmo farlo di buon grado e con tutto il nostro impegno.
Si deve anche portare il nostro aiuto a quelli che sono nel purgatorio, e a quelli che sono ancora in vita.
Un uomo cosiffatto è giusto in un senso, ed in un altro senso lo sono quelli che accolgono da Dio tutte le cose, qualsiasi siano, nello stesso modo – si tratti di cosa grande o piccola, piacevole o fastidiosa -, sempre nello stesso modo, una cosa come un’altra, né più né meno. Se pensi che una cosa sia più di un’altra, sbagli. Devi del tutto spogliarti della tua propria volontà.
Di recente ho avuto questo pensiero: se Dio non volesse come me, io vorrei comunque come lui. Molti vogliono avere in ogni cosa una propria volontà, ma questo è male, insozza le cose. Altri si comportano un po’ meglio, vogliono quel che Dio vuole, non vogliono nulla contro la sua volontà, e, se fossero malati, vorrebbero che fosse volontà di Dio il loro esser sani. Così costoro vogliono che Dio voglia secondo la loro volontà, invece di volere secondo la sua. Si può ammetterlo, ma non è bene. I giusti non hanno assolutamente volontà propria: quel che Dio vuole è per essi del tutto uguale, per quanto grande sia il disagio.
I giusti prendono la giustizia tanto sul serio, che, se Dio non fosse giusto, non gli darebbero più importanza che a un fagiolo, e sono così saldamente radicati nella giustizia e tanto usciti da se stessi, che non danno importanza né alle pene dell’inferno né alle gioie del paradiso, né a qualsiasi altra cosa. Sì, se tutti i tormenti di quelli che sono all’inferno, uomini o demoni, o tutti i tormenti che mai furono e saranno sulla terra, fossero legati alla giustizia, essi non vi darebbero la minima importanza, tanto fermamente tengono a Dio ed alla giustizia. Per l’uomo giusto niente è più triste e doloroso di ciò che è contrario alla giustizia, ovvero di non essere lo stesso in tutte le cose. Come può essere ciò? Se una cosa può farli gioire ed un’altra rattristarli, essi non sono giusti; di più: se sono gioiosi in un tempo, lo sono in ogni tempo; se sono piu gioiosi in un tempo e meno in un altro, allora sono in torto. Chi ama la giustizia, le sta così saldamente vicino che ciò che ama è il suo essere; nulla può distoglierlo, e non fa attenzione a nient’altro. Sant’Agostino dice: Dove l’anima ama, essa è più veramente che là dove dà vita. Questo testo ha un suono semplice e comune, e tuttavia a stento qualcuno comprende ciò che significa; nondimeno esso dice il vero. Chi comprende l’insegnamento sulla giustizia ed il giusto, comprende tutto quel che dico.
« I giusti vivranno ». Tra tutte le cose, nessuna è tanto amabile e desiderabile come la vita. Nello stesso modo, nessuna vita è tanto cattiva e penosa che l’uomo non voglia tuttavia vivere. Un testo dice: Più una cosa è vicina alla morte, più è penosa. Tuttavia, per quanto cattiva sia la vita, essa vuole vivere. Perché mangi? Perché dormi? Per vivere. Perché desideri beni o onori? Lo sai molto bene. Ma perché vivi? Per vivere, e tuttavia non sai perché vivi. Tanto desiderabile in sé è la vita, che la si desidera per se stessa. Quelli che sono all’inferno, nel tormento eterno, non vorrebbero perdere la loro vita, né i demoni né le anime, giacché la loro vita è così nobile che sgorga direttamente da Dio nell’anima. Essi vogliono vivere, tanto direttamente sgorga la loro vita da Dio. Cosa è la vita? L’essere di Dio è la mia vita. Se la mia vita è l’essere di Dio, bisogna che l’essere di Dio sia il mio essere, e l’essenza di Dio la mia essenza, né più né meno.
Essi vivono in eterno « presso Dio », proprio accanto a Dio, né al di sotto né al di sopra. Essi operano le loro opere presso Dio, e Dio opera pressa di loro. San Giovanni dice: Il verbo era presso Dio. Era assolutamente simile ed accanto, né sotto né sopra, ma simile. Quando Dio creò l’essere umano, fece la donna dal fianco dell’uomo perché gli fosse simile. Non la formò a partire dalla testa o dai piedi, perché non fosse né sopra né sotto di lui, ma gli fosse simile. Nello stesso modo l’anima giusta deve essere simile a Dio ed accanto a Dio, del tutto simile, né sotto né sopra.
Chi sono quelli in tale modo simili? Solo coloro che non sono simili a niente, sono simili a Dio. Niente è simile all’essenza divina, in essa non v’è immagine né forma. Alle anime che in questo modo sono simili, il Padre similmente dona e non fa loro mancare niente. Ciò che il Padre può fare, lo dona a questa anima in modo simile, in verità, quando essa non è più simile a se stessa che a un’altra, e non deve essere più vicina a se stessa che a un’altra. Essa non deve desiderare il proprio onore, il proprio vantaggio, o qualsiasi cosa le appartenga, né considerarla più di un bene appartenente a un altro. E ciò che è proprio a chiunque altro, non le deve essere né estraneo né lontano, male o bene che sia. Tutto l’amore verso le cose del mondo è fondato sull’amore di sé. Se tu avessi abbandonato questo, avresti abbandonato l’intero mondo.
Il Padre genera il Figlio nell’eternità, simile a se stesso. Il Verbo era presso Dio, e Dio era il Verbo: era identico a lui nella stessa natura. Dico ancora di più: lo ha generato nell’anima mia. Non solo essa è accanto a lui e, nello stesso modo, egli è accanto ad essa, che gli è simile, ma è in essa, e il Padre genera il Figlio nell’anima nello stesso modo con cui lo genera nell’eternità, non diversamente. Lo deve fare, ne abbia gioia o dolore. Il Padre genera incessantemente il Figlio, ed io dico ancora: egli mi genera come suo Figlio e lo stesso Figlio. Dico di più: mi genera non solo in quanto suo Figlio, ma in quanto lui stesso, e lui in quanto me, e me in quanto suo essere e sua natura. In questa più interna fonte, io scatuisco nello Spirito santo; è questa una sola vita, un solo essere, una sola operazione. Tutto ciò che Dio opera è uno, perciò egli mi genera in quanto suo Figlio, senza alcuna differenza. Mio padre secondo la carne non è, propriamente parlando, mio padre, ma lo è soltanto per una piccola parte della sua natura, ed io sono separato da lui; egli può essere morto ed io vivo. Perciò il Padre celeste è davvero mio padre, infatti io sono suo figlio ed ho da lui tutto quel che ho, e sono lo stesso Figlio, e non un altro. Il Padre opera una sola opera, perciò egli mi opera come suo Figlio unico, senza alcuna differenza.
Noi siamo totalmente trasformati e cambiati in Dio. Fate caso a questo paragone! Nello stesso modo in cui, nel Sacramento, il pane è trasformato nel corpo del Signore, per quanto pane vi sia, esso è comunque un solo corpo. Nello stesso modo, se tutti i pani fossero trasformati nel mio dito, non vi sarebbe tuttavia più di un dito. Se, d’altra parte, il mio dito fosse trasformato in pane, questo sarebbe quanto quello. Infatti ciò che è trasformato in un’altra cosa fa tutt’uno con essa. Nello stesso modo io sono trasformato in lui, in guisa tale che egli mi opera come suo essere, uno, non simile; per il Dio vivente, è vero che non v’è alcuna differenza.
Il Padre genera incessantemente il Figlio. Quando il Figlio è generato, non prende niente dal Padre, perché ha tutto, ma quando il Padre lo genera, egli prende dal Padre. Di conseguenza, noi non dobbiamo desiderare nulla da Dio, come se fossimo estranei. Nostro Signore dice ai suoi discepoli: Io non vi ho chiamato servi, ma amici. Chi desidera qualcosa dall’altro è un servo, e chi ricompensa è un signore. Mi chiedevo di recente se volessi ricevere o desiderare qualcosa da Dio. Ci rifletto molto bene, perché se ricevessi qualcosa da Dio, sarei al di sotto di lui come un servo, e lui, donando, come un signore. Non dobbiamo essere così nella vita eterna.
Proprio qui ho detto una volta, ed è vero: Se l’uomo si appropria o prende qualcosa di esteriore a se stesso, non è bene. Non si deve cogliere o considerare Dio come esterno a noi stessi, ma come nostro bene proprio e come cosa che è in noi stessi; non si deve neppure servire od agire in vista di un perché: né per Dio, né per il proprio onore, né per qualsiasi altra cosa fuori di sé, ma soltanto per ciò che è in sé suo essere proprio e sua propria vita. Molte persone semplici si immaginano che devono considerare Dio come lassù, e loro quaggiù. Non è così. Io e Dio siamo uno. Con la conoscenza accolgo Dio in me, con l’amore penetro in lui. Alcuni dicono che la beatitudine non risiede nella conoscenza ma solo nella volontà. Essi hanno torto, infatti se risiedesse solo nella volontà, non vi sarebbe unità. Agire e divenire sono una cosa sola. Quando il falegname non lavora, la casa non si fa. Quando la scure non agisce, anche il divenire è fermo. Dio ed io siamo uno in questa operazione: egli opera ed io divengo. Il fuoco trasforma in sé ciò che gli è portato, che diventa sua natura. Non è il legno che trasforma in sé il fuoco, ma il fuoco che trasforma in sé il legno. Nello stesso modo noi siamo trasformati in Dio, in guisa tale che lo conosceremo come egli è. San Paolo dice: Così lo conosceremo, io lo conoscerò come lui mi conoscerà, né più né meno, assolutamente nello stesso modo. I giusti vivranno eternamente, e la loro ricompensa è accanto a Dio, del tutto simile.
Che Dio ci aiuti ad amare la giustizia in se stessa e Dio senza perché. Amen.

Publié dans:MISTICA, MISTICA ITALIANA |on 1 août, 2015 |Pas de commentaires »

STAREC SILVANO DELL’ATHOS : LE LACRIME DI ADAMO

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STAREC SILVANO DELL’ATHOS

LE LACRIME DI ADAMO

Adamo, padre dell’umanità, in paradiso conobbe la dolcezza dell’amore di Dio; così, dopo esser stato cacciato dal paradiso a causa del suo peccato e aver perso l’amore di Dio, soffriva amaramente e levava profondi gemiti.
Il deserto intero riecheggiava dei suoi singhiozzi.
La sua anima era tormentata da un unico pensiero: “Ho amareggiato il Dio che amo”.
Non l’Eden, non la sua bellezza rimpiangeva, ma la perdita dell’amore di Dio che a ogni istante attrae insaziabilmente l’anima a Dio.
Così ogni anima, che ha conosciuto Dio nello Spirito santo e ha poi smarrito la grazia, prova lo stesso dolore di Adamo.
L’anima soffre e si tormenta per aver amareggiato il Signore che ama.

Adamo gemeva, sperduto su una terra che non gli procurava gioia; aveva nostalgia di Dio e gridava:
“L’anima mia ha sete del Signore, in lacrime lo cerco. Come potrei non cercarlo?
“Quando ero con Dio, l’anima mia si rallegrava nella pace e l’avversario non poteva farmi alcun male. Ora invece lo spirito malvagio si è impadronito di me e tormenta l’anima mia. Ecco perché l’anima mia si strugge per il Signore fino a morire e non accetta conforto alcuno; il mio spirito anela a Dio e nulla di terreno lo consola; ho desiderio ardente di rivedere Dio (cf. Sal 42,2 ss.), di goderlo fino a saziarmene.
“Nemmeno per un attimo posso dimenticarmi di lui, l’anima mia langue per lui, gemo dal grande dolore. Abbi pietà di me, o Dio, pietà della tua creatura caduta”.
Così gemeva Adamo, e un fiume di lacrime gli solcava il volto, scorreva sul petto e cadeva a terra. Il deserto intero riecheggiava dei suoi singhiozzi.
Bestie e uccelli erano ammutoliti di dolore.
E Adamo gemeva: per il suo peccato tutti avevano perduto la pace e l’amore.

Grande fu il dolore di Adamo dopo la cacciata dal paradiso, ma più grande ancora quando vide il figlio Abele ucciso da Caino. Per l’immane sofferenza piangeva, pensando: “Allora da me usciranno popoli, si moltiplicheranno sulla terra, ma solo per soffrire tutti, per vivere nell’inimicizia e uccidersi a vicenda”
Come oceano immenso era il suo dolore: solo le anime che hanno conosciuto il Signore e il suo ineffabile amore possono capirlo.
Io pure ho perso la grazia, e con Adamo imploro: “Abbi pietà di me, Signore. Donami lo spirito di umiltà e di amore”.
Come è grande l’amore del Signore! Chi ti ha conosciuto non si stanca di cercarti, e giorno e notte grida: “Desidero te, Signore, in lacrime ti cerco. Come potrei non cercarti? Sei tu che mi hai permesso di conoscerti nello Spirito santo e ora questa divina conoscenza attira incessantemente la mia anima a te”.

Adamo piangeva:

“Il silenzio del deserto,
non mi rallegra.
La bellezza di boschi e prati,
non mi dà riposo.
Il canto degli uccelli,
non lenisce il mio dolore.
Nulla, più nulla mi dà gioia.
L’anima mia è affranta
da un dolore troppo grande.
Ho offeso Dio, il mio amato.
E se ancora il Signore
mi accogliesse in paradiso,
anche là piangerei e soffrirei.
Perché ho amareggiato il Dio che amo”.

Adamo, cacciato dal paradiso, sentiva sgorgare dal cuore trafitto fiumi di lacrime. Così piange ogni anima che ha conosciuto Dio e gli dice:

“Dove sei, Signore?
Dove sei, mia luce?
Dove si è nascosta la bellezza del tuo volto?
Da troppo tempo l’anima mia
non vede la tua luce,
afflitta ti cerca.
Nell’anima mia non lo vedo. Perché?
In me non dimora. Cosa glielo impedisce?
In me non c’è l’umiltà di Cristo
né l’amore per i nemici”.

Sconfinato, indescrivibile amore: questo è Dio.
Adamo andava errando sulla terra: nel cuore lacrime amare, la mente continuamente in Dio. E quando il corpo esausto non aveva più lacrime da piangere, era lo spirito ad ardere per Dio, non potendo dimenticare il paradiso e la sua bellezza. Ma l’anima di Adamo amava Dio più di ogni altra cosa e, forte di questo amore, a lui incessantemente anelava.
Adamo, di te io scrivo; ma tu vedi che troppo debole è la mia mente per capire l’ardore del tuo desiderio di Dio e il peso della tua penitenza.
Adamo, tu vedi quanto io, tuo figlio, soffro sulla terra. In me non c’è più fuoco ormai, la fiamma del mio amore si sta spegnendo.
Adamo, canta per noi il cantico del Signore: l’anima mia esulti di gioia nel Signore (cf. Lc 1,47), si levi a cantarlo e glorificarlo, come nei cieli lo lodano i cherubini, i serafini e tutte le potenze celesti.
Adamo, nostro padre, canta per noi il cantico del Signore: tutta la terra lo senta, tutti i tuoi figli levino i loro cuori a Dio, gioiscano al dolce suono dell’inno del cielo, dimentichino le sofferenze della terra.
Adamo, nostro padre, narra il Signore a noi, tuoi figli! L’anima tua conosceva Dio, conosceva la dolcezza e la gioia del paradiso. E ora tu dimori nei cieli e contempli la gloria del Signore.
Narraci come il Signore nostro è glorificato per la sua passione, come vengono cantati i cantici in cielo, come sono dolci gli inni proclamati nello Spirito santo.
Narraci la gloria di Dio, quanto è misericordioso, quanto ama la sua creatura.
Narraci della santa Madre di Dio, quanto è esaltata nei cieli, quali inni la proclamano beata.
Narraci come gioiscono i santi lassù, come risplendono di grazia, come amano il Signore, con quale santa umiltà stanno davanti al suo trono.
Adamo, consola e rallegra le nostre anime affrante.
Narraci: cosa vedi nei cieli?
Non rispondi?
Perché questo silenzio?
Eppure, la terra intera è avvolta di sofferenza.
Tanto ti assorbe l’amore divino da non poterti ricordare di noi?
Oppure vedi la Madre di Dio nella gloria e non puoi distogliere gli occhi da quella celeste visione e per questo lasci i tuoi figli nella desolazione, orfani di una parola di affetto? È per questo che non ci consoli e non ci permetti di scordare le amarezze della nostra vita terrena?
Adamo, nostro padre, non rispondi?
Il dolore dei tuoi figli sulla terra tu lo vedi.
Perché dunque questo silenzio? Perché?

Adamo risponde:
“Figli miei, amati, non turbate la mia pace. Non posso distogliermi dalla visione di Dio. L’anima mia, ferita dall’amore del Signore, si delizia della sua bontà. Chi vive nella luce del volto del Signore non può ricordarsi delle cose terrene”.

Adamo, nostro padre, hai forse abbandonato noi, tuoi figli ormai orfani? Ci hai lasciati immersi nell’abisso dei mali della terra?
Narraci: come piacere a Dio?
Ascolta i tuoi figli dispersi sulla terra: il loro spirito si disperde nei pensieri del loro cuore (cf. Lc 1,5 1) e non può accogliere la divinità. Molti si sono allontanati da Dio, vivono nelle tenebre e camminano verso gli abissi dell’inferno.
“Non turbate la mia estasi. Contemplo la Madre di Dio nella gloria e non posso distrarre la mente da questa visione per parlare con voi. Contemplo anche i santi profeti e apostoli e sono pervaso di stupore perché li vedo in tutto simili al Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio.
“Cammino nell’Eden e ovunque contemplo la gloria del Signore: egli vive in me e mi ha reso simile a lui. A tal punto il Signore glorifica l’uomo!”.

Adamo, parla con noi! Siamo tuoi figli e qui sulla terra soffriamo.
Narraci come ereditare il paradiso, affinché noi pure, come te, possiamo contemplare la gloria del Signore. Le anime nostre soffrono per la lontananza dal Signore, mentre tu nei cieli ti rallegri ed esulti nella gloria divina.
Ti supplichiamo: consolaci!

“Figli miei, perché gridate a me?
“Il Signore vi ama e vi ha dato i comandamenti della salvezza. Osservateli, soprattutto amatevi gli uni gli altri (cf. Gv 13,34): così troverete riposo in Dio. In ogni istante pentitevi dei vostri peccati: così sarete ritenuti degni di andarvene incontro a Cristo. Il Signore ha detto: ‘Amo quelli che mi amano’ (cf. Gv 14,21) e ‘glorificherò quelli che mi glorificano’ (1Sam 2,30)”.

Adamo, prega per noi, tuoi figli!
L’anima nostra è oppressa da molti mali.
Adamo, nostro padre, nei cieli tu contempli il Signore che è seduto nella gloria alla destra del Padre; vedi i cherubini, i serafini e i santi tutti; ascolti canti celesti e l’anima tua è rapita da tanta dolcezza. Ma noi, quaggiù, esclusi dalla grazia, siamo costantemente afflitti e abbiamo sete di Dio.
Si estingue in noi il fuoco dell’amore del Signore, siamo oppressi dal peso delle nostre colpe. Una tua parola ci sia di conforto; canta a noi un canto che ascolti nei cieli: lo senta la terra intera e gli uomini tutti dimentichino le loro miserie.
Adamo, la tristezza ci opprime!

“Figli miei, non turbate la mia pace. Passato è il tempo delle mie sofferenze. Nella dolcezza dello Spirito santo e nelle delizie del paradiso, come ricordarmi della terra?
“Questo solo vi dirò: Il Signore vi ama: vivete nell’amore! ‘Obbedite ai vostri superiori’ (Eb 13,17), umiliate i vostri cuori.
“Lo Spirito di Dio allora porrà la sua tenda in voi (cf . Gv 1,14). Viene nella quiete e all’anima dona pace; muto (cf. Sal 19,4), testimonia la sua salvezza.
“Cantate a Dio con amore e umiltà di spirito: di questo si rallegra il Signore”.
Adamo, nostro padre, che fare?
Cantare, cantiamo. Ma in noi né amore né umiltà.

“Pentitevi davanti al Signore, e pregate. Concederà ogni cosa agli uomini che tanto ama (cf. Gv 3,16). Anch’io mi sono pentito e ho sofferto per aver amareggiato il Signore, perché per i miei peccati la pace e la gioia erano state tolte dalla faccia della terra. Un fiume di lacrime solcava il mio volto, mi scorreva sul petto e cadeva a terra; il deserto intero riecheggiava dei miei singhiozzi. Non potete penetrare l’abisso della mia afflizione, né il mio pianto a causa di Dio e del paradiso. In paradiso ero felice: lo Spirito di Dio mi colmava di gioia, mi preservava libero da sofferenze.

“Ma, cacciato dal paradiso,
fiere e uccelli, che prima mi amavano,
presero a temermi e a fuggire lontano;
pensieri malvagi mi laceravano il cuore;
freddo e fame mi tormentavano;
il sole mi bruciava,
il vento mi sferzava,
la pioggia mi inzuppava:
ero sfinito dalle malattie
e da tutte le disgrazie della terra.
Ma tutto sopportavo, sperando in Dio
contro ogni speranza (cf. Rm 4,18).

“Figli miei, sopportate anche voi le fatiche della penitenza; amate le afflizioni; sottomettete il corpo con l’ascesi e la sobrietà; umiliatevi e amate i nemici (cf. Mt 5,44): lo Spirito santo dimorerà in voi. Allora conoscerete e troverete il regno di Dio.
“Ma non turbate la mia pace. Per l’amore di Dio non posso ricordarmi della terra. Ho dimenticato tutte le cose terrene, persino lo stesso paradiso da me perduto, perché contemplo la gloria eterna del Signore e la gloria dei santi che risplendono della stessa luce del volto di Dio”.

Adamo, canta per noi, cantaci il canto celeste: la terra intera lo ascolti e goda della pace di Dio. Sono inni soavi, cantati nello Spirito santo e noi desideriamo ascoltarli.

Adamo aveva perduto il paradiso terrestre. In lacrime lo cercava:
“Paradiso mio, paradiso mio, paradiso meraviglioso!”.
Ma il Signore nel suo amore gli fece dono, sulla croce (cf. Lc 23,43), di un paradiso migliore di quello perduto, un paradiso celeste dove rifulge la luce increata della santa Trinità.
Come contraccambiare l’amore del Signore per noi (cf. Sal 116,12)?

UNA CONVERSAZIONE DI ALBINO LUCIANI VESCOVO

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UNA CONVERSAZIONE DI LUCIANI VESCOVO

«Io non sono un mistico»

«Di contemplazione non me ne intendo. Mi fermo alla semplice orazione, quella umile, quella delle anime semplici. Certa povera gente non ha imparato a meditare, ma dice bene le preghiere, con cuore, le preghiere vocali. Santa Bernadette è diventata santa solo per questo. Diceva bene il rosario, ubbidiva alla sua mamma»

una conversazione di Albino Luciani vescovo

Il Signore ci fa tante raccomandazioni, nel Vangelo, sulla preghiera. L’insistenza. Non basta domandare una volta. Non è come suonare il pianoforte: tocchi il tasto, ne esce il suono. «Signore, dammi questa grazia». Pronti, servito! A tamburo battente. Non è così. Il Signore stesso ha detto che non è così. Voglio che domandiate. Ha raccontato anche la parabola. C’era un giudice iniquo in una città. Non gliene importava niente né di Dio né dei poveri mortali. Una vedova andava ogni giorno da lui: «Rendimi giustizia, rendimi giustizia!». «Via, Via! Non ho tempo, non ho tempo». Ma la vedova tornava. Finalmente un giorno il giudice ha detto tra sé: «Anche se non temo Dio e non ho nessun riguardo per gli uomini, poiché questa vedova viene sempre ad importunarmi e non mi lascia più in pace, le voglio fare giustizia, così non l’avrò più tra i piedi». Conclusione di Gesù Cristo: questo lo fa un giudice iniquo e per un motivo egoistico, e il Padre vostro, quando voi insisterete nel domandargli che vi faccia giustizia, il Padre vostro dei cieli, che vi ama, non ve lo farà? E abbiamo già sentito dal Concilio: Bisogna pregare sempre: pregare senza interruzione.
Il nostro primo dovere è di insegnare alla gente a pregare, perché quando abbiamo dato loro questo mezzo potente, si arrangiano anche loro ad ottenere le grazie del Signore. Io non posso fare un trattato sulla preghiera, anche perché forse ne sapete più di me. Accennerò solo a qualche cosa. Forse battiamo molto sulla preghiera di petizione: «Signore, ricordati di me; Signore perdonami!». Bellissimo! Però Gesù quando ci ha insegnato il Pater noster, ci ha detto: «Pregate così», e la sua preghiera l’ha divisa in due parti. La prima: «Sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà». È questa la parte che riguarda il nostro rapporto con Dio. Solo dopo si passa alla seconda: «Dacci il nostro pane, ecc.». Quindi anche nelle proprie preghiere si deve seguire questo metodo: fare prima la preghiera di adorazione, di lode, di ringraziamento; e solo dopo quella di domanda. Nelle epistole di san Paolo: «Gratias agamus, Deo gratias, Deo autem gratias…». Queste espressioni, non le ho contate io, ricorrono più di centocinquanta volte. San Paolo rende grazie continuamente. Ma osservate anche le altre preghiere: «Ave Maria, piena di grazia, il Signore è con te». Dopo viene la domanda: «Prega per noi, peccatori». Prima si fa un bel complimento alla Madonna. Bisogna essere diplomatici: si fa una lode, e poi si chiede. Anche gli oremus antichi, non quelli moderni, hanno tutti all’inizio la lode, il complimento. «Deus qui corda fidelium Sancti Spiritus illustratione docuisti…», fatta una bella lode: «da nobis quaesumus…», viene la domanda. Invece: «Concede nobis, famulis tuis…», questo è un oremus moderno; comincia subito col domandare qualcosa. Non ha capito niente, non ha capito niente, chi lo ha composto. E anche le litanie della Madonna: «Mater purissima», l’elogio, «ora pro nobis», la domanda; tutte così. Questo metodo dobbiamo usarlo nelle nostre preghiere. Preoccuparsi un po’ anche… Non ha bisogno il Signore delle nostre preoccupazioni, ma gli fa certamente piacere che ci occupiamo un po’ di lui. C’è un libro molto bello di padre Faber: Tutto per Gesù; non è “alto”, cose umili; e dice proprio che bisogna preoccuparsi degli interessi di Dio, prima che degli interessi nostri. Dicevo: l’adorazione: «Tu sei lassù, o Dio immenso onnipotente, e io sono qui, piccolo piccolo, Signore», questo senso di adorazione di stupore davanti a Dio. «Ti devo tutto, Signore!». Il ringraziamento. Il sentirsi sempre piccoli, miseri, davanti a Dio. Bisogna aiutarli, i fedeli, ad adorare, a ringraziare il Signore. Nessuno è grande davanti a Dio. Davanti a Dio anche la Madonna s’è sentita guardata, piccola. È importantissimo sentirci guardati da Dio. Sentirci oggetto dell’amore che Dio ci porta. San Bernardo, quand’era piccolissimo, in una notte di Natale, s’è addormentato in chiesa e ha sognato. Gli è parso di vedere Gesù bambino che diceva, additandolo: «Eccolo là, il mio piccolo Bernardo, il mio grande amico». S’è svegliato, ma l’impressione di quella notte non si è più cancellata e ha avuto un’enorme influenza sulla sua vita. Sentiamoci piccoli, perché siamo piccoli. Se non ci sentiamo piccoli è impossibile la fede. Chi alza la cresta, chi si vanta troppo, non ha fiducia in Dio. Tu sei grandissimo, Signore, io, di fronte a te, piccolissimo. Non mi vergogno di dirlo. E farò volentieri quello che mi chiedi. Tanto più che non chiedi per prendere, ma per dare, non chiedi a vantaggio tuo, ma nell’interesse mio! Manzoni dice: «L’uomo, mai è più grande di quando si inginocchia davanti a Dio». Nelle preghiere che si fanno manca sempre di più quello che è il senso dell’adorazione. È invece uno degli attegiamenti fondamentali di tutta la religione cristiana.
Albino Luciani a Lourdes durante la processione eucaristica
Albino Luciani a Lourdes durante la processione eucaristica
Quali preghiere e con quale metodo? Voi siete maestri in Israele; sapete che la preghiera più bella è, per sé, quella passiva, dove ci si abbandona all’azione della grazia. Così è di qualche anima che viene addirittura catturata da Dio, lavorata, dominata, santificata. È la cosiddetta preghiera mistica, di quelli che si danno alla contemplazione. E su questo non posso dirvi niente, perché sinceramente io non sono un mistico. Mi dispiace. L’ho insegnato anche a scuola, ho studiato i vari sistemi, le varie tendenze, i carmelitani di qua, i gesuiti di là… Però santa Teresa, che era una donna molto esperta, dice: «Io ho conosciuto dei santi, dei veri santi, che non erano contemplativi, e ho conosciuto dei contemplativi che avevano grazie di orazione superiore, che però non erano santi». Il che vuol dire che, «salvo meliore iudicio», non sarebbe necessaria la contemplazione alla santità. Sulla contemplazione quindi non posso perciò intrattenervi, perché sinceramente non me ne intendo, anche se ho letto qualche libro. Perciò mi fermo alla semplice orazione, quella umile, quella delle anime semplici. Io mi spiego di solito con un esempio molto semplice e pratico. Sentite: c’è il papà che festeggia l’onomastico: in casa hanno organizzato un po’ di festicciola. Arriva il momento: lui sa già di che si tratta, e dice: «Adesso vediamo cosa mi fanno di bello!». Per primo viene il più piccolo dei suoi bambini: gli hanno insegnato la poesia a memoria. Povero piccolo! È lì di fronte al papà, recita la sua poesia. «Bravo!», dice il papà, «ho tanto piacere, ti sei fatto onore, grazie, caro». A memoria. Va via il piccolino, e si presenta il secondo figliolo, che fa già le medie. Ah, non si è mica degnato di imparare una poesiola a memoria; ha preparato un discorsetto, roba sua, farina del suo sacco. Magari breve, ma si impanca da oratore. «Non avrei mai creduto», il papà, «che tu fossi così bravo a far discorsi, caro». È contento il papà: ma guarda che bei pensieri!… Non sarà un capolavoro, ma… Terza, la signorina, la figliola. Questa ha preparato semplicemente un mazzetto di garofani rossi. Non dice niente. Va davanti al papà, neanche una parola: però è commossa, è così rossa che non si sa se sia più rossa lei o i garofani. E il papà le dice: «Si vede che mi vuoi bene, sei così emozionata». Ma neanche una parola. Però i fiori li gradisce, specialmente perché la vede tanto commossa e così piena di affetto. Poi c’è la mamma, c’è la sposa. Non dà niente. Lei guarda suo marito e lui guarda lei: semplicemente uno sguardo. Sanno tante cose. Quello sguardo rievoca tutto un passato, tutta una vita. Il bene, il male, le gioie, i dolori della famiglia. Non c’è altro. Sono i quattro tipi di orazione. Il primo è l’orazione vocale: quando dico il rosario con attenzione, quando dico il Pater noster, l’Ave Maria; allora siamo dei bambini. Il secondo, il discorsetto, è la meditazione. Penso io e faccio il mio discorso col Signore: bei pensieri e anche profondi affetti, intendiamoci. Il terzo, il mazzo di garofani, è l’orazione affettiva. La ragazzina tanto emozionata e tanto affettuosa. Qui non occorrono molti pensieri, basta lasciar parlare il cuore. «Mio Dio, ti amo». Se uno fa anche solo cinque minuti di orazione affettiva, fa meglio che la meditazione. Quarto, la sposa, è l’orazione della semplicità o di semplice sguardo, come si dice. Mi metto davanti al Signore, e non dico niente. In qualche maniera lo guardo. Sembra che valga poco, questa preghiera, invece può essere superiore alle altre. Fate qualche considerazione su ciascuna di queste forme di preghiera. Anche la prima. Si dice: è un bambino, comincia appena. Ma santa Teresa scrive: si può diventar santi con la prima orazione. Certa povera gente non ha imparato a meditare, ma dice bene le preghiere, con cuore, le preghiere vocali. Santa Bernadette è diventata santa solo per questo. Diceva bene il rosario, ubbidiva alla sua mamma. È diventata santa.
Ed ora lasciate che vi raccomandi la devozione alla Madonna, giacché devo fare un cenno al rosario, che in parte è una preghiera vocale. Il rosario è anche la Bibbia dei poveri. Mai tralasciare il rosario, e recitarlo bene. Io sono molto preoccupato dei miei fedeli: ce ne sono ancora di quelli che fanno la preghiera in casa, ma non dicono più il rosario. Quando i figli in famiglia vedono il papà che prega, che prega insieme a tutti, questo ha un effetto sull’educazione, che le nostre prediche non avranno mai, siatene certi. Quindi nella visita pastorale faccio anche questa domanda: «Recitano la preghiera in casa?». Purtroppo pregano poco. Peccato! Allora lo dico in chiesa: «Fate il piacere! Dovete guardare la televisione, capisco. Ma se non potete dire il rosario, tutte le cinque poste, ditene almeno una, dieci Ave Maria, un mistero solo. Vi raccomando tanto, almeno questo. E anche voi insistete sulla devozione alla Madonna. Un giorno mi hanno anche chiesto, sono curiose queste pie anime: «Lei quale Madonna preferisce? Quella del Carmine? Perché, vede, io sono devota della Madonna del Carmine». È gente piuttosto alla buona e io ho risposto: «Se lei mi permette un consiglio, io le suggerirei la Madonna dei piatti, delle scodelle e delle minestre». Guardate che la Madonna si è fatta santa senza visioni, senza estasi, si è fatta santa con queste piccole cose di lavoro quotidiano. Volevo dire: molta devozione alla Madonna. Sì al rosario, la fiducia in lei, ma anche l’imitazione delle sue virtù. Quindi non stancatevi di raccomandare la devozione a Maria.

DUM MEDIUM SILENTIUM TENERENT OMNIA (Mentre il silenzio avvolgeva ogni cosa…

http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/misticacristiana/predicheeckhart.htm#dum

DUM MEDIUM SILENTIUM TENERENT OMNIA

(cfr. . “Dum medium silentium tenerent omnia… – Mentre il silenzio avvolgeva ogni cosa e la notte era a metà del suo corso, la tua Parola onnipotente, o Signore, venne dal tuo trono regale” (Ant. al Magn. 26 Dicembre).

Noi qui, nella temporalità, facciamo festa a riguardo della nascita eterna, che Dio Padre ha compiuto e senza tregua compie nell’eternità, e questa stessa nascita si è compiuta ora nel tempo, nella natura umana. Sant’Agostino dice: che mi giova che questa nascita avvenga continuamente e tuttavia non avvenga in me? Molto mi importa, invece, che essa avvenga in me.
Vogliamo ora parlare di questa nascita, come essa avviene in noi e viene compiuta nell’anima buona, quando Dio Padre parla la sua parola eterna nell’anima perfetta. Infatti, quello che dico lo si deve intendere in riferimento ad un uomo buono, perfetto, che ha camminato ed ancora cammina sulle vie del Signore, e non in riferimento all’uomo naturale, non esercitato, giacché questo è del tutto lontano e ignorante di tale nascita.
Il sapiente dice una parola: « Quando tutte le cose erano in mezzo al silenzio, venne in me dall’alto, dal trono regale, una parola segreta ». Questa predica tratterà di questa parola.
Bisogna qui notare tre cose. In primo luogo: dove Dio Padre pronunci nell’anima la sua parola, dove sia il luogo per questa nascita e dove l’anima sia recettiva per questa opera; bisogna infatti che sia nella parte più pura, più nobile e più fine che l’anima può offrire. Veramente, se Dio Padre, nella sua intera onnipotenza, potesse dare all’anima nella sua natura qualcosa di più nobile, e l’anima potesse ricevere da lui qualcosa di più nobile, Dio Padre dovrebbe attendere questa nobiltà per realizzare la nascita. Perciò, l’anima in cui deve compiersi questa nascita deve mantenersi completamente pura, e vivere in perfetta nobiltà, del tutto raccolta e nell’interiorità, senza disperdersi con i cinque sensi nella molteplicità delle creature, ma del tutto interiore e raccolta in se stessa nello stato più puro: quello è il suo luogo, e tutto ciò che è inferiore fa resistenza.
La seconda parte di questa predica tratta di come l’uomo debba comportarsi di fronte a questa opera, o parola, o nascita; se sia per lui più utile cooperare, per ottenere che questa nascita avvenga e sia compiuta in lui – ad esempio formando in se stesso, nel suo intelletto e nel suo pensiero, una rappresentazione ed esercitandosi in essa, meditando: Dio è saggio, onnipotente ed eterno, ed altre cose simili che può pensare su Dio – se questo sia più utile e vantaggioso per la nascita paterna, o se invece che l’uomo si spogli e si liberi di ogni pensiero, parola ed opera, e di ogni rappresentazione, e si mantenga completamente in passività di fronte a Dio, inattivo, lasciando che Dio operi in lui: come dunque l’uomo serve meglio a questa nascita?
Il terzo punto è l’utilità, quanto grande essa sia, che sta in questa nascita.
Fate ora attenzione alla prima parte: voglio farvi questa dimostrazione con argomenti naturali, perché la possiate comprendere da soli, anche se io credo più alla Scrittura che a me stesso; ma per voi è meglio una esposizione così dimostrata.
Prendiamo dapprima la parola che suona: « In mezzo al silenzio mi fu detta una parola segreta ». Ah, Signore, dove è il silenzio e dove il luogo in cui questa parola viene pronunciata? Noi diciamo, come già prima ho detto: è nella parte più pura che l’anima può offrire, nella parte più nobile, nel fondo, nell’essenza dell’anima, ovvero nella parte più segreta dell’anima; là tace il « mezzo », perché là non è mai giunta creatura né immagine, né là conosce l’anima l’operare o il sapere; là non sa niente di immagine alcuna, sia essa di se stessa o di qualsiasi altra creatura.
Tutte le opere che l’anima compie, le compie per mezzo delle sue potenze: quel che conosce, lo conosce con l’intelletto; se si ricorda di qualcosa, lo fa con la memoria; se deve amare, lo fa con la volontà; e così tutto opera per mezzo delle potenze e con il suo essere. Tutto il suo operare all’esterno si appoggia sempre su qualche elemento intermedio. La facoltà visiva opera solo attraverso gli occhi, altrimenti non può operare o concedere alcuna visione; e così è anche con tutti gli altri sensi: l’anima effettua tutte le sue operazioni all’esterno grazie a qualche elemento intermedio. Nell’essere, però, non v’è alcuna opera; infatti le potenze, con cui essa opera, fluiscono dal fondo dell’essere, e in questo fondo tace il « mezzo »: qui domina solo la quiete e la festa per questa nascita e per questa opera, perché Dio Padre parla là la sua parola. Questo fondo è infatti, per sua natura, accessibile soltanto alla essenza divina, senza mediazione, e a niente altro. Dio entra qui nell’anima con la sua interezza, non con una parte; Dio entra qui nel fondo dell’anima. Nessuno tocca il fondo dell’anima, se non Dio solo. La creatura non può entrare nel fondo dell’anima; essa deve rimanere fuori, nelle potenze. Là l’anima scorge l’immagine della creatura, per mezzo di cui essa è stata accolta e ospitata. Infatti, quando le potenze dell’anima entrano in contatto con la creatura, ne attingono e ne creano una immagine e somiglianza, e la attirano in sé. In questo modo esse conoscono la creatura. Più vicino all’anima la creatura non può giungere, e l’anima mai si avvicina a una creatura, se prima non ha accolto in sé la sua immagine senza sforzo. Proprio per mezzo di questa immagine presente, l’anima si avvicina alle creature; infatti l’immagine è qualcosa che l’anima, con le sue potenze, forma dalle cose. Sia che si tratti di una pietra, di un destriero, di un uomo, sia di qualsivoglia altra cosa, che essa vuol conoscere, essa tira fuori l’immagine, che prima aveva accolto in sé, ed in questo modo può unirsi con quell’oggetto.
Ma quando l’uomo riceve in tal modo un’immagine, essa deve necessariamente esser giunta dall’esterno, attraverso i sensi. Per questo motivo niente è così ignoto all’anima come se stessa. Un maestro dice infatti che l’anima non può formare o estrarre immagini di se stessa. Perciò essa non può conoscersi con nulla. Infatti le immagini giungono sempre attraverso i sensi, e dunque essa non può avere alcuna immagine di se stessa. Così essa conosce tutte le altre cose, ma non se stessa. Di nessuna cosa sa così poco, come di se stessa, proprio a causa di questo elemento mediatore.
Tu devi sapere però che l’anima al suo interno è libera e sgombra da ogni elemento mediatore e da ogni immagine, e questo è il motivo per cui Dio può unirsi con essa liberamente, senza immagini o somiglianze. Ogni capacità che tu riconosci a un maestro, non puoi fare a meno di attribuirla a Dio in grado infinito. Più un maestro è saggio e potente, più immediatamente realizza la sua opera, e più è semplice. L’uomo ha bisogno di molti mezzi nelle sue opere esteriori, e prima di compierle come le ha progettate, ha bisogno di grosso allestimento. Il sole invece, nella sua maestria, compie la sua opera, che è l’illuminare, con grande rapidità: appena diffonde il suo chiarore, nello stesso istante il mondo è pieno di luce in ogni parte. Ancora più in alto è l’angelo, che ha bisogno di mezzi ancor minori per operare, ed ha anche meno immagini. Il più alto dei serafini ha una sola immagine: tutto quello che gli altri, sotto di lui, concepiscono nella molteplicità, egli lo comprende nell’unità. Ma Dio non ha bisogno di alcuna immagine, e non ne ha: Dio opera nell’anima senza quel « mezzo », immagine o somiglianza; opera nel fondo dell’anima, dove mai è giunta una immagine, ma soltanto Dio stesso col suo proprio essere. Nessuna creatura può farlo!
Come il Padre genera il Figlio nell’anima? Come lo fanno le creature in immagini e somiglianze? Niente affatto! Lo fa nel modo in cui egli genera nell’eternità, né più né meno. E dunque, come lo genera là? Fate attenzione! Dio Padre ha uno sguardo perfetto in se stesso ed una profonda, completa conoscenza di se stesso, attraverso se stesso, non attraverso immagini. Così dunque Dio Padre genera suo Figlio in vera unità della natura divina. Vedete, nello stesso identico, e non in altro, modo, Dio Padre genera il Figlio nel fondo dell’anima e nella sua essenza, e si unisce così con essa. Infatti, se vi fosse là un’immagine, non vi sarebbe vera unità; in questa vera unità risiede la sua intera beatitudine. Ora potreste dire che nell’anima non vi sono, per natura, niente altro che immagini. Niente affatto! Se questo fosse vero, l’anima non sarebbe mai beata. Dio non potrebbe creare una creatura nella quale tu potessi trovare perfetta beatitudine; altrimenti non sarebbe Dio la più alta beatitudine e l’ultimo scopo, mentre invece è proprio della sua natura e del suo volere essere inizio e fine di ogni cosa. Nessuna creatura può essere la tua beatitudine, e non può neppure essere quaggiù la tua perfezione; infatti alla perfezione di questa vita – che sono tutte le virtù insieme – segue la perfezione della vita eterna. Perciò tu devi necessariamente stare e permanere nell’essere e nel fondo: là Dio ti deve toccare con la sua semplice essenza, senza la mediazione di nessuna immagine. Nessuna immagine ha di mira o propone se stessa, ma piuttosto ha di mira e propone sempre ciò di cui è immagine. E poiché si hanno immagini solo di ciò che è al di fuori di noi, e che viene tratto all’interno tramite i sensi, e ciò continuamente rimanda a quello di cui è immagine, sarebbe allora impossibile poter divenire beati attraverso un’immagine. Perciò devono là dominare il silenzio e la pace, e là il Padre deve parlare, generare il Figlio ed operare le sue opere senza immagini.
La seconda questione è: cosa deve fare l’uomo per ottenere e meritare che questa nascita avvenga in lui e sia compiuta; se sia meglio che l’uomo si studi di compiere qualcosa – si raffiguri Dio o diriga verso di lui il suo pensiero -, o che piuttosto si mantenga nel silenzio, nella pace e nella quiete, e lasci parlare ed operare in sé Dio, aspettando soltanto l’azione di Dio. Ripeto quel che ho detto: questo compito e questo comportamento riguardano soltanto gli uomini buoni e perfetti, che hanno assimilato in sé l’essenza di tutte le virtù, in maniera tale che le virtù sgorghino da essi in modo essenziale, senza il loro agire, e che soprattutto hanno viva in se stessi la preziosa vita e la nobile dottrina di nostro Signor Gesù Cristo. Tali uomini devono sapere che la cosa migliore e più nobile per giungere a questa vita, è tacere, e lasciar parlare ed operare Dio. Questa parola viene pronunciata là dove tutte le potenze si ritirano dalle loro opere ed immagini. Perciò è detto: « In mezzo al silenzio fu parlata a me la parola segreta ». Ancora su ciò: quanto più puoi condurre le tue potenze verso l’unità, nell’oblio di tutte le cose e delle loro immagini che hai accolto in te, tanto più puoi allontanarti dalle creature e dalle loro immagini, e tanto più sei vicino a questa parola e pronto a riceverla. Se tu potessi perdere la conoscenza di tutte le cose, perderesti anche quella del tuo proprio corpo, come accadde a san Paolo, quando disse: « Se fossi nel corpo o no, non lo so; Dio solo lo sa! ». Lo spirito aveva allora completamente portato in sé tutte le potenze, in modo tale che egli aveva dimenticato il corpo; non erano più attive né la memoria né la ragione, né i sensi, né le potenze che avrebbero dovuto esercitare influsso sui sensi per sostenere il corpo; il fuoco e il calore vitale erano sospesi, e perciò il corpo non venne meno in quei tre giorni in cui egli non mangiò né bevve. Lo stesso accadde a Mosè, quando digiunò quaranta giorni sul monte, e tuttavia non divenne per questo più debole; egli fu, anzi, nell’ultimo giorno tanto forte quanto nel primo. Così dunque l’uomo deve sottrarsi a tutti i sensi, rivolgere verso l’interno tutte le potenze e permanere nell’oblio di tutte le cose e di se stesso. Perciò un maestro si rivolge all’anima così: sfuggi all’agitazione delle opere esteriori! Fuggi ancora e nasconditi di fronte al tumulto dei pensieri interiori, perché essi provocano inquietudine! Se Dio deve pronunciare la sua parola nell’anima, essa deve essere in pace e in quiete: allora egli parla la sua parola e se stesso nell’anima – non un’immagine, ma se stesso.
Dionigi dice: Dio non ha immagine o somiglianza di se stesso, perché egli è nell’essenza tutto il bene la verità e l’essere. Dio opera tutte le opere, in se stesso e fuori di se stesso, in un attimo. Non immaginare che, quando Dio fece il cielo e la terra e tutte le cose, abbia fatto oggi l’una e domani l’altra. Mosè scrive così, ma sapeva molto di più: fece così per amore del popolo, che altrimenti non avrebbe potuto capirlo. Dio non fece altro che questo: volle, parlò – e le cose furono! Dio opera senza mediazione e senza immagine, e quanto più tu sei senza immagine, tanto più sei aperto al suo operare, e quanto più sei rivolto all’interno e dimentico di te stesso, tanto più sei vicino a lui.
Perciò Dionigi esortava il suo discepolo Timoteo, dicendo: caro figlio Timoteo, tu devi, con i sensi non turbati, uscire da te stesso, sopra te stesso e sopra tutte le tue potenze, sopra la facoltà del conoscere e sopra l’intelletto, sopra l’opera, il modo e l’essere, nella nascosta, silenziosa tenebra, per giungere alla conoscenza dell’ignoto e superdivino Dio. Bisogna sottrarsi a tutte le cose. A Dio ripugna operare in immagini.
Potresti ora chiedere: cosa dunque opera Dio senza immagine, nel fondo e nell’essere? Io non posso saperlo, perché le potenze possono concepire solo in immagini, devono concepire e conoscere tutte le cose nelle loro immagini proprie. Non possono conoscere un cavallo nell’immagine di un uomo, e perciò, in quanto tutte le immagini giungono dall’esterno, rimane loro nascosto quel che Dio opera nel fondo; ciò è per l’anima la cosa più utile. Infatti questo non-sapere la sospinge come verso qualcosa di meraviglioso, di cui essa va alla ricerca, giacché esperimenta bene che esso v’è, ma non sa come e cosa sia. Quando, invece, l’uomo conosce la ragione della cosa, subito se ne stanca, e cerca qualcos’altro da provare, e vive perciò sempre in tormentato desiderio di conoscere, e non ha mai attenzione costante. Soltanto questa conoscenza che non conosce mantiene l’anima in costante attenzione, e la sospinge sempre alla ricerca.
Perciò dice il sapiente: « Nel mezzo della notte, quando tutte le cose tacevano nella quiete, mi fu detta una parola segreta; essa venne nascostamente, come un ladro ». Come può dire « parola », se era segreta? La natura della parola è proprio quella di manifestare ciò che è nascosto. Essa si aprì e risplendette davanti a me, per rivelarmi qualcosa, e mi annunziò Dio – per questo si chiama Parola. Mi era nascosto cosa essa fosse, e questo fu il suo venire furtivo, in un bisbiglio e nel silenzio, per rivelarsi. Vedete, proprio perché è nascosta, bisogna inseguirla. Essa risplendeva, ed era tuttavia nascosta: ciò indica che noi dobbiamo anelare e sospirare per essa. San Paolo ci esorta a cercarla fino a trovarne le tracce, e a non darsi per vinti finché non la si afferra. Quando fu rapito al terzo cielo, nella rivelazione di Dio, ed ebbe viste tutte le cose, non dimenticò niente al suo ritorno, ma tutto era per lui nascosto giù, nel fondo dell’anima, dove l’intelletto non può arrivare. Perciò dovette cercarne le tracce e raggiungerlo in sé, non fuori di sé. Infatti ciò è del tutto interiore, non esterno, ma completamente interiore. Egli sapeva bene questo, e perciò disse: « Sono sicuro che né la morte né altro tormento può separarmi da quel che provo in me ».
A questo proposito un maestro pagano disse una bella parola ad un altro maestro: « Mi accorgo di qualcosa in me, che risplende nella mia mente; sento con certezza che è qualcosa, ma non so comprendere cosa sia; mi sembra però che, se potessi capirlo, conoscerei tutta la verità ». Allora disse l’altro maestro: « Bene! Lascia perdere! Se tu potessi capirlo, avresti completamente la verità e la vita eterna ».
In questo senso parlò anche sant’Agostino: io avverto qualcosa in me, che risplende davanti alla mia anima: se ciò giungesse a compimento e permanenza in me, sarebbe la vita eterna. È qualcosa che si nasconde e pur tuttavia si manifesta; giunge a guisa di ladro, per portar via e rubare all’anima tutte le cose. Ma nel mostrarsi e manifestarsi un poco, può stimolare l’anima ed attrarla a sé, e derubarla e spogliarla di se stessa. Perciò disse il profeta: « Signore, togli ad essi il loro spirito e dà loro il tuo ». Questo intendeva anche l’anima innamorata, quando disse: « La mia anima si fuse e si sciolse, quando l’amato parlò la sua parola »; quando giunse, dovetti andarmene. Anche Cristo intendeva questo, quando disse: « Chi lascia qualcosa per amor mio, riceverà il centuplo in cambio, e chi mi vuole avere, deve spogliarsi di se stesso e di tutte le cose, e chi vuole servirmi, deve seguire me, non può seguire i suoi interessi ».
Ora potresti dire: ma via, signore, voi volete rovesciare il corso naturale dell’anima ed agire contro la sua natura! La sua natura è infatti quella di percepire attraverso i sensi ed in immagini; volete rovesciare quest’ordine? No certo! Cosa sai tu della nobiltà che Dio ha posto nell’anima, e che ancora non è stata completamente descritta, ma è ancora nascosta? Infatti, quelli che hanno descritto le nobili proprietà dell’anima, non erano ancora andati oltre al punto in cui li aveva condotti la loro ragione naturale; non erano mai giunti nel fondo: perciò molto doveva loro rimaner nascosto e sconosciuto. Ecco perché il profeta disse: « Voglio sedere e tacere, ed ascoltare quel che Dio dice in me ». Perché è così nascosta, perciò venne questa parola nella notte, nella tenebra. San Giovanni dice: « La luce risplendette nella tenebra; essa venne nella sua proprietà, e tutti quelli che la accolsero ebbero il potere di diventare figli di Dio ».
Notate ora l’utilità e il frutto di questa parola segreta e di questa tenebra. Non solo il Figlio del Padre celeste viene generato in questa tenebra, che è suo luogo proprio: anche tu sei là generato come figlio dello stesso Padre celeste, e in nessun altro modo, ed egli dà anche a te quel potere. Riconosci ora quanto grande è questa utilità! In tutta la verità che ogni maestro, con la propria ragione e conoscenza, ha mai insegnato o mai insegnerà fino al giorno del Giudizio, non ha mai compreso neppure la più piccola parte di questo sapere e di questo fondo. Anche se può chiamarsi un non-sapere, un non-conoscere, esso contiene tuttavia molto di più di ogni sapere e di ogni conoscenza al di fuori di esso. Infatti questo non-sapere ti attira e conduce lontano da tutte le conoscenze ed anche da te stesso. Ciò intendeva Cristo, quando disse: « Chi non rinnega se stesso e non lascia padre e madre e tutto quel che è esteriore, non è degno di me », come se dicesse: chi non abbandona tutta la esteriorità delle creature, non può essere concepito né generato in questa divina nascita. Ti ci conduce, invece, davvero, il fatto di spogliarti di te stesso e di tutto quel che è esteriore. Veramente io credo e sono certo che l’uomo che permanesse saldamente in questa posizione, non potrebbe mai essere separato da Dio, in nessun modo. Io dico che non può assolutamente cadere in peccato mortale: vorrebbe piuttosto soffrire la più atroce delle morti, che compiere il più piccolo dei peccati mortali, come del resto hanno fatto i santi. Io dico, anzi, che egli non potrebbe, neppure una volta, compiere un peccato veniale volontariamente, o permetterlo ad altri, potendolo impedire. Un tale uomo diventa così rivolto, attirato ed abituato a quello soltanto – cioè a Dio – che non si potrebbe rivolgere su un altro sentiero, distogliendo tutti i suoi sensi e le sue forze da quello.
In questa nascita ci aiuti Dio, che oggi è nato di nuovo come uomo. Che egli ci aiuti nell’eterno, perché noi, deboli creature, nasciamo in lui divinamente. Amen.

Publié dans:meditazioni, MISTICA |on 20 mars, 2014 |Pas de commentaires »

STAREC SILVANO DELL’ATHOS – NON DISPERARE!

http://www.gianfrancobertagni.it/Discipline/misticacristiana.htm

STAREC SILVANO DELL’ATHOS

NON DISPERARE!

Il Signore chiama al pentimento l’anima che ha peccato: se essa ritorna al Signore, questi nella sua misericordia la accoglie e le si manifesta. L’anima di un tale uomo ha conosciuto Dio, il Dio buono, pietoso e dolcissimo (cf. Sal 103,8), lo ha amato intensamente e, insaziabile, anela a lui con amore ardente e totale: né giorno né notte, nemmeno per un attimo riesce a separarsi da lui. Quando invece la grazia viene meno, a cosa paragonerò il dolore dell’anima? Con struggente invocazione si rivolge a Dio perché faccia tornare in lei la grazia di cui già ha potuto gustare tutta la dolcezza. Straordinario! Il Signore non ha dimenticato me, sua creatura caduta! C’è chi si dispera perché crede che il Signore non perdonerà il suo peccato. Ma pensieri simili vengono dall’avversario. La misericordia del Signore è tale che noi non riusciamo neanche a percepirla in pienezza. L’anima che nello Spirito santo è stata colmata dall’amore di Dio conosce davvero lo smisurato amore del Signore per l’uomo. Ma quando smarrisce questo amore, allora è angosciata, affranta: la mente non pensa ad altro ma cerca Dio solo.  Un diacono un giorno mi raccontava: “Ho visto Satana vestito da angelo di luce e mi ha lusingato dicendomi: ‘Io amo gli ambiziosi: saranno mia proprietà! Tu sei ambizioso e perciò ti prenderò con me!’. Ma io gli risposi: ‘Sono il peggiore di tutti’. Satana, allora, immediatamente sparì”. Anch’io ho vissuto qualcosa di simile quando mi apparvero i demoni. Nella mia paura esclamai: “Signore, vedi che i demoni mi impediscono di pregare. Dimmi tu cosa fare perché fuggano lontano da me”. E il Signore mi confidò: “I demoni non cessano di tormentare le anime orgogliose”. Replicai: “Signore, illuminami: quali pensieri renderanno umile la mia anima?”. Questa la risposta che ricevetti: “Tieni il tuo spirito agli inferi, e non disperare!”. Da allora iniziai a fare così e tutto il mio essere ha trovato pace in Dio. L’anima mia impara l’umiltà dal Signore. Mistero insondabile: il Signore mi si è manifestato e ha ferito il mio cuore con il suo amore, poi si è nascosto e ora la mia anima anela a Dio giorno e notte (cf. Sal 42,2 ss.). Egli, come pastore buono e misericordioso, è venuto a cercare me, la sua pecora ferita dai lupi, e mi ha curato.

Publié dans:MISTICA, Ortodossia |on 27 février, 2014 |Pas de commentaires »

LA MISTICA DI DUNS SCOTO

http://www.centrodunsscoto.it/la_mistica-il_metodo.htm

LA MISTICA DI DUNS SCOTO

IL METODO

(Giovanni Lauriola ofm)

I- IL SILENZIO
Senza entrare in merito alle delicatissime analisi del mistero di Dio, Uno e Trino, che si rivela nella Parola uscita dall’eterno silenzio, il Verbo incarnato, piace meditare su alcune conseguenze di questa meravigliosa intuizione storico-teologica, che va sotto il nome di Cristocentrismo, fondamento e apice della dottrina spirituale di Duns Scoto. Per il Maestro francescano, Cristo è la prima conoscenza della fede rivelata, è il cuore della rivelazione di Dio, è il massimo dell’epifania di Dio. In quanto vera immagine del Padre invisibile, Cristo rivela il Padre per chi crede e lo nasconde per chi non crede. Cristo è la Via per vedere e andare al Padre. Il credente raggiunge il Rivelato, attraverso il Rivelante, e grazie a lui e per mezzo di lui s’incammina verso il silenzio arcano del Padre.
Nella visione spirituale di Duns Scoto, la persona di Cristo spicca nella sua posizione singolare e unica tra Dio e l’uomo, come principio di tutte le cose, come fonte e giustificazione di ogni esistenza, come causa efficiente e finale di tutta la creazione, e come sovrano assoluto dell’intero regno dell’essere. Con potenza speculativa ardita e inaudita a un tempo, Duns Scoto osa umilmente penetrare con la suo potente speculazione amorosa direttamente nel cuore dell’agire divino e, sempre con umiltà del saggio, balbetta l’ordine logico e ontologico intravisto nel silenzio sublime di Dio. E’ la più grande conquista mistica della storia. Scrive:
Dio in primo luogo ama se stesso. (E` il silenzio di Dio, Uno e Trino!).
Dio in secondo luogo ama se stesso negli altri ( E` il silenzio di Dio che intende rivelarsi fuori di sé!).
Dio in terzo luogo vuole essere amato da un altro che può amarlo in modo sommo. (E` il silenzio di Dio che si rivela nella Parola del Cristo!).
Dio in quarto luogo prevede e vuole l’unione ipostatica di Cristo, indipendentemente dal peccato. (E` il silenzio di Dio che si attualizza nella Parola espressa del Cristo!).
Da questa chiave ermeneutica della mistica di Duns Scoto, piace offrire qualche riflessione sul valore e sul significato del silenzio esistenziale come condizione indispensabile per ascoltare Cristo attraverso le creature e salire a Dio.

1- Che cosa è il silenzio?
Il silenzio non è certamente un fenomeno semplice, anzi è un fenomeno molto complesso e difficile da definirsi. La sua complessità dipende dal fatto che può assumere molteplici significati. Come la parola, anche il silenzio deve essere sottoposto a un lavoro ermeneutico.
Senza entrare nel ginepraio delle distinzioni date al termine silenzio, limito la sua semantica solo a quella di natura filosofica, cioè a quel significato che da un lato delimita i poteri dell’uomo verso la trascendenza e dall’altro lo apre alla sua possibilità. Il silenzio ontologico diventa così anche condizione di comunicazione essenziale. Di questo significato del silenzio è maestro Duns Scoto, benché non ne abbia parlato direttamente.
Si può descrivere il silenzio filosofico come il comportamento umano indispensabile per ascoltare la Parola di Cristo. E come tale, il silenzio non riguarda un aspetto particolare dell’atteggiamento umano, ma impegna tutta intera la persona, nella sua complessa e indecifrabile personalità. Come ognuno è la sua personalità, così ognuno ha il suo silenzio. Il silenzio è personale. Fare silenzio non è mai qualcosa di comune, ma sempre di personalizzato: il “mio” silenzio è diverso dal “tuo”, dal “suo”… perché diverse sono le personalità che lo vivono.
Questo tentativo di comunicare, per es., il “mio” silenzio, fatto parola, nasconde sempre qualcosa di rischioso; il rischio che la parola resti imcompresa o rifiutata, dal momento che tra chi parla e chi ascolta non c’è conoscenza abbastanza per comprendersi. Così, attraverso l’esperienza mistica scotiana, tentarò di lanciare il ”mio” silenzio dentro il “tuo” spazio interiore, cioè far trapassare la parola-silenzio dal mio raccoglimento al tuo raccoglimento, secondo la dialettica della comunicazione.
In questo scambio di comprensione e di interiorizzazione, la “parola” diventa l’occasione di un “fecondarsi parlando”: il seme della parola cade nella profondità interiore e vi germoglia, e ritorna fecondato per fecondarmi ancora. E’ la mistica gestazione bilaterale dell’amore del silenzio. E’ la fecondità del silenzio amoroso e amorevole, che costituisce il sentimento fondamentale dell’esperienza di Duns Scoto.
Da questo intreccio amore-silenzio-amore si possono ricavare alcuni concetti basilari o chiave della vita spirituale e mistica:

- senza amore non c’è silenzio,
- senza amore non c’è parola,
- senza amore non c’è comunicazione,
- dove non c’è amore, c’è sterile mutismo.

Il senso di queste caratteristiche del silenzio cristico vuole si accetti la manchevolezza e la povertà della parola che viene comunicata, perché non può essere comunicata interamente. Quel che conta in questo scambio di parola-silenzio è la rettitudine, la sincerità, la semplicità nel donare, e l’impegno sincero puro e generoso a voler ascoltare, come l’amante l’amato.
Il rischio della comunicazione, perciò, può essere alleviato unicamente con e nell’amore. L’amore è silenzio. L’amore è silenzio del tempo e dello spazio. L’amore è silenzio della mente e della volontà. L’amore comunica con il silenzio. Il silenzio è la parola dell’amore. L’esperienza è maestra dell’amore. L’amore non è insegnabile. L’amore è personale. L’amore s’impara amando.
L’amore, però, non è solo silenzio. L’amore è anche parola. Caratteristica essenziale dell’amore è la diffusività: Dio ama se stesso e vuole essere amato da altri coamanti, dice Duns Scoto. L’esperienza del silenzio cristologico di Duns Scoto poggia proprio su questa caratteristica ontologica dell’amore. Nasce così la speranza che essa possa divenire seme di parola-silenzio per la vita degli altri che ascoltano.

2- Divisione del silenzio
Secondo l’antropologia di Duns Scoto, il silenzio può considerarsi su due piani principali e distinti, quello esterno e quello interno. Il silenzio esterno è necessario per giungere al dominio e alla quiete della persona umana nei suoi movimenti esterni; il silenzio interno, invece, è necessario per acquistare il pieno possesso delle facoltà interiori, ossia il proprio autodominio. Pur non essendo legati da rapporti causali, i due tipi di silenzio si completano per favorire l’apertura della relazione con Dio.
Il silenzio esterno è necessario come il raccoglimento e la solitudine, ma non sempre tuttavia è sufficiente per il pieno sviluppo della maturità spirituale. Si può suddividere in silenzio esterno della parola e in silenzio esterno nel lavoro.
Il “silenzio esterno della parola” significa, ovviamente parlare poco con le creature e delle creature e tentare di parlare con e di Dio. La parola, infatti, esteriorizza pensieri e sentimenti, svuotando l’anima di ciò che possiede di più intimo e di più personale. Le molte parole, specialmente quelle vuote e senza senso, la rendono superficiale e indeboliscono le sue capacità interiori di perfezionamento. In proposito, è conveniente sorvegliare il tono della voce e di servirsi con calma della parola. Bisagna tentare di essere molto delicati e molto discreti. Si può consigliare: parlare poco e fare molto silenzio; impegnarsi a fare il « proprio » silenzio, per assicurare emulazione e comunicazione in comunità.
Il “silenzio esterno nel lavoro” implica l’esercizio di attività non molto rumorose e rifiuta ogni forma di attivismo esagerato, perché turbano la pace dell’anima, nel senso che l’anima perde la sensibilità nel contatto con Dio, rendendosi incapace di ascoltare la voce di Dio, sia quella diretta che quella indiretta.
Una precisazione.
Non bisogna confondere il silenzio esterno con il “mutismo”, che è una falsa forma di silenzio. Il mutismo, infatti, può essere uno pseudo-silenzio di risentimento, di rancore, di odio, di durezza di cuore, di egoismo… Tutte queste forme di falso silenzio sono, invece, altrettante forme di mancanza di carità, e possono portare a una forma pericolosa di isolamento, non solo esteriore ma soprattutto spirituale.
Il silenzio interiore, che fondamentalmente è non desiderare qualcosa, non volere qualcosa, si può suddividere in tre forme principali: dell’immaginazione, del cuore e della mente.
Silenzio dell’immaginazione e della memoria. Poiché l’incontro con Dio esige mancanza di distrazioni e di dissipazioni, necessita un controllo effettivo sulla stessa attività interiore, che si realizza unicamente con il così detto “silenzio dell’ immaginazione” e “silenzio della memoria”. La pratica del silenzio dell’immaginazione crea il vuoto nelle potenze interiori, assicurando così la possibikità del raccoglimento attivo, come condizione per ascoltare la voce di Dio. Fare il vuoto-silenzio dentro di sé, controllando immaginazione e memoria, significa scavare il “pozzo” interiore, idoneo a essere riempito dallo zampillo dello spirito.
Silenzio del cuore. Il sicuro controllo di ogni affetto naturale che si manifesta in pensieri, conversazioni interiori, desideri audaci… costituisce il silenzio del cuore, che orienta l’anima verso Dio mediante un movimento di fede e di amore. Bisogna controllare i desideri di soddisfazioni contrarie alla volontà di Dio, come ad es., piaceri di soddisfazione, preferenze nei rapporti con gli altri, simpatie particolari… Sul piano spirituale, invece, occorre saper controllare, moderare e mortificare la devozione troppo ardente, come ad es., moltiplicazione di preghiere e di penitenze…; e saper accettare le purificazioni interiori dei sensi, mediante un auto-controllo sereno e responsabile delle proprie manifestazioni esterne. Desiderare la perfezione, l’ideale, la verità, la giustizia, la pace, la serenità, la tranquillità ecc. valori tutti positivi che aprono maggiormente il cuore verso Dio e verso gli altri. Desiderare il bene, la bellezza, la sapienza, la saggezza… Desiderare in una parola Dio stesso.
Silenzio della mente. Il silenzio della mente consiste nel liberare l’intelletto da ogni ragionamento e da ogni giudizio, da ogni ricerca intellettuale e da ogni intenzione estranea a Dio. Può riassumersi in un solo atto: liberarsi da sé per aprirsi all’ascolto di Dio, cioè a ricevere l’irradiazione della luce di Dio ed abbandonarsi dolcemente e sicuramente in Dio stesso.
Con il silenzio della mente si è in piena contemplazione. Si controlla la molla della vita. Si proietta nel mistero della sua causa . La vita contemplativa è la vita dell’intelletto non più ripiegato su se stesso, ma orientato e proteso verso la sua stessa origine. E’ la contemplazione di Dio stesso. E’ l’abbandono in Dio.
È il silenzio di sé di fronte al Silenzio-Parola di Dio.

3- I frutti del silenzio
Tra i frutti più belli e significativi del silenzio scotistico piace richiamare l’attenzione sul “raccoglimento”, sulla “riflessione”, sulla “contemplazione” e sulla « preghiera ».
Il raccoglimento. Una volta creato il silenzio attorno e dentro di sé, lo spirito è “raccolto” in sé, ossia sente pensa vuole agisce sempre in presenza di se stesso, delle essenzialità delle cose, degli altri e di Cristo: muove dalla sua interiorità e vi permane per tutta la vita interiore. Il “raccoglimento” riguarda il cuore e la mente. Si “raccolgono” i propri affetti, i propri desideri, i propri sentimenti, e si “ordinano” secondo la gerarchia dell’essere, affinché non siano dissipati e non si sciupino nella dissipazione, e non sviino i pensieri e gli impegni. È saper rimaner solo con se stesso
La natura del raccoglimento è spirituale, cioè è apertura ontologica all’altro: raccogliendosi, ci si orienta verso se stesso, verso gli altri e verso Dio. Il raccoglimento diventa così la prova sperimentale della propria esistenza e del proprio amore. E’ la così detta “prova d’amore”: amare tutto e tutti senza disperdersi, e nello stesso tempo senza sacrificare niente dell’essenzialità delle cose, ossia amare ordinatamente gli enti secondo il loro gardo di essere. Il raccoglimento è la prova della concretezza e dell’integralità dell’amore. In questo modo, il raccoglimento diventa “purificazione” del cuore e della mente: non dissipa gli affetti ma li ordina, non disperde i pensieri ma li raccoglie; è anche « purificazione » della volontà, che diventa sempre più se stessa, più pura e più libera, secondo la beatitudine evangelica dei « Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio ».
Il raccoglimento è anche opera di “semplificazione” dell’esistenza, perché non è solo ordine e chiarezza dei sentimenti, dei desideri e dei pensieri, ma anche “approfondimento”. La persona “raccolta” accoglie tutto nel suo raccoglimento di ordine e chiarezza, nel senso che sa rinunciare al “rumore” del caos e della confusione, per il “suono” dell’ordinato silenzio, che è la profondità di tutte le parole e di tutte le cose..
La persona raccolta coglie il frutto del suo impegno specialmente nel fare tutto con amore e semplicità, senza uscire fuori del suo raccoglimento, in quanto non viene disturbata dal fare, dal vedere, dal toccare… La persona raccolta non è distratta, perché, non concentrata in una sola cosa e libera da un impegno esclusivo, può impegnarsi con calma tranquillità e diligenza in ogni cosa o occupazione…
La persona raccolta è presente a tutto, perché è presente a se stesso, agli altri e a Cristo. Vivere nel raccoglimento è vivere nel presente, ascoltare tutte le voci che chiamano, tutte le parole che suonano, tutte le cose che parlano con il loro silenzio muto, tutti gli avvenimenti che ci interpellano con la loro forza e prepotenza ecc. Nessuno, quindi, è più presente a se stesso, al mondo e a Cristo della persona che vive raccolta. Il raccoglimento non allontana dal mondo, ma invita a distendersi nel mondo, a occuparsi del mondo, in base alla propria maturità interiore e alla specifica propria professionalità, che sono poggiate su Dio, il sempre Presente in ogni presenza, perché Egli È. Così si realizza l’evangelico « stare nel mondo, senza essere del mondo ».
La riflessione. Un secondo frutto del silenzio-amore cristico è la “riflessione”. A suo fondamento c’è l’attenzione, ossia quella disposizione spirituale a voler conoscere qualcosa, quel disporsi a interpretare un linguaggio e a trascriverlo nel proprio linguaggio. L’attenzione è la fase del “cercare leggendo”. Alla ricerca subentra la riflessione che, come atto dello spirito su se stesso mediante la “cosa” ricercata leggendo, esercita l’atto della riflessione o ripiegamento spirituale di se stesso su se stesso.
Poiché con la riflessione si può conoscere qualcosa, senza conoscere tutto, si può anche credere di aver conosciuto ed essere nell’errore. Questo vuol dire che la riflessione non è solo certezza, ma anche dubbio, anzi procede dubitando. La riflessione, in altre parole è critica: serve per risolvere i dubbi, nella continua ricerca senza esaurirla mai, una volta per sempre.
La meditazione. L’approfondimento della riflessione produce il meraviglioso frutto della “meditazione”, ossia di quell’attività dello spirito che pone di fronte a una scoperta essenziale, a una verità decisiva, che impegna il senso e l’essere stesso dell’esistenza e della personalità. Con la meditazione si trovano verità che già sono presenti nello spirito, senza esserne posseduti interamente. La verità possiede, ma non è posseduta. La verità è più data che conquistata. La verià è all’inizio e non al termine della ricerca. Come a dire: la verità-mistero è meno oggetto di riflessione che di meditazione, più di fede che di ragione.
Di fronte alle verità importanti ed essenziali, scoperte e vissute nell’intensità della meditazione, il pensiero umano dichiara la sua insufficienza a “contenerle”, cioè a capirle, anzi vi si trova “contenuto”. Meditare allora significa trovare e meditare ancora su quel che si è trovato. La meditazione sulle verità essenziali è perpetua e si trasforma in invocazione e in preghiera della verità trovata. La verità è la « perla » preziosa del Vangelo…
La preghiera. Lo sforzo del meditare si allenta; la mente si nasconde umilmente nel suo niente, rientra in se stessa e si abbandona pregando alla sua verità; la mente si dischiude e si distende: il momento meditativo sta cedendo il passo all’invocazione e alla preghiera. E’ il momento della preghiera semplice (o speciale); è il momento della contemplazione, ossia è il momento della mente che solleva lo sguardo da se stessa; è il momento dell’esistenza pura e integrale; è il momento in cui la verità apre le sue porte e si rivela personalmente allo spirito. E’, in altre parole, il momento della relazione personale con Dio, in Cristo.
Il momento della conteplazione è il momento della maturità spirituale: solo chi sa contemplare le verità essenziali, sa meditare sulla verità, sa conoscere le verità parziali e apprezzare anche le più piccole cose, tutte degne di riflessione, di meditazione e di contemplazione amorosa, perché tutte le vede procedere da Dio come creazione continua in Cristo, e tutte le contempla presenti in Cristo e per Cristo.
Chi contempla Dio, in Cristo, signoreggia il mondo intero, perché tutto obbedisce a chi si assoggetta a Dio. L’esempio di Francesco e di Chiara lievita tutta la meditazione sul silenzio esistenziale interpretato scotianamente, in cui pensare e pregare, pregare e pensare convolano a unità: ora et cogita, cogita et ora.

II- LA POVERTA’ DI SPIRITO
Tra il silenzio esistenziale e la povertà di spirito c’è, secondo Duns Scoto, una profonda identità ontologica. Entrambi sono condizioni essenziali per ascoltare la voce di Cristo. Egli stabilisce l’equazione: dove c’è silenzio, c’è povertà; e dove c’è povertà, c’è silenzio. Intuizione che aiuta con più profondità a conoscere le vie o mezzi per amare con più sicurezza il Signore.
Nel contesto dell’analisi sul « settenario » delle virtù, Duns Scoto afferma che i “consigli evengelici”, pur essendo d’origine divina, non sono virtù infuse, ma acquisite o scelte dall’uomo. In quanto consigli, appartengono all’ambito della fede, nel senso che nessuno è necessariamente obbligato a viverli, e neppure a disprezzarli.
Il tema della povertà costituisce certamente il fiore francescano più bello, più suggestivo, più mistico, più sublime che impressiona e affascina continuamente. La povertà-per-amore-di Cristo povero e nudo costituisce la via cheFrancesco e Chiara hanno percorso per andare al Padre. Francesco « sposa » madonna Povertà! Chiara « sposa » addirittura il Cristo crocifisso, nudo e povero! Due espressioni di povertà-per-amore scotianamente detti « cristiformi ». Al di fuori di questa cornice opzionale cristica non si può comprendere la forma di vita esistenziale né di Chiara né di Francesco.
Chiara afferma che la povertà non si identifica solo nella mancanza di beni materiali, cioè con la povertà-di, ma soprattutto nel “godere” tale mancanza per amore di Cristo, ovvero con la povertà-per. Nasce il senso della letizia francescano-clariano, che libera alla radice il cuore dell’uomo per offrirlo nudo a Cristo in un atto di fede nuda e di amore generoso. Sarebbe un grave errore ermeneutico, guardare la povertà clariana solo nella dimensione del « di », isolandola dalla dimensione del « per » o dalla realtà vissuta con affetto amorevole e amoroso da Chiara, cioè Cristo e Cristo crocifisso. Senza Cristo non si spiega né Francesco né Chiara, né i loro ideali, né le loro forme di vita povere e liete.
La povertà clariana, proprio perché nasce da un atto di amore-per Cristo povero e nudo, svolge una duplice azione: da un lato svuota il cuore di Chiara da tutto ciò che può contrastare o turbare il suo amore a Cristo, ossia fa silenzio in sé e fuori di sé; e dall’altro lo riempie dell’amore di Cristo, spalancandolo inebriato di gioia sul mondo intero. È l’amore per Cristo e di Cristo che riempie di soave letizia il cuore e l’intera persona di Chiara. Senza la presenza totalizzante di Cristo non si può comprendere né la vita di Chiara né il suo privilegio paupertatis, che ancora incanta e affascina l’uomo d’oggi.
Il privilegio della povertà di Chiara non deve esssere visto come un semplice documento giuridico, che non avrebbe senso, ma unicamente come elemento indispensabile per poter realizzare la sua scelta esistenziale di amore-per Cristo povero. La motivazione: Cristo ha scelto di vivere una vita povera. L’insistenza di Chiara sul privilegio della povertà è una riprova del suo amore amorevole verso Cristo, cioè il suo sviscerato desiderio di condividere fino in fondo le condizioni del suo Amore, povero e nudo.
Solo con il carisma dell’autorità della Chiesa, Chiara si sente definitivemente sicura di aver adempiuto al suo impegno d’amore-per Cristo crocifisso. È come se avesse ricevuto dalla Sposa di Cristo il crisma del Crocifisso al suo ideale di fede e di amore. Il privilegio della povertà esprime anche al massimo grado il silenzio radicale di Chiara, che così si sente idonea a essere riempita dall’amore del suo Amore crocifisso.
Enigmatico è anche l’episodio biografico della sua morte solo due giorni dopo aver avuto il tanto desiderato « privilegio ». Tutta la sua vita è stata una lunga attesa fiduciosa di poter coronare il suo sogno d’amore. E dato che gli ultimi ventinove anni, Chiara li ha vissuti nel disagio della grave malattia, è possibile pensare che la sua vita sia stata sostenuta dal forte desiderio di ricevere l’autorizzazione della Chiesa a vivere ufficialmente nella massima conformità al suo Sposo crocifisso, povero e nudo.
Che cosa chiedeva Chiara con il privilegio della povertà?
Di vivere semplicemente senza privilegi e senza garanzie, come il suo Sposo, Cristo, che non aveva neppure una pietra per posare il capo!
I tanti temporeggiamenti da parte del cardinale Ugolino e del papa Gregorio IX non valsero a colmare il desiderio amoroso di Chiara, che, fedele a Francesco, anelava direttamente a possedere il Cristo crocifisso. Finalmente il 9 agosto 1253, papa Innocenzo IV concede il tanto privilegio, che segna la nascita definitiva dell’Ordine delle Povere Dame di S. Damiano, o Secondo Ordine francescano.
Su questi brevissimi riferimenti clariani sull’amore alla povertà cristica, piace offrire una meditazione sulla povertà, intesa meno come mancanza di beni materiali che come silenzio esistenziale. L’importanza della sua attualità non sfugge a nessuno, dal momento che oggi sembra perduto il riferimento alle autentiche radici di fede e di amore della povertà. Senza la sua origine di fede si perde il suo valore spirituale, è come se venisse snaturata e sradicata dalle sue autentiche radici cristiche. La povertà in se stessa non ha alcun valore, anzi è un disvalore. Francesco e Chiara ne sono una testimonianza vivente, che in Duns Scoto riceve la conferma dottrinale.

1). La povertà di fronte a Dio
L’analisi del “silenzio cristico” come condizione indispensabile per ascoltare la voce di Cristo, ha portato alla considerazione che esso s’identifica con il concetto di “povertà di spirito”, che Gesù, all’inizio del discorso della montagna, pone come condizione indispensabile per entrare nel regno dei cieli: “Beati i poveri di spirito, perché di essi è il regno dei cieli”. Con questa prima beatitudine, viene stigmatizzato il “vero” povero: povero di spirito, povero di desiderio, povero di sé, povero per amore, aperto agli altri e aperto a Dio.
Il povero della prima beatitudine evangelica è colui che è convinto profondamente di essere nulla davanti a Dio e vive di conseguenza: attende tutto dal Tutto, come un mendicante. Per lui Dio è tutto e fa tutto. Il povero si considera una liberalità di Dio, una elemosina di Dio, un dono di Dio: è fortemente persuaso che Dio si degna di operare in lui, con lui e per mezzo di lui.
In questo senso originario e ontologico, l’uomo per sua natura è il povero di Dio, che attende da Dio il suo essere e il suo agire, è il mendicante di Dio. Il vero uomo, che coincide con il vero povero ontologico, quindi, è profondamente convinto di essere e di vivere in Dio, di muoversi in Dio e di appartenere a Dio. L’uomo povero possiede quel che possiede -esistenza, attività, ragion d’essere, scopo della vita…- unicamente da Dio, per Cristo e in Cristo.
A che serve questa pennellata ontologica e scotiana sull’essere dell’uomo?
A rinfrescare la mente dell’uomo sulla sua vera e autentica origine. Certo, tutti sappiamo di essere dipendenti almeno nell’essere fontale da Dio, ma non tutti vi pensiamo seriamente da influenzare la propria vita pratica o di progettarla in tale prospettiva.
Duns Scoto paragona l’uomo a un albero. E’ radicato alla terra mediante le radici e con la testa sospesa nel vuoto, nel cielo. Vive come se fosse certo di essere padrone di se stesso. Effettivamente si sente padrone: vive, agisce, si muove, si agita, va e viene, pensa e parla liberamente, vuole e disvuole, ama e odia… La sua autonomia non è una illusione, ma una realtà.
Tuttavia, tale spiccata autonomia è un dono di Cristo. Pur donando l’uomo a se stesso, Cristo non può alienare il suo diritto sull’uomo. Non perché non lo possa fare, ma unicamente per incapacità da parte dell’uomo di poter sopportare tutto il peso del proprio essere su se stesso. Se Cristo alienasse il suo diritto, cioè la sua presenza, l’uomo ricadrebbe nel nulla donde è stato chiamato liberamente da Dio stesso, in Cristo. In altre parole, è soltanto per Cristo e in Cristo, e in forza della sua immanenza, della sua continua e attiva presenza come causa dell’esistenza e dell’attività, che l’uomo è vive agisce ecc. E’ la continuità del dono di Cristo che fa esistere vivere ed essere l’uomo. Dono che si personifica nel concetto di imago Christi; Cristo è il vero e autentico dono di Dio, è il suo Capolavoro. La concretezza dell’uomo diventa realtà solo in rapporto a Cristo, vero Uomo, da cui tutti gli altri ricevono l’imago.
A tutto questo dono-mistero, l’uomo non pensa abbastanza o non pensa seriamente. Non riflette che, in effetti, la sua dipendenza ontologica costituisce contemporaneamente la « radice » e la « chioma » della sua esistenza. Oggi, invece, l’uomo tende di respingere tale originaria dipendenza e tende di proclamare la sua assoluta libertà, con tutte le nefaste conseguenze che la storia quotidiana registra.
L’uomo, che comprende la sua radice ontologica e l’accetta con gioia, eleva il titolo onorifico più alto e più bello di se stesso e a se stesso: si apre all’ascolto della voce di Cristo, fa vivere Cristo in se stesso e per mezzo di sé. L’uomo autentico, quindi, è l’uomo povero che sa sprofondarsi nell’abisso silente di Dio con tutta la sua fede, con tutto il suo amore. Egli ha la coscienza di partecipare in Cristo all’essere di Dio, alla natura di Dio e all’attività di Dio. E in questo modo, l’uomo, autentico-povero, diventa la storica testimonianza dell’opera dello Spirito Santo in lui.
L’uomo autentico non solo scopre e riconosce la sua dipendenza radicale, ma accetta con gioia la propria nullità e proclama la propria povertà. In questa profonda e genuina consapevolezza scopre anche e riconosce la fraternità universale non solo con i propri simili, ma con le creature tutte, perché, come lui, ricevono continuamente esistenza vita ed energia da Dio. L’uomo autentico, o l’uomo povero, si autoscopre, perciò, una elemosina di Dio, un dono di Dio in Cristo.
Tra gli esempi più classici di poveri davanti a Dio, piace semplicemente indicare, senza analizzarli, quelli di Cristo, di Maria, di Francesco e di Chiara. La povertà di Cristo è divina: da Dio si fece anche Uomo. Non solo. Da Uomo, si spoglia di ogni dignità e di ogni immunità, e sceglie di morire nudo sulla nuda croce per la salvezza dell’uomo. La povertà di Cristo è un modello di come si arricchisce davanti a Dio.
Facile è il riferimento alla povertà di Maria, che da Betlemme al Golgota, vive della povertà del Figlio e riceve da Lui l’ultimo sigillo dalla Croce… In quanto Madre del Povero, diviene anche Madre dei poveri e degli umili, come documenta tutta la sua esistenza, sintetizzata nell’inno del Magnificat.
Meraviglioso appare la povertà di Francesco d’Assisi. Personalizzando la Povertà, la sceglie come sposa. Quale significato attribuire a tale sposalizio simbolico? Quando Francesco si riebbe dall’estasi che gli aveva rivelato il senso autentico di una verità a tutti nota ma verso cui si resta indifferenti, egli ebbe chiara la coscienza della sua essenziale e assoluta dipendenza da Dio, e della propria assoluta ed essenziale indigenza o povertà. Aveva intuito Francesco che Dio è tutto e lui nulla. Francesco si è scoperto un mendicante di Dio, una elemosina di Dio. Onde la sua preghiera semplice e significativa: mio Dio e mio Tutto.
Francesco si è autoconsiderato povero davanti a Dio. E’ la dimensione onto-teologica della povertà come condizione per ascoltare la voce di Dio direttamente e indirettamente. In quanto povero in spirito e povero di desiderio, Francesco, ricco d’amore e di fede, ha camminato verso Dio.
Chiara, seguendo le orme di Francesco, si sposa direttamente con lo Sposo povero e nudo, Cristo crocifisso, e vive insieme alla Madre della povertà, Maria Vergine. Tutta la sua vita gravita intorno alla povertà come atto di fede radicale e di amore puro verso il suo Amore. Arriva a pensare di farne il mezzo più sublime per restare unita a Cristo, chiedendo alla Chiesa la conferma del suo ideale, come di un privilegio: scegliere di vivere la povertà personificata dal suo Sposo, Cristo nudo.

2). Povero di fronte a se stesso
La difficoltà più grande che si incontra nella pratica della povertà è la povertà di fronte a se stesso, che costituisce la condizione sine qua non della storia della salvezza. L’essere povero-di-sé dinanzi a se stesso è l’affermazione più paradossale dell’insegnamento di Cristo.
L’essere povero-di-sé dinanzi-a-se-stesso non significa tanto avere consapevolezza di essere un nulla, ma proprio in forza di tale consapevolezza avere la volontà di vivere e agire come se si è qualcuno e si è qualcosa. Qui, il dilemma: essere nulla e pensare di essere qualcuno. E’ un dilemma che si risolve nel vivere e nell’agire non più per se stessi, ma accettare di vivere e agire per opera di Cristo e unicamente per Cristo, secondo la logica dell’amore paolino: non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me. Con la povertà-di-sé, si vive e si agisce per docilità di spirito, per amorosa corrispondenza d’amore, per collaborazione di colui dal quale si sa di avere tutto, esistenza energia e vita.
Per meglio cogliere questo senso profondo e autentico della povertà-di-sé, bisogna meditare l’espressione di Paolo “Se qualcuno crede di essere qualcosa, mentre è un nulla, seduce se stesso” (Gal 6, 3). La dimensione della povertà-di-sé non appartiene a questa o a quella religione, ma appartiene strutturalmente al singolo uomo in quanto uomo-creatura. Ha ricordato Paolo: se « un uomo » crede di essere qualcosa, inganna se stesso e si illude, poiché in verità è un nulla. Ciò che l’uomo ha ed è, è dono gratuito di Cristo, cui dovrà renderne conto nell’avvento finale. La povertà-di-sé è il rovescio della povertà-verso-Dio, cioè la dimensione ontologica dell’essere umano nei confronti di Dio in Cristo.
Questa della nullità ontologico-strutturale o povertà-di-sé è la condizione dell’esistenza, eppure è la meno conosciuta, la meno presente allo spirito, la meno familiare all’attività quotidiana, la meno utilizzata nelle devozioni… Invece: la povertà-di-sé è alla sorgente dell’esistenza autentica e della vera attività umana e spirituale.
Lo sforzo più difficile che Dio richiede dall’uomo in generale e dal religioso in particolare è la povertà di se stesso. Difatti: essere povero di sé dinanzi a Dio è già molto; essere povero di sé dinanzi al prossimo, con la dolcezza, la benignità, la mitezza… è ugualmente grande cosa; essere povero di sé di fronte alle cose, usandole come se non le si usasse, usarle unicamente per la gloria di Dio e per il benessere del prossimo… è quanto mai raro; ma essere povero di sé di fronte a se stesso è la cosa più ardua e difficile, perché si va alla radice stessa dell’essere: alla volontà, ossia volere di non volere. Si può essere, perciò, povero dinanzi a Dio, povero dinanzi agli uomini, povero dinanzi all’universo, senza essere povero di sé dinanzi a se stesso, cioè senza rinunciare veramente a se stessi; di conseguenza si può apparire povero quanto vuoi, ma restare terribilmente ricchi e proprietari di sé…
Come esemplificazione si tenga presente l’inno alla carità di Paolo (1Cor 13, 1-13) che calza molto bene. Perciò, abbandonare i beni materiali, a volte non richiede grande sforzo o sacrificio all’uomo; ma abbandonare se stesso esige uno sforzo continuo di fede che solo con la vera carità si può sopportarne il peso, che, in verità, diventa leggero e soave nel viverlo.
Nella logica del discorso della montagna è facile identificare “beati i poveri di spirito” con “beati i puri di cuore”. Il puro di cuore è colui che volontariamente si distacca da sé e si spoglia di sé. Unica condizione per vedere Dio non solo in cielo ma anche in terra, cioè in sé, negli altri e in ogni cosa.
Una domanda provocatoria: è sufficiente sapere tutto questo per essere povero?
Sarebbe troppo facile. Alla purezza dell’occhio interiore, ossia dello spirito, bisogna aggiungere la purezza di cuore. Fondamentalmente si ottiene la purezza di cuore mettendo in pratica ciò che si è conosciuto. Qui entra in causa la meravigliosa intuizione di Duns Scoto intorno alla praxis, che, puntando sulla unitarietà del sapere e del credere, chiama l’uomo alla coerenza: vivere l’oggetto della propria fede, secondo il credo ut condiligam.
E’ tutto un programma. Francesco e Chiara l’hanno realizzato! Duns Scoto l’ha vissuto sistemato e giustificato anche dottrinalmente.

3). I frutti della povertà
Tra i frutti più saporosi della povertà-silenzio cristico piace indicare soltanto la libertà, la letizia e la semplicità che tra loro sono interscambiabili e complementari.
La libertà. Il privilegio del povero, la ricompensa della povertà-silenzio per amore di Cristo e per amare Cristo, si possono trovare nelle parole di Paolo “Tutto posso in Colui che mi dà forza” (Fil 4, 13), che, tradotto in termini esistenziali, potrebbe significare: saper rimanere uguali in qualunque situazione di spirito e di corpo, di abbondanza e di penuria; sapersi accontentare di quanto si ha e di ciò che si è… L’uomo povero per amore è libero-da ed è disponibile alla libertà-per. La libertà, secondo la promessa di Gesù, coincide con la conquista della povertà di spirito su questa terra, per godere la beatitudine nei cieli. La beatitudine della povertà di spirito si identifica con la sovranità di essere liberi. Il povero-di-sé è libero, perché poggia la sua vita su Cristo. E, forte della sua potenza, diviene padrone di sé, del mondo, di Dio: è veramente libero.
Il povero, dunque, è libero. E’ libero, perché nulla più lo lega, lo vincola, lo trattiene. Nulla lo ritarda, nulla lo inquieta, nulla lo spaventa. Nulla lo appesantisce, nulla lo opprime, nulla lo domina, nulla lo polarizza. Il povero ha imparato ad accontentarsi di quello che ha: se si trova nell’abbondanza, non se ne lascia sopraffare; se si trova nell’indigenza, può vivere ugualmente; se ricade nella povertà, non si angustia; se si sazia, ne ringrazia Colui che gli concede la possibilità di nutrirsi; se affamato, sa sopportare… Il povero è convito che non di solo pane vive l’uomo, ma della parola creatrice di Dio che ne sostiene l’esistenza. E, secondo l’autorità di Paolo (1Tim 6,10), il povero di spirito possiede anche una rosa di virtù. Le principali: giustizia pietà fede carità pazienza mitezza…
La letizia. La povertà-di-spirito non è una croce che si accetta con rassegnazione, ma uno stile di vita che si ricerca con ardente desiderio, tanto da produrre quel delicato sentimento di gioia che va sotto il nome di letizia. La letizia è una virtù stabilizzatrice della serenità interiore in tutte le circostanze o situazioni della vita, come espressione di profonda libertà interiore. Solo chi non ha nulla, di effettivo e di affettivo, può essere lieto, in quanto non ha nulla da temere o da perdere, ma tutto da guadagnare. Chi non ha nulla di beni terreni possiede l’Autore stesso dei Beni. Francesco e Chiara ne sono un’espressione molto significativa.
La letizia sa ben coniugare povertà estrema e ricchezza sconfinata, svuotamento di sé e pienezza di Cristo, rinuncia e possesso, dolore e gioia, morte e slancio vitale. E questo perché la letizia è il punto di fusione di tutti i contrasti in Cristo. Chi è lieto riesce a vedere il mondo come il volto di Cristo, cioè ad ascoltare la voce di Dio attraverso qualsiasi creatura. Non ci sono specifiche caratteristiche o forme di letizia. Essa si irradia in molteplici aspetti, a seconda della personalità di ognuno. La letizia rende l’animo semplice e puro, atto cioè a vedere e ad ascoltare la voce di Cristo, perché fa amare tutto e tutti in Dio.
Ciò che è contrario alla letizia è certamente quel sentimento di protesta, di mormorazione, di lamentazione, di malcontento, di scatti non controllati quando ci tocca qualche privazione… e tutto ciò che è contrario alla povertà-di-spirito. La letizia, allora, coincide con la libertà. Solo chi è e si sente libero può ed è lieto.
Altro frutto della povertà-silenzio cristico è la semplicità. In senso filosofico, la semplicità coincide con la conclusione di una ricerca costante ed esclusiva di Dio, considerato all’inizio e al vertice della scala dell’essere e di ogni bene. La semplicità comporta una ricerca illuminata e guidata dall’amore. Sua caratteristica fondamentale: tradurre nella pratica l’oggetto di tale ricerca, ossia Dio. Chi agisce con semplicità non solo orienta a Dio la sua azione, ma la compie con rettitudine davanti ai suoi occhi. All’origine della semplicità si trova sempre una “scelta radicale” di Dio, che fa non-volere tutto ciò che non appartiene a Dio o a Cristo, secondo la gerarchia dell’essere.
La semplicità tende a liberare sempre più l’uomo dai pesi e dagli impacci che bloccano o rallentano l’ascesa verso Dio, nel senso che conduce l’uomo al “cuore” di ogni cosa o realtà, e lascia fuori o in secondo ordine tutto il resto. Manifestando una profonda unità interiore, la persona semplice vede tutte le cose alla luce di Dio e, quindi, esse appaiono nella loro originaria semplicità e bellezza. Caratteristiche che solo l’animo artistico poetico e metafisico sanno cogliere. Come a dire: che la persona semplice è nello stesso tempo artista poeta e metafisico; ovvero: saggio e sapiente, puro e semplice di cuore. Francesco e Chiara sono semplici e puri di cuore.
La semplicità, infatti, esprime quella caratteristica evangelica dell’infanzia spirituale: “Se non cambiate e non diventate come bambini, non entrerete nel regno di Dio” (Mt 18, 3). Con la semplicità, l’uomo si viene a trovare nelle condizioni ideali per imitare e seguire in modo integrale e incondizionato Cristo, attraverso l’assimilazione dei comportamenti profondi ed essenziali del suo insegnamento. In tale condizione di animo semplice, l’uomo porta continuamente davanti a sé l’immagine del Cristo, dal quale si lascia trasformare completamente e totalmente come lui vuole e come a lui piace: è il gioco della libertà e dell’amore.
La semplicità si coniuga mirabilmente con la sapienza, cioè con quella profonda convinzione di essere e di sentirsi amati da Dio e, quindi, di piacere a Dio pur essendo senza tecnica di umana cultura, ma pieni della sapienza celeste o essenziale, alimentata continuamente dall’azione dello Spirito Santo.
Una delle manifestazioni più caratteristiche della semplicità è certamente la “coerenza in ogni settore della vita”, che esclude ogni possibile discrepanza di atteggiamento, tra interiore ed esteriore, tra credere e agire, tra dire e fare, tra speculazione e pratica… La persona semplice si presenta con quella trasparenza cristallina che permette di vedere chiaramente dal di fuori ciò che avviene nell’intimo del cuore, dove solo Dio ha pieno accesso.
Oltre che frutto della povertà-di-spirito, la semplicità investe tutti i settori della vita, e costituisce la radice stessa di ogni agire e pensare. Più che una virtù o caratteristica acquisibile con umano sforzo, essa sembra meglio un dono, che Dio elargisce a coloro che sanno fare silenzio e vogliono essere poveri, per arricchirsi di Lui e per ascoltare la sua voce in ogni creatura, comunque espressa nella storia.
Il cuore e la mente della persona semplice sono, secondo Duns Scoto, sempre orientati verso Dio, per accogliere con prontezza ed entusiasmo ogni suo impulso o grazia, così da creare una disposizione generale di passività attivissima che sta alla radice della preghiera mistica o della contemplazione, mèta di ogni credente autentico.
In breve, secondo Duns Scoto, chi contempla Dio, in Cristo, signoreggia il mondo intero, perché tutto obbedisce a chi si assoggetta a Dio. L’esempio di Francesco e di Chiara lievita tutta la meditazione della mistica scotianamente, in cui pensare e pregare, pregare e pensare convolano a unità: ora et cogita, cogita et ora.
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Publié dans:MISTICA, San John Duns Scoto, Santi |on 7 novembre, 2013 |Pas de commentaires »

Il fuoco irritante della mistica (Divo Barsotti)

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Il fuoco irritante della mistica (Divo Barsotti)

di Paolo Giuntella

Maestro di fede per intere generazioni, don Divo Barsotti ha espresso una visione spirituale rigidamente cristocentrica. Per questo motivo, l’impegno sociale e anche il rinnovamento della Chiesa voluto dal Concilio sono, nelle sue pagine, questioni secondarie.
Appartiene, con don Mazzolari, don Milani, Carlo Carretto, don Tonino Bello, padre David Turoldo, alla pattuglia dei « campioni d’incassi »: gli autori cristiani più letti in Italia. I suoi libri, non solo venivano acquistati ma prestati, passati di mano in mano, tra affezionati lettori, nei gruppi parrocchiali e di preghiera, nei conventi. Ma sarebbe un errore considerare questi « libri dell’anima » come esclusiva delle librerie cattoliche, insomma come una lettura di sacrestia. Don Divo Barsotti, come don Primo, don Lorenzo, fratel Carlo, don Tonino, padre David, e pochi altri, ha sempre avuto lettori anche fuori dal tempio, oltre i recinti confessionali. Tuttavia non è stato un « testimone sociale », né un profeta dell’impegno politico per la trasformazione della terra, ma un mistico, un grande mistico e, proprio per questo, amato anche da persone che avevano passioni e preoccupazioni molto diverse, se non addirittura contrastanti.
Il cristianesimo di don Divo Barsotti era – ma dovremmo dire è perché continuerà a fermentare nei suoi libri e a vivere nella sua associazione, la Comunità dei Figli di Dio, che dalla Toscana si è dilatata a livello internazionale – rigidamente cristocentrico. Il cuore della vita cristiana è l’annuncio del Cristo, del Cristo Risorto. E per questo – almeno nei suoi libri, nelle sue meditazioni, nella sua predicazione, perché io non l’ho conosciuto personalmente – poteva diventare persino polemico nei confronti di una fede troppo riversata sulla sua dimensione politica, sociale, pubblica.
Come per tutti i grandi mistici, la tensione, lo scopo della vita, la speranza sono tutti concentrati verso una sola direzione: «Essere una cosa sola con Gesù. Che Gesù sia veramente la forza della nostra vita, la gioia unica della nostra esistenza, l’unica nostra speranza, l’unico nostro amore. Tutto deve avere termine in lui, perché anche la nostra vocazione è una sola, quella di divenire una cosa sola con lui. Non c’è altra vocazione del cristianesimo che questa, ed è la vocazione più alta che noi possiamo ricevere».
Se il centro dell’esperienza cristiana è il Cristo risorto, l’eucarestia cuore della presenza eterna ma già qui e ora per i credenti, l’impegno sociale e politico, la stessa riforma o rinnovamento della Chiesa – e dunque anche il Concilio Vaticano II – diventavano secondari. Semmai sono la conseguenza di un cuore nuovo.
Don Divo Barsotti è stato ed è una lettura irritante, scandalizzante. Scuoteva negli anni ’70, ma ancora scuote nel nuovo secolo, le certezze, le abitudini, i luoghi comuni di molti cattolici progressisti ma anche dei cattolici integralisti o conservatori. Proprio per questo la sua lettura diventa fertile, riequilibrante, liberante. Racchiuderlo in qualsiasi schema o schieramento è impossibile. Cercatore ostinato di Dio e dell’intimità divina, era un poeta contemplativo di Dio.
È stato uno scrittore cristiano fluviale e prolifico (ha scritto 150 libri di cui tutti hanno letto almeno qualche pagina), maestro spirituale di diverse generazioni di preti e monache, ma anche di laici cristiani. Ai suoi libri si tornava e si torna proprio quando uno ha fatto il pieno della letteratura cristiana impegnata, della teologia politica, della militanza, e vuole fare una pausa, tornare a meditare sulle fondamenta.
È capitato a me nella metà degli anni ’70, e ricapita spesso quando uno ha bisogno di tirare il fiato, ha la nausea dell’immersione nella sola terra. Non per abbandonare. Al contrario: per ritrovare l’Assoluto, dunque le motivazioni più vere e profonde dell’impegno. Contemplazione e Azione, Preghiera e Azione. E forse il titolo di uno dei suoi « mitici » diari, il primo, La fuga immobile, fuga non per sfuggire le proprie responsabilità, ma fuga del mondo senza tuttavia fuggire dal mondo, esprime proprio questa dinamica spirituale: recuperare il centro di tutto, la Sorgente, ricentrare il cristianesimo. Porre o rimettere al centro Dio. Cristo. La vocazione del cristiano, sposato, celibe, consacrato, non è cambiare il mondo, ma contemplare e pregare l’unica Signoria.
La passione della sua vita – lo dico da semplice lettore attratto attraverso i suoi scritti – fu la spiritualità orientale e russa, la frequentazione spirituale di san Sergio, san Serafino, Silvano del Monte Athos; il recupero in Occidente della dimensione contemplativa, del cristianesimo della icona e della Signoria del Padre, del Cristo, dello Spirito. Dalla centralità del Cristo al mistero della Trinità.
Questo primato della Fonte, non impedisce l’azione, ma non è possibile azione, presenza, lievito, senza il cuore, il centro, l’essere, dunque il Cristo parola di Dio, l’ingresso nell’intimità di Dio. «Il tuo amore deve abbracciare tutto: tutto l’universo, tutta la creazione deve esultare in te nella pienezza della vita divina. L’estasi non strappa alla terra, ma eleva con te la terra, nella luce di Dio – la trasfigura in Dio. Il cristianesimo però ha sempre rinnegato un ascetismo manicheo che vede nella rinunzia e nel rinnegamento il suo fine. Il cristiano non può rinunziare a nulla, tutto è suo – e tutto egli deve portare con sé, elevare con sé fino a Dio nell’amore. Unica legge del cristiano è l’amore – un amore che vince ogni egoismo umano, naturale, istintivo, fino a dar tutto, anche la vita».
Credo che proprio questo cercassero in lui amici personali, e uomini molto diversi, come Giorgio La Pira e Giuseppe Dossetti. Cercavano il consiglio, la direzione spirituale, il confronto, la fertilità di questo richiamo in alcune stagioni particolarmente non conformista, controcorrente.
«Don Divo è stato un uomo che ha dedicato tutta la vita a far conoscere agli uomini la bellezza della Verità contemplata nella fede. Passionale e forte, dolce e paterno, solitario e uomo di fede incrollabile, monaco e predicatore al tempo stesso, insofferente alle mode e capace con una parola di illuminare un’intera esistenza…», ha scritto don Serafino Tognetti, il suo successore alla guida della Comunità dei Figli di Dio.
Teologo, predicatore, poeta, ha vissuto dal suo eremo di San Sergio, nella scelta della contemplazione, nel cuore del suo secolo. Amico di Hans Urs von Balthasar, del cardinale Elia Dalla Costa, di Giuseppe Lazzati e Marcello Candia. Ma anche di uno dei massimi poeti italiani del ’900, Mario Luzi, e di Carlo Bo. La sua sensibilità, la sua scrittura poetica, non hanno confini di disciplina di ambito letterario. Ne sono impregnati tutti i libri, e in particolare proprio i tanti commenti biblici. Il testamento di don Divo Barsotti – per tutti, ma in particolare proprio per chi lo ha conosciuto solo attraverso le pagine scritte –, il suo passaggio di testimone ai giovani del nuovo millennio, è racchiuso nelle ultime parole della sua ultima intervista: «Non serve a Dio l’orgoglioso che crede di poter fare senza di Lui, non serve a Dio la persona che si piega solo verso di sé, non serve a Dio l’uomo che ha il potere umano e la ricchezza dei soldi, della fama. Servono gli umili, gli uomini che sul piano umano sembra che abbiano fallito e invece sono quelli che vincono il mondo».

Paolo Giuntella

Publié dans:MISTICA |on 14 juin, 2012 |Pas de commentaires »

L’AMORE È LA NOSTRA ESSENZA (SECONDA PARTE)

 http://www.zenit.org/article-29818?l=italian

L’AMORE È LA NOSTRA ESSENZA (SECONDA PARTE)

Intervista con il professor Rob Faesen, esperto in letteratura mistica dei Paesi Bassi e delle Fiandre

di Paola De Groot-Testoni
ROMA, martedì, 6 marzo 2012 (ZENIT.org) – La prima parte dell’intervista al professor Rob Faesen è stata pubblicata lunedì 5 marzo 2012.
                                                        *      *      *
Qual è stato il ruolo o l’influenza dei tedeschi o piuttosto dei mistici “renani”, come Ildegarda di Bingen (circa due secoli prima Ruusbroec) e Meister Eckhart?
Faesen: Mi sembra difficile considerare insieme Hildegard e Eckhart, anche se entrambi sono esponenti di una teologia contemplativa. Nella vita intellettuale del tardo Medioevo, questa dimensione contemplativa diventava a mano a mano sempre meno evidente. E mi sembra che Eckhart nel XIV secolo, ha voluto precisamente fare un tentativo di inserire nuovamente la contemplazione radicale nel pensiero accademico cioè nel posto che gli spettava. Il giudizio di alcune frasi del suo lavoro da parte di Papa Giovanni XXII nel 1329 è significativo. Infatti, nel testo della sentenza si dice che alcune di queste frasi hanno anche un significato ortodosso, ma che devono essere spiegate meglio e più dettagliatamente. Il tentativo di Eckhart di integrare la dimensione contemplativa apparentemente non fu del tutto riuscito. Due secoli prima, ai tempi di Hildegard, questo era diverso. Un esempio significativo: i monaci dell’abbazia di Villers avevano una serie di domande teologiche, e per questo scrissero una lettera alla visionaria Hildegard, non ai docenti dell’Università di Parigi.
Questi autori, spesso poco conosciuti, sembrano appartenere al passato. È così?
Faesen: Infatti, in un certo senso, è vero: quando li ascoltiamo, sentiamo una voce dal passato. Una voce che suona diversa rispetto a quelle del nostro tempo, forse strana, insolita. E mi sembra giusto non scavalcarla troppo in fretta. E, non troppo in fretta, adeguarla a quelle del nostro tempo. Perché questi scrittori sono in grado – proprio perché così “strani” – di aprire i nostri occhi a dimensioni che sono inusuali nella nostra epoca, ma non per questo meno importanti. Una di queste dimensioni è il grande rispetto per la persona umana. I mistici cristiani dei Paesi Bassi di allora hanno una grande attenzione reverenziale per la persona umana, perché ogni uomo ha una vocazione molto speciale ad amare Dio. Come si è già detto, secondo loro, l’amore non è qualcosa “in più” nella vita umana, ma è l’essenza dell’uomo stesso, più profondo del suo pensiero, del suo volere, della sua maniera di sentire. E, naturalmente, l’amore è personale. Nessuno può amare Dio al mio posto. In questo senso, apre i nostri occhi al valore unico di ogni essere umano. L’uomo è più di un ingranaggio sostituibile nella macchina socio-economica. Ancora di più, questi autori sono in grado di aprire i nostri occhi sull’abisso della persona umana. La caratteristica più profonda dell’uomo è l’apertura a Dio, un’apertura abissale. L’uomo non è, in ultima analisi, un’identità chiusa, nessun “io”, ma è essenzialmente una relazione.
Oggi c’è una fioritura di spiritualità orientali e pratiche come il buddismo e il Reiki. Questo significa che le persone, attratte dall’esotico, stanno dimenticando le proprie radici?
Faesen: Questo fenomeno può essere visto in due modi. In primo luogo, penso che sia un segnale che la vita interiore delle persone non è completamente persa. La nostra cultura contemporanea è fortemente rivolta all’esteriore, e si può vedere questo interesse come un contro-movimento. Apparentemente queste persone sentono che c’è una dimensione più interna, che vale la pena di essere scoperta. In secondo luogo, può essere davvero un segnale che semplicemente non si conosce la tradizione spirituale cristiana. Secondo la mia maniera di vedere la tradizione cristiana è altrettanto affascinante, impegnativa e radicale. Quello che si cerca nelle tradizioni orientali (o per meglio dire: nella rappresentazione occidentale di queste tradizioni) è già presente anche nella tradizione cristiana. O meglio, quella cristiana va oltre a ciò che spesso si cerca in quella orientale. Infatti, gli autori mistici cristiani non cercano principalmente l’armonia interiore, ma il compimento del duplice comandamento dell’amore.
Si prevede di fare qualcosa per rendere questi mistici più noti al grande pubblico?
Faesen: In realtà succede già. La società Ruusbroec dell’Università di Anversa esiste dal 1925, e il suo primo compito è uno studio scientifico dei testi spirituali e mistici dei Paesi Bassi. Ma fin dall’inizio, si è cercato di renderli conosciuti anche in ambienti più ampi e ciò accade anche oggi. Ci sono molte iniziative per far conoscere i testi mistici alle persone che sono interessate. Ad esempio, ogni estate nella Abbazia di Drongen (nei pressi di Gand), viene organizzata da oltre quindici anni un settimana di studio sulla letteratura mistica. Ci sono ogni anno circa un centinaio di partecipanti. Relativamente nuovi sono invece gli inviti a volte inattesi provenienti dall’estero. Pochi mesi fa, per esempio sono stato invitato da due delle migliori università in Cina (Nankai University, di Tianjin, e Renmin University di Pechino), e mi ha colpito quanto interesse gli studenti cinesi avessero per questi autori mistici. Tra l’altro, non era la prima volta. Nel 1998 c’è stata una simile sessione di studio su Ruusbroec all’Università di Pechino. E di recente è stata pubblicata una traduzione in cinese di alcune importanti opere di Jan van Ruusbroec nella Repubblica Popolare.
Lei è un Gesuita, un “figlio spirituale” di Sant’Ignazio di Loyola. Nonostante le differenze significative tra loro, ci sono punti di incontro tra la mistica fiamminga e la spiritualità ignaziana?
Faesen: Sicuramente. Direi che Ignazio appartiene al movimento spirituale di fine medioevo della Moderna Devotio. Questo movimento non è strettamente un movimento mistico, ma ha cercato di dare alla vita interiore, quante più opportunità possibili. Si potrebbero descriverlo come un ampio sviluppo della cultura europea occidentale in cui si dava ogni giorno un grande valore alle esperienze interiori. Non che in tal modo gli aspetti esteriori venissero considerati superflui. Ma si provava il più possibile a sfruttare il potenziale dell’“interiore”. Lo si può anche vedere nei dipinti per esempio di Rogier van der Weijden o Dirk Bouts. Quest’ultimo è stato è stato definito a volte il “pittore del silenzio” di cui parla. Credo che sia in questa linea che si può capire meglio la spiritualità d’Ignazio. I suoi “Esercizi Spirituali” mostrare la sua cura di creare un rapporto davvero personale con Cristo. Questo è di grande attualità anche oggi. Ebbene, questo movimento della Devotio Moderna ha le sue radici in Jan van Ruusbroec. Il fondatore della Devotio Moderna, il dotto diacono Geert Grote da Deventer, conosceva personalmente Jan van Ruusbroec  e lo ammirava molto. Ha tradotto i suoi testi in latino, ed è andato anche nel monastero di Ruusbroec per parlare con lui. Senza dubbio, l’ideale della Devotio Moderna è stato ispirato dalla preoccupazione di Ruusbroec per una più profonda esperienza interiore della fede. Ignazio di Loyola, ha ereditato totalmente questa preoccupazione. Anche altri aspetti possono essere considerati. Spesso pensiamo che “contemplativi nell’azione” sia un tipico assunto ignaziano. Ma già da prima era stato molto ben formulato da Jan van Ruusbroec. La sua immagine del contemplativo cristiano maturo (o mistico) non è una persona che scompare in Dio, ma qualcuno che è completamente uomo tra gli uomini, e che li ama grazie all’abbondanza dell’amore ricevuto di Dio. Anche nella riflessione di Hadewijch questo tema è centrale. In realtà, questo ha molto a che fare con l’umanesimo cristiano. Ignazio ne è un noto esponente, ma è completamente in linea con gli antichi mistici.
(La terza e ultima parte dell’intervista al prof. Faesen sarà pubblicata domani, mercoledì 7 marzo)

Publié dans:MISTICA |on 6 mars, 2012 |Pas de commentaires »

L’AMORE È LA NOSTRA ESSENZA (PRIMA PARTE)

http://www.zenit.org/article-29812?l=italian

L’AMORE È LA NOSTRA ESSENZA (PRIMA PARTE)

Intervista con il professor Rob Faesen, esperto in letteratura mistica dei Paesi Bassi e delle Fiandre

di Paola de Groot-Testoni
ROMA, lunedì, 5 marzo 2012 (ZENIT.org) – Proponiamo di seguito un’intervista con il professor Rob Faesen, docente presso la Facoltà di Teologia e Scienze Religiose dell’Università Cattolica di Lovanio (KULeuven, Belgio) e l’Università di Anversa (UA), esperto dei grandi mistici e mistiche del Trecento e del Quattrocento nei Paesi Bassi.
Il prof. Faesen ha collaborato all’edizione critica dell’Opera Omnia di Jan van Ruusbroec nel Corpus Christianorum Continuatio Mediaevalis ed è coautore del volume Late Medieval Mysticism of the Low Countries nella collana Classics of Western Spirituality.
Professor Faesen, lei è specializzato in letteratura mistica dei Paesi Bassi e delle Fiandre. Da dove viene questo interesse o passione?
Faesen: Inizialmente, questo interesse nacque dall’incontro con diverse persone che mi hanno fatto conoscere con grande entusiasmo questa letteratura mistica. In particolare, desidero ricordare Padre Albert Deblaere, che è stato professore alla Gregoriana di Roma. Era quasi cieco, ma aveva uno sguardo spirituale e intellettuale molto profondo sulla letteratura mistica. E man mano che venivo a contatto con i testi degli autori mistici dei Paesi Bassi, come Ruusbroec, ne restavo sempre più affascinato. Qui ho scoperto scrittori per i quali Dio è veramente Dio, e l’uomo pienamente uomo, che osavano prendere molto sul serio l’incontro reale tra Dio e l’uomo. Inoltre, questi sono autori che nel loro scrivere, pensare e vivere hanno esplorato la profondità abissale dell’amore. L’amore non come una “sensazione”, ma come vera e propria base senza limite dell’esistenza.
Qual è la specificità della mistica dei Paesi Bassi?
Faesen: Si dice che il cistercense del XII secolo Guglielmo di Saint-Thierry, sia stato il primo autore mistico dei Paesi Bassi. Anche se scriveva in latino, ha effettivamente aperto la strada alla letteratura mistica in lingua olandese. La sua mistica è fondamentalmente trinitaria. Dio è amore, l’amore stesso che si dona. Non solo l’amore verso la creazione, ma anche in se stesso: il Padre ama totalmente il Figlio, il Figlio ama totalmente il Padre e in questo modo diventano uno solo nello Spirito Santo. Proprio questa abissale ed eterna relazione d’amore è la natura divina. Se Dio è essenzialmente una relazione d’amore, non può essere altro che l’uomo (creato da Dio) e perciò ne reca le tracce, sia anche essenzialmente orientato all’amore. Inoltre per l’uomo l’amore non è  “qualcosa che eventualmente può esserci”. No, è la nostra essenza, il nucleo della nostra esistenza. Jan van Ruusbroec lo esprime dicendo che noi esseri umani, siamo essenzialmente rivolti all’“altro-da-noi” e quindi a fortiori all’Altro, con la maiuscola. Nell’incontro con l’altro come altro, troviamo finalmente la nostra felicità. L’egocentrismo, il riposare in noi stessi: alla fine non dà all’uomo la felicità, e ciò, ovviamente, non è una coincidenza. La mistica tipica appare quando l’uomo, che fa radicalmente l’esperienza dell’amore, va a sperimentare un po’ dell’abissale, vertiginosa “base” divina di  quell’amore.
Come i grandi Padri della Chiesa, Jan van Ruusbroec ha anche combattuto contro le eresie del suo tempo. Che tipo di eresie c’erano nei Paesi Bassi nel XIV secolo?
Faesen: Non direi che Ruusbroec fosse un “cacciatore di eretici”. Ma ha combattuto con passione contro alcune idee sbagliate, principalmente quelle che venivano sperimentate nei gruppi chiamati dello “Spirito Libero”. Storicamente non sappiamo molto su come questo movimento fosse in realtà. Pare che fosse un movimento sciolto, che aveva originariamente un’autentica anima mistica, vale a dire una forte coscienza di essere profondamente uniti all’amore divino. Questo venne in seguito male interpretato. L’unione con l’amore di Dio (l’amore sconfinato del Padre e del Figlio nello Spirito), fece pensare a queste persone di essere al di sopra dei sacramenti, della cura del prossimo, dei comandamenti, e altro ancora. Ritenevano che ciò fosse solo per i principianti della vita spirituale. Loro credevano di aver passato quella fase della vita spirituale, e che quindi erano diventati “liberi” da queste cose. Il servizio e ciò che ne consegue (il “servizio-a-Dio”, la religione quindi, e l’etica), era qualcosa per i principianti, poi c’era l’esperienza spirituale, interiore e infine l’unione “basica”, senza immagini con Dio, che rende l’uomo completamente libero. Jan van Ruusbroec ha fondamentalmente confutato questa tesi. Non riducendo i suoi avversari al silenzio, ma mostrando che la loro visione era viziata. E il nucleo delle sue argomentazioni giunge a dimostrare che nello sviluppo spirituale dell’uomo, il criterio è l’amore.
La più profonda unione con Dio è quella dell’amore, e come si potrebbe essere uniti con Lui nell’amore, se non ubbidendo, ad esempio ai suoi comandamenti? In altre parole: non si tratta di tre fasi successive, ma in realtà di divenire sempre più profondamente coscienti dell’amore. La vita mistica crea l’etica, la cura per il prossimo, l’impegno concreto non è superfluo, al contrario: è la scoperta della sua profondità.
Ci sono anche donne tra i mistici?
Faesen: Certamente. In realtà la letteratura mistica in lingua olandese comincia con due autrici, vale a dire Hadewijch e Beatrijs. L’opera di Hadewijch è veramente grande: oltre alle sue lettere conosciamo anche le sue visioni e le sue belle poesie, che originariamente venivano cantate. Appartengono al vertice della letteratura europea. Jan van Ruusbroec ha conosciuto i testi di Hadewijch. Lui la cita di tanto in tanto, ma senza menzionare il suo nome. Curiosamente Hadewijch è storicamente del tutto sconosciuta. Non sappiamo chi fosse. Di solito si dice che fosse una “beghina”, ma avrebbe potuto essere anche una monaca cistercense, come l’altra mistica a lei coeva e corregionale Beatrijs di Nazareth, di cui abbiamo un breve e bel trattato di mistica (Sette maniere di amare). Hadewijch e Beatrijs appartengono a quell’affascinante movimento di donne mistiche del XIII secolo (mulieres religiosae) del vescovo-principe di Liegi. Albert Deblaere ha notato che queste donne mistiche sono entrate con grande audacia nella profondità dell’amore mistico in un periodo in cui gli uomini erano intrappolati intellettualmente in una teologia che sottolineava il distacco e l’inconoscibilità di Dio. Di un Dio inconoscibile, non ci si innamora. Il ruolo specifico di queste donne, credo, non sia in primo luogo una questione di genere. Dopo tutto, ciò che queste donne perseguivano in maniera creativa, era una teologia spirituale che in un periodo precedente era stata seguita anche dagli uomini. Basta pensare ai belli ed ardenti cantici-commenti di Bernardo di Chiaravalle e Guglielmo di Saint-Thierry nel XII secolo.
(La seconda parte dell’intervista verrà pubblicata domani, martedì 6 marzo)

Publié dans:MISTICA |on 6 mars, 2012 |Pas de commentaires »

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