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TEOLOGIA E MISTICA DELLA MONTAGNA BIBLICA – L’ALLENAMENTO PER CHI VUOLE SALIRE – DI GIANFRANCO RAVASI

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TEOLOGIA E MISTICA DELLA MONTAGNA BIBLICA – L’ALLENAMENTO PER CHI VUOLE SALIRE – DI GIANFRANCO RAVASI

Tre monti nominati nella Bibbia hanno un rilievo, un’incidenza tutta particolare. Cominciamo col « monte Sion ». Cominciamo di qui, anche se non è il primo dal punto di vista logico, non soltanto perché il monte Sion riassume in sé tutta la tensione verso l’alto delle pagine bibliche – come abbiamo potuto vedere anche attraverso lo sguardo che si leva verso l’alto e verso il monte, l’unico che può dare la salvezza – ma anche perché col monte Sion è stato identificato da parte della tradizione ebraica e cristiana prima e poi anche da parte di quella musulmana, un altro monte, che è radicale per tutte e tre le religioni monoteiste, ovvero il monte di Abramo, il monte Moria, monte che non è rintracciabile in nessun atlante.
Faremo solo tre considerazioni essenziali. La prima: l’identificazione tra Sion e monte Moria. Che cos’è il monte Moria? È per eccellenza il monte della fede. Sappiamo che nel racconto del capitolo 22 della Genesi, una pagina tra l’altro di straordinaria fragranza non solo teologica, ma anche narrativa, Abramo si trova di fronte alla prova più ardua della sua fede. Dio infatti lo invita quasi a smentire se stesso: Isacco non era forse il figlio della promessa e quindi il dono di Dio per eccellenza? Come andare contro la promessa stessa di Dio per ordine dello stesso Dio, uccidendo Isacco, cancellando per ciò stesso il senso della promessa? Si tratta qui, dunque, di un’esperienza che è l’esperienza più lacerante possibile, più tenebrosa. In quel momento appare un Dio amato e crudele allo stesso tempo e Abramo deve credere in lui correndo il rischio estremo, il rischio dell’assurdo, perdendo tutte le ragioni del credere, comprese le ragioni stesse della fede, cioè il figlio suo, dono di Dio. È per questo motivo che l’autore sacro, nel descrivere i tre giorni di viaggio per ascendere le pendici del monte Moria, mette in scena un dialogo tra Abramo e suo figlio continuamente ritmato sulle relazioni di paternità e filiazione: « padre mio », « figlio mio », si dicono continuamente tra di loro, aggrappandosi all’unico valore che essi hanno, quello della paternità e della filiazione, cioè a un valore umano, in quanto non c’è più ormai alcun valore evidente di fede che possa aiutare in questo pellegrinaggio verso l’assurdo. E lassù sul monte, alla fine, si consuma il dramma.
Come sappiamo questa pagina della Genesi ha avuto un commento straordinario in un’opera di grande finezza filosofica e teologica, Timore e tremore di Soeren Kierkegaard. Il filosofo danese fa una considerazione a mio avviso molto interessante nel parlare del monte Moria-Sion come monte della fede. Egli ricorda come questo viaggio, questa ascesa al monte sia sicuramente il paradigma per eccellenza del vero credere e commenta questa considerazione utilizzando un’immagine che tra l’altro appartiene al mondo dell’Oriente. Egli dice che quando la madre deve svezzare il suo bambino si tinge di nero il seno perché il piccolo non l’abbia più a desiderare; in quel momento il bambino odia sua madre perché gli toglie la sorgente del suo piacere, del suo cibo, del suo alimento; in quel momento il bambino sente che la madre in un certo senso lo costringe ad andare lontano da lei. Questo è un gesto che alla madre costa; vi sono, come sappiamo, delle madri che questo gesto non lo fanno mai. Tutti abbiamo conosciuto nella vita qualche persona di cui si usa dire che non ha avuto mai il cordone ombelicale staccato da sua madre; si tratta di quelle persone incapaci, sempre timorose, che sempre hanno bisogno di tornare al grembo della madre, che hanno paura del mondo. La madre, dunque, quando stacca il figlio da sé, compie un gesto che a lei costa, ma alla fine risulta un gesto d’amore perché in quel momento il figlio diventa finalmente una creatura libera che cammina per il mondo da sola.
Il gesto che Dio fa sul monte Moria vuol significare dunque che il credere deve essere frutto totale e assoluto di una decisione libera dell’uomo, non dipendere cioè dall’aver ricevuto dei doni, con la relativa certezza quindi che il credere sia simile a un evento economico, un dare e ricevere. È per questo motivo allora che nel finale si dà del monte Moria un’etimologia che, come spesso succede nelle etimologie bibliche, filologicamente non è probabilmente fondata: secondo tale etimologia il significato del termine sarebbe « là sul monte Dio provvede »; è dunque il monte della provvidenza di Dio, dell’amore di Dio nei confronti della sua creatura, è il luogo nel quale Dio vede che ormai la fede di Abramo è totale e assoluta, pronta anche a strapparsi il figlio dalle proprie viscere.
Seconda considerazione a proposito del monte Sion. Facciamo riferimento a Isaia (2, 1-5). Si tratta di una pagina anche questa di grande bellezza letteraria, è il grande Isaia, il Dante della letteratura ebraica. Qui si rappresenta il monte Sion avvolto di luce mentre delle tenebre planetarie, potremmo dire, si stendono su tutto il mondo. All’interno di questa oscurità si muovono processioni di popoli e queste processioni hanno come punto di riferimento questo monte, che certo non è il più importante della terra. I popoli vengono da regioni diverse, salgono il monte, il monte della parola di Dio, e una volta che sono saliti in Sion ecco che lasciano cadere dalle mani le armi; le spade vengono trasformate in vomeri e le lance in falci e Isaia dice: « Essi non si eserciteranno più nell’arte della guerra ». Sion diventa il luogo nel quale tutti i popoli della terra convergono e là fanno cadere l’odio e costruiscono invece la pace; cancellano la guerra e costruiscono un mondo di armonia.
E qui, per inciso, possiamo osservare come il testo di Isaia sia attuale; sempre nella storia di Israele le pietre di Sion sono striate di sangue, e ancor più, purtroppo, ai nostri giorni. Tutti i popoli hanno dunque, come dice la Bibbia, diritto di cittadinanza in Sion, non solo gli Ebrei; e tutti i popoli, quando trasformano i vomeri in spade, gli strumenti per lavorare la terra in strumenti di guerra, compiono un atto blasfemo nei confronti del sogno di Dio.
Nel salmo 87 possiamo incontrare una ulteriore conferma a quanto abbiamo appena detto. Troviamo qui una formula che in ebraico è ripetuta tre volte, anche se con una variazione: jullad sham / jullad bah, « tutti là sono nati / in essa sono nati » tutti i popoli della terra. Questa formula, tecnicamente parlando, era la formula propria dell’anagrafe, dell’iscrizione nei registri di una città. Nel salmo in questione l’elenco delle nazioni, dei luoghi che vengono citati, è in pratica la planimetria del mondo allora conosciuto; si va da Rahab, che indica l’Egitto, a Babel, che indica Babilonia, la superpotenza occidentale e quella orientale, quindi. Viene nominata anche la Palestina, i Filistei, anche loro con diritto di cittadinanza in Gerusalemme; vengono nominati tutti i popoli della terra, anche i più remoti: tutti trovano in Gerusalemme il loro luogo di nascita, tutti hanno un diritto nativo in Gerusalemme. Alla fine il poeta immagina che tutti questi popoli così diversi tra loro siano in Sion e siano là cantando e danzando, ripetendo questa loro professione d’amore nel monte Sion, il monte del tempio: « In te sono tutte le nostre sorgenti ».
Terza considerazione: dopo il monte della fede e il monte della pace, ecco ora profilarsi in Sion il monte di Dio per eccellenza, il monte dell’incrocio e dell’abbraccio tra Dio e l’uomo. È bellissimo il termine con cui viene definito nella Bibbia il tempio; di per sé è il termine che viene usato quando si parla del santuario mobile nel deserto, lo si chiama in ebraico ‘ohel mo’ed, cioè « la tenda dell’incontro », naturalmente la tenda dell’incontro degli Ebrei tra di loro: è, infatti, il luogo dell’assemblea, qahal in ebraico, l’assemblea dei figli di Israele. Ma è anche il luogo dell’incontro e dell’abbraccio dell’uomo con Dio. Possiamo osservare allora come il santuario di Sion non corrisponda ai templi magici: qui si tratta dell’incrocio, dell’intreccio, dell’abbraccio di due libertà. Tant’è vero che, se Israele è peccatore, Dio non è costretto a stare nel tempio di Sion. Conosciamo la riflessione che fanno, ad esempio, i profeti Geremia ed Ezechiele a proposito della presenza di Dio in Sion. Secondo Geremia, se Sion si trasforma in una spelonca di ladri, Dio allora non è più lì, non è costretto nel perimetro sacro e consacrato, quasi per una costrizione magica.
È significativo il capitolo ottavo del Primo Libro dei Re dove si parla della grande preghiera di dedicazione del santuario di Sion che Salomone pronuncia dopo aver eretto il tempio. Vi sono due frasi che ora riporteremo e che mostrano veramente come lì si compia il mo’ed, cioè l’incontro, il convegno. Al versetto 27 si dice: « I cieli e i cieli dei cieli, o Signore, non ti possono contenere, quanto meno questa casa che io ho costruita! ». Dio, che è infinito, non può essere compreso nel perimetro sacro di un tempio, Dio non può essere costretto magicamente a essere lì, ma come si dice al versetto 30: « Ascolta la supplica del tuo (…) popolo, quando pregheranno in questo luogo. Ascoltali dal luogo della tua dimora ». Possiamo qui osservare come Dio giunga dalla sua dimora celeste, che è il simbolo appunto della trascendenza, ad ascoltare il grido che l’uomo eleva verso di lui: ecco allora che il tempio di Sion diventa il luogo del dialogo.
Di Sion abbiamo dato dunque tre definizioni: in primo luogo monte della fede, della fede più pura, più assoluta, sotto il nome di monte Moria, il monte sul quale Abramo, padre di Israele, padre della nostra fede di cristiani, padre attraverso Ismaele dell’Islam, compie il suo atto di fede. Ciò che è importante qui non sono le opere, ma il suo atto di fede in Dio, fede pura e totale. Seconda definizione: luogo della pace, del sogno di Dio in un’umanità che si incrocia e si riunisce in Sion. Infine, terzo momento, luogo dell’intreccio delle mani di Dio e dell’uomo attraverso il santuario.
Passiamo ora al secondo monte che costituisce un momento obbligato di riflessione: il monte Sinai, un monte evidentemente carico di risonanze, a proposito del quale vorrei però anche in questo caso indicare solamente tre dimensioni. La prima: il Sinai è il luogo della teofania, della grande manifestazione del Dio misterioso. « Sul far del mattino vi furono tuoni e lampi, una nube densa sul monte, un suono fortissimo di tromba, tutto il popolo che era nell’accampamento fu scosso da terrore » (Esodo, 19-26). Siamo di fronte alla celebrazione per eccellenza del tremendum di Dio, è il luogo questo nel quale Dio ci fa scoprire tutta l’impotenza dell’uomo – chi è stato sul Sinai riesce anche a intuirlo proprio nell’atmosfera stessa di questo monte, monte solitario, monte desolato, arido, attraversato dal vento, prosciugato dall’incandescenza del sole, mutevole anche per i cangianti colori delle sue pietre durante la giornata.
Seconda riflessione: è anche il luogo della « teo-logia », cioè non solo della manifestazione, dell’apparizione di Dio, ma anche della parola di Dio. A questo proposito vorrei ricordare, oltre al Decalogo che ci giunge da questo monte – le dieci parole fondamentali sulle quali si organizza ancora la nostra pur dispersa e tante volte anche disordinata e distratta società – soprattutto un bellissimo versetto del quinto libro della Bibbia, il Deuteronomio, laddove Mosè, ricordando quell’esperienza, dice: « Il Signore vi parlò dal fuoco, voi udivate soltanto qôl devarîm [cioè una voce di parole, un suono di parole], ma non vedevate alcuna figura », non c’era nessuna temunah, nessuna figura, zulatî qôl, ma « soltanto una voce ». Bellissima questa intuizione che ci ricorda come sul monte noi scopriamo soltanto la voce circondata dal silenzio. Eccoci dunque a una seconda esperienza fondamentale: la parola da scoprire sul monte, la « teo-logia ».
In terzo luogo vorrei porre l’accento su di un vocabolo che non è evidentemente nella Bibbia e neppure è normalmente usato nella teologia; è un vocabolo coniato da Pierre Teilhard de Chardin per parlare del manifestarsi di Dio che si riflette in noi: egli utilizza il termine « diafania ». Teofania, teologia e ora diafania, ovvero il passare di un Dio « diafano » attraverso di noi, attraverso la terra, attraverso il monte in questo caso.
È dunque per questo motivo che il Sinai diventa anche il luogo dell’intimità di Dio, non unicamente del Dio terribile, affatto diverso da noi, totalmente altro, non soltanto del Dio che ti dà la sua parola, ma anche del Dio che persino si adatta a te, entrando misteriosamente accanto a te con tenerezza.
A questo punto non possiamo allora prescindere da due riferimenti biblici molto significativi. Innanzitutto quella bellissima, indimenticabile esperienza di Elia sul monte Horeb – un altro nome per il Sinai – che viene descritta nella Bibbia nel primo libro dei Re. Dio non si presenta qui con l’apparato teofanico, pur legittimo, Dio non è nel vento che spacca la roccia, non è nel fulmine, nella folgore, non è nel terremoto che sommuove la terra, ma semplicemente Dio è in « un mormorio di vento leggero ». In ebraico tutto ciò viene espresso con tre parole, tre parole che sono veramente un capolavoro anche dal punto di vista dell’intuizione: Elia scopre soltanto qôl demamah daqqah, cioè qôl « voce, suono », demamah « silenzio », daqqah « sottile ». Dio diventa una voce di silenzio sottile, un silenzio « bianco » che riassume in sé tutti i colori, come il bianco riassume tutto lo spettro cromatico. Dio si adatta talmente da avvolgerci pacatamente con la quiete del silenzio. Un’esperienza appunto che anche il laico, incontrando il silenzio, prova sulla montagna.
L’altro riferimento è al Sinai cristiano, cioè al monte delle Beatitudini. Come sappiamo gli esegeti spiegano che seppur la tradizione l’abbia identificato con quel bellissimo poggio che si affaccia sul lago di Tiberiade, in realtà si tratta di un monte teologico più che di un monte orografico, topografico. Tant’è vero che una parte del discorso che Matteo mette sul monte, Luca, nel capitolo sesto del suo Vangelo, lo ambienta in un luogo pianeggiante, campestre. Le Beatitudini probabilmente sono enunciate in un’area attorno alla sponda del lago di Tiberiade, abbiamo però bisogno di collocarle proprio su un monte, il monte della teofania, della teologia, della diafania perché in Matteo Cristo diventa il nuovo Mosè, il Mosè per eccellenza, che raccoglie e compendia tutto l’insegnamento di Mosè. Noi sappiamo che Gesù fa riferimento proprio ai testi del Sinai portandoli all’estreme conseguenze, radicalizzandoli, mostrando la vicinanza assoluta di Dio che, attraverso le Beatitudini e il discorso della montagna, si presenta come il Dio d’amore, della pienezza, della intimità assoluta. Lutero usava un’espressione paradossale in latino, persino ironica potrebbe apparire, per rappresentare Cristo in quel momento. Egli diceva che sul monte delle beatitudini Cristo è Mosissimus Moses, è il Mosè all’ennesima potenza. Tutto quello che Mosè aveva rappresentato ora Cristo ce lo rappresenta mostrandoci non solo la trascendenza, non solo la parola di Dio ma anche la sua intimità.
Giungiamo così al terzo e ultimo monte della Bibbia. Il monte che ora citeremo, quasi inesistente dal punto di vista orografico, è un punto di passaggio obbligato per noi cristiani: si tratta infatti del Golgota, del Calvario. Un monte che di sua natura è, come abbiamo detto, irrilevante – chi è stato a Gerusalemme sa che il monte è inglobato ormai all’interno della basilica del Santo Sepolcro -: si tratta di uno sperone roccioso di sei o sette metri, chiamato Golgota, in aramaico « cranio », probabilmente per la sua forma tondeggiante, o forse perché lì vicino c’erano le sepolture dei condannati a morte. L’etimologia qui ora non ci interessa; vogliamo però sottolineare come in Occidente tutti, anche coloro che non hanno nessuna fede in Cristo, sanno che cos’è il Calvario (traduzione latina della parola aramaica Golgota), tanto che l’espressione « un calvario di sofferenze » è diventata un modo di dire comune.
Se analizziamo questo luogo, soprattutto attraverso la teologia dei Vangeli e in particolare del quarto Vangelo, ci accorgiamo che esso è, sì, il monte della morte ma anche, a ben vedere, il monte della vita; è il monte dell’umanità, della tragedia di un Dio che assume la finitudine fino al punto da bere il calice della sofferenza, della solitudine, della tristezza, del silenzio di Dio (« Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? »); ma è insieme anche il luogo nel quale Giovanni già ci mostra la gloria dell’elevazione, della resurrezione. Il Calvario è già anche il monte dell’ascensione, è già il monte degli Ulivi, è il monte anche della glorificazione, dell’esaltazione, della speranza. Il Calvario è dunque insieme monte del dolore e del sangue e monte della gloria e dell’infinito. A questo punto giungiamo a capire come il Calvario riesca a riassumere quelle due dimensioni a cui sempre abbiamo fatto riferimento. Sul monte infatti è sempre Dio che noi cerchiamo, però siamo noi a salire, siamo noi che con la nostra fatica ascendiamo.
Vorrei concludere parlando della mistica della montagna. Sappiamo infatti come tutta la tradizione mistica abbia usato spesso la montagna come una parabola. Voglio qui accennare – sperando che magari qualcuno abbia l’occasione di riprendere in mano o di leggerlo se non l’ha mai fatto – a un libro, in verità arduo e che, tra l’altro, ha come punto di riferimento un monte biblico: intendo riferirmi alla Salita del monte Carmelo, uno dei capolavori, insieme con il Commento al Cantico dei Cantici, di Giovanni della Croce, Juan de la Cruz.
Giovanni della Croce scrive questo libro nel 1578, libro che poi non completa. È un testo raffinatissimo dal punto di vista della ricerca intellettuale, ma anche soprattutto dal punto di vista della mistica, un testo carico di simboli, ma anche di esperienze interiori. È curioso tra l’altro come il santo abbia disegnato più volte – tant’è vero che ne esistono più copie di sua mano e molte altre fatte dai suoi discepoli – un bozzetto del monte Carmelo, micrografandolo poi con scritte che indicano i vari percorsi, i vari itinerari di ascesi, di purificazione oltre che di illuminazione. Questo disegno, con le indicazioni relative al percorso di salita rappresentato in maniera folgorante, Giovanni lo dava alle suore di cui era confessore perché lo tenessero nel loro libro di preghiere.
Nel descrivere questa salita al monte egli inizia con una poesia, dichiarando di volerla poi commentare, mentre in realtà ne commenterà effettivamente solo una strofa. Nel monte Carmelo, il monte di Elia, il monte della sfida con l’idolatria (1 Re, 18), il monte dell’ordine carmelitano a cui Giovanni apparteneva, egli riassume tutta una serie di significati insieme ascetici e mistici. Il termine « ascesi » a noi purtroppo evoca solo l’idea della fatica, della purificazione in senso negativo; questo non è del tutto vero in quanto qui l’ascesi si intreccia già con la mistica.
« Ascesi » infatti, come dice il termine greco àskesis, non vuol dire « penitenza », ma semmai « esercizio ». Pensiamo ad esempio all’acrobata, a quei disegni così improbabili che egli fa e che sfidano le leggi stesse della fisica; l’acrobata compie tutto ciò con estrema facilità perché alla base c’è un esercizio che alla fine diventa creatività, disegno. E pensiamo anche alla professione della ballerina. Osservandone gli eleganti e dinamici tratti nell’atto della danza ci si rende conto di cosa voglia dire riuscire a costruire l’equilibrio sulla punta di un piede, che cosa comporti tutto quel gioco di movimenti che anche in questo caso rappresentano una sfida continua alle leggi della fisica. Per lei, però, tutto ciò non avviene ora attraverso il calcolo e la fatica, ma semmai attraverso un libero abbandono che produce e suppone divertimento e creatività.
Questa è l’ascesi, è fatica indubbiamente, è esercizio pesante, ma alla fine giunge a essere grande creatività che è al tempo stesso grande libertà.

QUAL È LA DIFFERENZA TRA PREGHIERA E MEDITAZIONE?

http://www.toscanaoggi.it/Rubriche/Risponde-il-teologo/Qual-e-la-differenza-tra-preghiera-e-meditazione

QUAL È LA DIFFERENZA TRA PREGHIERA E MEDITAZIONE?

Un lettore si è sentito esortare durante una confessione a dedicare più tempo alla meditazione. Che cosa vuol dire? Risponde don Diego Pancaldo, docente di Teologia spirituale alla Facoltà teologica dell’Italia centrale.

04/03/2018 di Redazione Toscana Oggi

Un sacerdote, in confessione, mi ha esortato a dedicare del tempo alla meditazione. Mi sono resa conto solo dopo che non so esattamente cosa devo fare: meditazione, preghiera, contemplazione per me sono termini equivalenti. Ma forse invece c’è una differenza. Mi potete dare qualche spiegazione?
Lettera firmata

Il Catechismo della Chiesa cattolica definisce la meditazione come una espressione della preghiera caratterizzata dalla ricerca: «Lo spirito cerca di comprendere il perché e il come della vita cristiana, per aderire e rispondere a ciò che il Signore chiede». (CCC n. 2705) Una forma di preghiera dunque che richiede attenzione e che coinvolge tutte le facoltà dell’uomo, mettendo in azione «il pensiero, l’immaginazione, l’emozione e il desiderio».
Questo tipo di preghiera ha un carattere discorsivo e risulta «necessaria per approfondire le convinzioni di fede, suscitare la conversione del cuore, rafforzare la volontà di seguire Cristo» (CCC n. 2708). Essa mira a favorire l’appropriazione personale del mistero di salvezza rivelato in Cristo, assimilandone progressivamente il senso e il contenuto. Chi medita può aiutarsi abitualmente con qualche libro. «La Sacra Scrittura, particolarmente il Vangelo, le sante icone, i testi liturgici del giorno e del tempo, gli scritti dei Padri della vita spirituale, le opere di spiritualità, il grande libro della creazione e quello della storia, la pagina dell’Oggi di Dio» (CCC n. 2705). In ogni caso il cristiano «anche se prende per oggetto della meditazione la propria vita o le decisioni che si appresta a prendere, si muove sempre all’interno della vita di fede ed è questa che si sforza di far crescere» (Ch. A. Bernard).
Nel corso della storia sono stati elaborati diversi metodi di meditazione, sia in ambito monastico, a partire dalla lectio divina della Scrittura, che considera la meditazione una ruminatio, «una investigazione accurata di una verità nascosta con l’aiuto della ragione» (Guigo il certosino); sia al di fuori di esso, come, ad esempio nella tradizione ignaziana con la meditazione delle tre potenze, in cui memoria, intelletto e volontà vengono applicate successivamente ai diversi aspetti dei misteri da meditare.
Il Catechismo della Chiesa cattolica al n. 2707 sottolinea che «i metodi di meditazione sono tanti quanti i maestri spirituali», e tuttavia, «il metodo non è che una guida; l’importante è avanzare, con lo Spirito Santo, sull’unica via della preghiera: Cristo Gesù». È quanto raccomanda anche la Congregazione per la dottrina della fede che nella lettera Orationis formas su alcuni aspetti della meditazione cristiana, evidenzia che «la preghiera cristiana è sempre determinata della struttura della fede cristiana» e che essa si configura come un «dialogo personale intimo e profondo tra l’uomo e Dio», che richiede «un esodo dall’Io verso il Tu di Dio». La preghiera cristiana pertanto rifugge da tecniche impersonali o incentrate sull’Io; essa si configura piuttosto come «l’incontro di due libertà, quella infinita di Dio con quella finita dell’uomo». (n. 3).
Il Catechismo della Chiesa cattolica afferma inoltre al n 2708 che la meditazione, «forma di riflessione orante», ha certamente un grande valore, «ma la preghiera cristiana deve tendere più lontano: alla conoscenza d’amore del Signore Gesù, all’unione con Lui». Deve tendere dunque ad una forma superiore di preghiera più semplificata, più intuitiva che è la contemplazione. Essa è caratterizzata da «uno sguardo semplice sulla verità che termina nell’amore» (Tommaso d’Aquino); da una «scienza d’amore la quale è notizia amorosa infusa da Dio che simultaneamente illumina e innamora l’anima fino a farla salire di grado in grado a Dio suo creatore, poiché solo l’amore è ciò che unisce e congiunge l’anima con Dio» (Giovanni della Croce). La contemplazione infatti è uno «sguardo di fede fissato su Gesù» che purifica i cuore e «ci insegna vedere tutto nella luce della sua verità e della sua compassione per tutti gli uomini» e ci «conduce alla conoscenza interiore del Signore per amarlo e seguirlo di più» (CCC n. 2715).

Diego Pancaldo

ENZO BIANCHI – DESERTO

http://www.atma-o-jibon.org/italiano8/bianchi_lessicointeriore2.htm

ENZO BIANCHI – DESERTO

LESSICO DELLA VITA INTERIORE

«L’esperienza del deserto è stata per me dominante. Tra cielo e sabbia, fra il Tutto e il Nulla, la domanda diventa bruciante. Come il roveto ardente, essa brucia e non si consuma. Brucia per se stessa, nel vuoto. L’esperienza del deserto è anche l’ascolto, l’estremo ascolto» (Edmond Jabès). Forse è questo legame con l’ascolto che fa sì che nella Bibbia il deserto, presenza sempre pregna di significato spirituale, sia così importante. Certo, esso è anzitutto un luogo, e un luogo che nell’ ebraico biblico ha diversi nomi: caravah, luogo arido e incolto, che designa la zona che si estende dal Mar Morto fino al Golfo di Aqaba; chorbah, designazione più psicologica che geografica che indica il luogo desolato, devastato, abitato da rovine dimenticate; jeshimon, luogo selvaggio e di solitudine, senza piste, senz’acqua; ma soprattutto midbar, luogo disabitato, landa inospitale abitata da animali selvaggi, dove non crescono se non arbusti, rovi e cardi. Il deserto biblico non è quasi mai il deserto di sabbia, ma è frutto dell’erosione del vento, dell’ azione dell’ acqua dovuta alle piogge rare ma violente, ed è caratterizzato da brusche escursioni termiche fra il giorno e la notte (cfr. Salmo 121,6). Refrattario alla presenza umana e ostile alla vita (Numeri 20,5), il deserto, questo luogo di morte, rappresenta nella Bibbia la necessaria pedagogia del credente, l’iniziazione attraverso cui la massa di schiavi usciti dall’Egitto diviene il popolo di Dio. È in sostanza luogo di rinascita. E, del resto, la nascita del mondo come cosmo ordinato non avviene forse a partire dal caos informe del deserto degli inizi? La terra segnata da mancanza e negatività («Quando il Signore Dio fece la terra e il cielo, nessun cespuglio campestre era sulla terra, nessuna erba campestre era spuntata, perché il Signore Dio non aveva fatto piovere sulla terra»: Genesi 2,4b-5) diviene il giardino apprestato per l’uomo nell’ opera creazionale (Genesi 2,8-15). E la nuova creazione, l’era messianica, non sarà forse un far fiorire il deserto? «Si rallegreranno il deserto e la terra arida, esulterà e fiorirà la steppa, fiorirà come fiore di narciso» (Isaia 35,1-2). Ma tra prima creazione e nuova creazione si stende l’opera di creatio continua, l’intervento salvifico di Dio nella storia. Ed è in quella storia che il deserto appare come luogo delle grandi rivelazioni di Dio: nel midbar (deserto), dice il Talmud, Dio si fa sentire come medabber (colui che parla). È nel deserto che Mosè vede il roveto ardente e riceve la rivelazione del Nome (Esodo 3,1-14); è nel deserto che Dio dona la Legge al suo popolo, lo incontra e si lega a lui in alleanza (Esodo 19-24); è nel deserto che colma di doni il suo popolo (la manna, le quaglie, l’acqua dalla roccia); è nel deserto che si fa presente a Elia nella «voce di un silenzio sottile» (I Re 19,12); è nel deserto che attirerà nuovamente a sé la sua sposa-Israele dopo il tradimento di quest’ultima (Osea 2,16) per rinnovare l’alleanza nuziale… Ecco dunque abbozzata, tra negatività e positività, la fondamentale bipolarità semantica del deserto nella Bibbia che abbraccia i tre grandi ambiti simbolici a cui il deserto stesso rinvia: lo spazio, il tempo, il cammino. Spazio ostile da attraversare per giungere alla terra promessa; tempo lungo ma a termine, con una fine, tempo intermedio di un’attesa, di una speranza; cammino faticoso, duro, tra un’uscita da un grembo di schiavitù e l’ingresso in una terra accogliente, «che stilla latte e miele»: ecco il deserto dell’ esodo! La spazialità arida, monotona, fatta silenzio, del deserto si riverbera nel paesaggio interiore del credente come prova, come tentazione. Valeva la pena l’esodo? Non era meglio rimanere in Egitto? Che salvezza è mai quella in cui si patiscono la fame e la sete, in cui ogni giorno porta in dote agli umani la visione del medesimo orizzonte? Non è facile accettare che il deserto sia parte integrante della salvezza! Nel deserto allora Israele tenta Dio, e il luogo desertico si mostra essere un terribile vaglio, un rivelatore di ciò che abita il cuore umano. «Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore» (Deuteronomio 8,2). Il deserto è un’educazione alla conoscenza di sé, e forse il viaggio intrapreso dal padre dei credenti, Abramo, in risposta all’invito di Dio «Va’ verso te stesso!» (Genesi 1 2,1), coglie il senso spirituale del viaggio nel deserto. Il deserto è il luogo delle ribellioni a Dio, delle mormorazioni, delle contestazioni (Esodo 14,11-12; 15,24; 16,2-3.20.27; 17,2-3.7; Numeri 12,1-2; 14,2-4; 16,3-4; 20,2-5; 21,4-5). Anche Gesù vivrà il deserto come noviziato essenziale al suo ministero: il faccia a faccia con il potere dell’illusione satanica e con il fascino della tentazione svelerà in Gesù un cuore attaccato alla nuda Parola di Dio (Matteo 4,1-11). Fortificato dalla lotta nel deserto, Gesù può intraprendere il suo ministero pubblico! Il deserto appare anche come tempo intermedio: non ci si installa nel deserto, lo si traversa. Quaranta anni, quaranta giorni: è il tempo del deserto per tutto Israele, ma anche per Mosè, per Elia, per Gesù. Tempo che può essere vissuto solo imparando la pazienza, l’attesa, la perseveranza, accettando il caro prezzo della speranza. E, forse, l’immensità del tempo del deserto è già esperienza e pregustazione di eternità! Ma il deserto è anche cammino: nel deserto occorre avanzare, non è consentito «disertare», ma la tentazione è la regressione, la paura che spinge a tornare indietro, a preferire la sicurezza della schiavitù egiziana al rischio dell’avventura della libertà. Una libertà che non è situata al termine del cammino, ma che si vive nel cammino. Però per compiere questo cammino occorre essere leggeri, con pochi bagagli: il deserto insegna l’essenzialità, è apprendistato di sottrazione e di spoliazione. Il deserto è magistero di fede: esso aguzza lo sguardo interiore e fa dell’uomo un vigilante, un uomo dall’ occhio penetrante. L’uomo del deserto può così riconoscere la presenza di Dio e denunciare l’idolatria. Giovanni Battista, uomo del deserto per eccellenza, mostra che in lui tutto è essenziale: egli è voce che grida chiedendo conversione, è mano che indica il Messia, è occhio che scruta e discerne il peccato, è corpo scolpito dal deserto, è esistenza che si fa cammino per il Signore («nel deserto preparate la via del Signore!», Isaia 40,3). TI suo cibo è parco, il suo abito lo dichiara profeta, egli stesso diminuisce di fronte a colui che viene dopo di lui: ha imparato fino in fondo l’economia di diminuzione del deserto. Ma ha vissuto anche il deserto come luogo di incontro, di amicizia, di amore: egli è l’amico dello sposo che sta accanto allo sposo e gioisce quando ne sente la voce. Sì, è a questa ambivalenza che ci pone di fronte il deserto biblico, e così esso diviene cifra dell’ ambivalenza della vita umana, dell’esperienza quotidiana del credente, della stessa contraddittoria esperienza di Dio. Forse ha ragione Henri le Saux quando scrive che «Dio non è nel deserto. È il deserto che è il mistero stesso di Dio».

GESÙ CRISTO FONTE UNIVERSALE DI SALVEZZA

  http://www.collevalenza.it/Riviste/2001/Riv0401/Riv0401_04.htm

GASTONE BELLABARBA

GESÙ CRISTO FONTE UNIVERSALE DI SALVEZZA

Introduzione: i pericoli del relativismo religioso 1.  La Dichiarazione “Dominus Jesus”. Alcuni contenuti dottrinali 2.  La Chiesa cattolica e le altre Chiese cristiane 3.  La salvezza riguarda anche le religioni non cristiane? 4.  Lo spirito ecumenico del Concilio Vaticano II e l’evangelizzazione del terzo millennio

Conclusioni: l’universalità della Chiesa di Cristo e il mistero della salvezza (Seguito)

3. La salvezza riguarda anche le religioni non cristiane? Il dibattito teologico sul come la salvezza possa realizzarsi nelle religioni non cristiane è tuttora aperto. Il Concilio Vaticano II si limitò ad affermare che Dio la dona “attraverso vie a lui note” (Decr. Ad gentes, n.7). “Per coloro i quali non sono formalmente membri della Chiesa, la salvezza di Cristo è accessibile in virtù di una grazia che, pur avendo una misteriosa relazione con la Chiesa, non li introduce formalmente in essa, ma illumina in modo adeguato alla loro situazione interiore e ambientale. Questa grazia proviene da Cristo, è frutto del suo sacrificio ed è comunicata dallo Spirito Santo” (Lett. Enc. Redemptoris Missio, n.10). L’insegnamento del Papa espresso nella “Redemtoris missio” è illuminante: “Quanto lo Spirito opera nel cuore degli uomini e nella storia dei popoli, nelle culture e nelle religioni, assume un ruolo di preparazione evangelica” (ibidem, n.29). Ne derivano alcune importanti conseguenze: “Via alla salvezza è il bene presente nelle religioni, ma non le religioni in quanto tali”; “Tutto ciò che di buono esiste nelle religioni va riconosciuto e valorizzato” perché “il bene e il vero, ovunque si trovi, proviene dal Padre ed è opera dello Spirito”. Con la venuta di Gesù Cristo Salvatore, Dio ha voluto che la Chiesa da lui fondata fosse lo strumento per la salvezza di tutta l’umanità. Questa verità di fede nulla toglie al fatto che la Chiesa consideri le religioni del mondo con sincero rispetto secondo quanto di “bene” esse esprimono, ma non riguardo ai contenuti dottrinali in quanto la Chiesa esclude radicalmente quella mentalità indifferentista impostata a un relativismo religioso che porta a ritenere che “una religione vale l’altra”. La Chiesa, come esigenza dell’amore a tutti gli uomini, “annuncia ed è tenuta ad annunciare, incessantemente Cristo che è ‘la via, la verità e la vita’ (Gv 14,6), in cui gli uomini trovano la pienezza della vita religiosa e nel quale Dio ha riconciliato a sé tutte le cose” (Dich. Nostra aetate, n.2 ). Gesù ha affidato alla Chiesa di diffondere il suo Vangelo tra tutti gli uomini, dicendo agli Apostoli: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e fate miei discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutte le cose che ho comandate a voi. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni sino alla fine del mondo” (Mt 28,18-20). Gesù esprime così il suo essere centro unico e universale di salvezza per tutta l’umanità attraverso la Chiesa da lui fondata che ha il compito di evangelizzare il mondo nel nome di Dio, Uno e Trino, e di indicare a tutte le genti e a tutti i popoli la via della verità e della salvezza che risiede in Gesù Cristo Figlio Unigenito di Dio Padre, incarnato, morto e risorto per la vittoria sul peccato e sulla morte e, donare la salvezza e la vita eterna a tutti i figli di Dio Padre divenuti fratelli in Cristo.

4. Lo spirito ecumenico del Concilio Vaticano II e l’evangelizzazione del terzo millennio Dopo il peccato originale di Adamo ed Eva, Dio Padre preannuncia il piano salvifico (Gn 3,15) e la vittoria di Gesù Cristo su Satana, principe del mondo, per la riconciliazione, la salvezza dell’intera umanità. Così, nella maturità dei tempi, Dio Padre invia il Verbo perché realizzi il piano della salvezza e quindi il Regno di Dio Padre. Il mistero della salvezza che si manifesta attraverso la Chiesa e abbraccia l’intera Creazione, diventa storia della redenzione mediante Cristo e lo Spirito Santo che danno forma alle diverse espressioni della fede che hanno come unico centro universale la Chiesa di Cristo che ha ricevuto la missione di battezzare, evangelizzare tutte le genti e annunciare e realizzare il Regno di Dio attraverso l’opera vivificante dello Spirito Santo e di Gesù Eucaristico. È sotto la guida dello Spirito Santo che la Chiesa ha realizzato la svolta ecumenica del Concilio Vaticano II e dato impulso al Grande Giubileo del 2000 come preparazione alla nuova evangelizzazione del terzo millennio. Così si è aperta per la Chiesa di Cristo una nuova stagione ricca di prospettive in una società razionalizzata, secolarizzata, globalizzata dove dilagano le nuove povertà materiali e spirituali che esprimono i diffusi malesseri presenti nel mondo all’alba del terzo millennio. Di fronte a queste nuove povertà e malesseri economici, demografici, sociali, culturali, spirituali, religiosi, la Chiesa di Cristo ha il compito di diffondere gli antitodi per la difesa della vita, della dignità della persona umana, per lo sviluppo dell’amore, della carità, della solidarietà, del perdono, della misericordia e su queste basi di amore e di verità intensificare il dialogo interreligioso per portare Cristo e Maria, Madre di Dio e Madre nostra, in tutti i cuori così da diffondere l’evangelizzazione e portare l’umanità alla salvezza.

Conclusioni: l’universalità della Chiesa di Cristo e il mistero della salvezza Il piano divino della salvezza è la risposta di Dio Padre e Creatore al peccato originale che rappresenta la trasgressione, la superbia dell’uomo contro il Signore Iddio. Una risposta di amore e di misericordia che offre ai figli peccatori la redenzione, la salvezza attraverso il sacrificio della Croce di Gesù Cristo che con la sua gloriosa risurrezione sconfigge i1 peccato e la morte, e apre le porte alla vita eterna nel Regno santo di Dio, Uno e Trino. I contenuti fondamentali della dottrina cattolica sono l’incarnazione, la morte, la risurrezione di Gesù Cristo che, nella maturità dei tempi, viene inviato dal Padre per la salvezza dell’intera umanità. E nella missione terrena il Figlio di Dio, incarnato nel seno della Vergine ed Immacolata Maria per opera dello Spirito Santo, costituisce la Chiesa per l’evangelizzazione del mondo e la salvezza dell’umanità. La Chiesa di Cristo è la custode del mistero della salvezza e le sue porte sono sempre aperte all’amore, alla misericordia, al perdono, come tabernacolo universale di Dio vivente che chiama tutti a sé per vincere Satana e popolare di Angeli e di Santi la Gerusalemme celeste. La Dichiarazione “Dominus Jesus”, firmata dal cardinale Joseph Ratzinger (Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede) ha definito i principali contenuti dottrinali della Chiesa cattolica riguardo al rapporto con le altre Chiese e religioni in ordine alla verità e alla salvezza negando che “tutte le religioni siano vie ugualmente valide di salvezza”, così rispondendo ai teologi e a quanti sostengono il relativismo religioso. Monsignor Tarcisio Bertone (segretario della Congregazione), che ha partecipato alla conferenza stampa di presentazione del documento “Dominus Jesus”, ha chiarito che anche se la Dichiarazione, in quanto tale, non gode della prerogativa dell’infallibilità, gli insegnamenti che contiene sono “patrimonio di fede della Chiesa”, in quanto “infallibilmente proposti dal Magistero in precedenti atti”. Come prevedibile, la Dichiarazione ha suscitato dure reazioni da parte degli esponenti delle altre Chiese e religioni non cristiane in quanto si è temuto che la Dichiarazione costituisse un freno allo spirito ecumenico, che procede secondo un cammino irto di difficoltà, e una sorta di “fondamentalismo” poiché vi si intravvede una affermazione di esclusività della Chiesa cattolica in ordine alla verità e alla salvezza. Il cardinale australiano Edward Cassidy, massimo collaboratore del Papa per il dialogo con le Chiese cristiane e con l’Ebraismo, dissente dal “linguaggio” e dai “modi” della Dichiarazione “Dominus Jesus” pur confermando che i contenuti dottrinali sono quelli della teologia manifestata nei documenti del Concilio Vaticano II. Tuttavia, riguardo alla forma, la Dichiarazione sembra rappresentare una ulteriore difficoltà rispetto al dialogo ecumenico che si è sviluppato dal Concilio in poi. Il cardinale E.Cassidy spera comunque che il progetto di incontro giubilare ebraicocattolico in programma per il 3 ottobre 2000 al Laterano, disdetto dalle Comunità ebraiche, possa realizzarsi una volta maturato il tempo per chiarire bene le divergenze che si sono venute a creare. Il Papa, in occassione del XIII Incontro interreligioso, organizzato nella capitale portoghese (Lisbona) dalla comunità di S. Egidio con la partecipazione di 250 personalità di dieci religioni (e conclusosi il 26-9-2000), ha inviato al Cardinale E. Cassidy un messaggio di compiacimento per la conclusione dell’incontro rilanciando il dialogo ecumenico a tutto campo, quindi “impegno prioritario” pur senza “ignorare le differenze”. Questo terreno teologico aprirà certamente un acceso dibattito fra i cristiani e i non cristiani nella sperazza che l’ecumenismo non sia messo in discussione, come affermato dal Papa. Un punto fermo per tutti rimane comunque quello che “Cristo è una realtà che cambia la storia, anche per chi non lo riconosce”. Per quanto riguarda i contrasti, le incomprensioni, le difficoltà di dialogo affidiamoci all’opera santifica dello Spirito Santo che diffonde i suoi doni e la sua grazia secondo la volontà e i disegni di Dio Padre.

 

Publié dans:meditazioni/ riflessioni |on 5 avril, 2016 |Pas de commentaires »

IL TEMPO DI PASQUA NELL’EPOCA IN CUI MUTANO TEMPO E SPAZIO (ai può morire di gioia)

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IL TEMPO DI PASQUA NELL’EPOCA IN CUI MUTANO TEMPO E SPAZIO

Si può morire di gioia. Si può morire perché il corpo non ce la fa a contenere esperienze che suscitano vertici emotivi che sintetizzano pensieri e di attese oltre ogni possibile immaginazione. Si può anche difenderci dalla gioia, per paura del dopo, quando ci lascerà col vuoto insopportabile che l’accompagna. Poter dilatare il tempo servirebbe a prolungare e a contenere la gioia. «Fermati attimo!» è infatti il desiderio onnipotente e mai sopito dell’umanità occidentale (solo?).

DI FRANCO VACCARI

Si può morire di gioia. Si può morire perché il corpo non ce la fa a contenere esperienze che suscitano vertici emotivi che sintetizzano pensieri e di attese oltre ogni possibile immaginazione. Si può anche difenderci dalla gioia, per paura del dopo, quando ci lascerà col vuoto insopportabile che l’accompagna. Poter dilatare il tempo servirebbe a prolungare e a contenere la gioia. «Fermati attimo!» è infatti il desiderio onnipotente e mai sopito dell’umanità occidentale (solo?). La domenica in Albis, seconda domenica del tempo di Pasqua, ha concluso un prolungamento del tempo fino a sette giorni, tempo che la liturgia considera un giorno solo perché giorno unico, venendo incontro al nostro bisogno. «Questo è il giorno fatto dal Signore», abbiamo ripetuto ogni giorno nella Liturgia delle Ore. Un giorno senza fine in cui la storia e l’eterno si saldano e il mistero incarnato ci consente ? per grazia ? di vivere contemporaneamente la fatica del tempo e l’immersione nell’eterno, per essere come «goccia d’acqua in un oceano di profumo». La fede canta dalla terra unendosi al coro celeste, dove l’Amore ha ormai preso il suo posto, per omnia saecula saeculorum. La settimana che si è conclusa con la domenica in Albis è solo il preludio dell’intero tempo di Pasqua che è un messaggio grandioso sul tempo, per l’uomo del nostro tempo. Nel tempo di Pasqua, infatti, esteso dal Giovedì/Venerdì Santo a Pentecoste, la liturgia condensa una sapienza cui si può accedere anche per via di ragione e offre una comprensione intima dell’umano che può essere offerta come messaggio, proposta di confronto, anche a chi non condivide la fede, ma cerca? Mutamenti senza durata Il messaggio si innesta su ciò che, ormai, tutti dicono: sta cambiando il mondo in modo velocissimo. Pochi dicono come sta cambiando. Pochissimi si soffermano sul fatto che alla radice di questo processo stanno mutando i costitutivi dell’esistenza: il tempo e lo spazio, la loro percezione e, conseguentemente, ogni reale comportamento con la sua stessa comprensione. Il tempo ci fa esistere o, se si preferisce, in esso esistiamo e percepiamo l’esistenza. Il tempo ci fa crescere, diventare adulti: l’itinerario di ciascuno, infatti, va dall’onnipotenza infantile, in cui pensiamo di poter avere tutto e subito, alla maturità in cui comprendiamo di poter avere solo qualcosa e? quando sarà possibile. Ora, le protesi tecnologiche di cui disponiamo ? e siamo appena al chiarore di una nuova era ? l’habitat artificiale che stiamo costruendo alterano alla radice la nostra vita. Il semplice appuntamento «ci vediamo alle 16 all’angolo tra via Mazzini e corso Italia», che ha permesso di costruire una civiltà per millenni, convenendo tutti su tempi e luoghi, sarà sostituito da chissà quali codici della relazione diversi dal convenire in uno stesso luogo. Così accade che, mentre ci allarmiamo per una adolescenza cronica che sfuma in un’età adulta intesa come «eterna giovinezza» ? che nega ogni evoluzione verso vecchiaia e morte ? torniamo, come bambini mai cresciuti, ad avere strumenti che ci consentono di poter avere tutto e subito, nel tempo reale dello spazio virtuale. Con un clik sulla tastiera un messaggio d’amore traversa la terra e la commozione di due amici è contemporanea, una montagna di dollari va da una banca di Singapore allo sportello sotto casa, un po’ di sesso è venduto e comprato dai partner dei due emisferi. Con una carta di credito si possono compiere anche azioni differite nel tempo: il liquido seminale di un uomo, raccolto nel 2008, feconderà una donna del 2108, un hacker programmerà una megadistruzione informatica dopo 10 anni della sua morte e consegnerà al suo testamento la drammatica notizia-beffa per i posteri angosciati. Ma questo genere di differimento è capovolto nel significato di «attesa che matura». Alla durezza della realtà ? fatta di spazio e tempo ritenuti insuperabili ? questo genere nuovo di onnipotenza alimenta il mito dell’immortalità, almeno nella progenie. Il tempo che passa ci permette di transitare dalla fiaba alla realtà. Per qualcuno questo passaggio è stato traumatico, al punto di cercare per una vita intera di restare nella fiaba o di trovarla nuovamente. Passato dentro mille paesaggi della vita, non ne ha visto nessuno: tempo cupo di una soggettività assoluta. Ma il «tempo reale» è quello che si dispiega tra lentezza e velocità e lo «spazio reale» è quello in cui segniamo i passi uno ad uno con la suola della scarpa che combacia ogni volta con pochi centimetri di terra. Non a caso invidiamo l’aquila che svetta su tutto abbracciando nella medesima visione spazi senza fine e dettagli animati fra i cespugli. La dimensione reale Il tempo di Pasqua, la sua dilatazione «forzata», non ci toglie dallo spazio e dal tempo reali. Ci consente di aprirci al tempo senza fine per rileggere più profondamente il nostro tempo reale. Il tempo di Pasqua, la sua dilatazione «forzata», non ci toglie dallo spazio e dal tempo reali. Ci consente di aprirci al tempo senza fine per rileggere più profondamente il nostro tempo reale. Per emozionarsi basta un tempo breve, per amare occorre un tempo lungo. Un tempo lungo per educare e uno breve per stupire. Così come il tempo breve introduce la leggerezza e quello lungo la pesantezza e senza questo si dissolvono le categorie di coerenza e fedeltà. Muovendo in modo diverso lo spazio e il tempo la bugia può occupare il posto della verità e questa può apparire come menzogna. Nel tempo ormai fatto breve, anche lo spazio muta. Il prossimo ? sì! quello vicino nello spazio fisico, che incontriamo, urtiamo e pestiamo, che inganniamo o amiamo, sfruttiamo o rispettiamo ? sta a decine di migliaia di chilometri e un sorriso («nessuno è tanto povero da non poter donare un sorriso» ci ammoniva Madre Teresa di Calcutta) è inviabile ormai istantaneamente via web: tempo reale. Il tempo che fluisce col ritmo che conosciamo da millenni ci consente esperienze umane che il razionalismo appoggiato alle protesi tecnologiche minimizza o cancella. Per esempio, il fatto che i padri muoiono e solo dopo scopriamo di comprendere davvero cose che dicevano quando erano in vita. Come a dire: nel sapere si progredisce sempre e la memoria gigantesca di un computer non sa nulla della sapienza che si forma per sedimentazione e stratificazione dell’esperienza. Processo in cui non si getta nulla della vita, neppure gli scarti, la spazzatura. La gioia della Pasqua non è un’emozione, ma un’esperienza. Parte dal Giovedì/Venerdì Santo e giunge a Pentecoste: un tempo straordinario che, finendo, introduce ancora un tempo ordinario. C’è bisogno anche di questo. Anche per gli apostoli e le donne, all’inizio, è stata inesprimibile, incontenibile. Come per ciascuno di noi. Perché la risurrezione è il punto ? proprio in senso geometrico ? attraverso cui passano tutte le altre rette, tutti gli altri raggi. E passano proprio tutti a ciascuno di noi, che stiamo attaccati a una e una sola retta. Passa l’intero. E per noi è incontenibile. Ciascuno degli apostoli e delle donne che il Risorto ha raggiunto personalmente, ha sentito subito il bisogno di comunicarlo agli altri discepoli e di ricomporre la piccola totalità perduta del Cenacolo, come spazio del contenimento e del prolungamento della gioia. Da allora la liturgia, che ne nasce gradualmente, segna il tempo e lo spazio e permette di gustare, insieme, qualcosa di quella pienezza. Senza la liturgia rimarremmo sommersi dal dubbio sull’evento vissuto da un gruppo di uomini e donne estatici e un po’ fuori di sé, a seguito di vicende sostanzialmente oscure. Afferrati dalla liturgia nata da quell’evento, dal suo lento fluire e dal suo prolungarsi, pur rimanendo reale e non estatica, non si ha più il faticoso impegno dell’andare incontro a Cristo Signore. Accade l’opposto. È Lui che viene, seduce e afferra. Viene. Viene con la liturgia. E il tempo e lo spazio cambiano, limitatamente, per dilatare quanto più possibile le nostre misere possibilità di tenuta. Avviene come in quella piacevole esperienza della nostra infanzia, quando, sul treno in stazione, non sapevamo se eravamo noi a partire o il treno accanto?un movimento in uno spazio dove cambiano i punti di riferimento, un movimento nuovo: il movimento dello spirito. La quaresima ci ha donato con evidenza una liturgia dove si sviluppa una tematica con il carattere di cammino catecumenale, spirituale e ascetico verso la Pasqua, con fasi identificabili. Il tempo è graduale. Nel tempo pasquale, invece, predomina ormai l’idea di pienezza, meno traducibile in termini progressivi. Qui il tempo è circolare. «Continui a operare nelle nostre anime» ci ricorda l’orazione dopo la comunione del messale romano. Le nuove spinte scientifiche e tecnologiche ci fanno comprendere più in profondità il tempo e lo spazio fisici e apriranno certamente a nuove comprensioni del tempo spirituale. E viceversa, con beneficio per l’umanità. Ma solo se sapremo coltivare l’umiltà, regina delle virtù. Lo esige l’avvicinarsi ai costitutivi dell’esistenza. L’umiltà infatti, virtù cristiana e laica, non è rinuncia all’indagine e alla sperimentazione. Possederla è l’unico modo per accedere all’ignoto e al mistero e attingerne senza restarne bruciati. Smarrirla è come trovarci davanti ad una pietra rotolata su un sepolcro. Ostruzione insormontabile per giungere alla vita. E non solo quella eterna.

Publié dans:meditazioni/ riflessioni, Pasqua |on 31 mars, 2016 |Pas de commentaires »

RITORNO A DIO

http://www.atma-o-jibon.org/italiano6/letture_patristiche_d.htm

RITORNO A DIO

Giulio Bevilacqua *

Padre Bevilacqua, il «parroco-cardinale» nacque nel Veronese nel 1881. Si laureò a Lovanio con una tesi di carattere sociologico. Filippino nel 1906 e sacerdote due anni dopo, fu pensatore, scrittore e predicatore profondo e apprezzatissimo. Parroco in tempo di pace e cappellano durante la guerra, può veramente essere chiamato un «umanista cristiano» nel senso più pieno dell’espressione. Quando, a 84 anni, fu fatto cardinale e accettò questa dignità a patto di poter rimanere semplice parroco di periferia, si comprese che era uno degli uomini delle nuove frontiere della Chiesa, che davvero aveva saputo mantenersi sempre giovane. Morì povero fra i poveri il 6 maggio 1965, concludendo la sua splendida testimonianza di vita evangelica.

Tutta la creazione deve percorrere un immenso ciclo che parte da Dio e torna a Dio. In senso infinitesimale e analogico, ogni creatura umile e sovrana può ripetere la parola di Gesù: Uscii dal Padre, e venni al mondo: abbandono di nuovo il mondo e torno al Padre (Gv. 16, 28). La vita totale non è che questo immenso pellegrinaggio di stelle e di atomi, di spiriti e di corpi che, partiti da Dio, tornano a vivere o a morire, ai piedi o sul cuore di Dio. Ma nel cammino l’uomo si è improvvisamente arrestato. Per gelosia, per orgoglio. La grandezza da cui l’uomo usciva gli sembrava schiacciante. Per fame e sete di esperienze nuove, il sentiero incerto gli parve più dolce del grande cammino. L’uomo nel moto universale delle creature sentì allargarsi i confini del proprio io, sentì vicina la realizzazione del miraggio: sarai come Dio! Diffidente di fronte al comando di Dio, fu credulo alle promesse di tutte le insufficienze moltiplicate che gli garantivano paradisi terrestri tra i corpi e le cose. Corridore distratto, dimenticò che la gloria è all’ultima tappa e si familiarizzò con le tappe intermedie. Allora venne l’espiazione per ricordare all’uomo che ogni precetto di Dio è sotto pena di morte perché ogni precetto di Dio è legge di vita. Ogni ora portò all’uomo un tormento, ogni sforzo una delusione, ogni stagione una decadenza, ogni promessa una smentita. Come il soldato e che per viltà tronca la marcia e si distende sul ciglio della via, l’uomo, dopo la prima ebbrezza, si sentì solo… Prima della sosta, il cammino di andata-ritorno da Dio a Dio era dolce e luminoso come il cammino degli astri e lo svolgersi delle stagioni. Dopo l’arresto non è più così; la ripresa della marcia, nell’ordine universale, suppone un cumulo di energie, di capacità eccedenti ogni disponibilità umana. D’altra parte il ponte era spezzato tra l’uomo e Dio. L’uomo, in piena luce aveva rifiutato a Dio la dignità di bene unico e sovrano. Questo bene infinito e calpestato esigeva una riparazione di un valore infinito. Il Cristo poteva rappresentare in pieno questa umanità ribelle; ed il suo gesto di dolore e di amore sterminato, partendo dalla sua personalità divina, poteva riallacciare l’umanità a Dio… Così la pietà divina diede il Figlio per redimere il mondo. Il Signore della gioia si fece l’uomo del dolore ed assunse sopra di sé la gigantesca fatica di ricondurre l’uomo al suo Dio, attraversando un oceano di sofferenze dovute a noi dalla logica pesante e serrata della colpa come dalla logica alta e profonda della giustizia.

* L’uomo che conosce il soffrire – Ed. Studium; Roma 1940 pp. 57-59.

IL PROCEDERE SBILENCO, IL MISTERIOSO ZOPPICARE DELL’UOMO (DA HENRI DE LUBAC)

http://www.gliscritti.it/antologia/entry/70

IL PROCEDERE SBILENCO, IL MISTERIOSO ZOPPICARE DELL’UOMO (DA HENRI DE LUBAC)

Scritto da Redazione de Gliscritti: 05 /07 /2007

Sull’affermazione di san Bonaventura: «Nulla che sia inferiore a Dio può accontentare l’uomo», de Lubac commenta: «Da ciò deriva, in questa creatura a parte, tale « costituzione ontologica instabile », che la fa nello stesso tempo più grande e più piccola di se stessa. Da questo deriva questa specie di procedere sbilenco, questo misterioso zoppicare, che non è soltanto del peccato, ma prima ancora e più radicalmente proprio d’una creatura fatta di nulla, che, stranamente, confina con Dio: Deo mente consimilis. Nello stesso tempo, indissolubilmente, « nulla » e « immagine »; radicalmente nulla, e tuttavia sostanzialmente immagine: Esse imaginem non est homini accidens, sed potius substantiale. Per la sua stessa creazione, l’uomo è « compagno di schiavitú » di tutta la natura; ma allo stesso tempo, per il suo carattere d’immagine – in quantum est ad imaginem Dei – è « capace della conoscenza beatifica », ed ha ricevuto, nel fondo di se stesso, come diceva Origene, « il precetto della libertà »».

(da Henri de Lubac, citato nell’articolo Contro Hitler a partire da Tommaso, di Michele Dolz, pubblicato da Avvenire del 5 luglio 2007)
[Antologia, i

PORTE APERTE TRA IL TEMPIO E LA PIAZZA – DI GIANFRANCO RAVASI

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/cultura/2011/013q04a1.html

Spazio sacro e spazio civile

PORTE APERTE TRA IL TEMPIO E LA PIAZZA

Pubblichiamo il testo della « lectio magistralis » che il cardinale presidente del Pontificio Consiglio della Cultura tiene il 17 gennaio a Roma presso la facoltà di Architettura dell’università La Sapienza.

DI GIANFRANCO RAVASI

« Il mondo è come l’occhio: il mare è il bianco, la terra è l’iride, Gerusalemme è la pupilla e l’immagine in essa riflessa è il tempio ». Questo antico aforisma rabbinico illustra in modo nitido e simbolico la funzione nel tempio secondo un’intuizione che è primordiale e universale. Due sono le idee che sottendono all’immagine. La prima è quella di « centro » cosmico che il luogo sacro deve rappresentare, un tema sul quale il grande studioso delle religioni Mircea Eliade (1907-1986) ha offerto un vasto dossier documentario. L’orizzonte esteriore, con la sua frammentazione e con le sue tensioni, converge e si placa in un’area che per la sua purezza deve incarnare il senso, il cuore, l’ordine dell’essere intero.
Nel tempio, dunque, si « con-centra » la molteplicità del reale che trova in esso pace e armonia: si pensi solo alla planimetria di certe città a radiali connesse al « sole » ideale rappresentato dalla cattedrale posta nel cardine centrale urbano (Milano, per esempio, « centrata » sul Duomo ne è un esempio evidente, come New York è la testimonianza di una diversa visione, più dispersa e babelica). Dal tempio, poi, si « de-centra » un respiro di vita, di santità, di illuminazione che trasfigura il quotidiano e la trama ordinaria dello spazio. Ed è a questo punto che entra in scena il secondo tema sotteso al detto giudaico sopra evocato.
Il tempio è l’immagine che la pupilla riflette e rivela. Esso è, quindi, segno di luce e di bellezza. Detto in altri termini, potremmo affermare che lo spazio sacro è epifania dell’armonia cosmica ed è teofania dello splendore divino. In questo senso un’architettura sacra che non sappia parlare correttamente – anzi, « splendidamente » – il linguaggio della luce e non sia portatrice di bellezza e di armonia decade automaticamente dalla sua funzione, diventa « profana » e « profanata ». È dall’incrocio dei due elementi, la centralità e la bellezza, che sboccia quello che Le Corbusier definiva in modo folgorante « lo spazio indicibile », lo spazio autenticamente santo e spirituale, sacro e mistico.
Certo, questi due assi portanti trascinano con sé tanti corollari: pensiamo alla « sordità », all’inospitalità, alla dispersione, all’opacità di tante chiese tirate su senza badare alla voce e al silenzio, alla liturgia e all’assemblea, alla visione e all’ascolto, all’ineffabilità e alla comunione. Chiese nelle quali ci si trova sperduti come in una sala per congressi, distratti come in un palazzetto dello sport, schiacciati come in uno sferisterio, abbrutiti come in una casa pretenziosa e volgare.
A questo punto vorremmo proporre una riflessione di indole più specifica che abbia come codice di riferimento proprio quelle Sacre Scritture bibliche che sono state indubbiamente « il grande codice » della stessa civiltà artistica occidentale. È indiscutibile il rilievo che in esse ha una « teologia » dello spazio, anche se – come si vedrà – essa è inverata in una teologia superiore, quella del tempo e della storia (l’Incarnazione riassume in sé queste due dimensioni ricollocandole nella loro gerarchia).
« Ai tuoi servi sono care le pietre di Sion » (Salmo, 102, 15). Questa professione d’amore dell’antico salmista potrebbe essere il motto stesso della tradizione cristiana che allo spazio sacro ha riservato sempre un rilievo straordinario, a partire dalla « pietra » del Santo Sepolcro, segno della risurrezione di Cristo, attorno alla quale è sorto uno dei templi emblematici dell’intera cristianità. Tra l’altro, è curioso che simbolicamente le tre religioni monoteistiche si ancorino a Gerusalemme attorno a tre pietre sacre, il Muro Occidentale (detto popolarmente « del Pianto »), segno del tempio salomonico per gli ebrei, la roccia dell’ascensione al cielo di Maometto nella moschea di Omar per l’islam e, appunto, la pietra ribaltata del Santo Sepolcro per il cristianesimo.
Certo è che, senza la spiritualità e la liturgia cristiana, la storia dell’architettura sarebbe stata ben più misera: pensiamo solo al nitore delle basiliche paleocristiane, alla raffinatezza di quelle bizantine, alla monumentalità del romanico, alla mistica del gotico, alla solarità delle chiese rinascimentali, alla sontuosità di quelle barocche, all’armonia degli edifici sacri settecenteschi, alla neoclassicità dell’Ottocento, per giungere alla sobria purezza di alcune realizzazioni contemporanee (un esempio per tutte: l’affascinante chiesa del citato Le Corbusier a Ronchamp).
C’è, dunque, nel cristianesimo una celebrazione costante dello spazio come sede aperta al divino, partendo proprio da quel tempio supremo che è il cosmo.
Un grande storico della teologia Marie-Dominique Chenu (1895-1990), al termine della sua vita si rammaricava di aver riservato troppo poco spazio alle arti sia letterarie sia figurative sia architettoniche nella sua storia del pensiero religioso, perché « esse non sono soltanto illustrazioni estetiche ma veri soggetti teologici ». Dall’anonimato in cui si relegavano i grandi costruttori di cattedrali basterebbe solo fare emergere, a titolo esemplificativo, un genio architettonico e artistico come l’abate Sugero di Saint-Denis (xiii secolo).
Detto questo c’è però nella concezione cristiana una componente molto pesante che – come si diceva – sposta il baricentro teologico dallo spazio al tempo. Ed è su questo aspetto che ora vorremmo fissare la nostra attenzione. Nell’ultima pagina neotestamentaria, quando Giovanni il Veggente si affaccia sulla planimetria della nuova Gerusalemme della perfezione e della pienezza, si trova di fronte a un dato a prima vista sconcertante: « Non vidi in essa alcun tempio perché il Signore Dio Onnipotente e l’Agnello sono il suo tempio » (Apocalisse, 21, 22). Tra Dio e uomo non è più necessaria nessuna mediazione spaziale; l’incontro è ormai tra persone, si incrocia la vita divina con quella umana in modo diretto. Da questa scoperta potremmo risalire a ritroso attraverso una sequenza di scene altrettanto inattese.
Immaginiamo di rincorrere questo filo rosso afferrandolo al capo estremo opposto. Davide decide di erigere un tempio nella capitale appena costituita, Gerusalemme, così da avere anche Dio come cittadino nel suo regno. Ma ecco la sorprendente risposta oracolare negativa emessa dal profeta Nathan: il re non costruirà nessuna « casa » a Dio ma sarà il Signore a dare una « casa » a Davide: « Te il Signore farà grande, poiché una casa farà a te il Signore » (ii Samuele, 7, 11). In ebraico si gioca sulla ambivalenza del termine bayit, « casa » e « casato ». Dio, quindi, allo spazio sacro di una casa-tempio preferisce la presenza in una casa-casato, ossia nella storia di un popolo, nella dinastia davidica che si colorerà di tonalità messianiche.
Certo, lo spazio non è dissacrato. Il figlio di Davide, Salomone, innalzerà un tempio che la Bibbia descrive con ammirata enfasi. Eppure quando egli sta pronunziando la sua preghiera di consacrazione, dovrà necessariamente interrogarsi così: « Ma è proprio vero che Dio può abitare sulla terra? Ecco i cieli e i cieli dei cieli non possono contenerti, tanto meno questa casa che io ho costruito! » (1 Libro dei Re, 8, 27). Il tempio, allora, è solo l’ambito di un incontro personale e vitale (non per nulla si parla nella Bibbia di « tenda dell’incontro ») che vede Dio chinarsi « dal luogo della sua dimora, dal cielo » della sua trascendenza verso il popolo che accorre nel santuario di Sion con la realtà della sua storia sofferta della quale si elencano i vari drammi.
I profeti giungeranno al punto di minare le fondamenta religiose del tempio e del suo culto qualora esso si riduca a essere solo uno spazio magico-sacrale, dissociato dalla vita della piazza civica, ossia dall’impegno etico-esistenziale, e affidato solo a una presenza meramente e ipocritamente rituale.
Basti solo, tra i tanti passi profetici di analogo tenore, leggere questo paragrafo del profeta Amos (viii secolo prima dell’era cristiana): « Io detesto, respingo le vostre feste e non gradisco le vostre riunioni. Anche se voi mi offrite olocausti io non accetto i vostri doni. Le vittime grasse di pacificazione neppure le guardo. Lontano da me il frastuono dei vostri canti, il suono delle vostre arpe non riesco a sopportarlo! Piuttosto scorra come acqua il diritto e la giustizia come un torrente perenne! » (5, 21-24).
Ma entriamo nel cristianesimo in modo diretto. Cristo, come ogni buon ebreo, ama il tempio gerosolimitano. Non esita a impugnare una sferza e a menare fendenti contro i mercanti che lo profanano con i loro commerci, ne frequenta le liturgie durante le varie solennità, come faranno anche i suoi discepoli che si riserveranno persino un loro spazio nell’area del cosiddetto « Portico di Salomone ». Eppure lo stesso Cristo in quel meriggio assolato al pozzo di Giacobbe, davanti al monte Garizim, luogo sacro della comunità dei samaritani, non teme di dire alla donna che sta attingendo acqua: « Credimi, donna, è giunto il momento in cui né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre… È giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità » (Giovanni, 4, 21-24).
Ci sarà un’ulteriore svolta che insedierà la presenza divina nella stessa « carne » dell’umanità attraverso la persona di Cristo, come dichiara il celebre prologo del Vangelo di Giovanni: « Il Verbo si è fatto carne e ha posto la sua tenda in mezzo a noi » (1, 14), con evidente rimando alla « tenda » del tempio di Sion. Tra l’altro, il verbo greco eskénosen, « pose la tenda » ricalca le radicali s-k-n del vocabolo ebraico con cui si definiva la « Presenza » divina nel tempio di Sion, Shekinah. Gesù sarà anche più esplicito: « Distruggete questo tempio e in tre giorni io lo farò risorgere ».
E l’evangelista Giovanni annota: « Egli parlava del tempio del suo corpo » (2, 19-21). Paolo andrà oltre e, scrivendo ai cristiani di Corinto, affermerà: « Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi… Glorificate dunque Dio nel vostro corpo! » (i, 6, 19-20).
« Un tempio di pietre vive », quindi, come scriverà san Pietro, « impiegate per la costruzione di un edificio spirituale » (i, 2, 5) un santuario non estrinseco, materiale e spaziale, bensì esistenziale, un tempio nel tempo. Il tempio architettonico sarà, quindi, sempre necessario, ma dovrà avere in sé una funzione di simbolo: non sarà più un elemento sacrale intangibile e magico, ma solo il segno necessario di una presenza divina nella storia e nella vita dell’umanità. Il tempio, quindi, non esclude o esorcizza la piazza della vita civile ma ne feconda, trasfigura, purifica l’esistenza, attribuendole un senso ulteriore e trascendente. Per questo, una volta raggiunta la pienezza della comunione tra divino e umano, il tempio nella Gerusalemme celeste, la città della speranza, si dissolverà e « Dio sarà tutto in tutti » (1 Corinzi, 15, 28).
Terminiamo la nostra riflessione con tre testimonianze. La prima riassume i gradi del discorso finora fatto. È una cantilena ebraica cabbalistica medievale che ricorda i vari passaggi per trovare il luogo dove s’incontra veramente Dio. Ecco il ritornello in ebraico, ritornello assonante che si ripete a ogni strofa: hu’ hammaqôm shel- maqôm / we’en hammaqôm meqomô. Con un gioco di parole e un’intuizione folgorante si dice: « Egli, Dio, è il Luogo di ogni luogo, / eppure questo Luogo non ha luogo ».
La seconda testimonianza è legata alla figura di san Francesco ed è desunta dal capitolo 37 della Vita seconda di Tommaso da Celano, francescano abruzzese. Un frate dice a Francesco: « Non abbiamo più soldi per i poveri ». Francesco risponde: « Spoglia l’altare della Vergine e vendine gli arredi, se non potrai soddisfare diversamente le esigenze di chi ha bisogno ».
E subito dopo aggiunge: « Credimi, alla Vergine sarà più caro che sia osservato il vangelo di suo Figlio e nudo il proprio altare, piuttosto che vedere l’altare ornato e disprezzato il Figlio nel figlio dell’uomo ». Ci dobbiamo, dunque, soltanto spogliare del tempio e della sua bellezza? No, perché Francesco è convinto che Dio ci offrirà di nuovo il tempio, con tutti gli ornamenti: « Il Signore manderà chi possa restituire alla Madre quanto ci ha dato in prestito per la Chiesa ».
La terza e ultima considerazione ci è offerta dalla spiritualità ortodossa. Un noto teologo laico russo del Novecento vissuto a Parigi, Pavel Evdokimov, dichiarava che tra la piazza e il tempio non ci deve essere la porta sbarrata, ma una soglia aperta per cui le volute dell’incenso, i canti, le preghiere dei fedeli e il baluginare delle lampade si riflettano anche nella piazza dove risuonano il riso e la lacrima, e persino la bestemmia e il grido di disperazione dell’infelice. Infatti, il vento dello Spirito di Dio deve correre tra l’aula sacra e la piazza ove si svolge l’attività umana. Si ritrova, così, l’anima autentica e profonda dell’Incarnazione che intreccia in sé spazio e infinito, storia ed eterno, contingente e assoluto.

(L’Osservatore Romano 17-18 gennaio 2011)

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