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LA SPERANZA TIENE L’UOMO IN CAMMINO – ENZO BIANCHI 2004

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LA SPERANZA TIENE L’UOMO IN CAMMINO – ENZO BIANCHI 2004

Ilario di Poitiers, nel suo Commento ai Salmi (118,15,7), riporta la domanda di molti che gridano ai cristiani: «Dov’è, cristiani, la vostra speranza?». Questa domanda deve essere assunta dai cristiani e dalle chiese di oggi come indirizzata direttamente a loro. Poco importa che in essa possano esservi toni di sufficienza o di scetticismo: il cristiano sa che per lui la speranza è una responsabilità! Di essa egli è chiamato a rispondere a chiunque gliene chieda conto (1 Pietro 3,15: «siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi chieda della speranza che è in voi»). Questa responsabilità oggi è drammatica ed è una delle sfide decisive della chiesa: è in grado di aprire orizzonti di senso? Sa vivere della speranza del Regno dischiusale dal Cristo? E sa donare speranza a vite concrete, aprire il futuro a esistenze personali, mostrare che valla pena di vivere e di morire per Cristo? Sa chiamare alla vita bella e felice, buona e piena perché abitata dalla speranza, sull’esempio della vita di Gesù di Nazaret??Queste domande non possono essere eluse, soprattutto oggi che gli orizzonti culturali mostrano una profonda asfitticità ed è difficile formulare speranze a lunga durata, capaci di reggere una vita. Nella «società dell’incertezza» (ben descritta da Zygmunt Bauman), nell’epoca posta sotto il segno della «fine» (di secolo, di millennio, della modernità, delle ideologie, della cristianità), nel tempo della frantumazione del tempo, in cui anche le poche speranze che si aprono faticosamente un varco nella storia sono irrimediabilmente di breve durata, non hanno tempo a consolidarsi, ma sono esposte a imminente smentita, suona ormai in modo drammatico la domanda: «Che cosa possiamo sperare?». E colpisce che l’insistenza sull’avvento del nuovo millennio si accompagni nella chiesa a questa paurosa incapacità di aprire varchi verso il futuro, di mostrare concrete e vivibili strade di speranza e di progettualità, di dare speranza e di essere presenza significativa soprattutto per coloro che nel futuro hanno il loro orizzonte prossimo: i giovani.?L’impressione è che oggi il nemico della speranza sia l’indifferenza, il non-senso o quanto meno l’irrilevanza del senso. La stessa insistenza della pastorale cattolica sulla carità e sul volontariato ha, oltre ai tanti aspetti positivi, anche l’aspetto del ripiegamento sul presente, sull’oggi, sull’azione da compiere nei confronti del bisognoso; il tutto all’interno di una scelta che è a tempo e può sempre essere ritirata, che non impegna il futuro. Di fronte a tutto questo si situa la domanda: «Dov’è, cristiani, la vostra speranza?». Perché la virtù teologale della speranza deve essere visibile, vissuta, trovare un dove, un luogo: altrimenti è illusione e retorica! Un bel testo di Agostino dice che «è solo la speranza che ci fa propriamente cristiani» (La città di Dio 6,9,5). Cioè, il cristiano non vive cose e realtà altre e nuove, ma sostanzia di un senso nuovo e altro le cose e le realtà, e anche tutti i rapporti. Né il problema è definire la speranza, ma viverla. Certo, possiamo dire che la speranza è «un’attiva lotta contro la disperazione» (G. Marcel), è «la capacità di un’attività intensa ma non ancora spesa» (E. Fromm), ma soprattutto è ciò che consente all’uomo di camminare sulla strada della vita, di essere uomo: non si può vivere senza sperare! Homo viator, spe erectus: è la speranza che tiene l’uomo in cammino, in posizione eretta, lo rende capace di futuro.?Il cristiano trova in Cristo la propria speranza («Cristo Gesù, nostra speranza», 1 Timoteo 1,1), cioè il senso ultimo che illumina tutte le realtà e le relazioni. In questo senso, la speranza cristiana è un potente serbatoio di energie spirituali, è elemento dinamizzante che si fonda sulla fede nel Cristo morto e risorto. La vittoria di Cristo sulla morte diviene la speranza del credente che il male e la morte, in tutte le forme in cui si possono presentare all’uomo, non hanno l’ultima parola. Il cristiano narra perciò la propria speranza con il perdono, attestando che il male commesso non ha il potere di chiudere il futuro di una vita; narra la speranza plasmando la sua presenza tra gli uomini sulla fede che l’evento pasquale esprime la volontà divina di salvezza di tutti gli uomini (1 Timoteo 2,4; 4,10; Tito 2,11); soprattutto narra la speranza vivendo la logica pasquale. Quella «logica» che consente al credente di vivere nella fraternità con persone che non lui ha scelto; che lo rende capace di amare anche il nemico, l’antipatico, colui che gli è ostile; che lo porta a vivere nella gioia e nella serenità anche le tribolazioni, le prove e le sofferenze; che lo guida al dono della vita, al martirio. Se dobbiamo vedere oggi nella chiesa delle autorevoli narrazioni della speranza cristiana è proprio alle situazioni di martirio e di persecuzione che dobbiamo guardare. Lì la speranza della vita eterna, della vita in Cristo oltre la morte, trova una sua misteriosa, inquietante, ma concretissima e convincente narrazione. Lì appare credibile ciò che ancora Agostino ha scritto: «La nostra vita, adesso, è speranza, poi sarà eternità» (Commento ai Salmi 103,4,17)

E. Bianchi, Le parole della spiritualità , Rizzoli, Milano 2004

 

OGGI SARAI CON ME – Lc 23,35-43:

http://www.patriarcatovenezia.it/s2ewdiocesivenezia/s2magazine/AllegatiTools/671/Oggi%20sarai%20con%20me.doc.

OGGI SARAI CON ME

(libero adattamento di appunti presi durante gli esercizi spirituali diocesani
predicati da don Romano Martinelli)

Leggiamo e meditiamo insieme il brano di Lc 23,35-43:

[35]Il popolo stava a vedere, i capi invece lo schernivano dicendo: « Ha salvato gli altri, salvi se stesso, se è il Cristo di Dio, il suo eletto ». [36]Anche i soldati lo schernivano, e gli si accostavano per porgergli dell’aceto, e dicevano: [37]« Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso ». [38]C’era anche una scritta, sopra il suo capo: Questi è il re dei Giudei.
[39]Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: « Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e anche noi! ». [40]Ma l’altro lo rimproverava: « Neanche tu hai timore di Dio e sei dannato alla stessa pena? [41]Noi giustamente, perché riceviamo il giusto per le nostre azioni, egli invece non ha fatto nulla di male ». [42]E aggiunse: « Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno ». [43]Gli rispose: « In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso ».
Siamo nel contesto della passione, Gesù è già stato inchiodato, e rispondendo alla supplica di colui che era stato crocifisso alla sua destra, dice una delle sue ultime parole. Con questa rivelazione Luca mette in cattedra una figura anonima, il cosiddetto « buon ladrone ». È uno dei passi più alti del suo vangelo: non è un frammento simpatico, devozionale; qui siamo davanti ad un vertice. È un po’ come una finestra, piccola se volete, ma ci si affaccia sul mondo di Dio.
Lo ha capito bene la piccola Teresa di Lisieux, la quale, alla luce di questa rivelazione, intuisce che la sua vita non può che diventare un sedersi alla mensa dei peccatori.
Che cosa capita sotto la croce? don Bruno Maggioni lo chiamerebbe « lo spettacolo » della croce. Dove c’è la stessa radice della parola « specchio », non lo « spettacolo » televisivo, ma quello specchio che rivela la nostra identità: la Parola dice chi siamo.
Gesù è in relazione con il Padre, davanti a lui prega per i nemici, li accoglie. Sotto la croce ci sono tutti i suoi nemici.
Ci sono quelli che non capiscono: scherno, derisione, insulto. I capi, i militari, il bandito di sinistra vedono in quest’uomo il fallimento estremo: « Tu sei un fallito ». È quanto dice la maggior parte della gente anche oggi nel mondo: il Crocifisso non salva nessuno, non può essere una via di salvezza! Tutti voi siete degli ingenui. Cercare un’altra salvezza è la grande tentazione di sempre.
E poi ce n’è uno che capisce, anche se non è nella condizione di capire, di sperare, di aprirsi al futuro. È il cosiddetto « buon ladrone »: un farabutto che poi diventa « buono » perché è giustificato. È uno che di per sé non sarebbe « salvabile ».
Ecco come si comporta: dice « Io ho sbagliato ed è giusto che paghi. Lui è innocente, è il Cristo ». E, rivolto a Gesù, lo prega: « Ricordati di me quando entrerai nel tuo regno ». Ad uno agonizzante come lui dice: « Tu puoi ricordarti di me, io riconosco in te uno a cui posso affidarmi ». Ma aggiunge: « Tu sei re, ricordati di me, nel tuo regno ». Non solo « sei vivo », ma « sei re ».
Qual è la differenza tra i due ladroni?
Il primo non riesce a riconoscere questa regalità in chi è in una situazione simile e addirittura peggiore della sua. Pensa che sia un imbroglione, un sedicente « messia » che, innocente, non è in grado di salvarsi. Invece il secondo, nella stessa condizione infame, vede in Gesù, nel suo volto e nel suo corpo dissanguato, la salvezza. E quindi confessa e invoca.
Gesù risponde: « In verità ti dico: oggi tu sarai con me in paradiso ».
Certo è commovente vedere come riagguanta il « farabutto ». Guigo il Certosino, amico di san Bernardo, ha questa bella espressione: « Il Salvatore ha inseguito quell’uomo per tutta la vita, scappava sempre. Ad un certo punto l’ha aspettato dove non poteva più scappare, quando era crocifisso; ma allora si è fatto crocifiggere anche lui, per poterlo rapire almeno nell’ultimo istante! ». E Giovanni Crisostomo dice: « Ladro perfino sulla croce! Ha rubato il paradiso all’ultimo momento ».
Gesù dice: Io salvo quando muoio! Lo dice con un impegno solenne, con tutta la sua autorevolezza: « In verità, ti dico ».
Sono la tua salvezza ‘oggi’, non in futuro. Non solo ascolto il tuo gemito, la tua domanda, ma la supero in abbondanza: « Tu sarai con me in paradiso »! Cioè ti salvo non come pensi tu, in maniera confusa, ma come voglio io, in modo pieno, definitivo, fantasioso, straordinario… la salvezza secondo Dio, non secondo l’uomo. Per questo non ci basta dire che il Vangelo « umanizza », che dobbiamo lottare per la giustizia, per la pace…, ma noi diciamo che il Vangelo « divinizza », che è il superamento in eccesso delle nostre attese. La risposta del Salvatore non è solo un ascolto del gemito, ma una assoluta novità.
L’affermazione di Gesù nasconde uno scandalo, perché secondo la mentalità ebraica del tempo era già abbastanza strano che nella comunità dei salvati entrasse un tipo così losco. Anzi, era mostruoso. Ma Gesù dice: Tu immediatamente sarai con me. Sei il primo. Questo è inaccettabile, inimmaginabile!
Ancora più scandaloso è che questa sia la forza della regalità schernita, che questa vittoria venga da un moribondo sul patibolo, non diverso dagli altri.
Questo si percepisce solo nella fede, nell’atteggiamento ormai da credente del centurione, il quale guardando alla croce e vedendo quest’uomo morire così, dice: « Questo è il Figlio di Dio! ».
Secondo un grande esegeta, il gesuita Grelòt, l’espressione di Gesù « con me » significa condivisione di vita, comunanza di destino. Il « ladrone » giustificato, il discepolo, è chiamato a partecipare del colloquio amoroso tra Gesù e il Padre che continua sulla croce, della vita del Padre, della misericordia che Gesù ha in sé.
Ora Gesù dice: non solo contemplate questo spettacolo della misericordia, ma io vi precedo perché anche voi possiate vivere così.

Spunti di riflessione
- Il mistero del ladrone ci spinge ad avere fiducia che anche noi possiamo vivere secondo questa logica di dolcezza, di umiltà, di dono, di bontà tenace. Nell’ascolto della sua Parola, Gesù ci dona di vivere, nelle fratture della storia, con lui e in lui di quest’amore che sgorga da un patibolo e dilaga.
- Riconoscersi vivi per misericordia. Siamo chiamati a scoprire per fede che la misericordia, il chinarsi di Dio, è ciò che ci ha fatto e ci fa vivere, tutti. Se, ad esempio, io spero ancora quando un figlio si allontana e rischia di perdere persino la sua umanità…, è perché so che l’ultima parola, come la prima, su ciascuno di noi è la misericordia. Dio sa trasformare in figli di Abramo anche le pietre e trasforma l’ultimo dei malfattori nel primo dei salvati.
Per un verso questo mistero ci respinge e ci scandalizza: « Non è giusto. Non vale la pena essere buoni, se Dio tratta tutti alla stessa maniera ». Se nel mondo prosperano i furbi, gli egoisti, i mafiosi, i cinici, gli arroganti, i violenti è perché Dio non scende dalla croce, è perché ha pazienza. Se Dio è in mezzo a noi come uno che sembra assente o incapace, è perché è misericordioso e mite. Se Dio fa la figura di chi non sa farsi valere, fino a sembrare inetto, è perché è paziente e misericordioso.
Per un altro verso, se siamo discepoli, cristiani, è perché l’amore, trasfigurandoci, ci rende inevitabilmente segni della sua misericordia.

 

GIOBBE: L’UOMO CHE NON HA PERSO LA SFIDA CON DIO

http://www.tempidifraternita.it/archivio/bodratoweb/bodrato11.htm

GIOBBE: L’UOMO CHE NON HA PERSO LA SFIDA CON DIO

Le pagine d’apertura della Bibbia (Gn 1-11) non sono le uniche che ci offrono un’immagine dell’atto creativo di Dio e delle sue possibili implicazioni teologiche. Nel saggio esegetico collettivo, La création dans l’Orient Ancien (Parigi 1987) vengono ricordati e commentati almeno sei blocchi di testi biblici antichi che dicono la loro su questo argomento: i Salmi (33, 104, 136, 148), il Secondo Isaia (44-55), Geremia (versetti sparsi), Giobbe (38-41), Sapienza (1, 13-14; 9,), 2Maccabei (7, 28). Gli autori chiariscono che ognuna di queste riprese del tema genesiaco ha il suo taglio, la sua prospettiva interpretativa e, se a tutto ciò aggiungiamo le riprese neotestamentarie dell’argomento (prologo di Giovanni e passi specifici di Paolo), dobbiamo concludere che la Scrittura nel confessare la sua fede nel Creatore è, se non equivoca, per lo meno plurivoca. Vale a dire presenta molte linee interpretative, tese alla continua rilettura problematica e attualizzante del tema, come ci dimostra questa rapida e sorprendente incursione nel libro di Giobbe.

E il serpente tentò Dio
Tutti conosciamo questo scritto e tutti sappiamo che è composto da una cornice narrativa fiabesca in prosa e da un ampio dialogo o dibattito in versi, in cui il protagonista, in contesa con gli amici e con Dio, si mostra ben più campione dei diritti dell’innocente perseguitato che di muta pazienza. Non tutti ci rendiamo conto, però, che la soluzione del problema teologico dell’antico testo fa strettamente corpo con la soluzione del suo problema letterario.
Ma quale è questo problema? Esso è precisamente rappresentato dalla difficoltà di cogliere l’unità compositiva dell’intero testo, di conciliare la pazienza del Giobbe fiabesco con la ribellione di quello dialogico, di dare identità coerente e credibile al Dio « tentato » del prologo e a quello « autocelebrativo » dei capitoli 38-41, di capire perché proprio quest’ultimo dia ragione a Giobbe, che lo ha contestato, e non agli amici, che lo hanno difeso, e perché infine Giobbe ritiri le sue accuse a Dio e con lui si riconcili senza avere apparentemente ricevuto risposta alle sue domande.
Un modo per evitare tutte queste questioni è quello di considerare le diverse parti dell’opera come scritti eterogenei di gran pregio messi insieme da un redattore piuttosto approssimativo. Si semplifica così il problema letterario e si sterilizza quello teologico. E’ la strada scelta dai più, ma non è la nostra: visto che la struttura narrativa e poetica del testo esige di essere valutata nella forma in cui ci è pervenuta e che un’ipotesi di lettura unitaria è suggerita dai rimandi che legano ad incastro fiaba e dialogo; visto, infine, che solo l’intervento di un quarto campione di Dio, l’Elihu dei cap.32-37, risulta sicuramente estraneo all’impianto originario e inserito in secondo momento da altra mano, con altro intento, approfittando del carattere aperto e problematico dell’opera.
Ora la prima indicazione, che ci viene dalla valorizzazione del legame tra cornice narrativa e dialogo, è la focalizzazione del testo sulla relazione uomo-Dio, assai più che sul problema del male. L’avventura inizia in cielo perché, mentre Giobbe vive in terra felice e rispettoso dei divini precetti, Satana, ispettore celeste delle umane cose, riesce a gettare l’ombra del dubbio sulle vere ragioni che lo spingono a tanto esercizio di virtù e di pietà. « Forse che Giobbe crede in Dio per nulla? »: sussurra a Dio (1, 9) e Dio deve metterlo alla prova, privandolo dei beni, dei figli e della salute. Alla fine, dopo il drammatico sviluppo dialogico, in cui il tema del male diventa il terreno di verifica del rapporto uomo-Dio, ecco la logica conclusione di questo tema e non di quello: Giobbe ha detto bene di Dio e non gli amici. E’ il suo sacrificio in loro favore e non il loro parlare a favore di Dio ad ottenere la restaurazione della felice condizione iniziale (42, 7-17). Solo Giobbe, infatti, ha saputo stare faccia a faccia con Dio dimostrando dignità, forza e sincerità; ma anche solo Dio è riuscito a reggere la sfida di Giobbe e a farsi accettare con un discorso altrettanto franco e spregiudicato.
Il problema del male è in tutto ciò il terreno di confronto e di scontro, ma non è il problema centrale, tant’è vero che viene discusso, rimescolato fin dalle fondamenta, ma non risolto e altrettanto si dica del problema della creazione che è qui insistentemente evocato.
Con grande acume lo coglie per noi G. Borgonovo: « Rispetto alla teologia profetica pre-esilica e a quella deuteronomistica della legge e della remunerazione il libro di Giobbe colloca il discorso su Dio nell’orizzonte della creazione, un orizzonte più ampio e fondativo. Per esso non si può spiegare la realtà del male partendo da un’etica dell’alleanza. Bisogna presupporre che il Dio dell’alleanza sia il Dio creatore, colui che ha posto in essere l’uomo e il mondo, in quanto realtà in divenire. Da questo punto di vista l’affermazione del II Isaia che da Jhwh, come unico Dio creatore e salvatore, vengono il bene e il male (Is 45, 7) e il contributo di Ezechiele sul principio della responsabilità individuale (Ez 18) rendono incandescente il problema della teodicea. Proprio dall’unione di tali dottrine poteva, infatti, sorgere l’intollerabile immagine di Dio messa in scena contro Giobbe negli interventi dei suoi amici » (La notte e il suo sole, Roma 1995, p. 338).
Il che ci consente di pensare che il libro di Giobbe, insieme al DeuteroIsaia, potrebbe essere una delle voci che hanno spinto i redattori del Pentateuco a valorizzare il tema creativo fino a farne l’apertura della Torah, anche se è evidentissimo che rispetto ai testi qui confluiti esso affronta questo tema con assoluta originalità e persino con spregiudicatezza.
La figura di Satana, ad esempio, che nella prima pagina del libro tenta Dio a proposito di Giobbe, evoca sottilmente ed ironicamente quella del serpente, che in Genesi 3 tenta Adamo ed Eva a proposito di Dio, e l’esito è lo stesso: il precipitare dell’uomo da una condizione edenica di felicità e benessere ad uno stato di prostrazione e dolore. Né le novità spregiudicate si fermano qui.
Negli interventi di Giobbe, infatti, la visione del creato si presenta coi caratteri di una potenzialità negativa sconosciuta ai testi genesiaci e nell’apologia finale del nostro eroe compare un’inaudita rivendicazione di pienezza e dignità umana superiore a quella di Adamo. E’ in tali discorsi che l’uomo manifesta con estrema chiarezza la coscienza dei propri limiti creaturali, il carico di infelicità che lo minaccia e il sospetto che all’origine di tutti i suoi mali non stiano tali limiti, né una sua colpa, ma l’onnipotenza cieca di un Dio potenzialmente sadico.

Giobbe, il riscatto di Adamo
E’ sufficiente ricordare alcune delle affermazioni più incisive del testo. Giobbe inizia con la maledizione del giorno della sua nascita, maledizione che ha sì accenti biografico-esistenziali, ripresi da Geremia (Ger 20, 14-18), ma che subito assume risonanze cosmiche, evocando luci che non risplendono, eclissi di sole, notti prive di computo lunare, incantesimi degni dell’Oceano e di Leviatan, stelle che si negano e aurore che non sorgono (3, 1-9). Non c’è da meravigliarsi se, invitato dagli amici ad affidarsi all’insindacabile giustizia onnipotente di Dio, egli replica che proprio questo lo atterrisce: il potere incontrollabile di un creatore despota che può fare tutto e il contrario di tutto. Può « dispiegare i cieli da solo e cavalcare il mare », ma può anche « impedire al sole di sorgere e tenere sotto sigillo le stelle ». Può condannare l’innocente e ridersela delle tragedie dell’indifeso (9, 1-24). Si interroghino pure le creature del cielo e della terra e in coro confesseranno che quando Lui « blocca le acque tutto inaridisce e quando le libera tutto inonda »; può « rendere potenti i popoli o esiliarli » e può mandare  » a tentoni gli uomini nel buio senza luce » (12, 1-25). E’ Dio, creatore e signore della storia, non l’uomo, la vera minaccia. Dio è in grado di fare ciò che vuole, l’uomo è invece debole, fragile, mortale, più effimero persino di un arbusto (14, 1-22).
Eppure, neanche ad un Dio così immaginato, Giobbe si sottrae o rifiuta la sua attenzione. Lo chiama in giudizio, lo invoca, chiede un mediatore per confrontarsi con Lui e infine si presenta come un Adamo, privo di colpe e pronto a non nasconderle. « Non ho come Adamo occultato il mio delitto, né ho celato nel mio petto la mia colpa…Datemi qualcuno che mi ascolti… Il mio rivale scriva la sua accusa. Io me la caricherei sulle spalle e me la cingerei come diadema. Gli renderei conto di tutti i miei passi e come un principe mi presenterei a Lui. »(31, 33-37; trad. Ravasi)..
Giobbe di più non può dire e non dice. Spetta, infatti, a Dio prendere la situazione in pugno. Naturalmente non Dio in persona, come talvolta sembrano ritenere i commentatori, ma Dio come lo mette in scena l’autore del libro, come lo pensa questo singolare contestatore della teologia del patto e della retribuzione. Bisogna ricordarselo per non esagerare il valore della teofania cosmogonica dei capitoli 38-41 e per ricordare che, come nei primi undici capitoli di Genesi, anche qui siamo nel racconto e nell’immagine mitica. Siamo alle prese con una nuova rivisitazione simbolica e teologica del problema della creazione e del rapporto in essa tra bene e male, tra uomo e Dio.

La trascendenza di Dio e l’alterità del creato
Ciò che soprende e lascia interdetti i commentatori è l’assoluta dissonanza tra le richieste di Giobbe e la duplice risposta di Dio. Il primo sollecita un confronto per chiarire la sua posizione e avere spiegazioni sulle cause dei suoi mali e il secondo gli squaderna con sovrabbondanza d’immagini la magnificenza della propria opera di creatore. Non solo, quasi lo sfida a misurarsi con Lui in questa impresa, che tutto comprende: la progettazione e la messa in opera degli astri e del controllo sui loro movimenti, la disciplina delle acque e di ogni altra potenza cosmica, la cura paziente di ben otto specie viventi, tutte selvagge e indomabili per l’uomo, e di due mostri mitici come Behemot e Leviatan, simbolo della violenza e del male. Tutto comprende, meno l’uomo.
Se ritenessimo, come è uso comune, che il libro di Giobbe è una riflessione sul problema del male, non potremmo che concludere che Dio evita la difficoltà, si rifugia nella sua inaccessibilità, schernisce e schiaccia l’uomo dall’alto della sua onnipotenza. Se pensiamo invece, come suggerisce la cornice fiabesca, che la questione in gioco è la relazione uomo-Dio, la loro diversità, ma anche il loro saper stare con dignità l’uno di fronte all’altro, ecco che questi discorsi divini sulla creazione acquistano diversa sonorità. Diventano un’inedita autopresentazione di Dio e della sua trascendente attenzione all’uomo, attraverso un’inedita presentazione dell’alterità della creazione dall’uomo.
In sostanza Dio fa presente a Giobbe, che protesta per la presenza del male nella sua vita, che proprio Lui ha messo in opera e mantiene in vita una molteplicità di esseri naturali, capaci di vivere in totale indipendenza dall’uomo, che Lui sa tenere a bada le stesse potenze del male, senza distruggerle. E così gli rivela che la sua trascendenza non esclude attenzione e cura per l’opera delle sue mani, non è a misura d’uomo, ma neanche insensata e capricciosa. Di fronte all’accusa di Giobbe di essere il despota di un mondo caotico e ingiusto e al tentativo dei suoi amici di costringerlo al ruolo ideologico di difensore dell’ordine costituito, di garante di una giustizia da bempensanti, Dio manifesta la propria diversità dall’uomo, ma anche la propria attenzione a lui e lo fa mettendo in scena una creazione non antropocentricamente ordinata, eppure non inospitale.
Il che è come dire che l’autore del libro di Giobbe segue e propone un modello creativo alternativo sia al racconto Jahvista che a quello Sacerdotale, in quanto rifiuta tanto l’idea del dominio dell’uomo sul mondo animale, quanto quella di una natura uscita perfettamente ordinata e buona dalle mani di Dio. Costitutiva è, infatti, in essa la presenza del mare e del deserto, coi suoi animali irriducibili ad ogni disciplina, ineliminabile quella di Behemot e Leviatan.
A ragione dunque R. Otto considera la teofania di Giobbe come l’espressione dell’ « assolutamente stupendo, del quasi demoniaco, dell’incomprensibile e indecifrabile mistero della creazione e del creatore » (Il Sacro, Milano 1966, p.87). Ma ancor più nel vero è O. Keel quando osserva che tale incomprensibilità non rende impossibile, ma facilita l’incontro dell’uomo con Dio, perché non carica pregiudizialmente né l’uno né l’altro della totale responsabilità del male, ma pone le basi per la loro collaborazione nella lotta contro la sua misteriosa e non invincibile presenza (Dieu répond à Job, Parigi 1988, pp. 129-130).
Ecco perché Giobbe può piegarsi al mistero trascendente di Dio senza perderci la faccia, perché può dire: « Ti conoscevo per sentiro dire, ora i miei occhi ti hanno veduto » (42, 5). Ed ecco perché Dio può, senza pericolo, ammettere che proprio Giobbe, il ribelle, ha parlato bene di lui e con fondamento (42, 8). Ecco infine perché G. Borgonovo può proporre, in luogo di « Per questo ritratto e mi pento sopra la polvere e la cenere » (42, 6), quest’altra traduzione, audace ma non filologicamente infondata: « Detesto polvere e cenere, ma ne sono consolato » (Op, cit., p.285).
L’uomo e Dio faccia a faccia, ambedue in piedi, l’uno immagine dell’alterità misteriosa dell’altro, a confronto in un mondo che contribuisce al dialogo con la sua specifica e problematica presenza. Giobbe nuovo Adamo e Dio nuovo sempre.

Aldo Bodrato

P. CANATALAMESSA QUARESIMA 2011: 1. LE DUE FACCE DELL’AMORE

http://www.cantalamessa.org/?p=546

PADRE CANTALAMESSA

PRIMA PREDICA DI QUARESIMA – 25 MARZO 2011

1. LE DUE FACCE DELL’AMORE

Con le prediche di questa Quaresima vorrei continuare nello sforzo, iniziato in Avvento, di portare un piccolo contributo in vista della rievangelizzazione dell’occidente secolarizzato che costituisce in questo momento la preoccupazione principale di tutta la Chiesa e in particolare del Santo Padre Benedetto XVI.
C’è un ambito in cui la secolarizzazione agisce in modo particolarmente diffuso e nefasto, ed è l’ambito dell’amore. La secolarizzazione dell’amore consiste nello staccare l’amore umano, in tutte le sue forme, da Dio, riducendolo a qualcosa di puramente “profano”, in cui Dio è “di troppo” e anzi da fastidio.
Ma il tema dell’amore non è importante solo per l’evangelizzazione, cioè nei rapporti con il mondo; lo è anche, e prima di tutto, per la vita interna della Chiesa, per la santificazione dei suoi membri. È la prospettiva in cui si colloca l’enciclica “Deus caritas est” del Santo Padre Benedetto XVI e in cui ci collochiamo anche noi in queste riflessioni.
L’amore soffre di una nefasta separazione non solo nella mentalità del mondo secolarizzato, ma anche, dal versante opposto, tra i credenti e in particolare tra le anime consacrate. Semplificando al massimo, potremmo formulare così la situazione: nel mondo troviamo un eros senza agape; tra i credenti troviamo spesso una agape senza eros.
L’eros senza agape è un amore romantico, più spesso passionale, fino alla violenza. Un amore di conquista che riduce fatalmente l’altro a oggetto del proprio piacere e ignora ogni dimensione di sacrificio, di fedeltà e di donazione di sé. Non occorre insistere nella descrizione di questo amore perché si tratta di una realtà che abbiamo quotidianamente sotto gli occhi, propagandata com’è in maniera martellante da romanzi, film, fiction televisive, internet, riviste cosiddette “rosa”. È quello che il linguaggio comune intende, ormai, con la parola “amore”.
Più utile per noi è capire cosa si intende per agape senza eros. In musica esiste una distinzione che ci può aiutare a farci un’idea: quella tra il jazz caldo e il jazz freddo. Ho letto da qualche parte questa caratterizzazione dei due generi, anche se so che non è l’unica possibile. Il jazz caldo (hot) è il jazz appassionato, ardente, espressivo, fatto di slanci, di sentimenti e quindi di impennate e di improvvisazioni originali. Il jazz freddo (cool) è quello che si ha quando si passa al professionismo: i sentimenti diventano ripetitivi, all’estro si sostituisce la tecnica, alla spontaneità il virtuosismo, si lavora più di testa che di cuore.
Stando a questa distinzione, l’agape senza eros ci appare come un “amore freddo”, un amare “con la cima dei capelli”, più per imposizione della volontà che per intimo slancio del cuore; un calarsi dentro uno stampo precostituito, anziché crearsene uno proprio irripetibile, come irripetibile è ogni essere umano davanti a Dio. Gli atti di amore rivolti a Dio somigliano, in questo caso, a quelli di certi innamorati sprovveduti che scrivono all’amata lettere d’amore copiate da un apposito prontuario.
Se l’amore mondano è un corpo senz’anima, l’amore religioso così praticato è un’anima senza corpo. L’essere umano non è un angelo, cioè un puro spirito; è anima e corpo sostanzialmente uniti. Tutto quello che fa, compreso amare, deve riflettere questa sua struttura. Se la componente legata all’affettività e al cuore, viene sistematicamente negata o repressa, l’esito sarà duplice: o si tira avanti stancamente, per senso del dovere e per difesa della propria immagine, oppure si cercano compensazioni più o meno lecite, fino ai dolorosissimi casi che ben conosciamo. Al fondo di molte deviazioni morali di anime consacrate, non lo si può ignorare, c’è una distorta e contorta concezione dell’amore.
Abbiamo dunque un duplice motivo e una duplice urgenza di riscoprire l’amore nella sua originaria unità. L’amore vero e integrale è una perla racchiusa dentro due valve che sono l’eros e l’agape. Non si possono separare queste due dimensioni dell’amore senza distruggerlo, come non si possono separare tra loro idrogeno e ossigeno senza privarsi con ciò stesso dell’acqua.
2. La tesi dell’incompatibilità tra i due amori
La riconciliazione più importante tra le due dimensioni dell’amore è quella pratica che avviene nella vita delle persone, ma proprio perché essa sia resa possibile è necessario cominciare con il riconciliare tra loro eros e agape anche teoricamente, nella dottrina. Questo ci consentirà tra l’altro di conoscere finalmente cosa si intende con questi due termini tanto spesso usati e fraintesi.
L’importanza della questione nasce dal fatto che esiste un’opera che ha reso popolare in tutto il mondo cristiano la tesi opposta, quella cioè della inconciliabilità delle due forme di amore. Si tratta del libro del teologo luterano svedese Anders Nygren, intitolato “Eros e Agape[1]. Possiamo riassumere il suo pensiero in questi termini. Eros e agape designano due movimenti opposti: il primo, ascensione e salita dell’uomo a Dio, come al proprio bene e alla propria origine; la seconda, discesa di Dio verso l’uomo nell’incarnazione e nella croce di Cristo: quindi, la salvezza offerta all’uomo senza merito e senza risposta da parte sua, che non sia la sola fede. Il Nuovo Testamento ha fatto una scelta precisa, usando, per esprimere l’amore, il termine agape e rifiutando sistematicamente il termine eros.
San Paolo è quello che con più purezza ha raccolto e formulato questa dottrina dell’amore. Dopo di lui, sempre secondo la tesi di Nygren, tale antitesi radicale è andata persa quasi subito per dar luogo a tentativi di sintesi. Appena il cristianesimo entra in contatto culturale con il mondo greco e la visione platonica, già con Origene, c’è una rivalutazione dell’eros, come movimento ascensionale dell’anima verso il bene, come attrazione universale esercitata dalla bellezza e dal divino. In questa linea, lo Pseudo Dionigi Areopagita scriverà che “Dio è eros[2]” , sostituendo questo termine a quello di agape nella celebre frase di Giovanni (1 Gv 4,10).
In occidente una sintesi analoga è operata da Agostino con la sua dottrina della caritas intesa sì come dottrina dell’amore discendente e gratuito di Dio per l’uomo (nessuno ha parlato della “grazia” in modo più deciso di lui!), ma anche come anelito dell’uomo al bene e a Dio. Sua è l’affermazione: “Ci hai fatto per te, o Dio, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te”[3]; sua è anche l’immagine dell’amore come di un peso che l’attira l’anima, come per forza di gravità, verso Dio, come al luogo del proprio riposo e del proprio piacere[4]. Tutto questo, per Nygren, inserisce un elemento di amore di sé, del proprio bene, quindi di egoismo, che distrugge la pura gratuità della grazia; è una ricaduta nell’illusione pagana di far consistere la salvezza in una ascesa a Dio, anziché nella gratuita e immotivata discesa di Dio verso di noi.
Prigionieri di questa impossibile sintesi tra eros e agape, tra amore di Dio e amore di sé, restano, per Nygren, san Bernardo quando definisce il grado supremo dell’amore di Dio come un “amare Dio per se stesso” e un “amare se stesso per Dio”[5] , san Bonaventura con il suo ascensionale “Itinerario della mente a Dio”, come pure san Tommaso d’Aquino che definisce l’amore di Dio effuso nel cuore del battezzato (cf. Rom 5,5) come “l’amore con cui Dio ci ama e con cui fa sì che noi amiamo lui” (amor quo ipse nos diligit et quo ipse nos dilectores sui facit”)[6] . Questo infatti verrebbe a dire che l’uomo, amato da Dio, può a sua volta, amare Dio, dargli qualcosa di suo, ciò che distruggerebbe l’assoluta gratuità dell’amore di Dio. La stessa deviazione, secondo Nygren, si ha con la mistica cattolica. L’amore dei mistici, con la sua fortissima carica di eros, altro non è, per lui, che un amore sensuale sublimato, un tentativo di stabilire con Dio un rapporto di presuntuosa reciprocità in amore.
Chi ha rotto l’ambiguità e riportato alla luce la netta antitesi paolina è stato, secondo l’autore, Lutero. Fondando la giustificazione sulla sola fede egli non ha escluso la carità dal momento fondante della vita cristiana, come gli rimprovera la teologia cattolica; ha piuttosto liberato la carità, l’agape, dall’elemento spurio dell’eros. Alla formula della “sola fede”, con esclusione delle opere, corrisponderebbe, in Lutero, la formula della “sola agape”, con esclusione dell’eros.
Non sta a me qui stabilire se l’autore ha interpretato correttamente su questo punto il pensiero di Lutero. Questi – va detto – non ha mai posto il problema in termini di contrasto tra eros e agape, come ha fatto invece tra fede e opere. È significativo, tuttavia, il fatto che anche Karl Barth, in un capitolo della sua “Dommatica ecclesiale”, arriva allo stesso risultato di Nygren di un contrasto insanabile tra eros e agape: “Dove entra in scena l’amore cristiano – egli scrive –, ha inizio immediatamente il conflitto con l’altro amore e questo conflitto non ha più fine”[7]. Siamo in piena teologia dialettica, la teologia dell’aut-aut, dell’antitesi a tutti i costi.
Il contraccolpo di questa operazione è la radicale mondanizzazione e secolarizzazione dell’eros. Mentre infatti una certa teologia estrometteva l’eros dall’agape, la cultura secolare, da parte sua, era ben felice di fare l’operazione contraria, estromettendo l’agape dall’eros, cioè ogni riferimento a Dio e alla grazia dall’amore umano. Freud è andato fino in fondo in questa linea, riducendo l’amore a eros e l’eros a libido, a pura pulsione sessuale. È lo stadio a cui è ridotto oggi l’amore in molte manifestazioni della vita e della cultura, soprattutto nel mondo dello spettacolo.
Due anni fa mi trovavo a Madrid. Nei giornali non si faceva che parlare di una certa mostra d’arte in atto nella città, intitolata “Le lacrime dell’eros”. Era una mostra di opere artistiche a sfondo erotico – quadri, disegni, sculture – che intendeva mettere in luce l’inscindibile legame che c’è, nell’esperienza dell’uomo moderno, tra eros e thanatos, tra amore e morte. Alla stessa costatazione si arriva, leggendo la raccolta di poesie “I fiori del male di Baudelaire” o “Una stagione all’inferno” di Rimbaud. L’amore che per sua natura dovrebbe portare alla vita, porta invece ormai alla morte.
3. Ritorno alla sintesi
Se non possiamo cambiare di colpo l’idea d’amore che ha il mondo, possiamo però correggere la visione teologica che –certo senza volerlo – la favorisce e la legittima. È quello che ha fatto in maniera esemplare il Santo Padre Benedetto XVI con l’enciclica “Deus caritas est”. Egli riafferma la sintesi cattolica tradizionale esprimendola in termini moderni. “Eros e agape, vi si legge, – amore ascendente e amore discendente – non si lasciano mai separare completamente l’uno dall’altro [...]. La fede biblica non costruisce un mondo parallelo o un mondo contrapposto rispetto a quell’originario fenomeno umano che è l’amore, ma accetta tutto l’uomo intervenendo nella sua ricerca di amore per purificarla, dischiudendogli al contempo nuove dimensioni” (nr. 7-8). eros e agape sono uniti alla fonte stessa dell’amore che è Dio: “Egli ama – continua il testo dell’enciclica – e questo suo amore può essere qualificato senz’altro come eros, che tuttavia è anche e totalmente agape” (nr. 9).
Si capisce, così, l’accoglienza insolitamente favorevole che questo documento pontificio ha incontrato anche negli ambienti laici più aperti e responsabili. Essa da una speranza al mondo. Corregge l’immagine di una fede che tocca il mondo in tangente, senza penetrarvi dentro, con l’immagine evangelica del lievito che fa fermentare la massa; sostituisce all’idea di un regno di Dio venuto a “giudicare” il mondo, quella di un regno di Dio venuto a “salvare” il mondo, a cominciare dall’eros che ne è la forza dominante.
Alla visione cattolica, che su questo punto coincide con quella ortodossa, si può apportare, credo, una conferma anche dal punto di vista dell’esegesi. Quelli che sostengono la tesi dell’incompatibilità tra eros e agape si basano sul fatto che il Nuovo Testamento evita accuratamente – e, a quanto pare, volutamente – il termine eros, usando al suo posto sempre e solo agape (a parte qualche raro uso del termine philia, che indica l’amore di amicizia).
Il fatto è vero, ma non sono vere le conclusioni che si traggono da esso. Si suppone che gli autori del NT siano al corrente sia del senso che il termine eros aveva nel linguaggio comune – l’eros cosiddetto “volgare” – sia il senso elevato e filosofico che aveva, per esempio, in Platone, il cosiddetto eros “nobile”. Nell’accezione popolare, eros indicava più o meno quello che indica anche oggi, quando si parla di erotismo o di film erotici, cioè il soddisfacimento dell’istinto sessuale, un degradarsi piuttosto che innalzarsi. Nell’accezione nobile, esso indicava l’amore per la bellezza, la forza che tiene insieme il mondo e spinge tutti gli esseri all’unità, cioè quel movimento di ascesa verso il divino che i teologi dialettici ritengono incompatibile con il movimento di discesa del divino verso l’uomo.
È difficile sostenere che gli autori del Nuovo Testamento, rivolgendosi a persone semplici e di nessuna cultura, intendessero metterli in guardia dall’eros di Platone. Essi evitarono il termine eros per lo stesso motivo per cui un predicatore evita oggi il termine erotico o, se lo usa, lo fa solo in senso negativo. Il motivo è che, allora come adesso, la parola evoca l’amore nella sua espressione più egoistica e sensuale[8]. Il sospetto dei primi cristiani nei confronti dell’eros era ulteriormente aggravato dal ruolo che esso svolgeva negli sfrenati culti dionisiaci.
Appena il cristianesimo entra in contatto e in dialogo con la cultura greca del tempo, cade immediatamente, abbiamo già visto, ogni preclusione nei confronti dell’eros. Esso viene usato spesso, negli autori greci, come sinonimo di agape ed è impiegato per indicare l’amore di Dio per l’uomo, come pure l’amore dell’uomo per Dio, l’amore per le virtù e per ogni cosa bella. Basta ormai, per convincersene, un semplice sguardo al “Lessico Patristico Greco” del Lampe[9]. Quello di Nygren e di Barth è dunque un sistema costruito su una falsa applicazione dell’argomento cosiddetto “ex silentio”.
4. Un eros per i consacrati
Il riscatto dell’eros aiuta anzitutto gli innamorati umani e gli sposi cristiani, mostrando la bellezza e la dignità dell’amore che li unisce. Aiuta i giovani a sperimentare il fascino dell’altro sesso non come qualcosa di torbido, da vivere al riparo da Dio, ma al contrario come un dono del Creatore per la loro gioia, se vissuto nell’ordine da lui voluto. A questa funzione positiva dell’eros sull’amore umano accenna anche il papa nella sua enciclica, quando parla del cammino di purificazione dell’eros che porta dall’attrazione momentanea al “per sempre” del matrimonio (nr. 4-5).
Ma il riscatto dell’eros deve aiutare anche noi consacrati, uomini e donne. Ho accennato all’inizio al pericolo che corrono le anime religiose, che è quello di un amore freddo, che non scende mai dalla mente al cuore. Un sole invernale che illumina ma non riscalda. Se eros significa slancio, desiderio, attrazione, non dobbiamo avere paura dei sentimenti, né tanto meno disprezzarli e reprimerli. Quando si tratta dell’amore di Dio –ha scritto Guglielmo di St. Thierry – il sentimento di affetto (affectio) è anch’esso grazia; non è infatti la natura che ci può infondere un tale sentimento[10].
I salmi sono pieni di questo anelito del cuore a Dio: “A te, Signore, innalzo l’anima mia…”, “L’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente”.”: “Presta dunque attenzione -dice l’autore della “Nube della non conoscenza – a questo meraviglioso lavoro della grazia nella tua anima. Esso non è altro che un impulso improvviso che sorge senza alcun preavviso e punta direttamente a Dio, come una scintilla che si sprigiona dal fuoco…Colpisci questa fitta nube della non conoscenza con la freccia acuminata del desiderio d’amore e non muoverti di lì, qualunque cosa capiti”[11]. È sufficiente, per fare ciò, un pensiero, un moto del cuore, una giaculatoria.
Ma tutto ciò non ci basta, e Dio lo sa meglio di noi. Noi siamo creature, viviamo nel tempo e in un corpo; abbiamo bisogno di uno schermo su cui proiettare il nostro amore che non sia soltanto “la nube della non conoscenza”, cioè il velo di oscurità dietro cui si nasconde il Dio che nessuno ha mai visto e che abita in una luce inaccessibile…
La risposta che si da a questa domanda, la conosciamo bene: proprio per questo Dio ci ha dato il prossimo da amare! “Nessuno ha mai visto Dio; se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e il suo amore diventa perfetto in noi…Chi non ama il proprio fratello che vede non può amare Dio che non vede” (1 Gv 4, 12 20). Ma dobbiamo stare attenti a non saltare un anello decisivo. Prima del fratello che si vede c’è un altro che pure si vede e si tocca: c’è il Dio fatto carne, c’è Gesù Cristo! Tra Dio e il prossimo c’è ormai il Verbo fatto carne che ha riunito i due estremi in una sola persona. È in lui ormai che trova il suo fondamento lo stesso amore del prossimo: “L’avete fatto a me”.
Cosa significa tutto questo per l’amore di Dio? Che l’oggetto primario del nostro eros, della nostra ricerca, desiderio, attrazione, passione, deve essere il Cristo. “Al Salvatore è preordinato l’amore umano fin dal principio, come a suo modello e fine, quasi uno scrigno così grande e così largo da poter accogliere Dio [...]. Il desiderio dell’anima va unicamente al Cristo. Qui è il luogo del suo riposo, poiché lui solo è il bene, la verità e tutto ciò che ispira amore”[12]. Alta risuona in tutta la spiritualità monastica la massima di san Benedetto: “Nulla assolutamente anteporre all’amore per Cristo”.
Questo non significa restringere l’orizzonte dell’amore cristiano da Dio a Cristo; significa amare Dio nella maniera in cui egli vuole essere amato. “Il Padre vi ama perché voi mi amate” (Gv 16, 27). Non si tratta di un amore mediato, quasi per procura, per cui chi ama Gesù “è come se” amasse il Padre. No, Gesù è un mediatore immediato; amando lui si ama, ipso facto, anche il Padre. “Chi vede me, vede il Padre”, chi ama me ama il Padre.
È vero che neppure Cristo si vede, ma c’è; è risorto, è vivo, ci è accanto, più realmente di quanto lo sposo più innamorato sia accanto alla sposa. È qui il punto cruciale: pensare a Cristo non come a una persona del passato, ma come il Signore risorto e vivente, con cui posso parlare, che posso anche baciare se lo voglio, sicuro che il mio bacio non termina sulla carta o sul legno di un crocifisso, ma su un volto e su delle labbra di carne viva (anche se spiritualizzata), felici di raccogliere il mio bacio.
La bellezza e la pienezza della vita consacrata dipende dalla qualità del nostro amore per Cristo. Solo esso è capace di difendere dagli sbandamenti del cuore. Gesù è l’uomo perfetto; in lui si trovano, a un grado infinitamente superiore, tutte quelle qualità e attenzioni che un uomo cerca in una donna e una donna nell’uomo. Il suo amore non ci sottrae necessariamente al richiamo delle creature e in particolare all’attrazione dell’altro sesso (questa fa parte della nostra natura che Dio stesso ha creato e che non vuole distruggere); ci da però la forza di vincere queste attrazioni con una attrazione più forte. “Casto –scrive san Giovanni Climaco – è colui che scaccia l’eros con l’Eros”[13].
Distrugge forse, tutto questo, la gratuità dell’agape, pretendendo di dare a Dio qualcosa in cambio del suo cuore? Annulla la grazia, come pensa Nygren? Nient’affatto, anzi la esalta. Che cosa infatti, in questo modo, diamo a Dio se non quello che abbiamo ricevuto da lui? “Noi amiamo perché egli ci ha amato per primo” (1 Gv 4, 19). L’amore che diamo a Cristo è il suo stesso amore per noi che gli rimandiamo, come fa l’eco con la voce.
Dov’è allora la novità e la bellezza di questo amore che chiamiamo eros? L’eco rimanda a Dio il suo stesso amore, ma arricchito, colorato o profumato della nostra libertà. Ed è tutto quello che lui vuole. La nostra libertà lo ripaga di tutto. Non solo, ma cosa inaudita, scrive il Cabasilas, “ricevendo da noi il dono dell’amore in cambio di tutto quello che ci ha dato, si ritiene nostro debitore”[14]. La tesi che contrappone eros e agape si basa su un’altra ben nota contrapposizione, quella tra grazia e libertà, e anzi sulla negazione stessa della libertà nell’uomo decaduto (sul “servo arbitrio”).
Io ho provato a immaginare, Venerabili Padri e fratelli, cosa direbbe Gesù risorto, se, come faceva nella vita terrena quando entrava di sabato in una sinagoga, adesso venisse a sedersi qui al posto mio e ci spiegasse di persona qual è l’amore che egli desidera da noi. Voglio condividere con voi, con semplicità, quello che penso ci direbbe; ci servirà per fare il nostro esame di coscienza sull’amore:
L’amore ardente:
E’ mettere me sempre al primo posto.
E’ cercare di piacermi in ogni momento.
E’ confrontare i tuoi desideri con il mio desiderio.
E’ vivere davanti a me come amico, confidente, sposo, ed esserne felice.
E’ essere inquieto se pensi di stare un po’ lontano da me.
E’ essere pieno di felicità quando sono con te.
E’ essere disposto a grandi sacrifici pur di non perdermi.
E’ preferire di vivere povero e sconosciuto con me, piuttosto che ricco e famoso senza di me.
E’ parlarmi come all’amico più caro in ogni momento.
E’ affidarti a me guardando al tuo futuro.
E’ desiderare perderti in me come meta della tua esistenza.
Se sembra anche voi, Venerabili Padri, fratelli e sorelle, come sembra a me, di essere ancora lontabi da questo traguardo, non ci scoraggiamo. Abbiamo uno che può aiutarci a raggiungerlo se glielo chiediamo. Ripetiamo con fede allo Spirito Santo: Veni, Sancte Spiritus, reple tuorum corda fidelium et tui amoris in eis ignem accende: Vieni, Spirito Santo, riempi il cuore dei tuoi fedeli e accendi in essi il fuoco del tuo amore.
NOTE
[1] Edizione originale svedese, Stoccolma 1930, trad. ital. Eros e agape. La nozione cristiana dell’amore e le sue trasformazioni, Bologna, Il Mulino, 1971
[2] Pseudo- Dionigi Areopagita, I nomi divini, IV,12 (PG, 3, 709 ss.)
[3] S. Agostino, Confessioni I, 1.
[4] Commento al vangelo di Giovanni, 26, 4-5.
[5] Cf. S. Bernardo, De diligendo Deo, IX,26 –X,27.
[6] S. Tommaso d’Aquino, Commento alla Lettera ai Romani, cap. V, lez.1, n. 392-293; cf. S. Agostino, Commento alla Prima Lettera di Giovanni, 9, 9.
[7] K. Barth, Dommatica ecclesiale, IV, 2, 832-852; trad. ital. K. Barth, Dommatica ecclesiale, antologia a cura di H. Gollwitzer, Bologna, Il Mulino 1968, pp. 199-225.
[8] Il senso che i primi cristiani alla parola eros si deduce chiaramente dal noto testo di S. Ignazio d’Antiochia, Lettera ai Romani, 7,2: “Il mio amore (eros) è stato crocifisso e non c’è in me fuoco di passione…non mi attirano il nutrimento di corruzione e i piaceri di questa vita”. “Il mio eros” non indica qui Gesù crocifisso, ma “l’amore di me stesso” , l’attaccamento ai piaceri terreni, nella linea del paolino “Sono stato crocifisso con Cristo, non vivo più io” (Gal 2, 19 s.).
[9] Cf. G.W.H. Lampe, A Patristic Greek Lexicon, Oxford 1961, pp.550.
[10] Guglielmo di St. Thierry, Meditazioni, XII, 29 (SCh 324, p. 210).
[11] Anonimo, La nube della non conoscenza, Ed. Áncora, Milano, 1981, pp. 136.140.
[12] N. Cabasilas, Vita in Cristo, II,9 (PG 88, 560-561)
[13] S. Giovanni Climaco, La scala del paradiso, XV,98 (PG 88,880).
[14] N. Cabasilas, Vita in Cristo, VI, 4.
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SONO LA SERVA DEL SIGNORE!

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SONO LA SERVA DEL SIGNORE!

22 dicembre 2013 – 4a Domenica di Avvento A

L’arcangelo Gabriele non stava più nelle piume. Il Signore del Cielo e della Terra gli aveva affidato un compito di fiducia e responsabilità enormi. L’incarico più importante mai esistito dalla Creazione in poi: trovare una madre per il Messia, il Figlio di Dio, Dio stesso fatto uomo sulla terra. Una missione davvero delicata, ma Gabriele non era preoccupato. Tutte le donne della terra (ed erano tante) sarebbero state onorate di diventare la mamma del Messia. Quindi tutto si sarebbe risolto in un rapido voletto di qualche ora. Gabriele planò lemme lemme sulla terra. Fece un largo giro di ispezione e si fermò su una villa magnifica circondata da un grande parco. Accanto ad una fresca fontana, una signora bella ed elegante scherzava con un gruppo di amici simpatici, abbronzati e sorridenti. « La mamma giusta e il posto giusto per il Figlio di Dio! » pensò Gabriele. Si presentò alla signora e le parlò a colpo sicuro: « Vuoi essere la madre del Messia? » La signora lo guardò con aria frivola: « Scherzi? Siamo tutti in partenza per una crociera che farà il giro del mondo, figurati se mi metto a pensare a un bambino… » Gabriele riprese il volo brontolando: « Sì, forse è meglio una mamma meno ricca, più pratica… ». Sorvolò una grande centro di uffici e in uno di questi scorse una donna efficiente e sicura, alle prese con un voluminoso fascicolo. « Questa sarà una madre fantastica… » pensò il buon Gabriele che si fermò in bilico sulla scrivania e le fece senza tanti preamboli la sua proposta. La risposta però gli arruffò tutte le penne delle ali: « Un bambino? Adesso? Ma tu sei matto! Hai idea di quante società ho messo insieme per dare la scalata alla Borsa? Sto arrivando al top, capisci? Non posso certo fermarmi ora. Per un bambino, poi…! » « Ma è il Messia… » replicò Gabriele timidamente. « E allora? » rispose la donna in modo distaccato. Gabriele riprese il volo ma il suo ottimismo era svanito. « Forse devo cercare una donna che abbia già dei bambini… Sarà più facile » pensava un po’ preoccupato. Volò e volò, in lungo e in largo, finché trovò una donna indaffarata e sempre di corsa , ma felice, con tre bambini vivaci e giocherelloni. « Mamma, Alberto ha ingoiato la mia biglia! » « Mamma, Lucia ha strappato il mio libro di storie! » « Mamma, ho fame, ho sete, sono stanco e non so che cosa fare! » L’angelo Gabriele fu costretto a urlare per farsi sentire dalla signora e fece la sua proposta. La donna lo guardò con aria stralunata e poi sbottò: « Un altro bambino? Ma come farei? Questi tre mi divorano viva! non vedo l’ora che siano cresciuti! » Gabriele se ne andò a piedi, con le ali basse. Ora era proprio nei guai. Ma non poteva fallire. La sua missione era la più importante nei secoli dei secoli! « Devo trovare qualcuno più giovane… più coraggioso… più generoso…una donna dall’anima grande…ma veramente grande…immensa. Ma dove la trovo una così? » Gabriele riprese il suo volo. Volò e volò, in lungo e in largo, a nord e a sud. Per mesi, per anni. Un giorno, in un paesino minuscolo, aggrappato ad una collina di Galilea, trovò una ragazza giovane giovane, forse quindicenne, che mentre lavorava cantava e pregava, povera, libera e felice. « E’ lei! » si disse Gabriele. E si buttò in picchiata con l’angelico cuore che batteva all’impazzata. La fanciulla si chiamava Maria. L’angelo entrò in casa e le disse: « Ti saluto, Maria! Il Signore è con te: egli ti ha colmata di grazia ». A queste parole Maria rimase sconvolta e si domandava che significato poteva avere quel saluto. Ma l’angelo le disse: « Non temere, Maria! Tu hai trovato grazia presso Dio. Avrai un figlio, lo darai alla luce e gli metterai nome Gesù. Egli sarà grande: Dio, l’Onnipotente, lo chiamerà suo Figlio; il Signore lo farà re, lo porrà sul trono di Davide, suo padre, ed egli regnerà per sempre sul popolo d’Israele. Il suo regno non finirà mai ». Allora Maria disse all’angelo: « Come è possibile questo, dal momento che io non ho marito? » L’angelo rispose: « Lo Spirito Santo verrà su di te, l’Onnipotente Dio, come una nube, ti avvolgerà. Per questo il bambino che avrai sarà santo, Figlio di Dio. Vedi: anche Elisabetta, tua parente, alla sua età aspetta un figlio. Tutti pensavano che non potesse avere bambini, eppure è già al sesto mese. Nulla è impossibile a Dio! » Allora Maria disse: « Eccomi, sono la serva del Signore. Dio faccia con me come tu hai detto ». Poi l’angelo la lasciò.

Dio è qui. Il suo nome è Emmanuele, Dio-con-noi. E’ questo il mistero incredibile. Ma siamo capaci noi di far posto a lui? La sua presenza cambia la vita di Maria. E’ fatale che anche a noi dica: « Stringiti un po’ » « Fammi posto perché voglio stare con te. Dio vuole occupare uno spazio: non è un’idea, non è un’astrazione, non è una formula. Dio non è virtuale. Vuole una casa di mattoni, e una di persone vive: la Chiesa. Un Dio astrazione non farebbe paura a nessuno. Dio-nella-storia fa paura, deve essere neutralizzato. Sono duemila anni che qualcuno ci prova. Ma ci sono altre sottili forme di neutralizzazione, per non lasciare spazio a Dio: la parola si e’ fatta carne, afferma l’evangelista Giovanni e gli uomini per troppo tempo hanno cercato di trasformare questa carne, che è Gesù, in parole, parole, parole. Dio è storia, sangue, carezze. DIO è CON NOI perché impariamo a conoscerlo. Si presenta vulnerabile, rifiutabile, eliminabile con facilità. Un bambino. Un pezzetto di pane. E’ in agguato per tutti (specialmente per chi fa tante prediche) il pericolo del mestiere. Dell’abitudine. È la sindrome dell’uomo invisibile Chi ci sta sempre sotto gli occhi non conta più: non lo vediamo più. Quante messe passano in cui badiamo a tante cose, tanti particolari, meno che a Lui, a questa presenza reale che dovrebbe sconvolgerci, abbagliarci. Dio con noi è il paradiso. Abbiamo il paradiso accanto così spesso e non ce ne accorgiamo neppure.

Come se non bastasse, Dio disturba. È come se dicesse anche a noi, come a Maria e a Giuseppe: « Io ho un piano per il mondo che ho creato e voglio portarlo a termine. Ma non lo posso fare senza di te. D’altra parte non voglio forzarti perché la libertà è il dono più grande che ti ho fatto. Vuoi far parte del mio piano? » Gli angeli volano ancora e portano a tutti la domanda di Dio. Se questo messaggio debba raggiungere solo poche persone o tutti gli abitanti di una città o il mondo intero dipende esclusivamente dalla scelta di Dio. L’unica cosa importante è essere convinti che ognuno di noi è adeguatamente equipaggiato: tu hai i doni giusti per adempiere il tuo compito ed io ho i doni appositamente scelti per terminare il mio.

Una graziosa storia racconta: « Dimmi, quanto pesa un fiocco di neve? », chiese la cinciallegra alla colomba. « Meno di niente », rispose la colomba. La cinciallegra allora raccontò alla colomba una storia: « Riposavo sul ramo di un pino quando cominciò a nevicare. Non una bufera, no, una di quelle nevicate lievi lievi, come un sogno. Siccome non avevo niente di meglio da fare, cominciai a contare i fiocchi che cadevano sul mio ramo. Ne caddero 3.751.952. Quando, piano piano, lentamente sfarfallò giù il 3.751.953esimo – meno di niente, come hai detto tu – il ramo si ruppe… ». Detto questo, la cinciallegra volò via. La colomba, un’autorità in materia di pace dall’epoca di un certo Noè, rifletté un momento e poi disse: « Manca forse una sola persona perché tutto il mondo piombi nella pace? ».

Forse manchi solo tu. Un aspetto particolare della verità di Dio è stato messo nelle tue mani, e Dio ti ha chiesto di condividerlo con ognuno di noi, e lo stesso vale per me. Proprio perché tu sei unico, la tua verità è data soltanto a te e nessun altro può dire al mondo la tua verità, o compiere per gli altri il tuo atto d’amore. Solo tu hai tutti i requisiti per essere e fare ciò che devi essere e fare. Solo io ho tutto ciò che è necessario per portare a termine il compito per cui sono stato inviato in questo mondo.

Celebrando Dio con noi possiamo ripetere quello che dice un’antica preghiera liturgica:

Resta con noi, Signore, si sta facendo sera, la giornata volge al tramonto.
Resta con noi e con l’intera umanità Resta con noi quando tramonta il giorno, alla sera della vita e del mondo.
Resta con noi, con la tua grazia e la tua bontà, con la tua parola e il tuo pane, con il tuo conforto e la tua benedizione.
Resta con noi quando su noi viene la notte del tormento e dell’angoscia, la notte del dubbio e della tentazione, la notte della morte amara.

Bruno FERRERO sdb |

DIO, PAROLA DI VITA TRA CREAZIONE E STORIA

http://www.tempidifraternita.it/archivio/bodratoweb/bodrato12.htm

DIO, PAROLA DI VITA TRA CREAZIONE E STORIA

Che la narrazione dell’origine non sia frutto di una speciale conoscenza di ciò che allora avvenne, ma espressione della più ardita ricerca del senso ultimo e quindi teologico di quanto ci accade nel presente, è puntualmente manifestato dai prologhi che i vangeli antepongono alla narrazione dell’esperienza apostolica di incontro col Nazareno. Solo Marco ha, infatti, il coraggio di affrontare il suo tema senza preamboli e di presentare in tutta la sua dirompenza la novità teofanica della predicazione, passione, morte e resurrezione di Gesù Cristo. Matteo e Luca premettono a tale evento rivelatore i racconti della nascita e dell’infanzia, corredati di un’opportuna genealogia, che ricollega il loro eroe ad Abramo, padre del popolo dell’alleanza (Matteo), e ad Adamo, capostipite di tutte le nazioni (Luca). Ma è Giovanni, come bene sappiamo, che tutti li batte in arditezza narrativa e speculativa, introducendo i suoi lettori al racconto della prima manifestazione storica di Gesù con un magnifico inno al Verbo creatore e donatore di luce, che strettamente unisce in sé almeno due dei titoli fondamentali del Dio biblico: quello di essere il supremo ed unico principio di vita e quello di guidare sapientemente la storia con la sua parola. In verità Paolo sembra fare anche di più, nel momento in cui presenta Cristo come « primogenito di tutte le creature, perché in lui sono stati creati tutti gli esseri », « capo del corpo (storico), la Chiesa » e « primizia dei resuscitati » (Colossesi 1, 15-18). Ma l’attenzione al testo giovanneo a noi qui già basta ed avanza per illustrare il carattere della ripresa neotestamentaria del tema creativo.

Un solo Dio, ma un Dio in tensione e dialogo con se stesso Già questo rapido cenno al diverso modo con cui cinque scritti del Nuovo Testamento affrontano il tema della contestualizzazione del loro racconto, inquadrandolo in una cornice che si richiama: ora alla forza dell’esperienza immediata (Marco), ora alla tradizione storica dell’Alleanza (Matteo), ora al complessivo destino dell’umanità (Luca), ora al fondamento creativo dell’universo (Giovanni), ora all’attesa del rinnovamento radicale della storia e del creato (Paolo), ci dovrebbe far riflettere sul carattere problematico e aperto di tutte queste prospettive teologiche. Il Dio profetico dell’evento e della legge, quello sapienziale dell’umanità e della creazione, il Dio escatologico dei « nuovi cieli e della nuova terra », affondano le loro radici nell’unica tradizione letteraria e teologica della Bibbia, e a gruppi omogenei si coordinano anche tra loro in modo ragionevole, ma non si sovrappongono. Sono, infatti, portatori di istanze diverse, che riescono a stare insieme solo grazie ad una sapiente e paziente mediazione narrativa e teologica, quella mediazione che è appunto realizzata dalla Bibbia con la sua variegata e complessa unità. Certo il Dio dell’alleanza, quello della creazione, il Dio dell’incarnazione e quello della Gerusalemme celeste non costituiscono un Panteon di divinità, come furono tentati di pensare alcuni gruppi eretici dei primi secoli, ma proprio in quanto costituiscono un’indivisibile unità, introducono all’interno di tale unità forti tensioni. Sono un unico Dio, presentato nei diversi aspetti del suo agire, ma anche nel mistero della « coincidentia oppositorum ». Sono appunto un Dio di cui non ci si può fare immagine (Es 20, 4), che nessuno può vedere faccia a faccia senza morire (Es 33, 20) e che « solo il Figlio unico che è nel seno del Padre » può raccontare (Gv 1, 18). Non stupisca questa sottolineatura di tensioni interne alla visione biblico-cristiana di Dio, che tutta la nostra tradizione teologica si è impegnata a sfumare e ricomporre nel complesso e profondissimo mistero della Trinità. Essa non è frutto del nostro sguardo critico moderno, ma sta nelle cose e sta nella pagina biblica al punto da costituire una delle fonti vitali della sua forza teologica e letteraria. Ce lo mostrerà il prologo di Giovanni con estrema chiarezza ed efficacia. Ma è bene prepararsi a comprenderne il rilievo esegetico con qualche cenno ad altri contesti biblici. L’intero complesso narrativo della Genesi è mosso dal bisogno di ricollegare in qualche modo l’antica fede ebraica nel Dio dell’alleanza abramitica e della liberazione mosaica col Dio della creazione. Si prefigge ciòè di portare a compimento un processo di universalizzazione del Dio particolare di Israele, senza rinnegarne la storica verità. Alla fine l’Antico Testamento affermerà, per un verso, che l’elezione di Israele è in funzione di tutte le genti (Gen 12, 3) e, per un altro, che la legge mosaica, come espressione della divina sapienza, era già, in qualche modo, presente all’atto della creazione (Siracide 24). Il che è, per altro, una specificazione del più affermato tema della coeternità al creato della Sapienza, tipica controfigura universalista della rivelazione storica e dell’elezione (Proverbi 8, 23; Siracide 1, 4). Il prologo di Giovanni sta in continuità con tutto ciò. E’ figlio di questo secolare processo di rielaborazione concettuale e narrativa, teologica e simbolico-letteraria.

Dal Verbo creatore al Verbo incarnato Se la lettura di questa affascinante e misteriosa pagina evangelica ci ha sempre coinvolti e, in qualche misura, intimoriti, ora sappiamo perché. Il tema su cui ci chiama a misurarci è tra i più complessi che gli autori biblici abbiano mai affrontato. E’ il tema dell’estensione a tutti gli uomini della portata salvifica di un’esperienza personale. Nel caso Giovanni deve mettere in luce che la figura terrena del Gesù storico, che è stata per lui e per i suoi compagni di fede il culmine decisivo di un nuovo e sconvolgente incontro con Dio, non solo è ricollegabile alla tradizione religiosa secolare dell’intero Israele, ma è il vero fondamento di ogni umana esperienza di Dio e , in quanto tale, è comunicabile a tutti e da tutti accoglibile con pienezza di frutto. In consonanza con la tradizione biblica, da cui riceve ispirazione e stimolo, egli procede ad una radicale reinterpretazione teologica della figura di Gesù, basata non su concetti ma su simboli. Costruisce cioè un percorso narrativo capace di esprimere sinteticamente l’unificazione di queste tre verità: Gesù è la piena rivelazione di Dio, Gesù è il compimento dell’alleanza e della legge mosaica, Gesù è l’incarnazione del Verbo creatore e quindi principio di vita e di luce per tutti. Noi sappiamo, per altro verso, che Giovanni non è partito da zero nel suo lavoro. Ha utilizzato un inno preesistente, che si muoveva nella stessa direzione di altri inni citati da Paolo. Anche Paolo nella lettera ai Filippesi (2, 6-11) e nel ricordato passo dei Colossesi, ben prima di quando Giovanni concepisca il suo vangelo, utilizza e integra un canto liturgico già conosciuto. Ma questa notazione filologica non modifica, né complica , il nostro sforzo di comprensione del testo . Se mai, grazie alla migliore conoscenza del suo processo di formazione, lo sostiene. Così è di fatto. L’inno, ripreso e adattato da Giovanni, ci dice che Giovanni non è solo nell’operazione teologica e letteraria fondamentale che sta compiendo. Non è solo ma non è neppure puramente ripetitivo. Crea in un contesto creativo e crea il « luogo teologico » del « Verbo creatore e incarnato », in continuità coi « luoghi teologici » della « Sapienza salomonica e celeste », e della « kenosi di Dio in Cristo Gesù » (Paolo, Filippesi 2, 6-11). Ecco perché Giovanni apre il suo vangelo, scritto in greco, con le stesse parole con cui si apre la Bibbia greca dei Settanta: « En arché – In principio », ed ecco perché scandisce la sua versione dell’inno in tappe che progressivamente portano dal Verbo, coeterno a Dio e creatore di ogni essere (1, 1-3 a), a Gesù Cristo, presenza storica di Dio tra gli uomini (1, 14-18). L’interpretazione del passo è esegeticamente molteplice, perché diverse sono le traduzioni, le ripartizioni e le interpretazioni dei singoli versi. Ma tra le tante a noi sembra davvero stimolante la lettura che ne propone X. Leon-Dufour, che ritiene che il testo non sia una semplice esaltazione della divinità di Cristo e neanche una enunciazione teologica delle diverse modalità di rivelazione della Parola di Dio, ma sia la messa in scena narrativa di un vero e proprio processo di crescita e di sviluppo del rapporto tra Dio e la realtà creata, sviluppo che coinvolge nella dinamica trasformatrice del dialogo tanto l’uomo quanto Dio. Il che, egli ritiene, sia reso evidente dalla possibilità di articolare l’inno in tre blocchi di due strofe ciascuno: il primo dedicato al Verbo creatore (1, 1-3a; 1, 3b-5); il secondo alla Luce di Dio diffusa nel mondo e testimoniata dai profeti nella persona del Battista (1, 6-8; 1, 9-13); il terzo-al Verbo incarnato nel Gesù storico, che Il Battista riconosce e da cui l’autore stesso dichiara di avere ricevuto « grazia su grazia » (1, 14 e 1, 15-18) (Lettura del vangelo secondo Giovanni, vol I, Cinisello Balsamo, 1989).

L’origine come apertura L’esito di tale ripartizione e interpretazione è evidente: la distinzione, ma anche l’articolata relazione unitaria tra Verbo creatore, Luce storica e Verbo incarnato. Il primo è presso Dio ed è Dio, è vita e luce originaria di ogni essere creato, vita e luce che le tenebre non possono fermare (il verso 1, 5b tradotto « e le tenebre non l’hanno arrestata »). La seconda è la Luce vera che storicamente illumina tutte le genti e che è insieme rifiutata e accolta (« … e i suoi non lo accolsero »… »Ma a tutti coloro che l’accolsero… »). Il terzo è Verbo fatto carne, che dimora fisicamente tra noi, porta la grazia a completamento della legge e, unico, come Figlio che viene dal seno del Padre, può raccontarci Dio (« exegesato » tradotto « raccontare » invece di « rivelare »). Il che, mentre sottolinea che la divinità di Gesù è per il quarto evangelista una certezza non priva di problemi e di sfumature, contemporaneamente ci consente di dare alla sua successiva confessione di fede cristologica un fondamento universalista, tale da garantire che anche prima dell’incarnazione ogni uomo abbia potuto accogliere la rivelazione naturale e soprannaturale con esiti positivi e orientanti alla prossimità col Cristo. Non solo, ma ci introduce a pensare alla stessa unicità di Dio non in termini di unità statica e immutabile, ma di unità dinamica e vivente, vale a dire di relazione e di dialogo. L’uomo – possiamo infatti concludere con Leon Dufour – è, ieri come oggi, alla ricerca delle sue origini. Per lunghi secoli ebrei e cristiani hanno risposto a questa ricerca col teologumeno del Dio creatore. Oggi tuttavia sono numerosi coloro che considerano questa risposta come l’appello ad un punto cieco, ad un puro atto di onnipotenza. Non è in questa direzione che ci indirizzano i testi confluiti nell’inizio della Genesi. Per essi l’origine si presenta come un dire di Dio, come un suo atto d’attenzione alla natura e all’uomo, e in Giovanni essa è addirittura una Parola costitutiva di Dio stesso, costantemente tradotta in donazione di vita e di luce e in ultimo di incarnazione. « Questa semplice annotazione modifica radicalmente la concezione che sovente si ha di Dio. Se la Parola appartiene alla sfera di Dio, è il proprio di Dio. Il che significa che Dio non è un’individualità, per quanto sovrana e del tutto diversa dalla nostra, chiusa in se stessa, ma un essere che è potenza d’espressione di sé, dualità nell’unico e, come tale, fonte di relazione, rivolto verso un’immagine di sé che egli si è dialogicamente posto di fronte. Si potrebbe dire, secondo il prologo, che Dio è in espansione costante da se stesso ». ( X. Leon Dufour, op. cit., p. 208) Ma si potrebbe anche dire che questa è un’espansione rivolta, al tempo stesso, dentro e fuori di sé. Dentro, come passaggio dal Verbo in Dio a Luce nel mondo e da Luce nel mondo a Verbo incarnato. Fuori, come rivelazione sotto forma di vita delle cose, di luce che le porta a verità, di Figlio che ci racconta l’amore del Padre. E si potrebbe concludere che è proprio in questo percorso da Verbo a Figlio e da Dio a Padre che Dio si rivela come colui che sa comunicare grazia su grazia, e sa rendere l’uomo capace di diventare, da creatura naturale, suo familiare, in un dialogo tra libertà e libertà che nessuna tenebra può ostacolare. Certo, sono solo alcune tra le infinite cose su cui un accurato commento del prologo giovanneo esigerebbe ci si fermasse, ma sono quelle che bastano a farci capire come la riflessione sul rapporto tra noi e l’origine non possa mai dirsi conclusa e trovi nei vari passi biblici, dedicati alla creazione, più degli indicatori di direzione che dei punti d’arrivo. E sono le cose che ci segnalano la perdita secca appioppata al pensiero dalle teologie che rinunciano ad interrogarsi sulla divinità di Gesù, o perché la danno per scontata o perché la escludono per principio.

Aldo Bodrato

 

Publié dans:BIBBIA, meditazioni bibliche |on 18 décembre, 2013 |Pas de commentaires »

DOMANDE SULLA CLAUSURA: OSSIA L’INCONTRO CON GESÙ IN UN LUOGO APPARTATO (TITOLO MIO)

http://carmeloquart.wordpress.com/la-clausura-2/fondamenti-biblici/

FONDAMENTI BIBLICI -

DOMANDE SULLA CLAUSURA: OSSIA L’INCONTRO CON GESÙ IN UN LUOGO APPARTATO (TITOLO MIO)

«IO STESSO – PAROLA DEL SIGNORE – LE FARÒ DA MURO DI FUOCO ALL’INTORNO E SARÒ UNA GLORIA IN MEZZO AD ESSA» (ZC 2,9)

La gente spesso dice:

“La clausura se la sono inventata gli uomini! Non esiste nella Bibbia! E Gesù non ha mai detto “Beato chi si rinchiude per amor mio!… Cosa c’entrano con la vita evangelica le grate che separano i nostri parlatori, il coro monastico dalla chiesa, ecc. ecc.? Non sarà una scelta che mette al riparo dalla sofferenza, dalle difficoltà di una vita nel mondo? Una fuga dettata dalla paura di affrontare la vita?” Per rispondere a questi interrogativi, più che legittimi, cominciamo a gettare uno sguardo alla Sacra Scrittura. È proprio vero che la clausura, la necessità di uno spazio sacro riservato all’incontro con Dio e di creature scelte da Dio per questo, è estranea all’Antico e al Nuovo Testamento?

Proponiamo alcuni spunti La Montagna dell’Incontro Dio chiama. Mai si stanca di chiamare l’uomo alla comunione con Lui. La storia della salvezza è intessuta di questo dialogo d’amore tra il Creatore e la sua creatura. Dio chiama Mosè per liberare gli israeliti dalla schiavitù d’Egitto e poi lo guida fino al Monte Sinai. Dio sceglie un monte, come segno, come luogo privilegiato dell’incontro con Lui. Che disposizioni dà il Signore a Mosé? Di delimitare la base del monte e di impedire al popolo persino di toccarne la base. Perché questa separazione? Perché il Dio si Israele è il Dio Santo, e la sua santità lo separa da tutto ciò che è profano. Così il Signore stesso sceglie un mezzo: la montagna strettamente delimitata. Oggi come allora, Dio sceglie un mezzo, la clausura, spazio sacro dove avviene l’incontro con Lui. Mosè, scelto senza suo merito, immerso nella contemplazione di Dio, si dimentica forse del suo popolo rimasto alle pendici del monte? No!! Anzi ne diviene il grande difensore di fronte al Signore: «Ma ora, se tu perdonassi il loro peccato… E se no, cancellami dal tuo libro che hai scritto!» (Es 32,32).  Mosè insomma, anche se fisicamente separato dalla sua gente, grazie all’intimità con Dio che lo ha reso simile a Lui, pieno di mitezza e di misericordia, non vive per se stesso, ma per Dio e per gli altri. La sua contemplazione fiorisce in una continua intercessione per il suo popolo.

Il giardino nel deserto «La attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore» (Os 2,16) Dio introduce il suo popolo nel deserto, quasi una “clausura naturale” dove, lontano dagli altri popoli e dagli idoli che avrebbero potuto distoglierlo dal Signore, imparerà a conoscere il Suo amore, a non fidarsi che di Lui, a nutrirsi della Sua volontà… insomma il Signore si è scelto una sposa e la prepara all’unione con sé proprio nel deserto! «Ti fidanzerò con me nella fedeltà e tu conoscerai il Signore» (Os 2,22). «Volete ottenere questa richiesta, vedere il volto di Dio? Non fatene nessun’altra. Fissatevi unicamente su quest’ultima perché essa sola vi basterà… Colui che ama Dio dice: tutto ciò che non è Lui non ha per me nessuna dolcezza. Se il mio Signore mi vuol fare un dono, che Egli mi tolga tutto e che si doni Egli stesso a me»

S. Agostino Dio vuole che la sua creatura faccia esperienza in prima persona del suo amore e per questo la attira a sé in un luogo dove sia possibile realizzare una vera e intima vita “a due” un “continuo cuore a Cuore” tra Lui e la sua creatura.  «Ti ho amato di amore eterno» (Ger 31,3)

Gesù chiama a venire in disparte «La vita solitaria fu praticata familiarmente dallo stesso Signore mentre era insieme con i discepoli, quando si trasfigurò sul Monte santo, suscitandone in loro un tale desiderio che Pietro immediatamente disse: Quanto sarei felice di dimoravi per sempre!»

Guglielmo di Saint Thierry Gesù ha voluto darci l’esempio, per trent’anni, di una vita ritirata, semplice e umile, fatta di preghiera, di lavoro. Le Sue prime parole che il Vangelo ci riporta, al ritrovamento al Tempio ci rivelano la sua vita di intima comunione col Padre: «Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?» La vita di Gesù è abitata da un grande amore: quello di Dio Padre. Anche durante il periodo pubblico, che inizia dopo 40 giorni di ritiro nel deserto, Gesù spesso si ritira per passare notti intere in preghiera di fronte al Padre. Ai suoi discepoli insegna a «venire in disparte», a cercare per prima cosa la comunione con Dio,ad essere piccoli come i bambini… «Quando preghi, entra nella tua camera e chiusa la porta prega il Padre tuo nel segreto» (Mt 6,7) Sotto la guida dello Spirito molti uomini e donne si sono sentititi chiamati ad imitare Gesù in preghiera sul monte, Gesù che vive del suo rapporto col Padre, che si nutre della Sua volontà. «Associare la vita contemplativa alla preghiera di Gesù in luogo solitario denota un modo singolare di partecipare al rapporto di Cristo con il Padre. Lo Spirito, che ha condotto Gesù nel deserto, invita la monaca e condividere la solitudine di Gesù Cristo, che, con “Spirito eterno” offrì se stesso al Padre. La cella solitaria, il chiostro chiuso, sono il luogo nel quale la monaca, sposa del Verbo Incarnato, vive tutta raccolta con Cristo in Dio. […] Ella fissa lo sguardo sul Suo volto e si lascia conformare alla Sua vita, fino alla suprema oblazione al Padre come espressa lode di gloria.»  (Verbi Sponsa) Gesù è lo Sposo della monaca e la clausura il Suo abbraccio, l’anello nuziale, pegno d’amore e di fedeltà

Publié dans:biblica, meditazioni bibliche |on 17 décembre, 2013 |Pas de commentaires »

TERZA DOMENICA D’AVVENTO: “ VIENI SIGNORE GESU’ ”

http://www.donboscoland.it/articoli/articolo.php?id=126872

PREPARIAMOCI ALLA TERZA DOMENICA D’AVVENTO, CON L’OMELIA DI DON GIANNI.

VIENI SIGNORE GESÙ!

3° DOMENICA DI AVVENTO 12 dicembre 2010. “ VIENI SIGNORE GESU’ ”  

Letture: Isaia 35, 1-6.8.10      Giacomo 5, 7-10      Matteo 11, 2-11        

Abbiamo celebrato da poco la festa dell’Immacolata e non vorrei tralasciare un pensiero riconoscente e affettuoso a Maria, la Madre di Gesù. Maria, madre della Chiesa, ci educa a tre atteggiamenti fondamentali da vivere sempre e in modo privilegiato proprio nella Messa.  Il primo è la gratitudine.           È l’atteggiamento che capovolge la noia e la banalità di una vita sazia di cose e povera di amore. “È veramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza rendere grazie sempre e in ogni luogo a Te, Padre Santo…”: ogni volta che nei nostri Prefazi risuonano queste parole, è il prolungarsi nella Chiesa del Magnificat di Maria, il canto di grazie di chi si accorge di essere visitato dalla potenza del Signore.  Il secondo atteggiamento è l’Offerta.           Maria si è unita pienamente al sacrificio del Signore, condividendo fino in fondo la sua logica di umiltà, di abbassamento, di povertà… come logica dell’amore che si dona, si consuma, si offre. Questa è l’unica logica che salva il mondo e lo cambia. Ma è logica esigente e scomoda. Partecipare all’eucaristia significa condividerla, unire al sacrificio del Signore l’offerta della nostra vita perché sia spazio di irradiazione di questa carità.            Il terzo atteggiamento è la Comunione, cioè un’accoglienza totale e incondizionata, un’obbedienza che diviene immedesimazione con i pensieri, i sentimenti, la volontà del Signore, fino a fare una cosa sola con Lui. È quello che siamo chiamati a vivere nella comunione eucaristica. In ogni nostro “Amen” al Corpo eucaristico di Cristo dovrebbe risuonare l’“Eccomi” di Maria, che mette pienamente la propria esistenza a disposizione del suo mistero e per questo diviene modello di accoglienza della sua venuta.   E ora veniamo alle letture di questa 3° domenica di Avvento:  Prima lettura: il profeta Isaia parla del ritorno dall’esilio e si rivolge a gente sfiduciata per aiutarla a sperare nella salvezza che viene dal Signore. Gli effetti dell’intervento divino sono descritti con l’immagine di persone che ricuperano all’istante la loro sanità; anche la natura partecipa a questa gioia! Il deserto dell’esistenza umana è percorso da una corrente di vita e di gioia quasi contagiosa. I vocaboli della felicità si accalcano sulle labbra del profeta: “Gioite, si rallegri, fiorisca, siate forti, non temete, venite a Sion con canti, con gioia sul volto, gioia e felicità li seguiranno!” Il corpo mutilato e la debilitazione della speranza sono attraversati dalla stessa trasformazione. È la nuova vita del popolo di Dio che, dall’esilio, cammina con speranza verso Sion.  Vangelo: molti sono i punti che legano questo brano di Matteo alla prima lettura.  Ø Il popolo cui si rivolge Isaia è un popolo esiliato, che rischia ogni giorno di perdere la speranza nella vita e nel suo Dio; Giovanni in carcere è assillato dal dubbio sull’identità del cugino Gesù. Prima di morire (ormai sente la morte avvicinarsi) vorrebbe sapere chi è veramente  Ø Al popolo in esilio l’intervento di salvezza di Dio viene descritto con un ricupero della salute da parte delle categorie più malandate (ciechi, storpi. lebbrosi, poveri…); a Giovanni in carcere viene detto che i segni che accompagnano la venuta e l’operare di Gesù sono i segni della liberazione dal male proprio per quelle categorie cui faceva riferimento Isaia Ø La risposta che viene data al popolo in esilio e a Giovanni in carcere non passa attraverso disquisizioni teoriche, argomentazioni filosofiche… ma passa attraverso i segni della vita ricuperata nella sua dignità e pienezza.   Ecco la carta di identità del nostro Dio! La risposta che Gesù manda a Giovanni è segnata dall’intenzione di attestare la verità su Dio e quindi su se stesso. Prima di tutto questo: l’essenza della volontà di Dio è avere cura per l’essere umano!  “È sorprendente come questa “buona notizia” susciti perplessità più che entusiasmo, diffidenza più che confidenza, resistenza stupefatta o aggressiva più che commozione luminosa e grata. Perché i suoi segni sono alla portata di chiunque abbia occhi per vedere e orecchi per intendere…. la lieta sorpresa del regno è l’incondizionata unilateralità di Dio a favore dell’uomo. Di ogni uomo, senza eccezione. È l’inaudita folgorazione circa la verità di Dio che Gesù non può aver appreso neppure dalla Madre. » (Sequeri)  In altre parole la risposta di Gesù si potrebbe riformulare così: “I miracoli che compio sono i segni della liberazione dal male, in cui è sempre rappresentato Dio. Dio esiste come Padre, viene come Padre, la sua volontà di bene la cogliete dalla guarigione, non dalla malattia. Chi insegna agli uomini che Dio si serve del dolore degli uomini, del sacrificio delle creature, del male che li affligge per affermare il proprio ordine e il proprio onore, farebbe meglio a legarsi al collo una macina da mulino e a gettarsi in acqua!”  Allora il Dio di Gesù è un Dio che salva, che si può vedere e toccare dovunque c’è la presenza di questi segni. Dove c’è liberazione dal male, lì c’è Dio! I ciechi vedono, i lebbrosi sono sanati, gli storpi camminano, i sordi odono, …. I gesti che rivelano Dio sono eventi della liberazione dal male e soltanto per questi eventi si rende disponibile la potenza della quale è investito il rappresentante di Dio, il figlio suo Gesù.  Conclusione: mi tornano alla mente le parole del buon ladrone: “Costui non ha fatto nulla di male, che meriti la morte!” La carta di identità del nostro Dio porta come unica connotazione l’offerta di segni di bontà, di accoglienza, di perdono, di misericordia, di guarigione dal male in tutte le sue manifestazioni…  Il Dio che viene a Natale è così, nel suo DNA ha questi segni! Avrei voluto fare un’analisi attenta di cosa significa oggi per te e per me “essere ciechi, storpi, sordi, lebbrosi, poveri…” perché a costoro Gesù si rivolge e per costoro Gesù viene: per guarirli.            Questo è il pubblico, la gente sulla quale Dio si china con cuore di Padre. Prova a pensare alla tua cecità: sono/sei cieco sui doni di Dio, su chi è Dio davvero, sulle ricchezze che possiedi, sulle belle qualità di chi ti sta a fianco e che ti ostini a non riconoscere (per invidia, gelosia, orgoglio…?); cieco sulla tua pigrizia e sui tuoi peccati (sono cosa da nulla e poi… fanno tutti così!). Pensa alla tua povertà: di speranza, di amore, di desiderio di Dio e del suo Vangelo… povero di generosità, di slancio per le cose belle; povertà che è chiusura nella solida torre del benessere, dell’egoismo, della ricerca del proprio tornaconto… Allora è il caso che preghiamo con tanta insistenza “Vieni Signore Gesù!” e portami la tua salvezza: che io veda, che oda, che possa camminare, che sia guarito dalla lebbra del peccato, che diventi ricco della ricchezza che conta, non di quella che “i ladri possono rubare e la ruggine distruggere”

E SE DIO NON RISPONDE? – TESTO: SALMO 22

http://web.tiscali.it/alleluia/sediononrisponde.htm

MISSIONE CRISTIANA EVANGELICA

E SE DIO NON RISPONDE?

TESTO: SALMO 22

Penso che una delle cose più difficoltose per l’uomo, sia quella di accettare i momenti critici, e le prove che inevitabilmente tutti dobbiamo affrontare lungo il corso della vita, e quando dico accettare intendo viverli senza cadere in profonde depressioni, oppure in un vittimismo angosciante o in una forma di fastidiosa autocommiserazione, difficile, vero?
Difficile anche per coloro che come si dice in gergo « sono nella fede », anzi per i figlioli di Dio a volte sorgono ulteriori problemi.
Se non abbiamo ben compreso il fine della nostra fede si rischia la depressione spirituale, i dubbi assillano la mente: « Dio perché non rispondi? Forse il Signore mi ha abbandonato, forse sono troppo peccatore, a che serve conoscere un Dio che nel momento del bisogno mi abbandona? » Questi possono essere solo alcuni dei pensieri che assillano la mente di un credente quando attraversa momenti di prova, e la sua fede non è ancora profondamente radicata in Cristo.
Un’esperienza che ci sconcerta.
Leggendo le parole di questo Salmo restiamo sconcertati: « Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato… perché te ne stai lontano senza soccorrermi… perché non mi rispondi? » Certamente tutti conoscono queste parole, sono le stesse che Gesù pronunciò, circa mille anni dopo, alla croce nel momento della sua estrema sofferenza, nel momento in cui Lui, « Dio benedetto in eterno », fu fatto peccato al nostro posto.
Conosciamo la portata profetica di tutto questo salmo, ma non dimentichiamoci che la persona che le stava pronunciando in quel momento era il re Davide in preda ad una reale e profonda angoscia, accerchiato da crudeli nemici, vittima degli scherni, e per di più con il dubbio di essere abbandonato dal suo Dio nel quale aveva riposto tutta la sua fiducia.
Sono parole che ci sgomentano, noi non siamo abituati a questo tenore di preghiera, siamo più propensi ad afferrare le esclamazioni di lode e di giubilo per l’esaudimento immediato, cogliamo al volo, e facciamo subito nostre espressioni del tipo: « Dio è un aiuto sempre pronto nella distretta…e avverrà che prima ancora che essi parlino Io li esaudirò… tutto quello che chiedete in preghiera credete di averlo già ottenuto… », ma sentire queste parole così negative ci sgomenta, eppure sono scritte, fanno parte di un’esperienza vissuta.
Domanda: ma veramente Dio può permettere una simile prova nella vita dei suoi figlioli? Perché Dio non si affretta a rispondere quando soffro così tanto e sono angosciato? Perché devo continuare a camminare nel buio, senza vedere la fine della mia sofferenza? Perché, se sono un figliolo di Dio sono ridotto in uno stato così misero, e tutte le circostanze negative sembrano prendere il sopravvento? Perché il nemico si beffa di me, Signore dove sono le tue promesse?

E’ lecito dubitare dell’amore di Dio?
Quando Dio ritarda nel rispondere alle nostre preghiere per essere liberati dalle circostanze avverse, malgrado tutte le esperienze di liberazione e provvidenza divina vissute nel passato, riusciamo lo stesso a dubitare del suo amore, eppure non dovrebbe essere così, se veramente abbiamo realizzato, non con l’intelligenza, ma nel nostro cuore la realtà di Romani 8:35-39, un passo dove non si parla di liberazioni, di guarigioni, di debiti annullati o di ogni sorta di problemi risolti in dimostrazione dell’amore di Dio, al contrario ci dice che malgrado tutte queste cose ci possano capitare, possiamo avere ancora piena fiducia che Dio ci ama, e niente e nessuno potrà separarci dal suo amore, ed Egli ce ne da la conferma assoluta avendoci donato il suo unigenito Figliolo, nel quale abbiamo la redenzione e la remissione di tutti i nostri peccati e la vita eterna in dono. Davanti alla grandezza del dono universale e gratuito di Dio potremmo ancora dubitare?
Motivazioni sbagliate per le quali credere che Dio non ci possa esaudire.
Vi sono quattro errori fondamentali che impediscono al credente di affrontare le svariate prove senza cadere vittima della depressione e dello scoraggiamento, venendo quasi meno nella fede, e tutti e quattro gli errori hanno la stessa radice: un concetto errato della fede.
Quando le difficoltà ci assillano, le prove della vita ci tagliano le gambe, e Dio sembra non si curi di noi, e non ci risponde, non solo cominciamo a dubitare del suo amore, ma s’innesca un perverso e pericoloso meccanismo nella nostra mente, e ahimè a volte anche nella mente di coloro che ci dovrebbero essere di aiuto e sostegno.
Credere che Dio sia obbligato a rispondere a tutte le nostre richieste.
« Io v’ho scritto queste cose affinché sappiate che avete la vita eterna, voi che credete nel nome del Figliuol di Dio. E questa è la confidanza che abbiamo in lui: che se domandiamo qualcosa secondo la sua volontà, Egli ci esaudisce; e se sappiamo ch’Egli ci esaudisce in quel che gli chiediamo, noi sappiamo di aver le cose che gli abbiamo domandate ». I Giov.5:13-15.
Alcuni credenti pensano che Dio sia obbligato a rispondere a tutte le nostre richieste, sempre e subito, e quando questo non avviene cadono in depressione, sono terrorizzati, si sentono abbandonati da Dio. Soffrono realmente, ma non per causa di una prova particolare, ma a causa della loro immaturità. Spiritualmente parlando sono come un bambino capriccioso, che non vedendo raccolte le proprie richieste e realizzato il proprio sogno, piange urla e strepita.
Dio non ci darà cose inutili, superflue o peggio ancora, dannose al nostro benessere spirituale, e non esaudirà le richieste che non sono conformi alla sua volontà, a meno che anche noi come il popolo d’Israele nel deserto non vogliamo nauseare il Signore con la nostra ribellione e ingratitudine, allora il Signore ci esaudirà, e otterremo secondo le nostre voglie carnali, ma conosciamo il risultato: Dio mandò quaglie perché il popolo voleva carne era stanco della manna, ma l’abbondanza di carne a causa della loro concupiscenza sfrenata divenne anche la loro rovina.
Credere che Dio non risponde perché abbiamo poca fede.
Noi non dobbiamo riposare e confidare sulla quantità della nostra fede, ma dobbiamo confidare nell’amore di Dio, nella sua fedeltà. Egli c’esaudisce perché è fedele.
La vera motivazione per la quale ci soccorre, è perché ci ama ed ha compassione. Se per esempio un padre dovesse vedere il proprio figlio nella sofferenza, ferito e impaurito, non tarderebbe a prestargli soccorso, senza soffermarsi ad analizzare la qualità e la quantità della sua fiducia di essere soccorso, corre in suo aiuto per amore, qualunque sia la sua condizione!
Provate a pensare all’episodio dei discepoli nella barca in mezzo alla tempesta. Gesù, non sgridò i discepoli perché non seppero calmare i venti o le onde con la forza della loro fede, e nemmeno gli lo avrebbe richiesto, ma li sgridò perché non avevano avuto fiducia in Lui. Pensate che Gesù li avrebbe lasciati morire? Avrebbero potuto continuare a navigare in mezzo alla tempesta, e non uno di loro sarebbe morto, perché Gesù era con loro, e d’altra parte non li lasciò affogare a causa della scarsa qualità della loro fede, ma al momento opportuno li soccorse.
Dio ha fatto delle promesse, ed una di queste è che nessuno dei suoi figlioli sarà abbandonato, e c’invita ad accostarci con « piena fiducia al trono della grazia con piena fiducia di essere soccorsi al momento opportuno ». Egli non verrà meno alle sue promesse « se tarda aspettala…ma il mio giusto vivrà per fede ».
Dio non desidera una fede enorme e perfetta, ma una fede semplice che crede nella sua bontà e nel suo amore, anche quando tutto sembra smentirlo. « Come un padre è pietoso verso i suoi figliuoli, così è pietoso l’Eterno verso quelli che lo temono. Poiché egli conosce la nostra natura; egli si ricorda che siam polvere ». Salmo 103:13-14.

Credere che le nostre dichiarazioni positive siano determinanti per l’esaudimento.
Forse qualcuno ti ha indotto a credere che devi sempre esprimerti in modo positivo quando ti rivolgi a Dio, guai ad esprimere qualche piccolo dubbio, e quando preghi devi confessare positivamente di avere già ottenuto quello che chiedi, in caso contrario Dio è pronto a trattenere tutte le sue benedizioni.
Vorrei portarvi l’esempio di Giobbe, diceva sua moglie: « Maledici Dio e poi muori », più negativa di così!! Giobbe non fa altro che lamentarsi durante tutto il periodo della sua terribile prova. Altro che ringraziare il Signore per fede della liberazione e della guarigione! Voleva morire, si ribellava, contendeva con Dio, di una cosa sola era certo: « Io so che il mio Redentore vive… ed un giorno lo vedrò a me favorevole ». Giobbe 19:25.
Nel tempo stabilito, dopo che Dio ebbe compiuto la sua opera nella vita di Giobbe, la sua fede era stata provata, e la sua relazione con Dio assume una giusta prospettiva, ecco che venne la liberazione dalla prova, ma di certo non possiamo imputarne il merito alle « dichiarazioni di fede » pronunciate da Giobbe, ma alla fedeltà di Dio, alla sua compassione!
Credere che il mancato esaudimento sia causato dalla nostra condizione di peccatori.
Non è corretto pensare che i nostri peccati siano la causa diretta delle prove, e del fatto che Dio ritardi la sua risposta. Se abbiamo sinceramente confessato i nostri peccati davanti a Dio, di sicuro non saranno un impedimento alle nostre preghiere, in ogni caso se Dio dovesse trattarci secondo le nostre trasgressioni, nessuno, dico nessuno potrebbe essere esaudito, « O Eterno, se tu poni mente alle iniquità, Signore, chi potrà reggere?  Ma presso te v’è perdono affinché tu sia temuto. Io aspetto l’Eterno, l’anima mia l’aspetta, ed io spero nella sua parola ». Salmo 130:3-4.
Se vi dovesse capitare di trovare un gioiello sporco e infangato, la raccogliereste lo stesso, perché riconoscete che ha ancora il suo valore, per Dio abbiamo sempre valore, malgrado la nostra condizione sia molto simile a quella di quel gioiello, Dio ci ascolta, ci accoglie e ci esaudisce secondo la sua volontà e in virtù della Sua grazia, non per i nostri meriti.
Questo non significa che possiamo trattare con leggerezza il peccato, ma nessuno potrà vantarsi di essere esaudito per la propria giustizia, poiché davanti a Dio siamo tutti peccatori e la nostra giustizia è come un abito sporco, ma per la giustizia che ci ha donato in Cristo, e solo nel suo nome siamo esauditi.
Validi motivi per continuare a confidare in Dio, anche se tarda a rispondere.
Esistono delle motivazioni valide per le quali Dio a volte ritarda dal liberarci dalle nostre distrette? Si! Ed è fondamentale conoscerle e capirne l’importanza, per riuscire a sopportare la prova, e fare in modo che le nostre sofferenze non siano fine a se stesse, ma che sotto la guida del divino Maestro possano diventare un motivo di crescita e maturazione spirituale.
Attenzione non sto affermando che le prove e le sofferenze ci possano fare acquistare dei meriti davanti a Dio, ma possono diventare nelle sue mani quello strumento di potatura per fare sì che spariscono i rami secchi dalla nostra vita spirituale, e che portiamo frutto… più frutto… molto frutto, ossia crescere alla statura di Cristo.
La disciplina di Dio.
Non ha nulla a che vedere con la vendetta o la ritorsione, ma è ha scopo pedagogico, e terapeutico, ed è dettata dall’amore, « Voi non avete ancora resistito fino al sangue, lottando contro il peccato; e avete dimenticata l’esortazione a voi rivolta come a figliuoli: Figliuol mio, non far poca stima della disciplina del Signore, e non ti perder d’animo quando sei da lui ripreso; perché il Signore corregge colui ch’Egli ama, e flagella ogni figliuolo ch’Egli gradisce. È a scopo di disciplina che avete a sopportar queste cose. Iddio vi tratta come figliuoli; poiché qual è il figliuolo che il padre non corregga?  Che se siete senza quella disciplina della quale tutti hanno avuto la loro parte, siete dunque bastardi, e non figliuoli. Inoltre, abbiamo avuto per correttori i padri della nostra carne, eppur li abbiamo riveriti; non ci sottoporremo noi molto più al Padre degli spiriti per aver vita? Quelli, infatti, per pochi giorni, come parea loro, ci correggevano; ma Egli lo fa per l’util nostro, affinché siamo partecipi della sua santità. Or ogni disciplina sembra, è vero, per il presente non esser causa d’allegrezza, ma di tristizia; però rende poi un pacifico frutto di giustizia a quelli che sono stati per essa esercitati ». Ebrei 12:5-8.
Dio per mezzo della disciplina che esercita nella nostra vita, ci guarisce dalla superficialità, dall’egoismo, dall’egocentrismo.
La scuola della sofferenza.
C’è qualche cosa nella Parola di Dio che ci fa pensare, molti parlano del benessere, delle guarigioni, Paolo fu uno strumento eletto da Dio per servirlo, ma avrebbe dovuto soffrire. « Ma il Signore gli disse: Va’, perché egli è uno strumento che ho eletto per portare il mio nome davanti ai Gentili, ed ai re, ed ai figliuoli d’Israele; poiché io gli mostrerò quante cose debba patire per il mio nome ». Atti 9:15.
Come credenti siamo predestinati a diventare ad immagine di Gesù Cristo, ma questa crescita, questo sviluppo avverrà per mezzo anche della sofferenza, delle prove, come del resto è stato per Gesù Cristo uomo.
La scuola della compassione.
Solo coloro che hanno passato la scuola della sofferenza possono capire chi soffre, ed esercitarsi nella compassione, solo coloro che sono stati consolati dall’amore di Cristo nel mezzo della prova possono a loro volta consolare efficacemente. « Benedetto sia Iddio, il Padre del nostro Signore Gesù Cristo, il Padre delle misericordie e l’Iddio d’ogni consolazione, il quale ci consola in ogni nostra afflizione, affinché, mediante la consolazione onde noi stessi siam da Dio consolati, possiam consolare quelli che si trovano in qualunque afflizione ». II Cor.1:3-4.
Conclusione.
Ribellarti e contendere con Dio non ti sarà di aiuto, nei momenti di prova la vera forza e consolazione risiedono nella fiducia in Dio. Anche se ritarda aspettalo, sii fedele. Non lasciarti sedurre dal nemico della nostra anima, che tenterà di trascinarti nel dubbio, facendoti credere che Dio non ti ama, o ti trasporterà nel pantano di strane teologie umane.
Ricordati ci vuole molta più fede nel credere che l’uomo non vive solamente di pane, ma di ogni parola che procede dalla bocca dell’Eterno, piuttosto che adoperarsi per trasformare delle pietre in pane, non ascoltare la voce del diavolo che vuole scambiare la fede con il tentare Dio, non ti servirà salire su uno dei tanti pinnacoli umani per gettarti e provare la fedeltà di Dio.
Ricordati Dio ti ama così come sei e ti accoglie così come sei, ti esaudirà malgrado quello che sei, e se ti sta provando pensa che ti reputa prezioso e ha ritenuto opportuno migliorare la tua condizione, Dio ti ama troppo per lasciarti come sei, e vuole prepararti per la sua gloria « considerate come argomento di completa allegrezza le svariate prove in cui vi venite a trovare… ».

AMEN                                                                                  

PERCHÉ GLI EMPI PROSPERANO? – UNO SGUARDO ALLA BIBBIA

http://camcris.altervista.org/empi.html

IL CAMMINO CRISTIANO

PERCHÉ GLI EMPI PROSPERANO?

UNO SGUARDO ALLA BIBBIA

(testo adattato da « Perché prospera la via degli empi? » di G. Butindaro)

Asaf disse nei salmi: « Ma, quant’è a me, quasi inciamparono i miei piedi; poco mancò che i miei passi non sdrucciolassero. Poichè io portavo invidia agli orgogliosi, vedendo la prosperità degli empi. Poichè per loro non vi sono dolori, il loro corpo è sano e pingue. Non sono travagliati come gli altri mortali, nè sono colpiti come gli altri uomini. Perciò la superbia li cinge a guisa di collana, la violenza li copre a guisa di vestito. Dal loro cuore insensibile esce l’iniquità; le immaginazioni del cuore loro traboccano. Sbeffeggiano e malvagiamente ragionano d’opprimere; parlano altezzosamente. Mettono la loro bocca nel cielo, e la loro lingua passeggia per la terra. Perciò il popolo si volge dalla loro parte, e beve copiosamente alla loro sorgente… Ecco, costoro sono empi: eppure, tranquilli sempre, essi accrescono i loro averi » (Sal. 73:2-10,12).
Giobbe disse: « Perchè mai vivono gli empi? Perchè arrivano alla vecchiaia ed anche crescono di forze? La loro progenie prospera, sotto ai loro sguardi, intorno ad essi, e i loro rampolli fioriscono sotto gli occhi loro. La loro casa è in pace, al sicuro da spaventi, e la verga di Dio non li colpisce. Il loro toro monta e non falla, la loro vacca figlia senz’abortire. Mandano fuori come un gregge i loro piccini, e i loro figliuoli saltano e ballano » (Giob. 21:7-11).
Geremia disse a Dio: « Tu sei giusto, o Eterno, quand’io contendo teco; nondimeno io proporrò le mie ragioni: Perchè prospera la via degli empi? Perchè sono tutti a loro agio quelli che procedono perfidamente? Tu li hai piantati, essi hanno messo radice, crescono, ed anche portano frutto; tu sei vicino alla loro bocca, ma lontano dal loro interiore » (Ger. 12:1,2).
Davide disse nei salmi: « Sta’ in silenzio dinanzi all’Eterno, e aspettalo; non ti crucciare per colui che prospera nella sua via, per l’uomo che riesce nei suoi malvagi disegni » (Sal. 37:7).
Diletti, pure noi siamo testimoni in questa generazione delle cose di cui furono testimoni Asaf, Giobbe, Geremia, e Davide ai loro tempi, infatti anche noi vediamo tanta gente empia prosperare. Non solo gli empi del mondo, ma anche quelle persone che dicono di avere creduto e che onorano Dio con la loro bocca ma hanno il loro cuore lontano da Dio ed esercitato alla cupidigia. Sono conosciuti, parlano anche del vangelo, sono rispettati ed applauditi da molti, prosperano perchè accrescono sempre i loro averi, hanno buona salute, eppure dentro di sè sono orgogliosi, superbi, affaristi, adulteri.
Diletti, che Dio ci dia la grazia di perseverare nel suo timore fino alla fine e di rimanere calmi e fiduciosi in Lui, senza portare la benchè minima invidia agli empi.

La sofferenza e i credenti
(testo adattato da una predicazione del past. David Wilkerson)
Asaf era un maestro cantore, un Levita e una guida dei cori di adorazione del re Davide. Inoltre lui e il suo gruppo suonavano i cembali durante la lode. Gli sono attribuiti undici Salmi.
Quest’uomo era un collaboratore di Davide e un amico molto intimo. Infatti, nessuno poteva essere un Levita e servire nella casa di Dio senza essere vicino a Davide — perchè è lì che Davide si trovava la maggior parte del tempo. Davide amava Dio, e amava stare nella casa di Dio.
Eppure, a dispetto della sua grande chiamata e delle benedizioni, Asaf confessò, « Ma quanto a me, quasi inciampavano i miei piedi, e poco mancò che i miei passi sdrucciolassero » (Salmi 73:2).
Ora, sappiamo che Asaf era un uomo dal cuore puro. Aveva il giusto concetto del Padre celeste, credendo che Dio era buono. Iniziò anche il suo discorso in questo salmo dicendo, « Certamente Dio è buono verso Israele, verso quelli che sono puri di cuore » (verso 1).
Eppure nel verso che segue subito dopo quest’uomo dal cuore puro confessa, « Sono quasi scivolato. Sono quasi caduto! » Perchè Asaf dichiarò questo?
Egli dice: « …portavo invidia ai vanagloriosi, vedendo la prosperità dei malvagi » (verso 3). Quando Asaf si guardava intorno, tutto quello che vedeva era gente malvagia con grandi beni — gente che apparentemente viveva senza problemi, godeva una vita ricca, colma di benedizioni materiali, e aveva tutto quello che avrebbe mai potuto volere o aver bisogno. Forse Asaf sentiva il dolore della sua povertà in modo più acuto. Quel musicista dal cuore puro non riusciva a capire — e gridò, « Signore, questo non ha senso! »
La sofferenza di Asaf lo portò sull’orlo di un peccato mortale: attribuire a Dio infedeltà e noncuranza. Quest’uomo disse a se stesso, « Guarda tutti quei malvagi peccatori. Non pregano. Rigettano la parola di Dio. Ignorano i comandi del Signore. Eppure non sono afflitti come gli altri! »"…non sono tribolati come gli altri mortali » (Salmi 73:5).
Quello che Asaf intendeva qui era, « I malvagi non sono afflitti come me. Essi fanno solo il male — eppure prosperano! Mentro io vivo con abnegazione, essi vivono ricchi e prosperi. Mentre io sono indebolito dai problemi, la loro forza aumenta continuamente » (vedi verso 4).
Quindi Asaf chiede, « Com’è possibile che vi sia… conoscenza nell’Altissimo? » (verso 11). In altre parole: « Dio non vede quello che sta succedendo qui? Non si rende conto della disparità tra i suoi figli sofferenti e giusti, e quelli malvagi? Subiamo costantemente privazioni, mentre gli empi ottengono tutto quello che il loro cuore desidera. E Dio permette che tutto questo continui! »
Secondo il modo di pensare degli uomini, la vita dovrebbe essere così: se diamo tutto a Dio, dobbiamo avere una via sicura alla gloria; niente deve mettersi sul nostro cammino — nessuna sofferenza e nessuna prova. Infatti, molti predicatori stanno cercando di propinare questa falsa dottrina.
Ma la verità è che se cerchi di capire le tue prove con il ragionamento umano, non avranno senso. Non importa quanto ti sforzi, nessuna di esse sembrerà avere senso!
Ti chiedo: hai mai attraversato un periodo in cui ogni giorni ti alzi con una nuvola sulla tua testa? Forse era un periodo di prova, o forse un periodo di allontanamento, di freddezza nella tua vita. O forse, potrebbe anche esserti accaduto durante i tuoi periodi migliori con Dio. Il tuo cuore era aperto alla sua voce; eri pronto per essere un sacrificio vivente per lui; hai pregato, « Padre, sto camminando con te al massimo delle mie possibilità. Se c’è qualcosa nel mio cuore che non va bene davanti a te, toglilo! »
Ma le tue preghiere non sono state esaudite. Non hai sentito niente. E, come Asaf, alla fine ti sei chiesto: « Perchè è così difficile fare il bene? »
Questo è il Punto Più Pericoloso — il Luogo In Cui Si Inizia a Scivolare!
« Invano dunque ho purificato il mio cuore e ho lavato le mie mani nell’innocenza » (Salmi 73:13).
Asaf era così confuso dalle sue sofferenze in confronto alla vita facile dei malvagi, che quasi scivolò in un pozzo di incredulità assoluta. Era pronto ad accusare Dio di averlo dimenticato — di averlo abbandonato, di non curarsi di lui. E per un momento fu pronto ad abbandonare la battaglia — e lasciar perdere completamente.
Questo uomo devoto deve aver pensato, « Ho fatto il bene e ho sopportato le difficoltà tutto questo tempo — ma inutilmente! Tutto il mio rigore, la mia diligenza, le mie lodi e la mia adorazione, il mio studio della Parola di Dio — è stato inutile, in vano. Mi è stato dato tutto per servire il Signore — ho fatto solo quello che era giusto — eppure continuo a soffrire! Queste afflizioni, punizioni e dolori non hanno senso. Che motivo ho per andare avanti? »
Amati, è allora che dovete essere attenti! Quando la calamità cade su di voi, quando una prova arriva, quando state soffrendo — avete bisogno di guardare il vostro cuore dallo scivolare!
Potreste non essere nelle condizioni di Asaf — a un punto di grandi prove e dubbi personali. Ma potreste conoscere qualcuno che sta attraversando quello che lui ha attraversato. Una calamità improvvisa può essere venuta su un parente devoto, un amico o un membro della chiesa — qualcuno che sapete comportarsi fedelmente. E vi siete chiesti, « Perchè, Dio? Come puoi permettere questo? Quella persona è così santa, così giusta! »
Una volta conoscevo una giovane coppia sui trent’anni con due figli. Il marito era un uomo giusto, un marito e un padre affettuoso. Non era mai stato malato un solo giorno in vita sua — ma improvvisamente si ammalò e morì in poco tempo. Sua moglie rimase con i suoi due figli, non sapendo cosa fare.
Tutti intorno a loro si chiedevano, « Perchè, Dio? Questo non ha senso. Come puoi permetterlo? Perchè la sia vita deve essere così dura ora, con questi bambini — dopo tutti gli anni che lei e suo marito ti hanno servito tanto fedelmente? Perchè non è successo a qualcun altro? »
Questo modo di pensare può sembrare innocente — ma rappresenta l’orlo stesso del pozzo dell’incredulità! Mancò poco che Asaf scivolasse in questo pozzo. Ed è il pozzo in cui cadde Israele. Passarono quarant’anni nel deserto dicendo, « Questo non ha senso. La vita è troppo dura! » E morirono dubitando di Dio — in totale apostasia!
Quando Asaf Considerò Tutte Queste Cose, Alla Fine Concluse: « Questo è Troppo
Doloroso per Me. Voglio Andare Alla Casa di Dio! »
« Allora ho cercato di comprendere questo, ma la cosa mi è parsa molto difficile. Finchè sono entrato nel santuario di DIO e ho considerato la fine di costoro » (Salmi 73:16-17).
Asaf andò al tempio. E mentre meditava sul Signore, diceva a se stesso, « Non lascerò che il diavolo mi faccia cadere. Non scivolerò nell’abisso dell’incredulità. Pregherò, per discuterne col Signore ».
Amati, anche quando arriva il vostro periodo di dolore, affanno, o sofferenza dovete andare nel vostro angolo segreto. Non mettetevi al telefono con qualcuno. State da soli con Dio! Gridate col vostro cuore a lui. Andate al santuario per trovare la risposta! Nessun libro, predicatore o registrazione di qualche sermone vi permetterà mai comprendere le vostre prove. Ma se rimanete da soli col Padre, egli vi darà conoscenza!
E’ allora che lo Spirito Santo parlò ad Asaf. E la risposta venne forte e chiara: « Certo, tu li metti in luoghi sdrucciolevoli e così li fai cadere in rovina » (verso 18). Asaf realizzò, « Non sono io quello che sta scivolando. Sono i malvagi a scivolare. Stanno finendo direttamente nella distruzione! »
Il Signore stava dicendo a quest’uomo, « Il tuo problema, Asaf, è che sei rimasto a guardare alle apparenze esteriori — i falsi sogni, le bolle in cui vivono. Non hai mai visto il terrore che c’è nei loro cuori! » « …[sono] consumati con improvvisi terrori » (verso 19).
Dio stava mostrando ad Asaf, « E’ tutto fumo! Se potessi vedere dietro ai loro beni e alle loro apparenze, ti renderesti conto che vivono nel panico e nel terrore. Tutti questa gente malvagia che sembra tanto felice — che passa il tempo bevendo e festeggiando — vanno a casa ogni notte nel panico e nel terrore dei loro cuori. In profondità sanno che un giorno saranno di fronte a me al giudizio — e io li giudicherò. Stanno vivendo in un mondo di sogni, Asaf — e improvvisamente il loro sogno finirà! »
Dio stava dicendo ad Asaf, « Puoi sentirti disprezzato al momento, Asaf. Ma quando tu sarai davanti a me, sarai abbracciato ed amato! »
Improvvisamente, Asaf iniziò a sentire pietà e dolore per quelle persone malvagie che sembravano così benedette: « …mi sentivo trafitto internamente, io ero insensato e senza intendimento » (verso 21-22).
In altre parole: « Come ho potuto essere invidioso di loro? Il loro mondo di sogni è in realtà una vita di terrori nascosti e di paura, di perdizione eterna. Vivranno solo pochi anni nel loro mondo di sogni — ma io ho l’eterna consolazione dello Spirito Santo! Ho un Padre celeste che ha cura di me, indipendentemente da quello che attraverso. E quando sarò di fronte al suo trono, gli sentirò dire, ‘Bene, buono e fedel servitore. Entra nella gioia del tuo Signore!’ »
o — e si rallegrò: « …DIO è la rocca del mio cuore e la mia parte in eterno » (verso 26). Potrebbe dire, « Si, la mia forza può venire meno. Si, sto attraversando una grande battaglia con le mie afflizioni. Ma non sono solo nelle mie lotte. Ho un Padre amorevole in cielo che veglia su di me!
« Signore, non m’importa d’altro in questo mondo al di fuori di te — conoscere te, amare te e credere in te. Chi ho all’infuori di te? Anche se la mia carne e il mio cuore vengono meno, tu sei la forza del mio cuore! »
Fu allora che Asaf entrò davvero nel riposo. Vide che era quasi scivolato — ma si rialzò! Il musicista chiude il suo salmo con questa nota di vittoria: « …io ho fatto del Signore, dell’Eterno, il mio rifugio, per raccontare tutte le opere tue » (verso 28).
Così, caro santo — ti stai mantenendo fermo? O stai credendo alle bugie di Satana secondo cui Dio non può sostenerti? Stai testimoniando la forza di Dio nella tua vita? O stai pensando che il diavolo ha più potere del Dio che abita in te?
Ci deve essere qualcosa in tutti noi che grida, « Oh, Dio, voglio essere liberato! Se sto iniziando a dubitare di te, allora ho iniziato a scivolare. » Questo è il punto in cui dobbiamo credere che Dio sia la nostra forza — non importa quanto deboli ci sentiamo o quanto dolorose sia la nostra prova.
Perciò, smettete di guardare le persone. E fissate i vostri occhi sulla vostra forza — il Signore stesso! Egli ha uno scopo per ogni cosa che permette che accada nella vostra vita. Può non dirvi sempre la ragione — ma Lui sarà la forza del vostro cuore attraverso tutte le avversità. Possa la stessa speranza che provò Asaf venir su dal vostro cuore e gridare, « Signore, tu sei la forza del mio cuore. Vivo o morto, crederò in te! »
Dio aiuti tutti quelli che lo amano a non scivolare mai e a non cadere nell’incredulità.

Publié dans:biblica, meditazioni, meditazioni bibliche |on 22 juillet, 2013 |Pas de commentaires »
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