Archive pour la catégorie 'liturgia'

L’arte sacra e la bellezza (liturgia)

dal sito:

http://www.zenit.org/article-25487?l=italian

L’arte sacra e la bellezza

di Rodolfo Papa*

ROMA, lunedì, 7 febbraio 2011 (ZENIT.org).- Nella Costituzione sulla Sacra Liturgia del Concilio Vaticano II, Sacrosanctum Concilium, è scritto che le opere d’arte sacra «per loro natura, hanno relazione con l’infinita bellezza divina, che deve essere in qualche modo espressa dalle opere dell’uomo e sono tanto più orientate a Dio e all’incremento della sua lode e della sua gloria, in quanto nessun altro fine è stato loro assegnato se non quello di contribuire il più efficacemente possibile, con le loro opere, a indirizzare religiosamente le menti degli uomini a Dio» (n. 122).
Le opere d’arte religiosa e sacra, dunque, devono “in qualche modo” esprimere la bellezza divina, l’infinita bellezza divina, con la quale intrattengono una relazione naturale, che è cioè propria della loro natura. Tramite l’espressione della bellezza, e in quanto si orientano verso la Bellezza infinita, esse possono esplicitare il loro “unico” fine di indirizzare “religiosamente” le anime a Dio.

Ma che cosa è la bellezza?
La tradizione – ma ancor prima di essa e a suo fondamento anche una autentica riflessione su quanto consta nella esperienza comune – lega la bellezza ad un’esperienza dei sensi che eccede gli stessi sensi. Già nella speculazione platonica, la bellezza è delineata nella sua complessità di realtà ideale visibile per gli occhi. Nel Fedro leggiamo: «Per quanto riguarda la Bellezza, poi, come abbiamo detto, splendeva fra le realtà di lassù come Essere. E noi, venuti quaggiù, l’abbiamo colta con la più chiara delle nostre sensazioni, in quanto risplende in modo luminosissimo. Infatti, la vista, per noi, è la più acuta delle sensazioni, che riceviamo mediante il corpo. Ma con essa non si vede la Saggezza, perché, giungendo alla vista susciterebbe terribili amori, se offrisse una qualche chiara immagine di sé, né si vedono tutte le altre realtà che sono degne d’amore. Ora, invece, solamente la Bellezza ricevette questa sorte di essere ciò che è più manifesto e più amabile»[1].
Anche la tradizione scolastica, legge la bellezza come un godimento che parte dalla conoscenza sensoriale ma la supera; così nel pensiero di San Tommaso, la celeberrima affermazione «Pulchrum est quod visum placet», vuole significare che del bello conta l’apprensione e in modo speciale il godimento: il bello è “gradevole alla conoscenza”[2], perché il bello richiede di essere “conosciuto” da un essere che ha l’anima razionale.
La bellezza si caratterizza per Tommaso come “integritas sive proportio”, ovvero compiutezza, come “debita proportio sive consonantia”, ovvero armonia proporzionale, e come “claritas”, ovvero splendore, corporeo e spirituale. Tutto questo significa un legame stretto tra bellezza ed ordine; già Sant’Agostino affermava che «Non vi è nulla di ordinato che non sia bello: come dice l’Apostolo, ogni ordine proviene da Dio.»[3]
Il piacere causato dalla bellezza coinvolge non solo i sensi, ma tutta la persona: emozioni e passioni; ragione e intelletto; e si tratta di un piacere non finalizzato all’utile, dunque, è un piacere disinteressato, un piacere per piacere: cioè un provare piacere di fronte a qualche cosa che si conosce, senza volerla comprare, possedere, modificare, firmare.
Il piacere che si gode nella conoscenza del bello trova ragione nel fatto che le cose belle sono anche vere e buone. Infatti, ci piacciono gli originali, non le imitazioni, ci piacciono le cose buone, non quelle cattive.
Anche per i Greci, il tema della bellezza, indagato radicalmente nel suo spessore ontologico, si trova indissolubilmente legato con il bene.
Secondo san Tommaso, il bello e il bene «si identificano nel soggetto, perché si fondano sulla medesima realtà, cioè sulla forma, e per questo ciò che è buono è lodato come bello»[4]. Il bello implica una forma che desta ammirazione e si riferisce all’intelletto, mentre il bene implica una forma che attrae e si riferisce alla volontà. Potremmo dire che il godimento della bellezza è gioia nella conoscenza del bene: unisce conoscenza e gioia, coinvolgendo tutta la persona.
La bellezza della realtà è un segno della bellezza del Creatore. Le perfezioni di Dio sono da noi conosciute a partire dalla conoscenza della realtà creata. Ogni bellezza è partecipazione della bellezza divina.
Giovanni Paolo II nella Lettera agli Artisti ha scritto: «Per questo la bellezza delle cose create non può appagare, e suscita quell’arcana nostalgia di Dio che un innamorato del bello come sant’Agostino ha saputo interpretare con accenti ineguagliabili: “Tardi ti ho amato, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amato!”» (n.16).
Le arti della pittura, della scultura e dell’architettura collocate all’interno del pensiero cristiano, hanno dunque il compito di scrutare e descrivere tale bellezza, traducendola, attraverso i mezzi propri di ciascuna disciplina, in un canto di gioia che, esprimendo l’amore di Dio verso l’uomo, sia capace di essere il canto, fatto con arte, che tutta la Chiesa innalza verso il cielo, come ringraziamento.
L’artista, dunque, non solo deve conoscere la bellezza, ma deve contemplarla, per questo da sempre il primo testimone della verità della bellezza è l’artista; in più l’artista di opere d’arte sacra, per la sua particolare condizione, non può che essere un vero cristiano, che vive la propria vocazione artistica nella costante preghiera.

1) Platone, Fedro, 250 D-E
2) Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, II-II, 27, 1, ad 3um
3) « Nihil enim est ordinatum, quod non sit pulchrum. Et sicut ait apostolus: Omnìs ordo a deo est» Agostino, De vera Religione, cap. XLI (trad. it. a cura di O. Grassi, Milano 1997, pag. 136).
4) Tommaso d’Aquino, Summa theol., I, 5, 4, ad 1um.
————

* Rodolfo Papa è storico dell’arte, docente di storia delle teorie estetiche presso la Facoltà di Filosofia della Pontificia Università Urbaniana, Roma; presidente della Accademia Urbana delle Arti. Pittore, membro ordinario della Pontificia Insigne Accademia di Belle Arti e Lettere dei Virtuosi al Pantheon. Autore di cicli pittorici di arte sacra in diverse basiliche e cattedrali. Si interessa di questioni iconologiche relative all’arte rinascimentale e barocca, su cui ha scritto monografie e saggi; specialista di Leonardo e Caravaggio, collabora con numerose riviste; tiene dal 2000 una rubrica settimanale di storia dell’arte cristiana alla Radio Vaticana.

Publié dans:arte sacra, liturgia |on 7 février, 2011 |Pas de commentaires »

segni liturgici : La luce, i ceri e le candele

dal sito:

http://www.liturgiagiovane.it/new_lg/articoli.asp?nf=documenti/ARTICOLI/1782.htm&l0=3&l1=70&l2=0&nr=1782

 segni liturgici  :  La luce, i ceri e le candele  
    
 OGNI COSA CREATA DA DIO È VERAMENTE BELLA. SE SAPESSIMO ASCOLTARNE LA VOCE ANCHE LE CREATURE INANIMATE CI PARLEREBBERO DI DIO. LA SCRITTURA CI INSEGNA A PENETRARE IL LORO SIMBOLISMO E A SERVIRCENE PER ANDARE A DIO. LA LITURGIA SEGUE FEDELMENTE IL METODO DELLA BIBBIA E DI GESÙ E CI FA PREGARE CON LE COSE   
    
  Autore: don Antonio (parroco di Pero) 

  
  Tratto da: Autore del 30/05/2004  

La prima cosa che Dio creò – dice la Bibbia – fu la luce e in tutta la Bibbia la luce diventa simbolo delle realtà della vita religiosa.
Ma sono stati soprattutto Gesù e i suoi apostoli a rivelarci tutta la ricchezza simbolica della luce.
Gesù disse: “Io sono la vera luce” e disse ai discepoli: “Voi siete la luce del mondo… la vostra luce deve brillare davanti agli uomini affinché vedano le vostre opere buone e glorifichino il Padre che sta nei cieli!” (Mt 5,16).
Ecco perché la chiesa anche nella sua liturgia utilizza spesso con tanta importanza l’uso delle candele: dal grande cero pasquale che si porta in processione che viene collocato al battistero e a fianco della bara nei funerali, come immagine di Cristo risorto, al cero o candela ricevuta nel Battesimo che il fedele ritrova quando riceve gli altri sacramenti, alle candele che vediamo accese sull’altare o a quelle che la nostra pietà ci fa accendere davanti al tabernacolo o alla immagine della Madonna o di santi veneranti per finire alla piccola lampada che arde nascosta e silenziosa vicino al tabernacolo.
Cerchiamo di capire il significato di questi diversi ceri.
 Il cero pasquale: Gesù Cristo risorto
Il cero pasquale che è grande e decorato viene acceso con solennità nella notte di Pasqua e il diacono canta tutto il suo simbolismo.
Esso poi brillerà al centro di tutte le celebrazioni fino al giorno dell’Ascensione. Con i suoi colori caldi, solitario, evidente nello spazio, il cero pasquale annuncia e simboleggia la presenza di Cristo risorto e la sua fiamma sembra mormorare l’incredibile notizia: “Eccomi di nuovo con voi!”.
Come Cristo nel suo sacrificio pasquale il cero brucia davanti a Dio interamente e si consuma.
“Da questa colonna di cera che brucia in onore a Dio – si canta alla sera di Pasqua – sale verso il cielo come una fiamma la preghiera della Chiesa!”.
E quando all’Ascensione che ricorda la salita nella gloria di Gesù il cero pasquale viene spento, la chiesa ricorda ancora con emozione quello che aveva cantato nel cuore della veglia di Pasqua: “Che bruci ancora quando si leverà l’astro del mattino, Colui che non conosce tramonto, il Cristo tuo Figlio risorto ritornato dagli inferi che dona agli uomini pace e luce!”.
Il Cero pasquale è collocato nel Battistero e lo si accende ad ogni battesimo, alla sua fiamma verrà accesa anche la candela o cero battesimale come segno della vita di grazia che nel sacramento ci è data.
Il Cero pasquale viene collocato a fianco della bara nei funerali per esprimere la fede nella risurrezione che si fonda appunto in Gesù Cristo risorto!
Il cero battesimale: realtà ed impegno della vita cristiana
Nell’antico rito del battesimo al neobattezzato veniva fatta la consegna di un cero acceso. La preghiera che lo accompagnava (riferendosi ad una parola di Gesù che riguardava le vergini prudenti e le vergini stolte) sottolineava il simbolismo di tre idee:
v    il cristiano deve trovare la luce della propria vita di fede (Gv 8,12)
v    il cristiano deve egli stesso essere luce del mondo (Mt 5,14)
v    il cristiano riesce ad essere luce del mondo quando riesce a condurre una vita di operosa testimonianza (Mt 25,1-15).
Anche nel nuovo rito c’è la consegna del cero che viene data ai padrini o ai genitori per il battezzato e in più si sottolinea che tutto questo il battezzato non potrà farlo da solo ma con l’aiuto della chiesa.
In certe comunità viene regalata la candela del battesimo, essa viene portata alla notte di Pasqua per rinnovare così la propria fede.
La candela del battesimo dovrebbe essere portata in chiesa anche quando si ricevono gli altri sacramenti, la candela che viene data nella circostanza la richiama. Tutto ha significato perché si è battezzati, tutto ha significato nella fede. Forse questo stanno a significare le candele che accendiamo sull’altare prima di ogni funzione religiosa.
La candela: simbolo della vita e devozione cristiana
È un uso diffuso quello di accendere una candela davanti al SS. Sacramento, o alle statue della Madonna e dei santi.
Questo gesto non deve essere superstizioso ma bisogna attribuirgli il giusto valore: bisogna essere convinti che la candela accesa rappresenta l’immagine e la preghiera di colui che la offre a Dio o ai Santi.
È l’immagine di chi la offre, cioè del cristiano che cerca di mettere in pratica il comando di Gesù ad essere figlio della luce: “Dio è luce: in Lui non ci sono tenebre… Voi siete figli della luce: camminate dunque sapendo di essere figli della luce” (1Gv 1,5; 1Tes 5,5; Ef 5,8).
È l’immagine della preghiera del cristiano che la offre.
Spiega bene una didascalia in un santuario: “La candela prolunga la tua preghiera, ma non la sostituisce!”.
Accendere una candela dunque non è atto disimpegnato ma un vero proposito di vita cristiana.
 La lampada del tabernacolo
La lampada del Tabernacolo indica la presenza di Cristo.
Essa mormora il canto dell’amore che arde verso il Salvatore, il pane vivo!
Come nell’Antico Testamento ardeva la lampada davanti all’arca che conteneva le tavole della Legge, così oggi in ciascuna delle nostre chiese è presente il Figlio di Dio portatore di amore capace di suscitare nei nostri cuori la carità.
La lampada del tabernacolo arde di fronte a colui che non dovremmo mai lasciare: a questa fiamma noi chiediamo di perpetuare la nostra adorazione anche quando non siamo lì.
Essa simboleggia anche l’esortazione evangelica “Pregate senza mai smettere”, essa veglia e ci esorta alla vigilanza dei cuori.
Quando usciamo dalla Chiesa possiamo mostrarla al Signore dicendo “Ecco la mia anima, essa non ti abbandona!”.

Questa lampada non può essere elettrica solo il fuoco può continuare il nostro dialogo con Dio, un fuoco che non si deve mai spegnere. “La chiesa in cui brilla lo spirito di Cristo è come una lampada illuminata” (Paolo VI).

Publié dans:liturgia |on 5 février, 2011 |Pas de commentaires »

Chiesa Ortodossa: Vita liturgica

dal sito:

http://www.mariadinazareth.it/Europa%20Cristiana/ortodossia%20vita%20liturgica.htm

LA CHIESA ORTODOSSA

Vita liturgica

Il fedele ortodosso non si ferma alla riflessione sulla fede, ma la vive nella liturgia. Creata dalla Chiesa di Costantinopoli sulla base del rito antiocheno, radicato a sua volta nel vecchio fondo siriano e palestinese, la liturgia ortodossa del rito bizantino è animata – come osserva O.Clèment – dai temi giovannei della luce e della vita. Celebrata nelle lingue nazionali, essa costituisce un forte elemento di unione spirituale tra i cristiani ortodossi ed espressione di universalità. La ricchezza dottrinale, alimentata dai commenti biblici, dalla teologia patristica e dai dogmi dei concili ecumenici, ed espressa con squisita formulazione poetica, dà alla liturgia ortodossa un’incisiva forza catechetica, che ha aiutato i cristiani ortodossi a rimanere ancorati nella fede anche nei periodi di persecuzione.
Da spirito monastico, essa segue le regole precise del Typikon, intrecciando diversi cicli liturgici, in modo da disporre i fedeli ad accogliere la grazia e a guidarli alla comunione con Cristo e all’incontro con il Padre. Il ciclo quotidiano inizia con la sera. Gli uffici quotidiani (vespro, compieta, ora di mezzanotte, mattutino con la prima ora, l’ora terza e l’ora nona) fanno vivere la storia della salvezza, dalla creazione fino all’incarnazione del Figlio di Dio, alla cui vita ogni fedele partecipa nella Divina liturgia.
La Divina liturgia è la celebrazione eucaristica che coinvolge i fedeli nella vita stessa di Cristo. Ha come centro la preparazione e la consacrazione dei doni del pane e del vino e la comunione con il Cristo eucaristico. Ha forte carattere ecclesiale, tanto che alla celebrazione del sacerdote deve essere partecipe almeno un’altra persona e non si possono celebrare più Divine liturgie nello stesso giorno.
L’anno liturgico ortodosso registra una compenetrazione di diversi cicli. Il ciclo della quaresima comprende le dieci settimane che precedono la Pasqua. Le prime tre domeniche dedicate al pubblicano e al fariseo, al figlio prodigo, al giudizio universale introducono nell’atmosfera penitenziale. Seguono le settimane della Quaresima con le domeniche dedicate al trionfo dell’ortodossia, a s.Gregorio Palamas, alla Santa Croce, a s.Giovanni Climaco o della Scala, a s.Maria Egiziaca, all’ingresso trionfale di Gesù in Gerusalemme. Gli inni di questo cilco si trovano nel libro chiamato Triodion. Il ciclo pasquale, dalla domenica della Risurrezione alla domenica dopo la Pentecoste, dedicata a tutti i santi, è il più gioioso.
Le domeniche vengono enumerate a partire dalla festa della Pasqua. Per le celebrazioni si usa il libro detto Pentecostario. Il ciclo della domenica di Tutti i santi fino alla domenica del pubblicano e del fariseo è detto dell’Octoeco, dal nome del libro che raccoglie gli inni degli otto toni ecclesiastici, per tutte le sette lodi. Le domeniche e con loro le settimane vengono enumerate dalla Pentecoste. Il ciclo delle feste fisse, dedicate al Salvatore, alla Madre di Dio ed ai santi, dura tutto l’anno e raccoglie gli inni liturgici per ogni mese in volumi detti minaion (da min: mese).
Alcune Chiese ortodosse, come quella di Costantinopoli, la romena, la greca, la finlandese, osservano il calendario gregoriano per le feste fisse, mentre celebrano le feste mobili – collegate alla Pasqua – secondo il vecchio calendario giuliano. Altre invece, come quella di Gerusalemme, la russa, la serba ecc., celebrano tutte le feste secondo il vecchio calendario giuliano.

Publié dans:liturgia, Ortodossia |on 14 janvier, 2011 |Pas de commentaires »

Le poche semplici cose della liturgia cristiana

dal sito:

http://www.30giorni.it/it/articolo.asp?id=105

Le poche semplici cose della liturgia cristiana

Attorno al volgere del secolo IV, vengono poste ad Agostino alcune domande di carattere liturgico. Ben oltre la soluzione delle questioni di allora, due lettere di Agostino (la 54 e la 55 del suo epistolario) gettano luce su come oggi il mistero cristiano debba essere concepito e possa essere amato 

di Lorenzo Cappelletti
 
Sant’Ambrogio celebra la messa in suffragio di san Martino, particolari di una scena del mosaico absidale, basilica di Sant’Ambrogio, Milano 
 
      Colpisce sempre la modernità di Agostino, ovvero la corrispondenza alla sensibilità odierna del suo modo di essere cristiano. Tanto è vero che a volte bastano le parole di Agostino a suscitare l’interesse gratuito di persone che altrimenti resterebbero del tutto indifferenti a Cristo, nonostante l’affanno di chi per mestiere si interessa a Cristo e a loro. Come testimoniano, per esempio, le recenti sorprendenti dichiarazioni di Gérard Dépardieu (cfr. 30Giorni n.9, settembre 2002, p. 63). Confidando in questa forza delle parole di Agostino, le lasciamo riecheggiare ancora una volta.
      Attorno al volgere del secolo IV, un tale di cui non sappiamo che il nome, Januarius, pone ad Agostino questioni di carattere liturgico. Ben oltre la soluzione delle questioni di allora, due lettere di Agostino (la 54 e la 55 del suo epistolario) gettano luce su come oggi il mistero cristiano debba essere concepito e possa essere amato.
      «Che cosa bisogna fare il giovedì dell’ultima settimana di Quaresima [il giovedì santo]?» chiede Januarius. «Si deve offrire il sacrificio al mattino e di nuovo la sera dopo la cena per il fatto che si legge “Allo stesso modo dopo aver cenato…”, oppure bisogna digiunare e celebrare solo dopo aver cenato? Oppure si deve digiunare e, come siamo soliti fare, cenare dopo il sacrificio?» (Lettera 54,5,6).
      Agostino, prima di entrare nello specifico, nega anzitutto che quello proposto sia un problema e pone il criterio di ogni pratica cristiana: «Anzitutto voglio che tu tenga per fermo che Nostro Signore Gesù Cristo, come dice egli stesso nel Vangelo, ci ha sottoposti al suo giogo soave e a un carico leggero e perciò ha voluto stabilire, come vincoli del nuovo popolo, sacramenti in numero limitatissimo, facilissimi a praticarsi, e di sublime significato: come il battesimo, consacrato nel nome della Trinità, la comunione col suo corpo e il suo sangue e tutti gli altri mezzi raccomandati nelle scritture canoniche, abbandonando quei riti di cui si legge nei cinque libri di Mosè che servivano alla schiavitù dell’antico popolo e convenivano alle disposizioni del loro cuore e di quel tempo profetico» (Lettera 54,1,1; corsivo nostro). Nella Lettera successiva (55,7,13), Agostino non solo parlerà di nuovo del limitato numero dei sacramenti, ma anche delle pochissime, semplici cose che ne costituiscono la materia: «Ci serviamo di un numero assai limitato di cose, come l’acqua, il frumento, il vino e l’olio».
      Ci sono però anche delle disposizioni non scritte – continua Agostino nella Lettera 54 – ma trasmesse per tradizione, che sono osservate da tutta la Chiesa perché raccomandate e stabilite dagli apostoli o dai concili plenari «la cui autorità nella Chiesa è così utile» (54,1,1), come la celebrazione annuale dei misteri della passione, della resurrezione, dell’ascensione, della discesa dello Spirito Santo. Anche su questo non ci può essere difformità.
      Ma ci sono pratiche che variano a seconda dei luoghi, per le quali non si può far ricorso alla Scrittura o a prescrizioni degli apostoli o dei concili plenari. In questi casi, e tale è anche il caso proposto da Januarius, la loro osservanza è lasciata alla libertà di ciascuno e se c’è un obbligo è quello di conformarsi all’uso della Chiesa in cui ci si viene a trovare, «perché tutto ciò che non può provarsi essere contro la fede e contro i costumi deve essere considerato indifferente e si deve osservare per rispetto verso coloro fra i quali si vive» (54,2,2). Agostino ricorda quando, solo per far piacere alla madre Monica, scandalizzata perché a Milano il sabato non si digiunava come a Roma, chiese consiglio ad Ambrogio, il quale gli disse quello che faceva lui: a Roma digiunava e a Milano no. A quel consiglio Agostino dice di aver ripensato più volte tenendolo quasi come un oracolo. Si capisce che quel consiglio di Ambrogio fu per lui qualcosa d’altro dalla soluzione di un problema, che fra l’altro all’epoca non era il suo, visto che talia non curabat (54,2,3). Questa contingenza fu per Agostino l’incontro con una sconosciuta e sorprendente libertà.
      L’altro esempio portato da Agostino riguarda la pratica della comunione quotidiana. L’importante, afferma, non è accostarsi o non accostarsi quotidianamente all’eucaristia, ma l’onore che si rende al sacramento della nostra salvezza. In fondo, sia Zaccheo, accogliendolo, sia il centurione, dichiarandosi indegno di riceverlo, hanno onorato il Salvatore: «Zaccheo e il centurione non litigarono fra loro e nessuno dei due si ritenne superiore all’altro, perché l’uno pieno di gioia ricevette il Signore nella propria casa e l’altro disse “non sono degno che tu entri sotto il mio tetto”. Tutti e due onorarono il Signore in modo diverso e per così dire contrario. Ambedue erano miserabili peccatori, ambedue ottennero misericordia» (54,3,4). Solo una cosa di fronte a questo cibo va evitata, secondo Agostino, il disprezzo, cioè – continua citando la prima Lettera ai Corinzi – il non distinguerlo dagli altri cibi attraverso la venerazione ad esso solo dovuta (veneratione singulariter debita). Da una parte qui si apprezza a pieno la magnanimità pastorale della disposizione con cui Pio X nel lontano 1910 volle condizionare a quest’unico elemento la ricezione della prima comunione: la capacità di distinguere il cibo eucaristico da quello comune. Dall’altra parte qui si riconosce il richiamo apostolico, che torna di prepotente attualità, e cioè di essere attenti a non mangiare e bere la propria condanna.
      Ma torniamo ad Agostino. Di fronte a usi diversi, dunque, si tratta di non importare né di esportare usi che come tali non si potrebbero giustificare che in termini soggettivi, di pura curiosità. La conseguenza sarebbe, anzi è, come egli con grande pena ha potuto constatare, il turbamento dei deboli. «Soltanto in vista della fede o dei costumi bisogna correggere un’usanza contraria al bene o istituirne un’altra prima inesistente. Infatti ogni cambiamento di usanze, anche se aiuta perché utile, porta scompiglio, con la sua novità; ecco perché un cambiamento che non è utile, per il fatto stesso che produce un infruttuoso scompiglio è nocivo» (54,5,6). Perciò, se un determinato uso non è attestato dalla Scrittura né dalla univoca Tradizione della Chiesa tutta, si è liberi di osservarlo o meno perché evidentemente non ne va della fede né della vita morale.
      Eppure Agostino non assolutizza neppure questa sua stessa posizione, che potremmo dire liberale. E ci sembra che qui stia un aspetto della sua genialità cristiana.
      Infatti, nella successiva Lettera 55, si sbilancia: da una parte afferma che riguardo a salmi e inni cantati, sebbene si riscontri una grande diversità in questa pratica, non c’è assolutamente niente di meglio, niente di più utile, niente di più santo da fare, quando i cristiani si radunano, perché questo muove l’animo alla devozione e infiamma il cuore d’amore per Dio (senza contare che si potrebbero trovare esempi e precetti del Signore e degli apostoli che la inculcano).
      Dall’altra parte dice che ci sono pratiche le quali, seppure non si possa dimostrare in che modo siano contrarie alla fede, tuttavia lo sono per il semplice fatto che moltiplicano gli obblighi, tanto da far sembrare più tollerabile la condizione dei Giudei che almeno obbediscono alla Legge mosaica e non a umane invenzioni: «Quanto poi ad altre pratiche che si introducono fuori dalla consuetudine e che si prescrive di rispettare quasi si trattasse di sacramenti, non posso approvarle» dice Agostino «sebbene non oso riprovare apertamente molte di queste cose per evitare lo scandalo di persone sante o turbolente. Ma quel che più mi addolora è che mentre si trascurano molte cose prescritte salutarmente nelle Scritture, tutto è riempito di una tale congerie di invenzioni che si arriva a rimproverare più aspramente un neofita che durante l’Ottava di Pasqua stia a piedi nudi, di uno che abbia affogato la mente nell’ubriachezza. Penso dunque che, avendone facoltà, si debbano senz’altro sopprimere tutte le usanze che non siano fondate sull’autorità delle Sacre Scritture, che non si trovino stabilite da sinodi episcopali o che non siano state confermate dall’uso della Chiesa intera; usanze che conoscono infinite variazioni in base alle diverse sensibilità di ogni luogo al punto che è difficile o del tutto impossibile trovare le cause per cui furono stabilite. Infatti, benché non si possa dimostrare in che modo siano contrarie alla fede, esse tuttavia opprimono con legami servili proprio la religione che la misericordia di Dio ha voluto fosse libera da ogni celebrazione che non fosse quella di pochissimi e ben determinati sacramenti. Tanto che si direbbe più tollerabile la condizione dei Giudei che, pur non avendo riconosciuto il tempo della libertà, sono tuttavia sottoposti alle imposizioni della Legge, non a umane invenzioni» (55,18,34-19,35; corsivi nostri).
      Ma proprio perché chiamati a una legge di libertà, l’ultima parola ce l’hanno la pazienza e la carità: «Ma la Chiesa di Dio, che si trova a vivere in mezzo a molta paglia e a molta zizzania, tollera molte cose» (55,19,35).

Publié dans:liturgia |on 2 janvier, 2011 |Pas de commentaires »

Noi ti lodiamo, Dio * ti proclamiamo Signore. …

la grafica non è perfetta, ma non volevo modificare troppo l’originale, dal sito:

http://www.zammerumaskil.com/liturgia/sussidi/te-deum.html

Noi ti lodiamo, Dio  *  ti proclamiamo  Signore.
O eterno Padre, * 
tutta la terra ti adora.
 
A te cantano gli angeli *  e tutte le potenze dei cieli:
Santo +,

Santo +,

Santo il Signore Dio dell’universo.
 
I cieli e la terra * 
sono pieni della tua gloria.
Ti acclama il coro degli apostoli *  e la candida schiera dei martiri;
 
le voci dei profeti si uniscono nella tua lode; *
la santa Chiesa proclama la tua gloria,
adora il tuo unico figlio, * e lo Spirito Santo Paraclito.
 
O Cristo, re della gloria, * 
eterno Figlio del Padre,
tu nascesti dalla Vergine Madre *  per la salvezza dell’uomo.
 
Vincitore della morte, *
hai aperto ai credenti il regno dei cieli.
Tu siedi alla destra di Dio, nella gloria del Padre. * Verrai a giudicare il mondo alla fine dei tempi.
 
Soccorri i tuoi figli, Signore, *
che hai redento col tuo sangue prezioso.
Accoglici nella tua gloria * nell’assemblea dei santi.
 
Salva il tuo popolo, Signore, *
guida e proteggi i tuoi figli.
Ogni giorno ti benediciamo, * lodiamo il tuo nome per sempre.
 
Degnati oggi, Signore, * 
di custodirci senza peccato.
Sia sempre con noi la tua misericordia: *  in te abbiamo sperato.
 
Pietà di noi, Signore, * 
pietà di noi.

Tutti:  Tu sei la nostra speranza, *  non saremo confusi in eterno.
———————————————————

 Note sul Te Deum   – fonte dalla rete

L’inno Te Deum laudamus, con cui tradizionalmente ringraziamo il Signore Dio dei benefici da Lui ricevuti, pure se detto « inno ambrosiano », è una composizione poetica adesso attribuita con certezza a Niceta di Remesiana, intorno all’anno 400.Originariamente si rivolgeva a Cristo Dio e Signore: « Te (o Cristo) noi lodiamo Dio! Te (o Cristo) noi professiamo Signore! ». Successivamente, con l’attenuarsi delle eresie sulla Persona Divina e sulla Divina Signoria di Gesù, poco alla volta la pietà cristiana lo ha indirizzato al Padre e al Figlio e allo Spirito; infatti, con questa qualificazione trinitaria noi lo abbiamo recepito e a nostra volta lo trasmettiamo.Nella Chiesa cattolica il Te Deum è legato alle cerimonie di ringraziamento; viene tradizionalmente cantato la sera del 31 dicembre, per ringraziare dell’anno appena trascorso, oppure nella Cappella Sistina ad avvenuta elezione del nuovo pontefice, prima che si sciolga il conclave.Nella Liturgia delle Ore trova il suo posto nell’Ufficio delle letture, nelle solennità e nelle feste, in tutte le domeniche, nei giorni fra l’ottava di Natale e quelli fra l’ottava di Pasqua. Diversi autori si contendono la paternità testo. Tradizionalmente veniva attribuito a san Cipriano di Cartagine oppure, secondo una leggenda dell’VIII secolo, si è sostenuto che fosse stato composto a due mani da sant’Ambrogio e da sant’Agostino il giorno di battesimo di quest’ultimo, avvenuto a Milano nel 386, per questo è stato chiamato anche inno ambrosiano.Oggi gli specialisti attribuiscono la redazione finale a Niceta, vescovo di Remesiana (oggi Bela Palanka) alla fine del IV secolo.Dall’analisi letteraria, l’inno si può dividere in tre parti.•          La prima, fino a Paraclitum Spiritum, è una lode trinitaria indirizzata al Padre. Letterariamente è molto simile ad un’anafora eucaristica, contenendo il triplice Sanctus.•          La seconda parte, da Tu rex gloriæ a sanguine redemisti, è una lode a Cristo Redentore.•          L’ultima, da Salvum fac, è un seguito di suppliche e di versetti tratti dal libro dei salmi. La sua recitazione è facoltativa. Solitamente viene cantato a cori alterni : Sacerdote o celebrante e il popolo.

Publié dans:Inni, liturgia |on 29 décembre, 2010 |Pas de commentaires »

Dieci parole per la musica liturgica: “Espressiva”

dal sito:

http://www.zenit.org/article-25018?l=italian

Dieci parole per la musica liturgica: “Espressiva”

di Aurelio Porfiri*

ROMA, martedì, 21 dicembre 2010 (ZENIT.org).- Espressiva. Una domenica qualunque, mi trovavo in una parrocchia per assistere alla Messa. Ovviamente, per deformazione professionale, ero particolarmente attento ai canti che erano eseguiti e quindi anche in quella occasione il mio orecchio poneva particolare attenzione ai suoni che venivano da un gruppetto che era ormeggiato nei primi banchi della navata centrale. Questo gruppo si dava da fare nella performance, che era praticamente costituita dal repertorio beat aggiornato alle ultime produzioni ricalcanti questo stile. Impugnavano le loro chitarre con malcelata confidenza e baldanza e, fatti sicuri di un microfono a pericolosa distanza di sicurezza, ce la mettevano proprio tutta. Osservavo questi fedeli impegnati nell’animazione e potevo veramente vedere che ponevano tutta la loro buona volontà nel rendere quello che andavano cantando “espressivo”.
Non essendo convinto (tuttora) che quel repertorio sia adeguato alle celebrazioni liturgiche mi chiesi quale doveva essere il rapporto fra la loro buona volontà e il risultato. Mi sembra di poter fare alcune osservazioni: la prima è che solitamente questi gruppi esprimono un’appartenenza, in questo caso quella dell’essere giovani che viene mediata da un certo tipo di musica che si ascolta. La seconda è che quest’appartenenza non deve essere in contrasto con l’appartenenza liturgica. Mi spiego. Nella liturgia noi non celebriamo il presente, ma ci apriamo all’eterno. E’ vero che ogni musica vive nel presente ed è fatta di presente ma è anche vero che ci sono alcuni tipi di musica che sono veramente segno e simbolo del quotidiano. Come già detto, la musica pop è la regina di questi repertori, ed esprime tipicamente ansie e gioie e sentimenti pienamente iscritti nella nostra vita di tutti i giorni, chi più chi meno. Quando chiedo ai miei studenti perché a loro piace la musica pop o rock, mi dicono che si sentono “comodi”, rappresentati. Su questo non ho nulla da dire. Ma nella liturgia noi non ci rappresentiamo di per sé come gruppo (giovani, anziani, dopolavoro…) ma come comunità liturgica, come popolo di Dio. Non siamo noi che viviamo, direbbe san Paolo, ma Cristo che vive in noi. Quindi, tutto ciò che denota un’appartenenza sociale può essere inadeguato.
Mi rendo conto che ci si prodiga in liturgie per tutte le categorie sociali e questo se ben inteso è anche un bene: ma bisogna sempre tenere presente che esse dovrebbero poi essere inserite nell’ambiente liturgico del popolo di Dio, non il contrario. Ci possono essere rare eccezioni (i bambini per esempio o categorie svantaggiate) ma tutti siamo membra dell’unico corpo, ciò che celebriamo è il corpo, non le membra. Quindi sì alle liturgie per i bambini, per i militari, per i giovani ma no alle liturgie dei bambini, dei militari o dei giovani (o di chicchessia). L’espressività della musica liturgica non dovrebbe derivare dall’essere espressione della parzialità ma dovrebbe aprirsi ad una certa universalità (e questa in effetti era una delle caratteristiche che richiedeva san Pio X nel suo Motu Proprio). Quindi bisognerebbe riscoprire l’oggettività della musica liturgica come via alla rappresentazione efficace e mediata delle emozioni che proviamo. Oggettivo non significa non sentimentale ma significa che esprime il sentimento della collettività liturgica, l’insieme della Chiesa terrestre e celeste. Non è una rivendicazione di categoria ma un anelito che unisce il cielo e la terra. Anche qui vorrei chiedere aiuto a Romano Guardini:
“Il singolo deve rinunziare a pensar a modo proprio e a percorrere le vie proprie, giacché deve perseguire fini e intenti e seguire pensieri e vie, che la liturgia gli propone. Deve rinunziare per essa a disporre di sé; deve pregare con gli altri anziché procedere per conto proprio; ascoltare, anziché riflettere tra sé e sé; attenersi alla norma, anziché muoversi secondo il proprio volere. Compito dell’individuo è inoltre di ‘realizzare’ il mondo delle idee liturgiche; deve uscire dalla cerchia consueta dei suoi pensieri e appropriarsi un mondo spirituale piu’ vasto e comprensivo; deve andar oltre i suoi scopi personali per accogliere le finalità formative della grande comunità liturgica umana ” (“Introduzione allo Spirito della Liturgia, Pagg. 39-40).
Credo che sia espresso chiaramente il concetto che cerco di far passare: la musica liturgica non esprime l’io, ma il noi liturgico. Essa è oggettiva nel senso che si pone come scopo quello di mediare l’inconoscibile e quindi esprime ciò che è inesprimibile. Se ci si pone solo da un lato della relazione liturgica (Naturale/Soprannaturale) manca ovviamente l’elemento fondante dell’agire liturgico. Il problema dell’appartenenza sociale non è ovviamente limitato a chi fa la musica per la chiesa di tipo pop, ma anche a chi si nasconde spesso dietro repertori come il canto gregoriano o la polifonia per difendere un’idea del passato che probabilmente è anche irreale. Come ripeto, in questo caso la colpa non è dei repertori ma di chi ne fa l’abuso. Quindi qual è la differenza? La differenza è che nel caso della musica di tipo pop, l’appartenza è insita nella musica stessa, mentre nel secondo caso l’appartenenza è in chi fa un uso sbagliato di un repertorio che di per sé non appartiene a nessuno, se non alla Chiesa come affermato in documenti magisteriali.
Guardini anche diceva che la liturgia nel suo insieme non è favorevole all’esuberanza dei sentimenti. Io credo che questo andrebbe meditato attentamente. In effetti l’esuberanza dei sentimenti, quando prolungata e ostentata, mi fa pensare ad uno squilibrio che possiamo addirittura far riconoscere da quel mistico alla rovescia (come lo chiamava un professore di mia conoscenza) che risponde al nome di Friederich Nietzsche. Egli, ne “La Nascita della Tragedia”, suggeriva che l’unione tra l’apolinneo (ordine e misura) e il dionisiaco (disordine e estasi) dà vita alla tragedia greca. Questi due elementi non sono quindi in contraddizione se non in modo paradossale. Ecco, quando il dionisiaco prende il sopravvento si verifica uno squilibrio espressivo. La musica pop accentua fortemente l’elemento ritmico, proprio delle danze. Questo elemento è ovviamente fondamentale per la musica tutta ma nella pop è messo in particolare prevalenza, con un carattere di tipo ossessivo. Non è ovviamente un problema per la musica pop ma lo è probabilmente quando trasposto nella liturgia. La musica liturgica è espressiva nel senso corale del termine. Non sono io che mi elevo da solo alle altezze inaudite, ma le mie ali sul vento del canto nuovo sbattono all’unisono con mille altre ali per ritrovarsi insieme in un nuovo e più azzurro cielo.
—————————————————-

*Aurelio Porfiri vive a Macao ed è sposato, con un figlio. E’ professore associato di musica liturgica e direzione di coro e coordinatore per l’intero programma musicale presso la University of Saint Joseph a Macao (Cina). Sempre a Macao collabora con il Polytechnic Institute, la Santa Rosa de Lima e il Fatima School; insegna inoltre allo Shanghai Conservatory of Music (Cina). Da anni scrive per varie riviste tra cui: L’Emanuele, la Nuova Alleanza, Liturgia, La Vita in Cristo e nella Chiesa. E’ socio del Centro Azione Liturgica (CAL) e dell’Associazione Professori di Liturgia (APL). Sta completando un Dottorato in Storia. Come compositore ha al suo attivo Oratori, Messe, Mottetti e canti liturgici in latino, italiano ed inglese. Ha pubblicato al momento quattro libri, l’ultimo edito dalle edizioni san Paolo intitolato “Abisso di Luce”.

Publié dans:liturgia, musica sacra |on 27 décembre, 2010 |Pas de commentaires »

Il sacerdote nella celebrazione eucaristica del Natale in Oriente e Occidente

dal sito:

http://www.jesus.2000.years.de/news_services/liturgy/details/ns_lit_doc_20100216_sac-natale_it.html

UFFICIO DELLE CELEBRAZIONI LITURGICHE DEL SOMMO PONTEFICE    

Il sacerdote nella celebrazione eucaristica del Natale in Oriente e Occidente

Come non si possono dividere nella Sacra Scrittura le parole e i gesti, così non si può separare la Parola dall’Eucaristia, la catechesi dai sacramenti, l’adorazione dalla comunione, perché significa separare la natura divina di Cristo da quella umana, quasi il Verbo non si fosse incarnato. La fede cattolica si propone nell’incontro sacramentale, fatto di gesti e parole, di segni, di bellezza, di luci, di immagini, di splendore, come è particolarmente evidente nelle liturgie orientali. Accade nei misteri, secondo tempi e modi diversi per ognuno, l’incontro col Signore, un’esperienza che san Paolo descrive come un processo di percezione della forma e di rapimento, diremmo di estetica ed estasi: «Noi tutti, che, a faccia svelata, rispecchiamo la gloria del Signore, siamo trasformati nella stessa immagine salendo di gloria in gloria, conforme all’operazione del Signore che è spirito» (2Cor 3,18).
La ricerca costante del sacro descrive l’ampio spazio del mistero nel quale il sacerdote si muove quando celebra la sacra liturgia: l’uomo può essere rapito e portato ad esso con la contemplazione o più semplicemente può aderirvi con l’intelletto e la volontà grazie alla rivelazione. Sono alcuni sintomi dello scambio mirabile tra il cielo e la terra, tra il divino e l’umano inaugurato dall’incarnazione del Verbo. Gesù Cristo «il più bello tra i figli dell’uomo» (Sal 44,3), il paradosso di colui che è il più bello e nello stesso tempo «non ha apparenza né bellezza per attirare il nostro sguardo» (Is 53,2): è lui, secondo la celebre frase di Dostoevskij, la bellezza redentrice che ci salverà. Niente riesce nel contatto meglio dell’arte creata dalla fede e del volto dei santi da cercare ogni giorno, come esorta la Didachè. Per imparare a vedere e conoscere la bellezza divina, secondo Giovanni Damasceno, non servono i concetti che creano idoli, ovvero la gnosi, ma è necessario lo stupore: si può dire che dall’adorazione abbia inizio l’intelligenza del mistero cristiano. I teologi mistici, da Dionigi Areopagita a Giovanni della Croce, sono partiti dalla forma dell’essere per giungere allo spirito interiore, secondo il metodo dell’incarnazione del Verbo: «la luce vera che illumina ogni uomo che viene nel mondo» (Gv 1,9); hanno mostrato la coincidenza, in certo modo, tra la mistica e l’estetica. Dio si è rivelato, ha manifestato la sua forma all’uomo; questi, attraverso il di Lui visibile nella liturgia, è attratto a partecipare alla gloria di Dio: «perché conoscendo Dio visibilmente, per mezzo suo siamo rapiti all’amore delle cose invisibili» [1]. Infatti nel Credo si professa la fede in Dio creatore di tutte le cose visibili e invisibili: si noti l’attributo invisibili al sostantivo cose che usualmente è riferito alla materialità, mentre qui riguarda anche la sfera dell’invisibile.
Bisogna domandarsi: l’uomo moderno è capace di capire la liturgia cattolica? Di comprendere che in essa il “Cielo scende sulla terra”, il mistero si fa incontrare e toccare? Romano Guardini dubitava della capacità dell’uomo moderno di comprenderla [2]. L’uomo moderno vive nell’immanentismo, nel materialismo, ma nello stesso tempo avverte l’insoddisfazione, il bisogno di uscire da tale morsa, di trovare una soluzione a tale situazione e allora bisogna fargli intravedere una possibilità di risposta alla domanda che porta dentro di sé. La liturgia è la risposta al bisogno di incontrare il senso della vita, di avvicinarsi al mistero, quasi di avvertirlo ed esserne in qualche modo avvolto, coinvolto: è questo ciò che tocca l’essere umano, ciò che evoca nell’animo umano la nostalgia di assoluto, di divino. Gesù ha rivelato a Nicodemo la sua duplice natura, divina e umana, nell’unità della Persona: «Nessuno è asceso al cielo, se non colui che è disceso al cielo, il Figlio dell’uomo» (Gv 3,13). Nello stesso tempo ha rivelato il fine della sua venuta nel mondo: donare la vita eterna e la salvezza (cf. Gv 3,15-17), far sì che l’essere umano e il cosmo raggiungano Dio; per questo, quindi, doveva aprire un varco, offrire una scala per salire, per compiere l’ascensione verso Dio.
Nella discesa del Verbo si avvera la condivisione, da parte del Logos eterno, della vita dell’essere umano; quindi il mistero si è fatto carne, è entrato nella nostra quotidianità e perciò non dobbiamo avere paura. L’angelo disse a Maria: Non temere, non avere paura. Gesù lo ricordava ai discepoli: non abbiate paura, sono io.
Il ministero del sacerdote, specialmente nella sacra liturgia natalizia, è simile a quello degli angeli: annunciare la Presenza del Salvatore che vince ogni paura. L’essere umano ha paura quando non apre gli occhi sul fatto che il mistero si è fatto carne, è diventato uno di noi. Infatti, se grande è quello che ci è stato promesso, secondo sant’Agostino, ancor più grande è quello che è accaduto: il fatto inaudito di Dio che scende nel mondo assumendo la nostra umanità, condividendola totalmente dall’interno e quindi svelando alla storia il suo significato e imprimendole la direzione finale.
La concezione “cosmica” adorante di Dio presente nel mistero sacramentale era propria di padri come Agostino; di monaci come Nicodemo, della santa montagna dell’Athos; di teologi come Tommaso d’Aquino. Essi si sentivano perciò responsabili dell’introduzione dei fedeli al mistero, vedevano il sacerdote quale amministratore dei misteri, quindi interprete o mistagogo del mistero divino-umano, che è la luce della verità venuta nel mondo. La luce è essa stessa una realtà misteriosa, ed è umile, perché vuol far vedere non se stessa ma tutto il resto; è trasparenza della realtà; è composta di tutti i colori, sì da riuscire trasparente. In modo magistrale, sant’Ambrogio insegna che «La luce dei misteri riesce più penetrante se colpisce di sorpresa anziché arrivare dopo le prime avvisaglie di qualche trattazione previa» [3].
Nella liturgia bizantina acclama il coro dopo la comunione: «Abbiamo visto la vera luce, abbiamo ricevuto lo Spirito celeste, abbiamo trovato la vera fede, adorando la Trinità indivisa, poiché essa ci ha salvati». Per comprendere questo, bisogna seguire l’itinerario che essa compie e che ha come il suo fulcro nella frase del salmo «Nella tua luce noi vediamo la luce» (Sal 36,10). Da quando Dio si è fatto uomo e la forma ha irradiato la divinità, la liturgia comunica quella luce, perché l’essere umano guardando la luce veda, percepisca la luce di Dio. Ecco perché la liturgia è sinonimo di bellezza, di luce – i testi liturgici romani del Natale hanno a tema la luce apparsa, manifestata in Cristo –: come la luce fisica fa funzionare i nostri occhi, che altrimenti al buio, pur perfetti, non funzionerebbero, così è Gesù Cristo, che ha detto: «Io sono la luce del mondo, chi mi segue non cammina nelle tenebre» (Gv 8,12); cioè, io faccio vedere, faccio funzionare gli occhi del vostro spirito; senza di me l’essere umano non vede, resta cieco perché la luce fa essere gli occhi e fa esistere le cose. Se il mondo fosse permanentemente nel buio, tutte le cose del mondo non avrebbero forma ed esistenza, dunque la luce è sinonimo di vita. «Nella tua luce vediamo la luce» vuol dire: nella contemplazione di te noi capiamo, comprendiamo il senso della vita. Siamo al centro del mistero di Dio uno e trino, manifestato in Gesù nell’Epifania, nel Battesimo, nella Trasfigurazione. Cristo comunica attraverso la forma umana trasfigurata lo splendore del Padre, la gloria di Dio. La carne di Cristo è il sacramento del Padre, la carne di Cristo è sacramento della divinità. La discesa (catabasi) e l’abbassamento (kenosi) di Dio va dal mistero dell’incarnazione al mistero della redenzione. Il Natale è l’inizio, anche se la sua celebrazione nell’anno liturgico si è affermata solo dopo che la Chiesa aveva posto al centro del tempo annuale il mistero della Pasqua.
Nel rito bizantino per la preparazione dei doni (proskomidia), in cui la Chiesa commemora gli anni trascorsi da Gesù prima della vita pubblica, si adoperano degli strumenti sacri che ricordano la Natività, come la stella o asterisco, formata da due semicerchi di metallo prezioso, incrociati uno sull’altro, alla cui sommità è posta una croce e, nella parte inferiore, una stelletta, sulla patena o disco del pane – la mangiatoia dove è stato adagiato il Dio bambino –, a simboleggiare l’astro che guidò i Magi alla grotta.
Il luogo della preparazione (protesi) è come la grotta misteriosa in cui il Salvatore si degnò di nascere quando il Cielo venne portato sulla terra: esso divenne grotta e questa si cambiò in cielo [4], in essa fu confezionato per la prima volta il pane del sacrificio. Poi, quanto annunciato nell’ouverture della protesi, la liturgia lo dispiega come in una sinfonia: nella liturgia dei catecumeni il rito del “piccolo ingresso” con l’evangeliario, che sta a significare l’incarnazione con cui il Verbo ha fatto il suo ingresso nel mondo.
Sebbene tale allegoria sia tardiva, il realismo dell’immagine o icona da proporre alla venerazione attraverso gli atti liturgici, al contrario dello spiritualismo simbolico e per certi versi “iconoclasta”, corrisponde all’essenza del cristianesimo che è il mistero presente nel fatto storico della Persona e della vita di Gesù Cristo. La liturgia latina, che pure possedeva analoghe espressioni, dovrebbe recuperarle onde evitare il simbolismo astratto che non attrae l’uomo al mistero. Simbolismo e raffigurazione non sono la stessa cosa, nell’arte come nella liturgia. Dunque, la liturgia manifesta il suo nesso causale con i misteri della vita di Cristo, in cui l’economia salvifica passa dalla cosmicità alla storicità.

Note

[1] Messale Romano, prefazio di Natale I.
[2] Liturgie und liturgische Bildung, Würzburg 1966, pp. 9-18.
[3] Sant’Ambrogio, De mysteriis, 2: SCh 25bis, 156.
[4] Cf. N. Cabasilas, Esposizione della Divina Liturgia,IV: PG 150, 377D-380A.

Publié dans:liturgia, NATALE 2010 e Avvento |on 13 décembre, 2010 |Pas de commentaires »

L’ AVVENTO – DARE SENSO AL TEMPO

dal sito:

http://paroledivita.myblog.it/archive/2010/11/22/entriamo-nell-avvento.html

L’ AVVENTO – DARE SENSO AL TEMPO

Enzo Bianchi

Entriamo nel tempo dell’avvento, il tempo della memoria, dell’invocazione e dell’attesa della venuta del Signore. Nella nostra professione di fede noi confessiamo: “Si è incarnato, patì sotto Ponzio Pilato, morì e fu sepolto, discese agli inferi, il terzo giorno risuscitò secondo le Scritture, verrà nella gloria per giudicare i vivi e i morti”.
La venuta del Signore fa parte integrante del mistero cristiano perché il giorno del Signore è stato annunciato da tutti i profeti e Gesù più volte ha parlato della sua venuta nella gloria quale Figlio dell’Uomo, per porre fine a questo mondo e inaugurare un cielo nuovo e una terra nuova. Tutta la creazione geme e soffre come nelle doglie del parto aspettando la sua trasfigurazione e la manifestazione dei figli di Dio (cf. Rm 8,19ss.): la venuta del Signore sarà l’esaudimento di questa supplica, di questa invocazione che a sua volta risponde alla promessa del Signore (“Io vengo presto!”: Ap 22,20) e che si unisce alla voce di quanti nella storia hanno subito ingiustizia e violenza, misconoscimento e oppressione, e sono vissuti da poveri, afflitti, pacifici, inermi, affamati. Nella consapevolezza del compimento dei tempi ormai avvenuto in Cristo, la chiesa si fa voce di questa attesa e, nel tempo di Avvento, ripete con più forza e assiduità l’antica invocazione dei cristiani: Marana thà! Vieni Signore! San Basilio ha potuto rispondere così alla domanda “Chi è il cristiano?”: “Il cristiano è colui che resta vigilante ogni giorno e ogni ora sapendo che il Signore viene”.
Ma dobbiamo chiederci: oggi, i cristiani attendono ancora e con convinzione la venuta del Signore? È una domanda che la chiesa deve porsi perché essa è definita da ciò che attende e spera, e inoltre perché oggi in realtà c’è un complotto di silenzio su questo evento posto da Gesù davanti a noi come giudizio innanzitutto misericordioso, ma anche capace di rivelare la giustizia e la verità di ciascuno, come incontro con il Signore nella gloria, come Regno finalmente compiuto nell’eternità. Spesso si ha l’impressione che i cristiani leggano il tempo mondanamente, come un eternum continuum, come tempo omogeneo, privo di sorprese e di novità essenziali, un infinito cattivo, un eterno presente in cui possono accadere tante cose, ma non la venuta del Signore Gesù Cristo!
Per molti cristiani l’Avvento non è forse diventato una semplice preparazione al Natale, quasi che si attendesse ancora la venuta di Gesù nella carne della nostra umanità e nella povertà di Betlemme? Ingenua regressione devota che depaupera la speranza cristiana! In verità, il cristiano ha consapevolezza che se non c’è la venuta del Signore nella gloria allora egli è da compiangere più di tutti i miserabili della terra (cf. 1Cor 15,19, dove si parla della fede nella resurrezione), e se non c’è un futuro caratterizzato dal novum che il Signore può instaurare, allora la sequela di Gesù nell’oggi storico diviene insostenibile. Un tempo sprovvisto di direzione e di orientamento, che senso può avere e quali speranze può dischiudere?
L’Avvento è dunque per il cristiano un tempo forte perché in esso, ecclesialmente, cioè in un impegno comune, ci si esercita all’attesa del Signore, alla visione nella fede delle realtà invisibili (cf. 2Cor 4,18), al rinnovamento della speranza del Regno nella convinzione che oggi noi camminiamo per mezzo della fede e non della visione (cf. 2Cor 5,6-7) e che la salvezza non è ancora sperimentata come vita non più minacciata dalla morte, dalla malattia, dal pianto, dal peccato. C’è una salvezza portata da Cristo che noi conosciamo nella remissione dei peccati, ma la salvezza piena – nostra, di tutti gli uomini e di tutto l’universo – non è ancora venuta.
Anche per questo l’attesa del cristiano dovrebbe essere un modo di comunione con l’attesa degli ebrei che, come noi, credono nel “giorno del Signore”, nel “giorno della liberazione”, cioè nel “giorno del Messia”.
Davvero l’Avvento ci riporta al cuore del mistero cristiano: la venuta del Signore alla fine dei tempi non è altro, infatti, che l’estensione e la pienezza escatologica delle energie della resurrezione di Cristo.
In questi giorni di Avvento occorre dunque porsi delle domande: noi cristiani non ci comportiamo forse come se Dio fosse restato alle nostre spalle, come se trovassimo Dio solo nel bambino nato a Betlemme? Sappiamo cercare Dio nel nostro futuro avendo nel cuore l’urgenza della venuta di Cristo, come sentinelle impazienti dell’alba? E dobbiamo lasciarci interpellare dal grido più che mai attuale di Teilhard de Chardin: “Cristiani, incaricati di tenere sempre viva la fiamma bruciante del desiderio, che cosa ne abbiamo fatto dell’attesa del Signore?”.

Enzo Bianchi-dare senso al tempo

Publié dans:liturgia |on 24 novembre, 2010 |Pas de commentaires »

Perché nelle celebrazioni del Papa il Crocifisso è al centro dell’altare?

 dal sito:

http://www.zenit.org/article-23278?l=italian

Perché nelle celebrazioni del Papa il Crocifisso è al centro dell’altare?

CITTA’ DEL VATICANO, venerdì, 23 luglio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo una nota dell’Ufficio delle Celebrazione Liturgiche del Sommo Pontefice in cui si spiega il perché nelle celebrazioni di Benedetto XVI il Crocifisso viene posto al centro dell’altare.

* * *

Il Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica, al n. 218, pone la domanda: «Che cos’è la liturgia?»; e risponde:

«La liturgia è la celebrazione del Mistero di Cristo e in particolare del suo Mistero pasquale. In essa, mediante l’esercizio dell’ufficio sacerdotale di Gesù Cristo, con segni si manifesta e si realizza la santificazione degli uomini e viene esercitato dal Corpo mistico di Cristo, cioè dal Capo e dalle membra, il culto pubblico dovuto a Dio».
Da questa definizione, si comprende che al centro dell’azione liturgica della Chiesa c’è Cristo, Sommo ed Eterno Sacerdote, ed il suo Mistero pasquale di Passione, Morte e Risurrezione. La celebrazione liturgica deve essere trasparenza celebrativa di questa verità teologica. Da molti secoli, il segno scelto dalla Chiesa per l’orientamento del cuore e del corpo durante la liturgia è la raffigurazione di Gesù crocifisso.

La centralità del crocifisso nella celebrazione del culto divino risaltava maggiormente in passato, quando vigeva la consuetudine che sia il sacerdote che i fedeli si rivolgessero durante la celebrazione eucaristica verso il crocifisso, posto al centro, al di sopra dell’altare, che di norma era addossato alla parete. Per l’attuale consuetudine di celebrare «verso il popolo», spesso il crocifisso viene oggi collocato al lato dell’altare, perdendo così la posizione centrale.

L’allora teologo e cardinale Joseph Ratzinger aveva più volte sottolineato che, anche durante la celebrazione «verso il popolo», il crocifisso dovrebbe mantenere la sua posizione centrale, essendo peraltro impossibile pensare che la raffigurazione del Signore crocifisso – che esprime il suo sacrificio e quindi il significato più importante dell’Eucaristia – possa in qualche maniera essere di disturbo. Divenuto Papa, Benedetto XVI, nella prefazione al primo volume delle sueGesammelte Schriften, si è detto felice del fatto che si stia facendo sempre più strada la proposta che egli aveva avanzato nel suo celebre saggio Introduzione allo spirito della liturgia. Tale proposta consisteva nel suggerimento di «non procedere a nuove trasformazioni, ma porre semplicemente la croce al centro dell’altare, verso la quale possano guardare insieme sacerdote e fedeli, per lasciarsi guidare in tal modo verso il Signore, che tutti insieme preghiamo».

Il crocifisso al centro dell’altare richiama tanti splendidi significati della sacra liturgia, che si possono riassumere riportando il n. 618 del Catechismo della Chiesa Cattolica, un brano che si conclude con una bella citazione di santa Rosa da Lima:

«La croce è l’unico sacrificio di Cristo, che è il solo “mediatore tra Dio e gli uomini” (1 Tm 2,5). Ma, poiché nella sua Persona divina incarnata, “si è unito in certo modo ad ogni uomo” (Conc. Ecum. Vat. II, Gaudium et spes, 22) egli offre “a tutti la possibilità di venire in contatto, nel modo che Dio conosce, con il mistero pasquale” (ibid.). Egli chiama i suoi discepoli a prendere la loro croce e a seguirlo (cf. Mt 16,24), poiché patì per noi, lasciandoci un esempio, perché ne seguiamo le orme (cf. 1 Pt 2,21). Infatti egli vuole associare al suo sacrificio redentore quelli stessi che ne sono i primi beneficiari (cf. Mc 10,39; Gv 21,18-19; Col 1,24). Ciò si compie in maniera eminente per sua Madre, associata più intimamente di qualsiasi altro al mistero della sua sofferenza redentrice (cf. Lc 2,35). “Al di fuori della croce non vi è altra scala per salire al cielo” (santa Rosa da Lima; cf. P. Hansen, Vita mirabilis, Louvain 1668)».

Publié dans:liturgia |on 28 juillet, 2010 |Pas de commentaires »

Sant’Ambrogio e il chierichetto – Primo incontro con gli «Inni»

dal sito:

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/text.html#8

Primo incontro con gli «Inni»

Sant’Ambrogio e il chierichetto

Pubblichiamo il racconto autobiografico che apre il libro Preghiera e poesia negli Inni di sant’Ambrogio e di Manzoni (Milano, Jaca Book, 2010, pagine 182, euro 18, con prefazione del direttore del nostro giornale).

di Inos Biffi

Direi di aver incontrato gli inni di sant’Ambrogio negli anni della fanciullezza, o poco oltre. Diventato, infatti, chierichetto, intorno agli otto anni, non mancavo mai, la domenica e nelle feste, al canto dei vespri parrocchiali, a cui seguivano una buona spiegazione della dottrina cristiana a un’assemblea normalmente attenta, anche se non di rado assonnata nei pomeriggi estivi, e la solenne benedizione col Santissimo Sacramento.
Ho ricordato di essere diventato presto chierichetto:  fu per un inaspettato e provvido invito, a cui subito acconsentii, di un compagno di scuola, intelligente e buono, già da qualche tempo chierichetto, e col quale avrei condiviso una cordiale amicizia, prima che il Signore lo chiamasse in ancor giovane età e dopo dolorose peripezie.
Non potevo certo allora immaginare che quell’invito sarebbe stato decisivo per la mia esperienza religiosa, la storia della mia fede e l’orientamento della mia vita. Forse per questo, la circostanza in cui mi fu rivolto mi è rimasta impressa, sia pure con i contorni non più lucidi:  mi pare fosse sul piazzale della chiesa, una domenica, dopo una celebrazione, forse i vespri.
Rimasi gioiosamente fedele a quell’impegno tutto il tempo della fanciullezza e dell’adolescenza, fino all’ingresso in seminario, anche se, abitando alquanto distante dalla parrocchia, quella fedeltà comportava percorsi giornalieri fatti di salite e di discese, già di mattina presto – il primo tocco di campane si faceva sentire alle cinque e trenta – quando ancora era buio e s’intravedeva appena la strada di campagna, che dovevo percorrere:  una strada ghiacciata o innevata nella rigida stagione invernale, o tutta fangosa nella stagione delle piogge.
Era un cammino percorso in solitudine e avvolto da un grande silenzio, interrotto soltanto dal latrato di qualche cane e dal canto del gallo proveniente da qualche casolare dei dintorni. Allora non conoscevo l’inno di sant’Ambrogio Aeterne rerum conditor, dove ricorre il canto del gallo « araldo del giorno », con i versi:  « Già s’ode l’araldo del giorno, / che veglia nel profondo della notte:  / è come luce a chi cammina al buio, / delle notturne veglie è segnale », e quelli che seguono.
Lo avrei conosciuto e gustato molti anni dopo, dedicandomi alla cura dell’edizione degli inni di sant’Ambrogio e alla riforma del Breviario Ambrosiano.
Durante il tragitto, che allora mi sembrava più lungo di quel che fosse in realtà, mi avveniva anche d’incontrare qualche operaio che in bicicletta, di buon’ora, si recava al lavoro, o alcune donne che scendevano dal Mirasole e come me si avviavano alla prima messa:  non erano taciturne, e il solo sentire il loro chiacchiericcio mi rassicurava.
Con tutto ciò, non venivo distolto dai vari e non vuoti pensieri che occupavano la mia mente lungo la via che dal Tricodaglio saliva fino all’antica Lomania, un minuscolo paese di collina, allora con poco più di mille anime:  Tricodaglio era invece, ed è tuttora, il nome curioso e, come sembra, di origini remote, della mia esigua frazione, situata all’incontro di tre strade sassose, ai piedi della collinetta del Mirasole.
Quando, forse in seconda o terza elementare, imparai a memoria la poesia Ave di Diego Valeri, dove il poeta scrive dell’Angelo che « Lieve lieve ha sfiorato con l’ala di velluto / il povero paese », spargendovi « un tenue lume / di perla e di turchese / e un palpito di piume », pensai subito al mio « povero paese », al campanile della sua chiesa, da dove scendevano fino al « gruppetto di case » del Tricodaglio – sono sempre i versi dell’Ave di Valeri – « gli ultimi tocchi / cullati come foglie / dal vento della sera ». Ero convinto che anche dalle nostre « più oscure soglie » l’Angelo si volava via « a portar la preghiera / degli umili a Maria »:  Lomagna, allora, un po’ come tutta la Brianza, era una terra di laboriosi e sfruttati contadini, in un primo tempo a mezzadria con i proprietari, signorotti locali o marchesi e conti di un illustre casato milanese, che possedevano ai margini del paese un bel palazzo settecentesco.
Ma più che nei viaggi di andata era durante quelli di ritorno che coltivavo le mie riflessioni, specialmente rimeditando le parole ascoltate nelle prediche, che ripetevo e persino declamavo, per ricomporle secondo una mia logica e i miei gusti.
Forse quell’esercizio non fu vano per la predicazione, l’insegnamento e la scrittura che mi avrebbero occupato tanti anni dopo, e dove avrei sempre ricercato una coltivazione e quasi un culto della parola.
Nei mesi scolastici, finita la messa, quasi sempre preceduta, alle sei meno un quarto, dall’ufficio dei defunti, i cui notturni in latino, dopo qualche tempo, avevo imparato quasi a memoria, occorreva raggiungere la casa in fretta, e subito riprendere la stessa strada per frequentare la scuola.
E, pure, quel servizio liturgico così mattiniero, agli inizi ancora presieduto dal parroco anziano e irascibile, non mi era mai pesato, anche se l’oscurità mi angosciava, e ogni rumore o soffio di vento che agitasse le foglie mi impauriva, e persino mi spaventava il muoversi della mia ombra, che la luna proiettava sui terreni tutt’intorno, attraversati da torrenti e rogge, e ricchi di fontanili. E, infatti, quand’era in piena la Molgoretta, non mancava una certa apprensione ad attraversare il ponte.
Se, però, nelle mattine gelide d’inverno era sereno e il cielo tutto stellato, lo spettacolo, con la brina che imbiancava i terreni sotto il ciglio della strada, mi incantava.
Al ritorno, la vista era mutata:  dopo l’alba il cielo si era fatto chiaro, e in autunno o d’inverno il sole già sorto faceva brillare i campi circostanti. Ignoravo, allora, la pagina de I Promessi Sposi che, all’inizio del quarto capitolo, descrive l’uscita di padre Cristoforo dal convento di Pescarenico, la sua salita alla casa di Lucia, e intorno « la terra lavorata di fresco », che « spiccava bruna e distinta ne’ campi di stoppie biancastre e luccicanti dalla guazza »; ma appena venni a conoscenza di quella pagina, mi ritrovai come in un paesaggio noto:  il pensiero tornò subito alle vedute contemplate in quei miei percorsi mattinieri che mi facevano gioire immensamente.
A distanza di più di sessant’anni, mi pare di rivedere quello spettacolo e di risentire quell’impressione:  serbati vivi nel fondo dell’anima, tornano a suscitare l’immutato piacere della memoria, forse anche perché, a distanza di tempo, i ricordi sono soliti abbellire e trasfigurare anche le vicissitudini meno affascinanti e meno piacevoli  del  passato.  Ma  torniamo  agli inni di sant’Ambrogio e ai vespri domenicali.
Nel tempo ordinario si cantava a distesa uno dei suoi inni più belli, il Deus creator omnium, scritto per l’ »ora dell’accensione », che tanto aveva incantato e commosso sant’Agostino e che anche sua madre, Monica, ben conosceva e citava.
Certamente, in quegli anni acerbi non capivo nulla dei versi splendidi di quell’inno, come di quelli dell’Intende qui regis Israel, nei vespri natalizi, o di quelli dell’Hic est dies verus Dei, nel tempo pasquale.
 D’altronde, nessuno capiva quello che cantava, ma tutti lo stesso cantavano a distesa quei carmina che, come professioni sonore della fede, con sagace percezione pastorale, sant’Ambrogio aveva composto per la preghiera liturgica dei suoi fedeli, nel corso della giornata o nelle feste del Signore e dei martiri. A poco a poco finii, però, con l’impararli quasi a memoria. Qualche cosa, tuttavia, mi ingegnavo di capire, aiutato dai volumetti, dai profili variamente colorati a seconda dei tempi liturgici, che l’Opera della Regalità dell’Università Cattolica con felice iniziativa metteva in mano dei fedeli perché potessero seguire i riti e parteciparvi attivamente, e dal denso e prezioso Parrocchiano Ambrosiano.
Di là dalla comprensione che allora ne potessi avere, quegli inni ambrosiani a poco a poco si depositarono in me come un seme silenzioso, in attesa di germogliare quando, molto più tardi, a seguito di circostanze, alcune prevedibili e altre affatto imprevedute, mi sarei dovuto soffermare a lungo su di essi, per studiarli e per tradurli.
E sempre a quei vespri incominciai a sentir cantare, insieme con gli inni di sant’Ambrogio, i salmi in latino, e anche di essi imparavo a memoria qualche versetto. E al riguardo mi viene in mente quanto mi narrava il cardinale Giovanni Colombo del suo nonno materno che, vedendo per la prima volta la gran « foppa » del mare, a Genova, prima di imbarcarsi come emigrante in Argentina, ebbe a esclamare:  « Vedi il mare, e fuggi! »:  era la sua versione del versetto del salmo 113 (v. 3) cantato ai vespri nella chiesa parrocchiale di Caronno, Vidit mare et fugit.
Mi veniva spontaneo di collegare strettamente quelle liturgie vespertine alle stagioni; il tempo di Quaresima e di Pasqua alla primavera che scioglieva i ghiacci e rinverdiva i prati; il tempo dopo Pentecoste all’estate, che indorava le messi e, qualche anno, con la sua arsura insopportabile inaridiva e disseccava i campi di granoturco – da qui le preghiere e le processioni per propiziare l’acqua – il tempo d’Avvento si associava all’autunno, con le sue nebbie, specialmente al fondo della discesa, al Lavandaio, dove scorrevano le rogge, e con le prime ombre della sera, che sentivo e aspiravo con diffusa mestizia; mentre il tempo del Natale, dell’Epifania e delle domeniche che seguivano ci collocava nell’inverno, con tanta neve e ghiaccio, che rendeva la strada scivolosa, e si aveva l’impressione che non passasse mai.
Era come se la grazia dei misteri si disposasse con le stagioni e le attraversasse, assumendo la forma sensibile della natura:  la grazia infusa nei ricorsi dei tempi, che si trovavano, così, nobilitati e sublimati, e da puro calendario meteorologico passavano a calendario della pietà e a ciclo di salvezza.
Questa associazione non ha cessato di perdurare e ha facilitato la visione teologica, che avrebbe portato frutti in seguito, di tutta la realtà creata per mezzo di Cristo, in lui e in vista di lui, e quindi anche del tempo, in cui si dispiega la sua signoria.
Anche durante i tragitti solitari verso casa dopo i vespri non mancavo di riandare a quello che si era celebrato o cantato in chiesa, salmi o inni. Era ancora una seminagione:  negli anni successivi li avrei ritrovati.

(L’Osservatore Romano – 11 luglio 2010)

1...678910...18

PUERI CANTORES SACRE' ... |
FIER D'ÊTRE CHRETIEN EN 2010 |
Annonce des évènements à ve... |
Unblog.fr | Annuaire | Signaler un abus | Vie et Bible
| Free Life
| elmuslima31