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“Non per giudicare ma per salvare” (Intervista a don Andrea Mardegan sulla confessione)

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http://www.zenit.org/article-27375?l=italian

“Non per giudicare ma per salvare”

Intervista a don Andrea Mardegan sulla confessione

di Antonio Gaspari

ROMA, lunedì, 11 luglio 2011 (ZENIT.org).-In un passaggio del Vangelo secondo Giovanni, Gesù disse a Nicodemo: “Dio, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui” (Gv 3,16-18).
E per salvare gli umani che cadono per la loro fragilità, la Chiesa ha il sacramento della confessione. Un sacramento la cui pratica è centrale per l’opera di conversione, e che sta tornando al centro dell’attenzione di fedeli e teologi.
A questo proposito don Andrea Mardegan, cappellano del collegio universitario Torriana di Milano, ha pubblicato per le edizioni Paoline il libro « Il sacramento della gioia » in cui presenta brani evangelici che hanno un legame immediato con i temi della conversione, della richiesta di perdono, della confessione e della riconciliazione.
Con questo libro l’autore cerca di rispondere alla Verbum Domini di Benedetto XVI, secondo cui: “Affinché si approfondisca la forza riconciliatrice della Parola di Dio si raccomanda che il singolo penitente si prepari alla confessione meditando un brano adatto della Sacra Scrittura”.
Il volume si articola in sette parti che dovrebbero rappresentare le linee guidaper affrontare la confessione ed arrivare alla comunione con un senso di felicità, di gioia, di beatitudine e di benedizione.

ZENIT ha intervistato don Andrea Mardegan.

Un diffuso pregiudizio considera la confessione una sorta di tribunale che seleziona e punisce i peccatori, mentre per un cristiano la confessione è la forma più alta di carità che il Signore gli abbia dato. Può spiegare il rapporto tra confessione e carità e perchè ha intitolato il suo libro “il sacramento della gioia?”.
Don Mardegan: Uno dei motivi per cui ho scritto questo libro è per far eco alla verità che il Vangelo ci svela, che Gesù è venuto per perdonare i peccatori, per salvare ciò che era perduto. Anche oggi non aspetta altro: Lui è il Salvatore. Per incontrarlo però dobbiamo accogliere la verità che siamo peccatori e andare verso di Lui come il figlio giovane della parabola che Lui stesso ci ha narrato, che torna dal Padre e da Lui riceve il bacio, l’abbraccio: il perdono ricevuto; la veste nuova, una festa con la musica e le danze: il frutto di gioia che dà la riconciliazione con Dio, non solo per il peccatore perdonato, ma per tutta la sua famiglia, che è la Chiesa. Ciò che accade nella confessione è una manifestazione altissima di carità. Lì si riversa nell’anima tutta la carità di Dio, che nella sua sovrabbondanza di bene annega il male che è il peccato. Lo stesso peccatore (ciascuno di noi), manifesta nel suo chiedere perdono l’amore che ha per Dio (chiedere perdono è sempre un atto d’amore), la fiducia totale in Lui, l’abbandono tra le sue braccia. C’è anche l’amore del peccatore per la Chiesa e la fiducia nel sacerdozio, che è dono di Dio, e il confessore da parte sua manifesta tutto l’amore materno della Chiesa per i peccatori, e il suo amore fraterno da sacerdote che sostiene, incoraggia, consiglia e non ci lascia soli. È segno di un amore fraterno che nella Chiesa ha tante altre manifestazioni, ma nella confessione raggiunge un culmine. Ho intitolato il libro “Il sacramento della gioia” perché il Vangelo mette in evidenza la gioia della conversione, e perché è esperienza comune che la confessione ben fatta porti una gioia profonda, i confessori lo sanno e i santi lo dicono. Ricordo in particolare espressioni del Beato Giovanni Paolo II e di San Josemaría Escrivá che nelle sue catechesi sulla confessione amava usare quest’espressione e altre simili.

Perché confessarsi?
Don Mardegan: Per incontrarsi con Cristo, per ascoltare la sua voce che ci dice: “neanch’io ti condanno, sii perdonato dal tuo peccato, va e non peccare più”, per ricevere il suo aiuto, la sua grazia santificante che ci rende santi, la sua grazia sacramentale che è un aiuto specifico per proseguire il cammino, per essere rafforzati da Dio nella lotta di quel momento della nostra vita. Per avere il consiglio e la preghiera del confessore. Per arrivare a conoscersi davvero. Per non essere soli nel cammino. Per godere della purezza d’animo del Battesimo, per poter aiutare gli altri. Per confrontare il nostro pensiero con il pensiero della Chiesa, il pensiero di Cristo, in questioni che ci toccano nell’intimo e che a volte non possiamo o non vogliamo rivelare ad altri. Per non lasciarci sviare da tentazioni, o da idee sbagliate, da comportamenti che ci portano fuori strada. Per essere sicuri di una totale riservatezza. Per sentire una parola di vita eterna.

E che cosa significa prepararsi alla confessione?
Don Mardegan: Dipende dalla situazione di ciascuno, ma direi che ciò che il Papa suggerisce nella Verbum Domini, cioè prepararsi alla confessione meditando il Vangelo, che è quello che il mio libro si propone di aiutare il lettore a fare, è un consiglio che aiuta a prepararsi nella preghiera, a recuperare la visione giusta di fede nella presenza di Cristo nel suo sacramento, il suo essere presente nel suo ministro: è Lui e solo Lui che può dire io ti perdono, nel suo nome il confessore può pronunciare le parole dell’assoluzione. Prepararsi meditando il Vangelo può significare “ritornare in sé” come il figliol prodigo e accettare la rivelazione sul nostro essere peccatori; e accorgerci, guidati dallo Spirito Santo, dalla parola di Dio e dall’insegnamento della Chiesa: in questa e in quest’altra azione, pensiero, parola, ho peccato. Prepararsi può significare: fare il proposito di non peccar più con l’aiuto di Dio e della grazia del sacramento, anche quando siamo consapevoli che da soli non ce la faremmo mai. Comunque alcuni di questi passi possono avvenire anche all’interno del dialogo del sacramento. Meglio arrivare alla confessione con la preparazione essenziale, che rimandarla: è la grazia di Dio che ci sana, non il nostro sforzo, e un buon confessore deve saper aiutare opportunamente.

In che senso l’uomo pecca?
Don Mardegan: Nella situazione attuale, dopo il peccato originale, l’uomo ha difficoltà a vedere Dio, a facilità a non capire Dio, a dimenticarsi di Dio rendendosi Dio a se stesso. Oppure ha grande facilità a considerare fine assoluto della sua vita, Amore infinito che motiva tutte le azioni, non Dio, ma una creatura di Dio, una persona amata, o un obbiettivo temporale, un lavoro, un potere, delle ricchezze, un piacere. Tutte cose create da Dio, che possono nell’ordine del suo Amore avere una finalità positiva e anche santa. L’uomo nel peccare sbaglia obbiettivo, o sbaglia ordine, tralascia un aspetto essenziale per il bene, disobbedisce a Dio, decide in proprio cosa è bene e cosa è male. Molto spesso tutto ciò avviene per debolezza, per fragilità, altre volte invece ci può essere malizia, una volontà radicata nel male. Come insegnano i primi capitoli della Genesi, non manca in questo processo l’azione del tentatore, del nemico del genere umano, dell’accusatore dei nostri fratelli, del divisore. L’esperienza umana e della Chiesa insegna anche che da un peccato , se non purificato, ne può sorgere un altro e altri peggiori, in una catena negativa. Ma la forza del perdono di Cristo che meditiamo nelle scene del Vangelo, è sempre più grande del peccato.

Chi è autorizzato a perdonare i peccati?
Don Mardegan: Coloro a cui Gesù ha trasmesso questo potere dopo la sua risurrezione: gli apostoli e i loro successori: il Papa e i Vescovi, e i sacerdoti loro collaboratori che hanno ricevuto da loro il sacramento dell’ordine sacro e la facoltà di ascoltare confessioni. Ma l’interesse di Cristo e della Chiesa per il perdono dei peccati è tale, che se una persona fosse in punto di morte e non avesse altra possibilità, anche un sacerdote sospeso dal ministero, o che avesse lasciato il sacerdozio, può darle l’assoluzione dei peccati.
Un anziano confessore mi ha spiegato che il Signore si intristisce per le nostre cadute, ma è interessato soprattutto a vedere le opere di bene di cui siamo capaci. Non basta infatti essere virtuosi se poi non si fanno opere buone. E’ corretto questo punto di vista?
Don Mardegan: Sicuramente l’anziano confessore le ha detto cose sagge che anch’io ascolto per imparare. Quanto il Signore soffre per i nostri peccati: basta guardarlo sulla Croce. Giovanni Paolo II nell’Enciclica Dominum et Vivificantem parla del dolore di Dio dopo il peccato dei progenitori. Quello fu il primo dolore che entrò nella storia della salvezza. Non il dolore dell’uomo. Dal punto di vista della pastorale è giusto sottolineare tutto ciò che può incoraggiare il cristiano a essere o diventare penitente, a imparare a chiedere perdono. Può essere la considerazione della Passione di Cristo con la quale lo Spirito Santo ci spiega la gravità del peccato, o può essere la forza della Risurrezione, della vita nuova che Dio ci dona con il suo perdono. Egli fa nuove tutte le cose. E Gesù è contento di ritrovarci, di perdonarci, di incontrarci personalmente e di rivestirci di sé: come fu contento di far scendere Zaccheo dal sicomoro, o come fu contento delle lacrime della peccatrice che gli lavavano i piedi. Per ciò che riguarda le opere buone: se non si fanno opere buone, non si è virtuosi, infatti la virtù è proprio la capacità di operare il bene. È vero che non può bastare al Signore una presunta impeccabilità che non sia unita alla carità e alla operosità nel bene, anche perché se non c’è carità veniamo meno al più importante dei comandamenti di Gesù, che racchiude tutti gli altri. Lo diceva già la lettera di san Giacomo, la fede senza le opere è morta. E l’atteggiamento di Gesù “confessore”, se così si può dire, che ho cercato di approfondire nel mio libro, meditando su vari episodi evangelici, è sempre orientato al bene che può operare chi è guarito dal peccato. Basti pensare alla Samaritana che corre ad annunciare a tutti che ha incontrato il Messia,O a Zaccheo che restituisce il quadruplo e cambia vita, al paralitico che torna dai suoi glorificando Dio, a Pietro che piange ma poi conferma i suoi fratelli.

Come si fa l’esame di coscienza e perchè è così importante?
Don Mardegan: Ho proposto varie domande di esame di coscienza nell’ultimo capitolo del libro. Ho notato che c’è molto interesse tra i lettori per questo aiuto. Non è possibile dare ricette generali, diverso è l’esame giornaliero, normalmente breve e denso di amore di Dio, da quello che si fa prima della confessione, come diverso è se la confessione è frequente o se è trascorso molto tempo dalla precedente. È Gesù che incita spesso alla vigilanza, e Papa Benedetto lo ha ricordato varie volte, anche di recente, parlando alla Penitenzieria Apostolica. Tendiamo a minimizzare, a dimenticare, o a esagerare ciò che facciamo. Dobbiamo chiederci in coscienza, davanti a Dio e alla sua parola, che cosa nella nostra condotta è andato contro di Lui e anche se stiamo compiendo ciò che Dio ci fa capire che vuole da noi, se adempiamo i suoi comandamenti, i doveri della nostra condizione di vita, ciò che le circostanze e le persone che incontriamo ci chiedono volta per volta. Per aiutare in questo compito i lettori ho preparato delle domande seguendo i dieci comandamenti. Li ho introdotti con testi di beatitudini bibliche, perché ci ricordino, quando ci esaminiamo in coscienza, che vivere i comandamenti è strada per la felicità promessaci dal Signore. È importante esaminarci chiedendo luci allo Spirito Santo per non essere come colui che non nota la trave nel proprio occhio e vuole togliere la pagliuzza in quello del fratello, per non essere una guida cieca che conduce altri ciechi al precipizio, per non costruire l’edificio della vita cristiana sulla sabbia, per non lasciare che nel nostro campo interiore abbondi la zizzania seminata nottetempo dal nemico, perché il seme della parola di Dio cada nella terra buona del nostro cuore preparato: via gli sterpi e i sassi, via gli uccelli che ce lo vogliono rubare. E, in positivo, per essere colui che costruisce la casa sulla roccia, che segue Gesù ovunque egli vada, che diventa suo discepolo e va ad annunziare il suo Vangelo nelle circostanze della vita quotidiana, che dona la sua vita per amore e risponde alla sua vocazione. La Madonna che non ha peccato, ma che custodisce e medita ogni cosa della vita di Gesù e della nostra nel suo cuore, ci può aiutare.

Publié dans:liturgia |on 12 juillet, 2011 |Pas de commentaires »

Riorientare la Messa: Padre Lang spiega come si deve essere “rivolti al Signore” (2007)

dal sito:

http://www.zenit.org/article-12315?l=italian

Riorientare la Messa

Padre Lang spiega come si deve essere “rivolti al Signore”

LONDRA, giovedì, 25 ottobre 2007 (ZENIT.org).- L’obiezione che solitamente viene sollevata rispetto alla forma antica di celebrare la Messa è che il sacerdote dà le spalle alla comunità, ma questo è un falso problema, secondo padre Uwe Michael Lang.
La postura “ad orientem” – verso oriente – riguarda piuttosto la volontà di assumere una direzione comune (tra comunità e sacerdote) nella preghiera liturgica, aggiunge.
Padre Lang del London Oratory, recentemente nominato alla Pontificia Commissione per i beni culturali della Chiesa, è autore del libro “Rivolti al Signore. L’orientamento nella preghiera liturgica”. Il libro è stato pubblicato inizialmente in Germania da Johannes Verlag e poi in inglese da Ignatius Press. Successivamente è apparso anche in italiano (ed. Cantagalli), francese, ungherese e spagnolo.
In questa intervista rilasciata a ZENIT, padre Lang parla della postura “ad orientem” e della possibilità di riscoprire questa antica pratica liturgica.
Come si è sviluppata, nella Chiesa dei primi secoli, la pratica di celebrare la liturgia “ad orientem”, rivolti verso oriente? Qual è il suo significato teologico?
Padre Lang: Nella maggior parte delle religioni, la posizione che si assume nella preghiera e nell’orientamento dei luoghi sacri è determinata da una “direzione sacra”. La direzione sacra dell’ebraismo è verso Gerusalemme o più precisamente verso la presenza del Dio trascendente “shekinah” nel Sancta Sanctorum del Tempio, come si legge in Daniele 6,11.
Anche dopo la distruzione del Tempio, l’uso di rivolgersi verso Gerusalemme è rimasto nella liturgia della sinagoga. È così che gli ebrei hanno espresso la loro speranza escatologica per l’arrivo del Messia, per la ricostruzione del Tempio e per il rientro del popolo di Dio dalla diaspora.
I primi cristiani non si volgevano più verso la Gerusalemme terrena, ma verso la nuova Gerusalemme celeste. La loro ferma convinzione era che con la seconda venuta, nella gloria, il Cristo risorto avrebbe radunato il suo popolo per costituire questa città celeste.
Essi vedevano nel sorgere del sole un simbolo della Risurrezione e della seconda venuta. E questo simbolo è stato quindi trasposto anche nella preghiera. Vi sono elementi che ampiamente dimostrano che dal secondo secolo in poi, in gran parte del mondo cristiano, la preghiera era rivolta verso oriente.
Nel Nuovo Testamento, il significato della preghiera orientata (rivolta verso oriente) non è esplicito.
Ciò nonostante la Tradizione ha individuato molti riferimenti testuali a questo simbolismo, come ad esempio: il “sole di giustizia” in Malachia 3, 30; “verrà a visitarci dall’alto un sole che sorge” in Luca 1, 78; l’angelo che sale dall’oriente con il sigillo del Dio vivente in Apocalisse 7, 2; e le immagini di luce nel Vangelo di san Giovanni.
In Matteo 24, 27-30 il segno della venuta del Figlio dell’Uomo con grande potenza e gloria, come la folgore che viene da oriente e brilla fino a occidente, è la croce.
Esiste una stretta relazione tra la preghiera orientata e la croce; questo risulta evidente sin dal quarto secolo, se non prima. Nelle sinagoghe di quel periodo, il punto in cui erano collocati i rotoli della Torah indicava la direzione della preghiera “qibla” verso Gerusalemme.
Tra i cristiani divenne uso comune segnare la direzione della preghiera con una croce sul muro orientale nelle absidi delle basiliche e nei luoghi privati, per esempio, dei monaci e degli eremiti.
Verso la fine del primo millennio vi sono teologi di diverse tradizioni che osservano come la preghiera orientata sia una delle pratiche che distinguono il Cristianesimo dalle altre religioni del Vicino Oriente: gli ebrei pregano verso Gerusalemme, i musulmani verso la Mecca, mentre i Cristiani verso oriente.
Anche gli altri riti della Chiesa cattolica adottano l’orientamento liturgico?
Padre Lang: La preghiera liturgica orientata (rivolta verso oriente) fa parte anche delle tradizioni bizantina, siriaca, armena, copta ed etiope. Ancora oggi essa è in uso nella maggior parte dei riti orientali, almeno per quanto riguarda la preghiera eucaristica.
Alcune Chiese cattoliche orientali, come ad esempio quella maronita e quella siro-malabarese, hanno adottato in tempi recenti la Messa rivolta “versus populum”, ma questo è dovuto all’influenza moderna occidentale e non deriva dalle proprie tradizioni.
Per questo motivo la Congregazione vaticana per le Chiese orientali ha dichiarato nel 1996 che l’antica tradizione di pregare rivolti verso oriente ha un profondo valore liturgico e spirituale e deve essere preservata nei riti orientali.
Spesso sentiamo dire che “ad orientem” significa che il sacerdote sta celebrando con le spalle rivolte alla comunità. Ma qual è il significato vero di questo orientamento?
Padre Lang: Il luogo comune secondo cui il prete dà le spalle alla gente è un falso problema in quanto il punto essenziale è che la Messa è un atto di culto comune, in cui il sacerdote insieme alla comunità – che rappresentano la Chiesa pellegrina – protendono verso il Dio trascendente.
La questione non è se la celebrazione è rivolta “verso” o “contro” la comunità, ma è la comune direzione della preghiera liturgica che conta. E ciò si può avere a prescindere dall’orientamento dell’altare. In Occidente molte chiese costruite dopo il XVI secolo non sono più orientate.
Il sacerdote all’altare, rivolto nella stessa direzione dei fedeli, guida il popolo di Dio nel cammino della fede. Questo movimento verso il Signore trova la sua massima espressione nei santuari di molte chiese del primo millennio, in cui la rappresentazione della croce o del Cristo glorificato indica la meta del pellegrinaggio terreno dell’assemblea.
Essere rivolti verso il Signore significa mantenere vivo il senso escatologico dell’Eucaristia e ci ricorda che la celebrazione del Sacramento è una partecipazione alla liturgia celeste e la promessa della futura gloria nella presenza del Dio vivente.
Questo dà all’Eucaristia la sua grandezza, evitando che la singola comunità si chiuda in se stessa, aprendola verso l’assemblea degli angeli e dei santi nella città celeste.
In che modo può una liturgia orientata promuovere il dialogo con il Signore nella preghiera?
Padre Lang: L’elemento principale del culto cristiano è il dialogo tra il popolo di Dio nel suo complesso, compreso il celebrante, e Dio verso il quale è rivolta la preghiera.
È per questo che il liturgista Marcel Metzger sostiene che la diatriba sul verso in cui è rivolto il celebrante rispetto alla comunità esclude del tutto colui verso il quale tutte le preghiere sono dirette, ovvero Dio stesso.
L’Eucaristia non è celebrata con il sacerdote rivolto verso i fedeli o dando loro le spalle. Piuttosto è l’intera assemblea che celebra rivolta verso Dio, attraverso Gesù Cristo, nello Spirito Santo.
Nella premessa al suo libro, l’allora cardinale Ratzinger osserva che nessuno dei documenti del Concilio Vaticano II indica di dover rivolgere l’altare verso i fedeli. Come si è verificato allora il cambiamento? Qual è la base per tale importante modifica della liturgia?
Padre Lang: Solitamente si citano due argomenti principali per sostenere la posizione del celebrante rivolto verso i fedeli.
Il primo è che tale pratica corrisponde a quella della Chiesa dei primi secoli e che pertanto deve essere adottata come la norma anche ai tempi nostri. Tuttavia, un’attenta analisi dei documenti non dà conferma a questa ipotesi.
Il secondo è che la “attiva partecipazione” dei fedeli, un principio introdotto da Papa Pio X e diventato centrale nella “Sacrosanctum Concilium”, impone che il celebrante sia rivolto verso la comunità.
Ma una riflessione critica sul concetto di “attiva partecipazione” ha di recente rivelato la necessità di una nuova valutazione teologica di questo importante principio.
Nel suo libro “Lo spirito della liturgia”, l’allora cardinale Ratzinger compie una utile distinzione tra la partecipazione alla liturgia della Parola, che comprende azioni esterne, e la partecipazione alla liturgia eucaristica, in cui le azioni esterne sono del tutto secondarie, poiché è la partecipazione interiore della preghiera che costituisce l’elemento centrale.
La recente esortazione apostolica post-sinodale del Santo Padre “Sacramentum Caritatis” contiene una importante trattazione di questo argomento al paragrafo 52.
Il nuovo ordinamento della Messa promulgato da Papa Paolo VI nel 1970 vieta al sacerdote di rivolgersi ad oriente? Esiste qualche ostacolo giuridico che vieta l’uso più ampio di questa antica pratica?
Padre Lang: Il Messale di Papa Paolo VI considera come un’opzione legittima quella di combinare la posizione del sacerdote rivolto verso i fedeli durante la liturgia della Parola e la posizione di entrambi rivolti verso l’altare durante la liturgia eucaristica e in particolare per il Canone.
La versione revisionata delle Istruzioni generali del Messale romano, che sono state pubblicate inizialmente per motivi accademici nel 2000, affronta la questione dell’altare al paragrafo 299, che sembra considerare la posizione del celebrante rivolto “ad orientem” come non opportuna o persino vietata.
Tuttavia, la Congregazione per il culto divino e i sacramenti ha rigettato questa interpretazione in risposta ad una domanda sottoposta dal cardinale Christoph Schönborn, Arcivescovo di Vienna. Ovviamente il paragrafo delle Istruzioni generali deve essere letto alla luce di questa riposta, datata 25 settembre 2000.
La recente lettera apostolica di Benedetto XVI “Summorum Pontificum”, che liberalizza l’uso del Messale di Giovanni XXIII, consentirà un più profondo apprezzamento della posizione “rivolti verso il Signore” durante la Messa?
Padre Lang: Io credo che molte riserve o persino timori sulla Messa “ad orientem” derivino da una scarsa familiarità con essa e che la diffusione dell’ “uso straordinario” del rito romano antico aiuterà molte persone a riscoprire e apprezzare questa forma di celebrazione.

Publié dans:liturgia |on 23 juin, 2011 |Pas de commentaires »

Sabato 18 giugno, Ufficio delle Letture: San Cipriano sul Padre Nostro

SABATO 18 GIUGNO 2011

UFFICIO DELLE LETTURE

Seconda Lettura

Dal trattato «Sul Padre nostro» di san Cipriano, vescovo e martire
(Nn. 28-30; CSEL 3, 287-289)

Bisogna pregare non soltanto con le parole, ma anche con i fatti.
Quale meraviglia, fratelli dilettissimi, se il «Padre nostro» è la preghiera che ci ha insegnato Dio? Egli col suo insegnamento ha compendiato ogni nostra preghiera in queste parole di salvezza. Questo era già stato predetto tramite il profeta Isaia, quando pieno di Spirito Santo aveva parlato della maestà e della misericordia di Dio e della parola che tutto contiene e tutto riassume in chiave di salvezza. Il profeta aveva anche affermato che Dio si sarebbe rivolto a tutta la terra con piccole frasi pregnanti. E, in effetti, quando la Parola di Dio, cioè nostro Signore Gesù Cristo, venne a tutti gli uomini, e quando, radunati insieme i dotti e gli ignoranti, ebbe divulgato a ogni sesso e a ogni età i precetti di salvezza, fece un grande compendio dei suoi precetti, perché la memoria dei discepoli non si affaticasse nella dottrina celeste, ma imparasse subito ciò che era necessario alla semplice fede. Così, insegnando che cosa sia la vita eterna, racchiuse con grande e divina brevità il mistero della vita, dicendo: «Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico e vero Dio, e colui che hai mandato. Gesù Cristo» (Gv 17, 3). Similmente, volendo stralciare dall’insieme della legge e dei profeti i precetti principali e fondamentali, disse: «Ascolta, Israele: il Signore tuo Dio è l’unico Dio»; e ancora: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua forza. Questo è il primo precetto, e il secondo è simile a questo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. In questi due precetti è racchiusa tutta la legge e i profeti» (Mc 12, 29-31). E di nuovo: Tutti quei beni che volete che gli uomini facciano a voi, fateli anche voi a loro. Questa è infatti la legge e i profeti (cfr. Mt 7, 12).
Dio ci ha insegnato a pregare non soltanto a parole, ma anche con i fatti, pregando e supplicando egli stesso frequentemente e dimostrando con la testimonianza del suo esempio che cosa dobbiamo fare anche noi, come sta scritto: Egli poi si ritirò in luoghi deserti e pregò (cfr. Lc 5, 16); e ancora: Salì sul monte a pregare, e passò la notte nella preghiera a Dio (cfr. Lc 6, 12).
Certo il Signore pregava e intercedeva non per sé — che cosa infatti deve domandare per sé un innocente? — ma per i nostri peccati. Lo dichiara egli stesso quando dice rivolto a Pietro: «Ecco che Satana vi ha cercato per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede» (Lc 22, 31-32). E dopo questo supplica il Padre per tutti dicendo: «Non prego solo per questi, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in me; perché tutti siano una sola cosa. Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola» (Gv 17, 20-21).
Grande fu la bontà di Dio per la nostra salvezza, grande la sua misericordia! Egli non si accontentò di redimerci col suo sangue, ma in più volle ancora pregare per noi. E guardate quale fu il suo desiderio mentre pregava: che come il Padre e il Figlio sono una cosa sola; così anche noi rimaniamo nella stessa unità.

Il testo dell’Exultet

dal sito:

http://www.aquino.it/pasqua/exultet.htm

Il testo dell’Exultet

Il testo dell’Exultet che si legge ancora oggi nel corso della veglia pasquale discende da una redazione duecentesca fissata da papa Innocenzo III. A sua volta, questo si fonda su una tradizione più antica, rimasta pressoché invariata nel corso dei secoli. Soltanto nell’Italia meridionale l’Exultet ha conosciuto agli albori del suo utilizzo una diversa redazione, denominata « testo di Bari » o della Vetus Itala. Essa conteneva una formula variata nella prefazio che è stata successivamente normalizzata nel corso del XII secolo sulla base dell’ ordo romano . Soltanto nella parte finale il testo seguiva varianti di volta in volta diverse: esso si concludeva infatti con le commemorazioni liturgiche, cioè formule di intercessione per il clero, i fedeli, i papi, i sovrani e le autorità locali. Poiché nel corso degli anni si potevano avere serie diverse di reggenti, spettava al diacono ricordare o leggere il nome della autorità del momento, che di solito veniva appuntata sul rotolo mediante note mnemoniche. Queste ultime offrono oggi preziosi indizi per la datazione e la provenienza dei rotoli.

Esulti il coro egli angeli, esulti l’assemblea celeste:
un inno di gloria saluti il trionfo del Signore risorto.

Gioisca la terra inondata da così grande splendore;
la luce del Re eterno ha vinto le tenebre del mondo.

Gioisca la madre Chiesa, splendente della gloria del suo Signore,
e questo tempio tutto risuoni
per le acclamazioni del popolo in festa.

[(E voi, fratelli carissimi,
qui radunati nella solare chiarezza di questa nuova luce,
invocate con me la misericordia di Dio onnipotente.
Egli che mi ha chiamato, senza alcun merito,
nel numero dei suoi ministri, irradi il suo mirabile fulgore,
perché sia piena e perfetta la lode di questo cero.)]

[Il Signore sia con voi.
E con il tuo spirito.]

In alto i nostri cuori.
Sono rivolti al Signore.

Rendiamo grazie al Signore, nostro Dio.
E’ cosa buona e giusta.

E’ veramente cosa buona e giusta
esprimere con il canto l’esultanza dello spirito,
e inneggiare al Dio invisibile, Padre onnipotente,
e al suo unico Figlio, Gesù Cristo nostro Signore.

Egli ha pagato per noi all’eterno Padre il debito di Adamo,
e con il sangue sparso per la nostra salvezza
ha cancellato la condanna della colpa antica.

Questa è la vera Pasqua, in cui è ucciso il vero Agnello,
che con il suo sangue consacra le case dei fedeli.

Questa è la notte in cui hai liberato i figli di Israele, nostri padri,
dalla schiavitù dell’Egitto,
e li hai fatti passare illesi attraverso il Mar Rosso.

Questa è la notte in cui hai vinto le tenebre del peccato
con lo splendore della colonna di fuoco.

Questa è la notte che salva su tutta la terra i credenti nel Cristo
dall’oscurità del peccato e dalla corruzione del mondo,
li consacra all’amore del Padre
e li unisce nella comunione dei santi.

Questa è la notte in cui Cristo, spezzando i vincoli della morte,
risorge vincitore dal sepolcro.

(Nessun vantaggio per noi essere nati, se lui non ci avesse redenti.)

O immensità del tuo amore per noi! O inestimabile segno di bontà:
per riscattare lo schiavo, hai sacrificato il tuo Figlio!

Davvero era necessario il peccato di Adamo,
che è stato distrutto con la morte del Cristo.
Felice colpa, che meritò di avere un così grande redentore!

(O notte beata, tu sola hai meritato di conoscere
il tempo e l’ora in cui Cristo è risorto dagli inferi.

Di questa notte è stato scritto: la notte splenderà come il giorno,
e sarà fonte di luce per la mia delizia.)

Il santo mistero di questa notte sconfigge il male,
lava le colpe, restituisce l’innocenza ai peccatori,
la gioia agli afflitti.

(Dissipa l’odio, piega la durezza dei potenti,
promuove la concordia e la pace.)

O notte veramente gloriosa,
che ricongiunge la terra al cielo e l’uomo al suo creatore!

In questa notte di grazia accogli, Padre santo, il sacrificio di lode,
che la Chiesa ti offre per mano dei suoi ministri,
nella solenne liturgia del cero,
frutto del lavoro delle api, simbolo della nuova luce.

(Riconosciamo nella colonna dell’Esodo
gli antichi presagi di questo lume pasquale
che un fuoco ardente ha acceso in onore di Dio.
Pur diviso in tante fiammelle non estingue il suo vivo splendore,
ma si accresce nel consumarsi della cera
che l’ape madre ha prodotto
per alimentare questa preziosa lampada.)

Ti preghiamo, dunque, Signore, che questo cero,
offerto in onore del tuo nome
per illuminare l’oscurità di questa notte,
risplenda di luce che mai si spegne.

Salga a te come profumo soave,
si confonda con le stelle del cielo.
Lo trovi acceso la stella del mattino,
questa stella che non conosce tramonto:
Cristo, tuo Figlio, che risuscitato dai morti
fa risplendere sugli uomini la sua luce serena
e vive e regna nei secoli dei secoli. Amen
 

Latino
Exultet iam angelica turba caelorum! Exultent divina mysteria, et pro tanti regis victoria tuba intonet salutaris. Gaudeat se tantis Tellus inradiata fulgoribus, et aeterni regis splendore lustrata, totius orbis se sentiat amisisse caliginem. Laetetur et Mater Ecclesia, tanti luminis adornata fulgore, et magnis populorum vocibus haec aula resultet. Quapropter adstantibus vobis, fratres carissimi, ad tam miram sancti huius luminis claritatem, una mecum, quaeso, Dei omnipotentis misericordiam invocate. Ut qui me, non meis meritis, intra levitarum numerum dignatus est adgregare, luminis sui gratia infundente, cerei huius laudem implere praecipitat. Per (..) Vere qui dignum et iustum est invisibilem Deum omnipotentem Patrem, Filiumque unigenitum Dominum nostrum Iesum Christum, toto cordis ac mentis adfectu at voci ministerio personare, qui pro nobis aeterno Patri Adae debitum solvit et veteris piaculi cautionem pio cruore detersit. Haec sunt enim festa paschalium, in quibus verus ille agnus occiditur eiusque sanguis postibus consecratur. Haec nox est in qua primum patres nostros, filios Israel, educens de Aegypto, Rubrum mare sicco vestigio transire fecisti. Haec igitur nox est, quae peccatorum tenebras columnae inluminatione purgavit. Haec nox est, quae hodie per universum mundum in Christo credentes, a vitiis saeculi segregatos et caligine peccatorum, reddit gratiae, sociat sanctitati. Haec nox est, in qua destructis vincolis mortis, Christus ab inferis victor ascendit. Nihil enim nobis nasci profuit, nisi redimi profuisset. O mira circa nos tuae pietatis dignatio! O inaestimabilis dilectio caritatis: ut servum redimeres, filius tradidisti! O certe necessarium Adae peccatum, quod Christi morte deletum est! O felix culpa, quae talem ac tantum meruit habere redemptorem! O beata nox, quae sola meruit scire tempus et horam in qua Christus ab inferis resurrexit. Haec nox est, de qua scriptum est: Et nox ut dies inluminabitur, et: Nox inluminatio mea in deliciis meis. Huius igitur sanctificatio noctis fugat scelera, culpas lavat et reddit innocentiam lapsis, maestis laetitiam; fugat odia, concordiam parat et curvat imperia. In huius igitur noctis gratia, suscipe, sancte Pater, incensi huius sacrificium vespertinum, quod tibi in hac cerei oblatione solemni, per ministrorum manus, de operibus apum, sacrosancta reddit Ecclesia. Sed iam columnae huius praeconia novimus, quam in honore Dei rutilans ingnis accendit. Qui licet divisus in partes, mutuati luminis detrimenta non novit: alitur liquantibus ceris quas in substantiam pretiosae huius lampadis apis mater eduxit. Apis ceteris, quae subiecta sunt homini animantibus antecellit. Cum sit minima corporis parvitate, ingentes animos angusto versat in pectore, viribus imbecilla sed fortis ingenio. Haec explorata temporum vice, cum canitiem pruinosa hiberna posuerint, et glaciale senium verni temporis moderata deterserint, statim prodeundi ad laborem cura succedit; dispersaque per agros, libratis paululum pinnibus, cruribus suspensis insidunt, prati ore legere flosculos; oneratis victualibus suis, ad castra remeant, ibique aliae inaestimabili arte cellulas tenaci glutino instruunt, aliae liquantia mella stipant, aliae vertunt flores in ceram, aliae ore natos fingunt, aliae collectis et foliis nectar includunt. O vere beata et mirabilis apis, cuius nec sexum masculi violant, foetus non quessant, nec filii destruunt castitatem; sicut sancta concepit virgo Maria, virgo peperit et virgo permansit. O vere beata nox, que expoliavit Aegyptos, ditavit Hebraeos; nox in qua terrenis caelestia iunguntur. Oramus te, Domine, ut cereus iste, in honore nominis tui consecratus, ad noctis huius caliginem destruendam indeficiens persevert. In odorem suavitatis acceptus, supernis luminaribus miseatur. Flammas eius Lucifer matutinus inveniat, ille inquam Lucifer qui nescit occasum; ille qui regressus ab inferis, humano generi sereno inluxit. Precamur ergo te, Domine (…)

Italiano
Esulti ormai l’angelica schiera dei cieli!
Esultino i ministri divini, e per la vittoria di sì gran re risuoni la tromba salvifica.
Gioisca la Terra irradiata da tanti fulgori e, illuminata dallo splendore del re eterno, senta di essersi liberata dalla tenebra in tutta la sua estensione.
Si rallegri anche la madre Chiesa, adornata dallo splendore di tanta luce, e quest’aula echeggi delle alte voci dei fedeli.
Perciò, o fratelli carissimi, essendo voi presenti a sì meravigliosa luce di questa santa fiamma, invocate insieme con me, vi prego, la misericordia di Dio onnipotente; affinché colui il quale, non per meriti miei, si degnò di pormi tra il numero dei leviti, travasandosi la grazia della sua luce, mi insegni a compiere la lode di questo cero.
Per (il nostro signore Gesù Cristo..) Perché è cosa veramente degna e giusta con tutto lo slancio del cuore e della mente e con l’ausilio della voce proclamare la gloria di Dio invisibile Padre onnipotente e del Figlio unigenito nostro Signore Gesù Cristo, il quale in nostra vece pagò all’Eterno Padre il debito di Adamo e col sangue innocente cancellò l’obbligazione contratta con l’antico peccato.
Sono queste, infatti, le feste pasquali, in cui è sacrificato il vero agnello e il suo sangue è destinato alle porte.
È questa la notte in cui, conducendo fuori dall’Egitto i nostri padri, figli d’Israele, li facesti passare attraverso il Mar Rosso a piedi asciutti.
È questa dunque la notte che ha rimosso le tenebre del peccato con la luce della colonna di fuoco. È questa la notte che i credenti in Cristo, allontanati dai vizi del mondo e dalle tenebre del peccato, oggi in tutto il mondo restituisce alla grazia, riunisce alla santità.
E questa la notte in cui, spezzate le catene della morte, Cristo risorge vittorioso dagli inferi.
A nulla avrebbe giovato a noi l’esser nati, se non ci fosse toccato il bene della redenzione. O meravigliosa condiscendenza della tua misericordia verso di noi!
O inestimabile amore di carità! Per redimere il servo consegnasti il figlio! O peccato di Adamo, certo necessario, che è stato cancellato con la morte di Cristo! O colpa felice, alla quale fu concesso di avere tale e tanto redentore!
O notte beata, alla quale sola fu concesso di conoscere il tempo e l’ora in cui Cristo risuscitò dalla morte!
È questa la notte di cui fu scritto: e la notte sarà illuminata come giorno, e ancora: la notte sarà la mia luce nella felicità.
E dunque la santificazione di questa notte fuga i delitti, lava le colpe e ridà l’innocenza ai traviati, letizia agli afflitti; dissipa gli odi, procura la concordia, piega le potenze.
Accetta dunque, padre Santo, in questa notte di grazia, il sacrificio vespertino di questa fiamma che la santa Chiesa per mano dei suoi ministri a te porge in questa solenne offerta del cero, frutto di operosità delle api.
Ma ormai conosciamo gli annunci di questa colonna che a onore di Dio la vivida fiamma accende. Fiamma che, sebbene spartita, non conosce diminuzione della luce distribuita: si alimenta delle molli cere che madre ape ha prodotto per formare la materia di questa preziosa lampada.
L’ape è superiore a tutti gli altri esseri viventi che sono soggetti all’uomo.
Pur molto piccola di corpo, rivolge tuttavia nell’angusto petto alti propositi; debole di forze ma forte d’ingegno.
Essa, dopo aver esplorato l’alternare delle stagioni, allorché il gelido inverno depose la canizie e poi il clima moderato della primavera spazzò via il torpore glaciale, subito sente la preoccupazione di uscire al lavoro; e le api sparse per i campi, librando leggermente le ali, si posano appena con le agili zampe per cogliere con la bocca i piccoli fiori del prato, cariche del loro vitto rientrano negli alveari e qui alcune con arte inestimabile costruiscono cellette con tenace glutine, altre stipano il fluido miele, altre tramutano in cera i fiori, altre danno forma ai loro piccoli lambendoli con la bocca, altre incamerano il nettare delle foglie raccolte. O ape veramente beata e mirabile, di cui i maschi non violano il sesso, né lo turbano i feti, né i figli distruggono la castità; così come, nella sua santità, Maria concepì vergine, partorì vergine e vergine rimase.
O notte veramente beata, che spogliò gli Egizi e arricchì gli ebrei, notte in cui le cose celesti si congiungono con le terrene, Preghiamo te, o Signore, affinché questo cero consacrato in onore del tuo nome persista senza venire meno per dissipare le tenebre. Possa l’astro del mattino trovare la sua fiamma (ancora accesa), quell’astro di Lucifero, dico, che non conosce tramonto, quell’astro che, ritornando dagl’Inferi suole spargere sereno la sua luce sul genere umano. Preghiamo dunque te, o Signore, (…)

Publié dans:liturgia |on 30 avril, 2011 |Pas de commentaires »

Parola: la preghiera dei fedeli

dal sito:

http://www.diocesi.torino.it/pls/diocesitorino/v3_s2ew_consultazione.mostra_pagina?id_pagina=25972

Parola: la preghiera dei fedeli

Tutta la Liturgia della Parola si svolge nel ritmo dell’ascolto e della risposta. La parola di Dio infatti è viva: bussa per essere accolta, attende per suscitare una risposta, scuote per provocare una conversione. Dopo averla udita essa scende nel cuore per toccarlo, così da rivoltarlo nello Spirito. A volte consola, a volte ferisce.
La sua corsa, poi, risale sulle labbra per suscitare una risposta e raggiungere le mani, ispirando gesti di amore, di perdono, di laborioso lavoro nel campo della vita. Sono molti i modi per rispondere alla parola di Dio: la prima e fondamentale risposta è costituita dall’ascolto; a questo si aggiunge il silenzio, lo spazio in cui si genera la risposta; raggiunge poi le labbra per schiuderle alla lode o all’invocazione (salmo responsoriale), all’esultanza e alla gioia (canto dell’alleluia).
Vi è, infine, la risposta che si fa preghiera, invocazione, supplica: è la preghiera universale o dei fedeli. Essa, «collocata tra la proclamazione della parola e la grande Prece eucaristica, si nutre della sapienza delle Scritture, aprendosi agli orizzonti immensi del Cristo sacerdote e mediatore» (Orazionale, premesse, n° 1). Si chiama così non solo perché abitualmente viene proposta da alcuni fedeli ma, principalmente, perché ne è la voce, l’espressione viva ed efficace. Essa sgorga dall’ascolto e risale a Dio. In questo movimento discendente e ascendente, essa trascina tutti con sé, perché la Parola attende il suo compimento «e non ritorna a Dio senza aver operato ciò per cui è stata mandata» (Is 55).
La preghiera diventa la voce che tende a colmare la distanza tra l’annuncio e il compimento, la promessa e la realizzazione. Al ritmo di questa danza, trascina tutti con sé, avvolgendo la Chiesa sparsa nel mondo, i poveri e i sofferenti, i malati e gli emarginati. Ogni uomo e ogni donna viene raggiunto dalla voce della preghiera per essere trascinato davanti al volto Dio. Questa preghiera è il sacrificio che il popolo sacerdotale offre a Dio perchè la Parola affretti la sua corsa e porti a tutti gli uomini la salvezza.
Purtroppo, troppo spesso, essa viene delegata a testi pre-stampati, sussidi o proposte offerte su internet che, anche se ben preparate, scadono facilmente in luoghi comuni, intenzioni generiche e astratte. Allo stesso risultato rischiano di giungere le preghiere improvvisate, là dove la comunità non è educata ad un respiro universale ed ecclesiale. La preghiera dei fedeli, invece, richiederebbe l’impegno della comunità parrocchiale che saprà ispirarla per un verso, alla liturgia della Parola del giorno e, nello stesso tempo, concretizzarla alle reali necessità del momento presente. Va sottolineato, inoltre, come la preghiera dei fedeli deve mantenere sempre il suo carattere invocativo.
Essa è, appunto, una preghiera di domanda a Dio e mai una lode o una espressione di ringraziamento, o peggio una riflessione personale. Infine, la preghiera dei fedeli ha sempre un respiro universale: non scade in particolarismi, né prega solo per lenecessità della propria comunità. L’ecclesialità della celebrazione domanda di aprire il cuore verso l’umanità intera, per accoglierne le gioie e i dolori e così prendere il mondo nelle mani per presentarlo al Padre per mezzo del Cristo, come preludio della grande azione di grazie (cfr. Orazionale, n°1). Preparare la preghiera dei fedeli richiede, infine, una certa cura nella forma letteraria. Essa deve risultare semplice, comprensibile, armonica. Si sconsiglia perciò di affidare le preghiere a persone diverse, poiché questo indurrebbe, inevitabilmente, a ripetizioni o a formulazioni troppo diverse tra loro.

Publié dans:liturgia |on 1 avril, 2011 |Pas de commentaires »

BENEDETTO XVI: “LA QUARESIMA È ACCOMPAGNARE GESÙ CHE SALE A GERUSALEMME”

dal sito:

http://www.zenit.org/article-25870?l=italian

BENEDETTO XVI: “LA QUARESIMA È ACCOMPAGNARE GESÙ CHE SALE A GERUSALEMME”

Per l’Udienza generale nel Mercoledì delle Ceneri

CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 9 marzo 2011 (ZENIT.org).- Riportiamo di seguito la meditazione sul significato del tempo quaresimale e in particolare sul Mercoledì delle Ceneri, tenuta da Papa Benedetto XVI in occasione dell’Udienza generale nell’Aula Paolo VI.

* * *
Cari fratelli e sorelle,
Oggi, segnati dall’austero simbolo delle Ceneri, entriamo nel Tempo di Quaresima, iniziando un itinerario spirituale che ci prepara a celebrare degnamente i misteri pasquali. La cenere benedetta imposta sul nostro capo è un segno che ci ricorda la nostra condizione di creature, ci invita alla penitenza e ad intensificare l’impegno di conversione per seguire sempre di più il Signore.
La Quaresima è un cammino, è accompagnare Gesù che sale a Gerusalemme, luogo del compimento del suo mistero di passione, morte e risurrezione; ci ricorda che la vita cristiana è una « via » da percorrere, consistente non tanto in una legge da osservare, ma nella persona stessa di Cristo, da incontrare, da accogliere, da seguire. Gesù, infatti, ci dice: « Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua » (Lc 9,23). Ci dice, cioè, che per giungere con Lui alla luce e alla gioia della risurrezione, alla vittoria della vita, dell’amore, del bene, anche noi dobbiamo prendere la croce di ogni giorno, come ci esorta una bella pagina dell’Imitazione di Cristo: « Prendi, dunque, la tua croce e segui Gesù; così entrerai nella vita eterna. Ti ha preceduto lui stesso, portando la sua croce (Gv 19,17) ed è morto per te, affinché anche tu portassi la tua croce e desiderassi di essere anche tu crocifisso. Infatti, se sarai morto con lui, con lui e come lui vivrai. Se gli sarai stato compagno nella sofferenza, gli sarai compagno anche nella gloria » (L. 2, c. 12, n. 2). Nella Santa Messa della Prima Domenica di Quaresima pregheremo: « O Dio nostro Padre, con la celebrazione di questa Quaresima, segno sacramentale della nostra conversione, concedi ai tuoi fedeli di crescere nella conoscenza del mistero di Cristo e di testimoniarlo con una degna condotta di vita » (Colletta). E’ un’invocazione che rivolgiamo a Dio perché sappiamo che solo Lui può convertire il nostro cuore. Ed è soprattutto nella Liturgia, nella partecipazione ai santi misteri, che noi siamo condotti a percorrere questo cammino con il Signore; è un metterci alla scuola di Gesù, ripercorrere gli eventi che ci hanno portato la salvezza, ma non come una semplice commemorazione, un ricordo di fatti passati. Nelle azioni liturgiche, Cristo si rende presente attraverso l’opera dello Spirito Santo, quegli avvenimenti salvifici diventano attuali. C’è una parola-chiave che ricorre spesso nella Liturgia per indicare questo: la parola « oggi »; ed essa va intesa in senso originario e concreto, non metaforico. Oggi Dio rivela la sua legge e a noi è dato di scegliere oggi tra il bene e il male, tra la vita e la morte (cfr Dt 30,19); oggi « il Regno di Dio è vicino. Convertitevi e credete al Vangelo » (Mc 1,15); oggi il Cristo è morto sul Calvario ed è risuscitato dai morti; è salito al cielo e siede alla destra del Padre; oggi ci è dato lo Spirito Santo; oggi è tempo favorevole. Partecipare alla Liturgia significa allora immergere la propria vita nel mistero di Cristo, nella sua permanente presenza, percorrere un cammino in cui entriamo nella sua morte e risurrezione per avere la vita.
Nelle domeniche di Quaresima, in modo del tutto particolare in quest’anno liturgico del ciclo A, siamo introdotti a vivere un itinerario battesimale, quasi a ripercorrere il cammino dei catecumeni, di coloro che si preparano a ricevere il Battesimo, per ravvivare in noi questo dono e per far in modo che la nostra vita recuperi le esigenze e gli impegni di questo Sacramento, che è alla base della nostra vita cristiana. Nel Messaggio che ho inviato per questa Quaresima, ho voluto richiamare il nesso particolare che lega il Tempo quaresimale al Battesimo. Da sempre la Chiesa associa la Veglia Pasquale alla celebrazione del Battesimo, passo per passo: in esso si realizza quel grande mistero per cui l’uomo, morto al peccato, è reso partecipe della vita nuova in Cristo Risorto e riceve lo Spirito di Dio che ha risuscitato Gesù dai morti (cfr Rm 8,11). Le Letture che ascolteremo nelle prossime domeniche e alle quali vi invito a prestare speciale attenzione, sono riprese proprio dalla tradizione antica, che accompagnava il catecumeno nella scoperta del Battesimo: sono il grande annuncio di ciò che Dio opera in questo Sacramento, una stupenda catechesi battesimale rivolta a ciascuno di noi. La Prima Domenica, chiamata Domenica della tentazione, perché presenta le tentazioni di Gesù nel deserto, ci invita a rinnovare la nostra decisione definitiva per Dio e ad affrontare con coraggio la lotta che ci attende per rimanergli fedeli. Sempre c’è di nuovo questa necessità di decisione, di resistere al male, di seguire Gesù. In questa Domenica la Chiesa, dopo aver udito la testimonianza dei padrini e dei catechisti, celebra l’elezione di coloro che sono ammessi ai Sacramenti pasquali. La Seconda Domenica è detta di Abramo e della Trasfigurazione. Il Battesimo è il sacramento della fede e della figliolanza divina; come Abramo, padre dei credenti, anche noi siamo invitati a partire, ad uscire dalla nostra terra, a lasciare le sicurezze che ci siamo costruite, per riporre la nostra fiducia in Dio; la meta si intravede nella trasfigurazione di Cristo, il Figlio amato, nel quale anche noi diventiamo « figli di Dio ». Nelle Domeniche successive viene presentato il Battesimo nelle immagini dell’acqua, della luce e della vita. La Terza Domenica ci fa incontrare la Samaritana (cfr Gv 4,5-42). Come Israele nell’Esodo, anche noi nel Battesimo abbiamo ricevuto l’acqua che salva; Gesù, come dice alla Samaritana, ha un’acqua di vita, che estingue ogni sete; e quest’acqua è il suo stesso Spirito. La Chiesa in questa Domenica celebra il primo scrutinio dei catecumeni e durante la settimana consegna loro il Simbolo: la Professione della fede, il Credo. La Quarta Domenica ci fa riflettere sull’esperienza del « Cieco nato » (cfr Gv 9,1-41). Nel Battesimo veniamo liberati dalle tenebre del male e riceviamo la luce di Cristo per vivere da figli della luce. Anche noi dobbiamo imparare a vedere la presenza di Dio nel volto di Cristo e così la luce. Nel cammino dei catecumeni si celebra il secondo scrutinio. Infine, la Quinta Domenica ci presenta la risurrezione di Lazzaro (cfr Gv 11,1-45). Nel Battesimo noi siamo passati dalla morte alla vita e siamo resi capaci di piacere a Dio, di far morire l’uomo vecchio per vivere dello Spirito del Risorto. Per i catecumeni, si celebra il terzo scrutinio e durate la settimana viene consegnata loro l’orazione del Signore: il Padre nostro.
Questo itinerario della Quaresima che siamo invitati a percorre nella Quaresima è caratterizzato, nella tradizione della Chiesa, da alcune pratiche: il digiuno, l’elemosina e la preghiera. Il digiuno significa l’astinenza dal cibo, ma comprende altre forme di privazione per una vita più sobria. Tutto questo però non è ancora la realtà piena del digiuno: è il segno esterno di una realtà interiore, del nostro impegno, con l’aiuto di Dio, di astenerci dal male e di vivere del Vangelo. Non digiuna veramente chi non sa nutrirsi della Parola di Dio.
Il digiuno, nella tradizione cristiana, è legato poi strettamente all’elemosina. San Leone Magno insegnava in uno dei suoi discorsi sulla Quaresima: « Quanto ciascun cristiano è tenuto a fare in ogni tempo, deve ora praticarlo con maggiore sollecitudine e devozione, perché si adempia la norma apostolica del digiuno quaresimale consistente nell’astinenza non solo dai cibi, ma anche e soprattutto dai peccati. A questi doverosi e santi digiuni, poi, nessuna opera si può associare più utilmente dell’elemosina, la quale sotto il nome unico di ‘misericordia’ abbraccia molte opere buone. Immenso è il campo delle opere di misericordia. Non solo i ricchi e i facoltosi possono beneficare gli altri con l’elemosina, ma anche quelli di condizione modesta e povera. Così, disuguali nei beni di fortuna, tutti possono essere pari nei sentimenti di pietà dell’anima » (Discorso 6 sulla Quaresima, 2: PL 54, 286). San Gregorio Magno ricordava, nella sua Regola Pastorale, che il digiuno è reso santo dalle virtù che l’accompagnano, soprattutto dalla carità, da ogni gesto di generosità, che dona ai poveri e ai bisognosi il frutto di una nostra privazione (cfr 19,10-11).
La Quaresima, inoltre, è un tempo privilegiato per la preghiera. Sant’Agostino dice che il digiuno e l’elemosina sono « le due ali della preghiera », che le permettono di prendere più facilmente il suo slancio e di giungere sino a Dio. Egli afferma: « In tal modo la nostra preghiera, fatta in umiltà e carità, nel digiuno e nell’elemosina, nella temperanza e nel perdono delle offese, dando cose buone e non restituendo quelle cattive, allontanandosi dal male e facendo il bene, cerca la pace e la consegue. Con le ali di queste virtù la nostra preghiera vola sicura e più facilmente viene portata fino al cielo, dove Cristo nostra pace ci ha preceduto » (Sermone 206, 3 sulla Quaresima: PL 38,1042). La Chiesa sa che, per la nostra debolezza, è faticoso fare silenzio per mettersi davanti a Dio, e prendere consapevolezza della nostra condizione di creature che dipendono da Lui e di peccatori bisognosi del suo amore; per questo, in Quaresima, invita ad una preghiera più fedele ed intensa e ad una prolungata meditazione sulla Parola di Dio. San Giovanni Crisostomo esorta: « Abbellisci la tua casa di modestia e umiltà con la pratica della preghiera. Rendi splendida la tua abitazione con la luce della giustizia; orna le sue pareti con le opere buone come di una patina di oro puro e al posto dei muri e delle pietre preziose colloca la fede e la soprannaturale magnanimità, ponendo sopra ogni cosa, in alto sul fastigio, la preghiera a decoro di tutto il complesso. Così prepari per il Signore una degna dimora, così lo accogli in splendida reggia. Egli ti concederà di trasformare la tua anima in tempio della sua presenza » (Omelia 6 sulla Preghiera: PG 64,466).
Cari amici, in questo cammino quaresimale siamo attenti a cogliere l’invito di Cristo a seguirlo in modo più deciso e coerente, rinnovando la grazia e gli impegni del nostro Battesimo, per abbandonare l’uomo vecchio che è in noi e rivestirci di Cristo, per giungere rinnovati alla Pasqua e poter dire con san Paolo « non vivo più io, ma Cristo vive in me » (Gal 2,20). Buon cammino quaresimale a voi tutti! Grazie!

Publié dans:liturgia, Papa Benedetto XVI |on 9 mars, 2011 |Pas de commentaires »

Le ceneri: il segno della conversione

dal sito:

http://digilander.libero.it/crpd/attivita/doc/simbolo%20delle%20ceneri.htm

Le ceneri: il segno della conversione

L’origine del Mercoledì delle ceneri è da ricercare nell’antica prassi penitenziale. Originariamente il sacramento della penitenza non era celebrato secondo le modalità attuali. Il liturgista Pelagio Visentin sottolinea che l’evoluzione della disciplina penitenziale è triplice: « da una celebrazione pubblica ad una celebrazione privata; da una riconciliazione con la Chiesa, concessa una sola volta, ad una celebrazione frequente del sacramento, intesa come aiuto-rimedio nella vita del penitente; da una espiazione, previa all’assoluzione, prolungata e rigorosa, ad una soddisfazione, successiva all’assoluzione ».
La celebrazione delle ceneri nasce a motivo della celebrazione pubblica della penitenza, costituiva infatti il rito che dava inizio al cammino di penitenza dei fedeli che sarebbero stati assolti dai loro peccati la mattina del giovedì santo. Nel tempo il gesto dell’imposizione delle ceneri si estende a tutti i fedeli e la riforma liturgica ha ritenuto opportuno conservare l’importanza di questo segno.
La teologia biblica rivela un duplice significato dell’uso delle ceneri. Anzitutto sono segno della debole e fragile condizione dell’uomo. Abramo rivolgendosi a Dio dice: « Vedi come ardisco parlare al mio Signore, io che sono polvere e cenere… » (Gn 18,27). Giobbe riconoscendo il limite profondo della propria esistenza, con senso di estrema prostrazione, afferma: « Mi ha gettato nel fango: son diventato polvere e cenere » (Gb 30,19). In tanti altri passi biblici può essere riscontrata questa dimensione precaria dell’uomo simboleggiata dalla cenere (Sap 2,3; Sir 10,9; Sir 17,27).
Ma la cenere è anche il segno esterno di colui che si pente del proprio agire malvagio e decide di compiere un rinnovato cammino verso il Signore. Particolarmente noto è il testo biblico della conversione degli abitanti di Ninive a motivo della predicazione di Giona: « I cittadini di Ninive credettero a Dio e bandirono un digiuno, vestirono il sacco, dal più grande al più piccolo. Giunta la notizia fino al re di Ninive, egli si alzò dal trono, si tolse il manto, si coprì di sacco e si mise a sedere sulla cenere » (Gio 3,5-9). Anche Giuditta invita invita tutto il popolo a fare penitenza affinché Dio intervenga a liberarlo: « Ogni uomo o donna israelita e i fanciulli che abitavano in Gerusalemme si prostrarono davanti al tempio e cosparsero il capo di cenere e, vestiti di sacco, alzarono le mani davanti al Signore » (Gdt 4,11).
La semplice ma coinvolgente liturgia del mercoledì delle ceneri conserva questo duplice significato che è esplicitato nelle formule di imposizione: « Ricordati che sei polvere, e in polvere ritornerai » e « Convertitevi, e credete al Vangelo ». 
Adrien Nocent sottolinea che l’antica formula (Ricordati che sei polvere…) è strettamente legata al gesto di versare le ceneri, mentre la nuova formula (Convertitevi…) esprime meglio l’aspetto positivo della quaresima che con questa celebrazione ha il suo inizio. Lo stesso liturgista propone una soluzione rituale molto significativa: « Se la cosa non risultasse troppo lunga, si potrebbe unire insieme l’antica e la nuova formula che, congiuntamente, esprimerebbero certo al meglio il significato della celebrazione: « Ricordati che sei polvere e in polvere tornerai; dunque convertiti e credi al Vangelo ».
Il rito dell’imposizione delle ceneri, pur celebrato dopo l’omelia, sostituisce l’atto penitenziale della messa; inoltre può essere compiuto anche senza la messa attraverso questo schema celebrativo: canto di ingresso, colletta, letture proprie, omelia, imposizione delle ceneri, preghiera dei fedeli, benedizione solenne del tempo di quaresima, congedo.
Le ceneri possono essere imposte in tutte le celebrazioni eucaristiche del mercoledì ma sarà opportuno indicare una celebrazione comunitaria « privilegiata » nella quale sia posta ancor più in evidenza la dimensione ecclesiale del cammino di conversione che si sta iniziando
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Publié dans:liturgia |on 8 mars, 2011 |Pas de commentaires »

Come andare a messa e non perdere la fede (liturgia)

dal sito:

http://www.zenit.org/article-25823?l=italian

Come andare a messa e non perdere la fede

Bux: « In campo liturgico siamo di fronte ad una deregulation insopportabile »

di Mariaelena Finessi

ROMA, domenica, 6 marzo 2011 (ZENIT.org).- Un indebolimento della fede e la diminuzione del numero dei fedeli potrebbero attribuirsi ad abusi liturgici e alle cattive Messe, quelle cioè che tradiscono il loro senso originario e dove, al centro, non c’è più Dio ma l’uomo con il bagaglio delle sue domande esistenziali. È questa la tesi che porta avanti don Nicola Bux, teologo e consultore della Congregazione per la Dottrina della Fede e dell’Ufficio delle Celebrazioni del Sommo Pontefice.
Presentando a Roma, lo scorso 2 marzo, il suo libro « Come andare a Messa e non perdere la fede » (ediz. Piemme), Bux si scaglia contro la svolta antropologica della liturgia. Nelle pagine del volume, sorta di vademecum per la sopravvivenza alle Messe moderne, Bux replica a quanti hanno criticato Benedetto XVI, accusandolo di aver tradito lo spirito conciliare. Al contrario – argomenta il teologo – i documenti ufficiali del Concilio Vaticano II sono stati rinnegati proprio da queste persone, vescovi e sacerdoti in testa, che hanno stravolto la liturgia con «deformazioni al limite del sopportabile».
Assistere ad una celebrazione eucaristica può significare, infatti, anche trovarsi dinanzi a forme liturgiche le più bizzarre, con preti che discutono di economia, politica e sociologia, imbastendo omelie in cui scompare Dio. Proliferano i saggi di antropologia liturgica fino a ridurre a tale dimensione gli stessi segni sacramentali, «ormai chiamati – è la denucia di Bux – preferibilmente simboli». La questione non è da poco: affrontarla vuol dire essere tacciati come anticonciliari.
Tutti si sentono in diritto di insegnare e praticare una liturgia « fai da te », tanto che oggi è possibile assistere, ad esempio, «all’affermarsi di politici cattolici che, ritenendosi « adulti », propongono idee di Chiesa e di morale in contrasto con la dottrina». Tra coloro che hanno dato il via a questo cambiamento, don Bux ricorda Karl Rahner che, in seguito al Concilio, denunciò la riflessione teologica allora imperante che, a suo avviso, si mostrava disattenta o dimentica della realtà dell’uomo.
Il gesuita tedesco sostenne invece che ogni discorso su Dio scaturirebbe dalla domanda che l’uomo pone su di sè. Di conseguenza – è questa la sintesi – il compito della teologia dovrebbe essere di parlare dell’uomo e della sua salvezza, ponendo le domande su di lui e sul mondo. Un pensiero teologico che, con triste evidenza, è stato capace di generare errori, il più clamoroso dei quali è il modo di intendere il sacramento, oggi non più sentito come proveniente dall’Alto, da Dio, ma come la partecipazione a qualcosa che il cristiano possiede già.
«La conclusione che ne ha tratto Häußling – ricorda Bux – è che l’uomo nei sacramenti finirebbe per partecipare ad un’azione che non corrisponde realmente alla sua esigenza d’essere salvato», poiché prescinde dall’intervento divino. Ad una simile tesi « sacramentaria », e all’annessa deriva della liturgia, risponde Joseph Ratzinger che già sul dorso del volume XI « Teologia della liturgia” della sua Opera omnia scrive: «Nel rapporto con la liturgia si decide il destino della fede e della Chiesa».
La liturgia è sacra, infatti, se ha le sue regole. Ciò nonostante, se da un lato l’ethos, ossia la vita morale, è un elemento chiaro per tutti, dall’altro lato si ignora quasi totalmente che esiste anche uno « jus divinum », un diritto di Dio a essere adorato. «Il Signore è geloso delle sue competenze – sostiene Bux -, e il culto è quanto di più gli è proprio. Invece proprio in campo liturgico siamo di fronte a una deregulation».
Per sottolineare, invece, che senza jus il culto diventa necessariamente idolatrico, nel suo libro il teologo cita un passo della « Introduzione allo spirito della liturgia » di Ratzinger, che scrive: «In apparenza tutto è in ordine e presumibilmente anche il rituale procede secondo le prescrizioni. E tuttavia è una caduta nell’idolatria (…), si fa scendere Dio al proprio livello riducendolo a categorie di visibilità e comprensibilità».
E ancora: «Si tratta di un culto fatto di propria autorità (…) diventa una festa che la comunità si fa da sé; celebrandola, la comunità non fa che confermare se stessa». Il risultato è irrimediabile: «Dall’adorazione di Dio si passa a un cerchio che gira attorno a se stesso: mangiare, bere, divertirsi». E nella sua autobiografia (« La mia vita », ediz. San Paolo) Ratzinger dichiara: «Sono convinto che la crisi ecclesiale in cui oggi ci troviamo dipende in gran parte dal crollo della liturgia».
In finale, un suggerimento ed un ammonimento. Il primo è quello di rilanciare la liturgia romana, «guardando al futuro della Chiesa- scrive Bux -, al cui centro sta la croce di Cristo, come sta al centro dell’altare: Lui, Sommo Sacerdote cui la Chiesa rivolge il suo sguardo oggi, come ieri e sempre». Il secondo è inequivocabile: «Se crediamo che il Papa ha ereditato le chiavi di Pietro – conclude -, chiunque non gli obbedisce, innanzitutto in materia liturgica e sacramentale, non entra in Paradiso».

Publié dans:liturgia |on 7 mars, 2011 |Pas de commentaires »

Il segno della Croce (Ortodossia)

dal sito:

http://www.tradizione.oodegr.com/index.htm

Il segno della Croce

(Chiesa Ortodossa)

Il segno della Croce è un gesto che il cristiano ortodosso compie nella sua preghiera e in ogni momento della giornata per ricordare Dio. Il gesto è una confessione e, nello stesso tempo, una petizione. Con il segno della Croce si confessa che la morte è stata sconfitta dalla morte e risurrezione di Cristo. La Croce non è dunque un segno di morte e di finitezza ma di vita perché unisce veramente i credenti con la sorgente della vita stessa. Il segno della Croce è anche una petizione con la quale si chiede la partecipazione a quella vita trasfigurata anticipata dalla Resurrezione di Cristo, vita che non conosce termine.
Questo segno non deve essere un gesto sporadico o superstizioso. Il suo vero senso si coglie quando nasce da una fede profonda e da un cuore contrito. Come gesto coinvolge anche il corpo che prega con l’anima: la redenzione cristiana coinvolge tutto!
I Padri della Chiesa hanno parlato nei loro scritti anche sul segno della Croce. Per essi tale segno non opera la salvezza che contiene se non è accompagnato da un profondo senso di contrizione e dal ricordo della passione e Resurrezione di Cristo. Solo in questo caso il gesto esterno può essere interiorizzato e dissipare le malvagità che s’insinuano nel cuore umano (i demoni). L’azione medicinale del segno della Croce, fatte fuggire le tenebre esistenziali, illumina l’animo d’una vita nuova. Quando a seguito di ciò si infonde un senso d’intima e profonda felicità è segno di una presenza nuova, di qualcosa che la Chiesa denomina con il termine di Grazia. Come il peccato è una realtà che “spacca” l’uomo dal di dentro seminando contraddizione e dolore e si manifesta all’esterno di esso nell’espressione del volto, così la Grazia ricompone l’uomo dilaniato donandogli pace e serenità. Il segno della Croce apre dunque la porta del cuore dell’uomo alla efficace presenza curativa della Grazia di Dio, anticipo del Regno Celeste, dove non vi sarà né lutto, né lamento. Ma lasciamo la parola direttamente a qualche Padre.
«Sia quando arriviamo che quando partiamo, sia quando ci calziamo i sandali che quando siamo in bagno o in tavola, sia quando accendiamo le nostre candele che quando ci riposiamo o ci sediamo, qualunque lavoro intraprendiamo, ci segniamo con il segno della Croce».
Tertulliano (160- 225), De cor. Mil., III.
«Questa (la lettera Tau) ha somiglianza con il segno della croce; e questa profezia (Ezech. IX, 4) riguarda il segno fatto dai Cristiani sulla fronte. Il gesto è fatto da tutti i credenti all’inizio d’un lavoro e specialmente all’inizio delle preghiere e delle sante letture».
T. III. Select. in Ezech. c. IX.
«Non vergognamoci, dunque, della croce di Cristo ma, per un’altro mistero, se ci segniamo la fronte apertamente, i demoni verranno scacciati tremando davanti a questo segno regale. Facciamo, dunque, questo segno quando mangiamo e beviamo, quando ci siediamo e riposiamo, quando ci muoviamo, parliamo e camminiamo; in una parola, facciamolo in ogni occasione [per render presente] Egli che fu in terra crocefisso e ora è nei cieli».
San Cirillo di Gerusalemme (315-86), Catech. IV. n. 14.
«Di tutti quelli che sono stati condannati alla croce, nessuno ha avuto la possibilità di render timoroso il demonio ad eccezione di Cristo, crocefisso per noi. Perciò quando i demoni vedono il segno di questa Croce rabbrividiscono».
San Cirillo di Gerusalemme, Catech., XII. n. 22.
«Che altro è il segno (o sigillo) di Cristo, se non il segno della Croce di Cristo?»
Sant’Agostino (354-430) Tract. in Ioan. CXVIII, n. 5, T. III).
«Dopo il segno della Croce, la grazia opera immediatamente e ricompone armonicamente tutte le membra e il cuore, cosicché l’anima abbonda di contentezza e sembra un giovane che non conosce malignità»
San Macario l’Egiziano ( 300- 390 AD) Rom. IX.
 

Publié dans:liturgia, Ortodossia |on 24 février, 2011 |Pas de commentaires »

La liturgia cosmica

dal sito:

http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=14697

La liturgia cosmica

di Corinne Smith – 06/11/2007

Fonte: L’Ecologist

Se i teologi che esortano a ritrovare l’alleanza cosmica sono rari nel cristianesimo, è sorprendente constatare che, in un saggio di alcuni anni fa, l’allora responsabile della “dottrina della fede”, il cardinale Joseph Ratzinger, oggi papa col nome di Benedetto XVI, sosteneva la necessità di non ignorare più “la dimensione cosmica” del cristianesimo e proponeva persino in questo senso una “riforma” dell’attuale liturgia[1]. Se il culto reso a Dio è portatore di una “dimensione cosmica” è perché promuove una visione globale dell’universo. La liturgia cattolica, infatti, secondo Ratzinger, “come in tutte le religioni del mondo”, ha per oggetto “la pace dell’universo mediante la riconciliazione con Dio, l’unione del Cielo e della terra”[2]: l’oggetto principale della liturgia sarebbe così la restaurazione dell’ordine del mondo minacciato dal peccato umano. 

Liturgia e ciclo cosmico
Nella religione cristiana, tuttavia, a differenza di certe società tradizionali, “non si tratta più di rendere un culto solare, ma di sentire il cosmo parlare di Cristo”[3]. Cercheremo di mostrare come i rapporti che uniscono Cristo e il cosmo, il naturale e il sovrannaturale, sono precisamente espressi e glorificati nella liturgia.
Questo è vero per il calendario liturgico, corrispondente al calendario cosmico. Infatti, Natale ha luogo poco dopo il solstizio d’inverno, quando le giornate si allungano, simboleggiando così che “veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo” (Gv. 1, 9). A proposito dei re magi, secondo Ratzinger, “la misteriosa stella che guida i saggi pagani nella loro ricerca della verità è il simbolo di questa relazione interiore tra il linguaggio del cosmo e quello del cuore umano”[4]. La festa di Pasqua, appoggiata sulla Pasqua giudaica, è celebrata la domenica dopo il primo plenilunio di primavera. Orbene, questo periodo è ugualmente quello in cui il sole attraversa il segno astrale dell’Ariete (o dell’agnello)[5], raffigurante per i cristiani “l’Agnello di Dio che viene a togliere il peccato del mondo”. La festa di san Giovanni Battista, colui che annuncia Cristo con queste parole: “Egli deve crescere e io invece diminuire” (Gv. 3, 30), ha luogo appunto nel solstizio d’estate. Infine, la Trasfigurazione, quando il volto di Cristo “brillò come il sole” (Mt. 17, 2), ha luogo in agosto, nel cuore dell’estate. Quanto alla liturgia delle “Ore” dell’ufficio celebrato nei monasteri, essa illustra ugualmente la nascita, la vita e la morte di Cristo e si fonda sul ciclo solare con il succedersi di Mattutino, Lodi, Terza, Sesta, Nona, Vespri e Compieta.
Il calendario liturgico si identifica ugualmente con il ritmo delle stagioni e della semina. Per maggiori particolari su questo tema inesauribile, rimandiamo alla lettura dell’opera dello storico Alain Cabantous Entre Fêtes et Clochers: “Se ciò che è proprio del tempo, che si sussegue dalla prima domenica d’Avvento fino all’ultima domenica di Pentecoste, è scandito dalle grandi tappe della vita di Cristo e della Chiesa, esso si accorda anche con gli imperativi della vita delle campagne”[6].

Il Cristo sole
La liturgia si ancora ugualmente in punti di riferimento spaziali, come testimonia l’abituale orientamento (oriens in latino significa “Est”) delle chiese, dei fedeli – e del sacerdote nel rito cattolico tridentino – verso Est, verso Cristo, sole dei cristiani. Questo orientamento cosmico è antico, perché già san Tommaso d’Aquino (1225-1274) ne parlava in questi termini: “È opportuno che adoriamo col viso rivolto a Oriente […] per mostrare la maestà di Dio, che ci è manifestata con il movimento del cielo che parte dall’oriente […] perché Cristo, luce del mondo, è chiamato Oriente dal profeta Zaccaria, e perché, secondo Daniele, è salito al cielo del cielo, a Oriente”[7]. Come ricordano sia il cardinale Ratzinger, sia lo storico Jean Hani, nei primi tempi: “Anche quando l’orientamento della Chiesa permetteva al celebrante di pregare voltato verso il popolo quando era all’altare, non bisogna dimenticare che allora non c’era solo il sacerdote a voltarsi verso Oriente: era l’intera assembra che lo faceva con lui”[8]. Il luogo sacro non viene così separato dal cosmo, i riti vi si integrano armoniosamente: secondo san Pier Damiani (1007-1072), dottore della Chiesa, “la Chiesa è l’immagine del mondo”. 

La croce cosmica 
Jean Hani, nella sua opera Le Symbolisme du temple chrétien, esplora questa idea di “immagine del mondo” già presente nei Padri della Chiesa. La liturgia riunisce i simboli teologici e cosmologici. Ad esempio, la croce al centro dell’altare rappresenta la croce sulla montagna santa, dove l’elevazione è raffigurata dai tre gradini che conducono all’altare. Inoltre, questa croce è di natura cosmica: secondo san Cirillo di Gerusalemme (313-387), “Dio ha aperto le mani sulla croce per abbracciare i limiti della terra e perciò il monte del Golgota è il polo della mondo”: un polo che collega e riconcilia cielo e terra. “Questo albero, che arriva fino al cielo, si è innalzato dalla terra al cielo ed è il solido punto d’appoggio del Tutto, il punto di riposo di tutte le cose, la base dell’insieme del mondo, il punto polare cosmico”, dice sant’Ippolito di Roma (170-235) in un’omelia sulla Pasqua. I primi Padri della Chiesa hanno infatti abbondantemente commentato il mistero cosmico della croce cui allude san Paolo: “Siate radicati e fondati nella carità, per poter comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la larghezza, l’altezza e la profondità dell’amore di Cristo” (Ef. 3, 18-19). La croce è il nuovo albero della Vita, sostituito a quello dell’Eden, causa del peccato e della caduta originaria.
Secondo Jaroslav Pelikan, teologo luterano citato dal domenicano Matthew Fox nella sua opera Le Christ cosmique, “i filosofi cristiani greci del IV e V secolo” presentano tutti lo stesso tratto caratteristico: “Contrariamente all’individualismo cristiano manifestatosi più tardi, in particolare nel pensiero occidentale, essi hanno sempre considerato l’umanità e il cosmo come in stretta relazione”[9]. 

Gli elementi 
Quanto al rito centrale dell’Eucaristia, esso ha un senso eminentemente cosmico perché, secondo Joseph Ratzinger, celebrare con la trasformazione del pane e del vino in corpo e sangue di Cristo “vuol dire rendere un culto che abbraccia cielo e terra”[10]. La liturgia fa infatti intervenire i quattro elementi: “La terra fornisce la pietra sacra [dell’altare], il fuoco serve a illuminare i ceri e a bruciare l’incenso, l’acqua è presente per simboleggiare la nostra umanità mischiata al vino del calice; l’aria è il veicolo dell’incenso” e anche la “sintesi dei tre regni, dei tre gradi dell’esistenza corporale, minerale, vegetale (pane, vino, incenso) e animale: l’uomo […] la cui funzione è di raccogliere tutti i regni e tutti gli elementi per offrirli al suo creatore”[11]. Con l’Eucaristia, secondo sant’Ireneo di Lione (135-202), l’intera creazione è ricapitolata e offerta a Dio[12]. Matthew Fox arriva sino al punto di affermare che fare la comunione, cioè mangiare il corpo di Cristo, significa “realmente mangiare e bere il corpo e il sangue cosmico dell’Essere divino presente in ogni atomo e ogni galassia dell’universo”[13]. 

Lode al creatore 
L’oggetto della preghiera in comune, osservazione probabilmente valida per ogni religione, “è di collegare il microcosmo al macrocosmo, e di ringraziare Dio di averci posto in questo ammirevole universo”[14]. Citiamo a questo titolo il cantico delle Creature di san Francesco d’Assisi, ispirato al Salmo CXLVIII, intitolato “Lode cosmica”. Nella liturgia cattolica della Parola, ritroviamo l’espressione della lode dell’universo. In occasione della messa, l’assemblea canta il Gloria: “Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini” e il Sanctus: “il Cielo e la Terra sono pieni della Tua gloria”. Quanto alla preghiera del Padre nostro, scandita in sette domande, essa ricorda i sette giorni della Creazione. 

Nuova Creazione 
Per i cristiani, la domenica, sostituendosi allo shabbat giudaico, giorno di riposo del Signore, simboleggia l’ottavo giorno della Creazione. Infatti, per i Padri della Chiesa, il giorno della risurrezione di Cristo è il giorno della Nuova Creazione, che aspira anch’essa alla salvezza e alla liberazione: san Paolo dice che “tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto” (Rm 8, 22). Perciò, secondo Joseph Ratzinger, di questa nuova Creazione non bisogna dire “Sfruttatela! Fatene ciò che vi aggraderà! Ma, al contrario: riconoscete in essa un dono di Dio! Proteggetela e prendetevene cura come farebbero dei figli con l’eredità del loro padre”[15].  
——————————

NOTE 

[1] Joseph Ratzinger, L’Esprit de la liturgie, Ad Solem 2001, p. 21 (ed. it. San Paolo 2001).
[2] Op. cit., p. 31.
[3] Op. cit., p. 32.
[4] Op. cit., p. 92.
[5] Op. cit., p. 85.
[6] Alain Cabantous, Entre Fêtes et Clochers, Fayard 2002.
[7] Citato da Jean Hani, Le Symbolisme du temple chrétien, Guy Trédaniel 1990, p. 53.
[8] J. Ratzinger, op. cit., p. 67.
[9] Matthew Fox, Le Christ Cosmique, Albin Michel, Spiritualité, 1998, p. 166.
[10] J. Ratzinger, op. cit., p. 40.
[11] J. Hani, op. cit., p. 192.
[12] Ireneo di Lione, Contre les hérésies, libro III, tomi I e II, Editions du Cerf, Sources chrétiennes 2002.
[13] M. Fox, op. cit., p. 288.
[14] M. Fox, op. cit., p. 287.
[15] J. Ratzinger, op. cit., p. 82.

Publié dans:liturgia |on 8 février, 2011 |Pas de commentaires »
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