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Memento homo, quia pulvis es et in pulverem reverteris

http://it.wikipedia.org/wiki/Memento_homo,_quia_pulvis_es_et_in_pulverem_reverteris

Memento homo, quia pulvis es et in pulverem reverteris

Da Wikipedia, l’enciclopedia libera.

Memento homo, quia pulvis es et in pulverem reverteris è una nota locuzione latina, che tradotta letteralmente significa: « Ricordati uomo, che polvere sei e polvere ritornerai ».

1 Origine
2 Espressione liturgica
3 L’uso nella tradizione medievale
4 Il trasferimento nel linguaggio comune
5 Note
6 Voci correlate

Origine
Le parole quia pulvis es et in pulverem reverteris compaiono nella versione latina della Bibbia (Genesi 3,19) allorché Dio, dopo il peccato originale, scaccia Adamo dal giardino dell’Eden condannandolo alla fatica del lavoro e alla morte: « Con il sudore della fronte mangerai il pane finché non tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere sei e polvere ritornerai! »

Espressione liturgica
La Chiesa pronuncia questa frase nella liturgia del Mercoledì delle Ceneri, mentre sul capo dei fedeli viene sparso un pizzico di cenere.[1] Con l’abbandono del latino in seguito alla riforma liturgica seguita al Concilio Vaticano II, attualmente per il rito dell’imposizione delle ceneri si possono usare due formule diverse: « Convertitevi e credete al Vangelo » o la più tradizionale « Ricordati che sei polvere e in polvere ritornerai ».

L’uso nella tradizione medievale
La fortuna e il persistere di questa espressione, come delle consimili Memento mori (« Ricordati che devi morire ») e Memento novissimorum (« Ricordati dei novissimi », cioè delle ultime cose, compresa appunto la morte), non risalgono solo al rituale e al formulario religioso ma anche a due tipici aspetti della società medievale, il penitenzialismo e l’ossessione, se non addirittura il compiacimento, della morte. Se ne hanno efficaci rappresentazioni, talora cupe ma anche ironiche, nei temi iconografici della danza macabra, dell’Incontro dei tre morti e dei tre vivi e del Trionfo della morte, poi ripresi e diffusi anche dal Cinquecento barocco della Controriforma fino alla metà del Settecento.

Trasferimento nel linguaggio comune
Sintetizzata nella forma memento homo, la massima ecclesiastica viene impiegata anche in contesti non propriamente religiosi con il valore generico di ammonimento o, nello specifico, di invito a riflettere sulla brevità della vita o sulla vanità delle ambizioni umane; più raramente ne vengono accentuati gli aspetti di minaccia alludendo a un’evidente disparità di forze o a una futura e inevitabile resa dei conti. Relativamente a questi precisi ambiti di significato le può essere assimilato il vocabolo memento, che ha tuttavia una gamma di utilizzi ben più ampia.
Ulteriormente abbreviato in mementòmo, il termine ha perso l’originaria funzione di aforisma per assumere l’aspetto e le caratteristiche di un normale sostantivo, mantenendo tuttavia lo stesso significato di avvertimento talora anche minaccioso o comunque di monito severo.[2] In rari casi lo si applica anche alla persona che emette abitualmente tali ammonimenti; più spesso, soprattutto a livello popolare, viene interpretato come un sinonimo di necrologio, orazione funebre pomposa, epitaffio o iscrizione.[3] In Sardegna, invece, la stessa parola serve a indicare i mesti rintocchi delle campane a morto,[4] mentre il linguista sardo Massimo Pittau segnala l’accezione di « individuo emaciato ».[5]

Publié dans:liturgia |on 21 février, 2012 |Pas de commentaires »

Il Te Deum, canto della gratutudine e della speranza (Dionigi Tettamanzi)

dal sito:

http://www.liturgiagiovane.it/  

Il Te Deum, canto della gratutudine e della speranza 
 
Omelia del Cardinale – Autore: Dionigi Tettamanzi 

«Ti benedica il Signore e ti protegga. Il Signore faccia brillare il suo volto su di te e ti sia propizio» (Numeri 6,14-25).
 
Carissimi, è con questa benedizione, rivolta dai sacerdoti al popolo degli Israeliti, che la liturgia della Chiesa conclude questo anno e apre l’anno nuovo.
 
È una benedizione che dice la vicinanza di Dio non solo al popolo eletto ma all’intera umanità, e dunque anche a ciascuno di noi. Si tratta di una vicinanza del tutto inimmaginabile da noi uomini, ma che Dio nel suo immenso amore ha voluto: vicinanza assolutamente straordinaria, insieme sconcertante e affascinante. È quella del mistero del Natale: Dio si fa uomo e all’uomo viene data l’inaudita possibilità di divenire figlio di Dio: «Dio – ci ricorda l’apostolo Paolo – mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l’adozione a figli» (Galati 4,4-5).
 
 Riviviamo, come Chiesa, la gioia e la lode dei pastori di Betlemme
La Chiesa ci invita a prolungare la nostra contemplazione del Natale, a rivivere nel nostro cuore l’esperienza spirituale dei pastori che, in risposta all’annuncio dell’angelo circa la nascita di Gesù, «andarono senz’indugio e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, che giaceva nella mangiatoia» (Luca 2,16). Quel bambino è l’Emmanuele, il Dio-con-noi, il Dio che si è fatto uomo. Un’esperienza intessuta di grande gioia e di lode a Dio: «I pastori poi se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com’era stato detto loro» (2,20).
Gioia grande e lode a Dio sono anche i sentimenti che devono riempire il nostro animo di credenti in questa celebrazione eucaristica di fine d’anno. Siamo chiamati a dire con la voce, il cuore e la vita il nostro “grazie” a Dio per il dono vivo e personale che ci ha elargito: il dono del Figlio, un dono che è fonte e compimento di tutti gli altri doni con i quali l’amore di Dio colma la nostra esistenza quotidiana: quella di ciascuno di noi, delle singole famiglie, delle nostre comunità, della Chiesa e del mondo. Il canto del Te Deum, che oggi risuona nelle Chiese di ogni parte della terra, vuole essere un segno della gratitudine gioiosa che rivolgiamo a Dio per tutti i doni che ci ha offerto in Cristo. Davvero «dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto e grazia su grazia» (Giovanni 1,16).
Vorrei ora esprimere i motivi di ringraziamento circa la vita della nostra Diocesi, in riferimento all’anno che questa sera si chiude, alla luce di tre parole dal forte contenuto ecclesiale: “comunione”, “missione”, speranza”.
La comunione costituisce l’essenza stessa della Chiesa: essa è costituita da coloro che, accogliendo la parola di Cristo e il suo Spirito vivificante, diventano figli del Padre ed entrano così nella misteriosa comunione d’amore della Trinità beata. Per questo la Chiesa è segno di comunione per tutti: come ci ricorda il Concilio, la Chiesa «è in Cristo come sacramento, cioè segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» (Lumen gentium, 1).
All’interno della Chiesa particolare, poi, la comunione si realizza pienamente quando giunge a generare al suo interno collaborazione e corresponsabilità. L’agire stesso della Chiesa, cioè la sua missione, scaturisce infatti dalla comunione per allargarsi al cuore del mondo e porta frutto nella misura in cui si attua secondo la triade inscindibile di comunione-collaborazione-corresponsabilità.
La missione poi, specie nel momento presente, consiste nel portare una parola di speranza agli uomini e alle donne di oggi. Lo ha ricordato il Santo Padre nella sua splendida enciclica Spe salvi: «La speranza in senso cristiano è sempre anche speranza per gli altri. Ed è speranza attiva, nella quale lottiamo perché le cose non vadano verso “la fine perversa”. È speranza attiva proprio anche nel senso che teniamo il mondo aperto a Dio. Solo così essa rimane anche speranza veramente umana» (n. 34).
Motivi di rendimento di grazie e prospettive di impegno
Alla luce delle tre parole comunione-missione-speranza vorrei ricordare alcuni avvenimenti per cui sento il dovere e la gioia di ringraziare con voi il Signore e prospettare, insieme, alcuni impegni che ci aspettano per il 2008.
1.   Anzitutto la “visita ad limina” che ha riguardato insieme le dieci Diocesi lombarde. È stata un evento di comunione che non ha coinvolto solo i Vescovi, ma anche, attraverso un folto pellegrinaggio, le intere Chiese di Lombardia, raccolte intorno al Papa.
Indimenticabili l’incontro personale dei Vescovi con Benedetto XVI e le sue parole rivolte a tutti i pellegrini lombardi nella basilica di San Pietro. Parole impegnative, ma di grande speranza, che ci hanno richiamato a rilanciare la ricca tradizione cristiana delle nostre terre, annunciando il Vangelo con fiducia e coraggio. Ha detto il Santo Padre: «Ho visto nel colloquio con voi, cari Fratelli nell’Episcopato, come la Chiesa in Lombardia è realmente una Chiesa viva, ricca del dinamismo della fede e anche di spirito missionario, capace e decisa a trasmettere la fiaccola della fede alle future generazioni e al mondo del nostro tempo».
2.   Un secondo avvenimento per cui vorrei ringraziare il Signore è il pellegrinaggio diocesano in Terra Santa (12-19 marzo). Occasionato dal ricordo degli ottant’anni del Card. Carlo Maria Martini e dai cinquant’anni della mia ordinazione sacerdotale, è stato un’esperienza molto intensa di comunione tra noi, di profondo contatto con la terra benedetta che custodisce la memoria viva della nascita, della vita e della morte e risurrezione del Signore Gesù. Siamo tornati a casa carichi di speranza e pronti a riprendere con fiducia l’impegno di evangelizzazione. Possiamo ben dire che quello che abbiamo udito, visto, udito, toccato sentiamo di doverlo annunciare agli altri perché entrino nella comunione con il Padre e il Figlio e lo Spirito (cfr. 1Giovanni 1,1-4).
3.   Un’esperienza simile ci attende il prossimo mese di giugno 2008, con  il pellegrinaggio diocesano a Lourdes nell’anno giubilare dell’apparizione della Vergine a Bernadette (1858) e nel cinquantesimo anniversario del pellegrinaggio promosso dall’Arcivescovo Montini a conclusione della Missione di Milano del 1957. Maria Santissima, che «di speranza è fontana vivace» (cfr. Paradiso, canto XXXIII), ci aiuti ad affrontare con fiducia e coraggio la missione di annunciare il Vangelo agli uomini e alle donne del nostro tempo.
4.   Vorrei anche ricordare, per il suo alto significato ecumenico, il pellegrinaggio in Russia previsto per i sacerdoti alla fine del prossimo mese di agosto. Nel mio indimenticato incontro con il Patriarca Alessio II nell’autunno del 2006, era nato il desiderio forte di coinvolgere anche i preti in una intensa esperienza di comunione tra la Chiesa ambrosiana e la Chiesa ortodossa russa.
Sono convinto che il cammino ecumenico, oltre alle iniziative di vertice, deve dar vita in continuità a iniziative locali di reciproca conoscenza e a segni concreti di comunione, che aprano alla speranza della piena unità di tutti i credenti in Cristo e li rendano nel mondo attuale testimoni più credibili del Vangelo. Come scriveva Giovanni Paolo II, “l’unità dei cristiani è un problema essenziale per la testimonianza evangelica nel mondo” (Tertio millennio adveniente, n. 34).    
5.   Un altro motivo di ringraziamento nasce dal percorso pastorale triennale che la nostra Diocesi sta vivendo: “L’amore di Dio è in mezzo a noi. La missione della famiglia a servizio del Vangelo”. Vorrei in particolare ringraziare il Signore perché le nostre comunità non si sono chiuse in se stesse, ma con disponibilità e capacità inventiva si sono messe in ascolto delle famiglie, anche di chi vive situazioni di fatica negli affetti e nelle relazioni. L’ascolto chiede apertura, sintonia, comunione. Se è vero e profondo, l’ascolto è sempre un’esperienza arricchente, che lega le persone, non le lascia sole nei loro problemi, ma le incoraggia, le apre alla speranza. Solo chi sa ascoltare è capace anche di annunciare e di dare speranza.
Mentre ringrazio il Signore, lo prego intensamente perché ci aiuti a continuare in questo stile di accoglienza e di ascolto “secondo la misura del cuore di Cristo”. È  uno stile che si rivela decisivo per la seconda e la terza tappa del percorso pastorale, dedicate alla traditio fidei et amoris nelle famiglie, con una specifica attenzione alla pastorale del battesimo, e alla missione della famiglia “anima del mondo” nelle realtà terrene e temporali, nei diversi ambienti della vita sociale. 
6.   Un’altra ragione per dire “grazie” a Dio proviene dal rinnovamento pastorale della nostra Chiesa. Pur con le inevitabili difficoltà e fatiche, possiamo constatare che l’impegnativo sforzo per un’articolazione più comunionale e missionaria delle nostre parrocchie, mediante una “pastorale d’insieme” che ha nelle “comunità pastorali” il modello di riferimento, si sta progressivamente realizzando.
Questo ci apre alla speranza per il futuro. Come ho ricordato nell’omelia della solennità di San Carlo, intendiamo affrontare la sfida per il calo numerico dei sacerdoti con un generoso impegno di rinnovamento pastorale, evitando ogni atteggiamento di lamentela o di sconforto, bensì raccogliendo dalle stesse difficoltà l’appello per una vera conversione evangelica all’insegna della fiducia e della speranza nel Signore.
7.   Nella stessa linea ringrazio il Signore e imploro la sua grazia per le scelte impegnative che la nostra Diocesi sta assumendo in un triplice campo: in quello della iniziazione cristiana, oggi chiamata a cambiare profondamente per obbedire all’antico principio “Cristiani non si nasce, si diventa” (Tertulliano, Apologetico 18,4); nel campo poi della formazione dei sacerdoti, con l’avvio di una nuova modalità di destinazione dei diaconi e dei presbiteri novelli, pensata in un’ottica di comunione e di missionarietà; nel campo, infine, della presenza dei cristiani nel mondo della scuola e della cultura.  
8.   Che la nostra Chiesa nella sua vastità e nelle sue articolazioni sia in cammino, lo sto constatando attraverso la visita pastorale decanale, che ha già coinvolto quattordici decanati e che nel prossimo anno – ed è una prospettiva per cui chiedo di pregare – si svolgerà con un ritmo ancora più intenso. Ho cercato di condensare in poche pagine la ricca esperienza che sto vivendo nelle “lettere” conclusive della visita, indirizzate alle comunità nel loro insieme e ai diversi operatori pastorali. In queste lettere, oltre a indicazioni particolari legate alle singole situazioni, ripropongo con forza le fondamentali istanze della comunione e della missione, con l’appello prioritario ad affrontare – da parte di tutti e in particolare dei laici – un intenso cammino di formazione spirituale e culturale.  
9.   Altro segno di vivacità ecclesiale della nostra Diocesi, di cui vorrei rendere grazie con voi al Signore, è stata la nomina episcopale di ben sei nostri sacerdoti. Anche questo gioioso avvenimento è stato caratterizzato dalla comunione e dalla missione. Comunione: anzitutto con il Santo Padre, che ha così manifestato attenzione e apprezzamento alla nostra Chiesa ambrosiana e ha consacrato due vescovi per il servizio alla Santa Sede; e comunione con due Chiese particolari, a cui abbiamo donato i nuovi pastori. Missione: i due nuovi vescovi ausiliari che ho chiesto per la nostra arcidiocesi sapranno dare nuovo slancio all’impegni pastorale e culturale.
Vorrei leggere queste nomine episcopali come invito a tutti nel proseguire in quella che, nel giorno del mio ingresso in Diocesi, chiamavo “una grande preghiera per le vocazioni”: “preghiera fiduciosa, costante, personale e comunitaria che, come onda benefica, attraversi e coinvolga attivamente i seminari, le comunità parrocchiali, i gruppi, le famiglie, gli anziani, gli ammalati, ogni singola persona”. Anche la nostra Chiesa, non meno delle altre, ha bisogno di vocazioni sacerdotali, diaconali, nelle varie forme di vita consacrata, nella vita matrimoniale e nelle diverse modalità di impegno laicale.
10. Un altro motivo di ringraziamento, in quest’anno che ha visto la celebrazione del cinquantesimo dell’enciclica Fidei donum di Pio XII, è stato il deciso incremento di presenza in diversi Paesi di sacerdoti, diaconi, famiglie e consacrate provenienti dalla nostra Diocesi. In un momento di difficoltà e di crisi per le vocazioni, la nostra Chiesa ha scommesso e scommette in modo convinto sulla missione e sulla comunione con le diverse Chiese presenti nel mondo, ben sapendo che il Signore non si lascia vincere in generosità.
In particolare vorrei richiamare la luminosa testimonianza di P. Giancarlo Bossi del PIME: la sua liberazione e il suo desiderato ritorno nelle Filippine sono per tutti noi motivo di ringraziamento al Signore e di rinnovato impegno missionario.
11. Dovrei ora aprire un nuovo capitolo, le cui pagine sono un invito al rendimento di grazie al Signore e insieme a vivere la speranza operosa nelle situazioni difficili e pesanti della vita. È il capitolo che vede la presenza della comunità cristiana – in particolare dei gruppi, delle famiglie, delle singole persone – che annuncia il Vangelo e lo rende credibile attraverso le numerose e varie opere di carità e giustizia al servizio della società, soprattutto a favore di quanti fanno, spesso quotidianamente, l’esperienza dura della fragilità: i poveri, i malati, i sofferenti, i senza lavoro e senza casa, i disagiati, gli emarginati, i rifiutati, i disperati.
Riprendendo il discorso della vigilia di sant’Ambrogio rivolto alla città, vorrei riaffermare “il (mio) bisogno di ringraziare di cuore quanti si sono impegnati, in questi mesi, pur in mezzo a tante difficoltà e incomprensioni, per creare nuove condizioni di convivenza e di legalità con i Rom che vivono a Milano, sia all’interno delle istituzioni, sia operando nelle varie organizzazioni caritative e umanitarie. Si tratta di una testimonianza cristiana e civile forte in un contesto di contrasto, da un lato, e di disimpegno, dall’altro, di molti che potevano fare di più. Una testimonianza non astratta e fuori della storia, ma in grado di avviare un’inclusione nella legalità, che diventa dono per tutti e risposta non secondaria alla domanda di sicurezza legittimamente posta da una città spaventata e preoccupata anche per i segnali sconfortanti che vengono dalla cronaca quotidiana”.
Sempre quel discorso attirava l’attenzione sulla città “invisibile”, abitata da poveri “invisibili”, per un sussulto di responsabilità sociale verso i più bisognosi. Dicevo: “C’è una città che “appare”, la città dei grandi progetti, delle luci, delle vetrine; ma c’è una città forse un po’ più piccola, un po’ più invisibile, che magari vorremmo nascondere. Non ignoriamola, anzi abbiamo il giusto coraggio di ripartire da qui. Ripartiamo dalla città degli invisibili, ciascuno dei quali è persona…”.
Apriamo dunque il nuovo anno con una più grande speranza, che vogliamo implorare dal Signore, nella convinzione che la sua è una speranza generata dalla fede e destinata a fruttificare sentimenti e opere di amore, e dunque di accoglienza e di solidarietà.
 
Preghiamo, umili e fiduciosi, con le parole del Te Deum:
Pietà di noi, Signore,
pietà di noi.
Tu sei la nostra speranza,
non saremo confusi in eterno.
 
+ Dionigi card. Tettamanzi
Arcivescovo di Milano

Publié dans:Arcivecovi e Vescovi, Inni, liturgia |on 29 novembre, 2011 |Pas de commentaires »

AVVENTO: GIOIA, ATTESA, VIGILANZA

dal sito:

http://www.prayerpreghiera.it/banca/anno.htm

AVVENTO: GIOIA, ATTESA, VIGILANZA

L’Avvento è il glorioso tempo liturgico “ecumenico’, per così dire, ossia quello in cui tutte ­le Chiese, anche se divise, si ritrovano in singo­lare sinfonia a celebrare il Signore Gesù Cristo per la sua “Venuta” di misericordia vivificante per gli uomini. Esso sta sia all’inizio dell’Anno liturgico proprio, sia dentro il suo scorrere. Così nel Rito romano e nei Riti siri (Caldeo, Malabarese, Siro occidentale, Malankarese, Maronita) inaugura; nel Rito bizantino ed etiopico è racchiuso preziosamente. È tempo liturgico di contemplazione, non di tristezza, e nell’Oriente è anche accompagnato dall’apposita “quaresima di 40 giorni, con digiuno gaudioso. Nei Riti siri l’Avvento corrisponde al “tempo del Subbara”, ossia dell’Annunciazione ai personaggi intorno alla Nascita del Signore: a Zaccaria, a Maria, ad Elisabetta, a Giuseppe, con la nascita del Precursore. E l’irruzione del Signore nelle genealogie degli uomini, in vista della Redenzione. Nel Rito bizantino in previsione del Natale si comincia a cantare il Kontàkion “La ­Vergine oggi” con le sue stanze progressive, e la contemplazione delle Genealogie dei Padri. Nel Rito etiopico 4 Domeniche “del tempo di Tahsas” cantano le profezie gioiose della Venuta. Se il Natale sta in prospettiva necessaria, l’Avvento tuttavia conserva una sua fisionomia. Qui si dispiega la tipica teologia dell’Avvento romano. Per comprenderla, occorre considerare che la Domenica 34a del Tempo ordinario, dedi­cata alla Solennità di Cristo Re, nei tre Cicli riveste carattere escatologico: la Venuta ultima del Re della gloria (Ciclo A), la rivelazione della Regalità del Signore (Ciclo B), l’iscrizione della Croce su questa Regalità salvifica. Ora, precisamente la Domenica I d’Avvento si salda strettamente con tale prospettiva: la preparazione alla Venuta ultima (Ciclo A), la vigilanza per essa (Ciclo B), il comparire davanti al Signore che viene per chiudere la storia (Ciclo C). È la tipica “lettura Omega” della Storia, della stessa vita del Signore. Il Risorto è il centro di questa contemplazione, Egli occupa l’intero spazio-tempo, ormai redenti e donati come l’ambito dell’accettazione o del rifiuto della divina gratuita Redenzione. Il Risorto infatti manifesta il suo “venire” salvifico. La Liturgia, mentre lo legge “teologicamente” (lettura Omega), lo pone tuttavia anche in ordine cronologico, e si obbliga così alla duplice lettura, Omega-Alfa. E così si deve dire della quadruplice e costante Venuta del Signore tra gli uomini.Egli venne. Per assumere la carne ‘dallo Spi­rito Santo e da Maria Vergine” (Mt 1,18-25, ri­letto dal “Credo”). Per operare l’intera Econo­mia del Padre nello Spirito Santo, dunque per vivere tra gli uomini, morire, risorgere e donare lo Spirito Santo, promettendo la Presenza perenne mediata dallo Spirito Santo, e la Venu­ta ultima mediata dallo Spirito Santo. Egli Risorto viene sempre. Se invocato, “Si­gnore, vieni!”, è la divina mozione dello Spirito Santo alla Sposa orante che invoca (Ap 22,17). Viene ai suoi, nei Misteri che donano l’efficacia propria dello Spirito Santo. Viene però anche nella figura dei suoi fratelli poveri, sofferenti, oppressi, da amare come suo Volto sfigurato dal dolore. Egli Risorto viene per restare. Se amato co­me lo Sposo divino dalla sua Sposa diletta. Per occupare la “dimora” preparata dallo Spirito Santo, dove porta sempre con sé l’indivisibile Padre suo. Egli Risorto verrà nella gloria. Per riprendersi i suoi, a trasporli con sé nella Patria, chieden­do preparazione, vigilanza, preghiera, tremore e gioia. La santa Liturgia della Chiesa è lo spazio­-tempo privilegiato tra tutti e sopra tutti, di questa Venuta nelle Venute. L’anamnesi della Prece eucaristica, le acclamazioni del popolo lo confermano. La partecipazione ai Misteri vivificanti lo sigillano per l’eternità.Risaltano allora di più i testi che accompa­gnano ed illustrano gli Evangeli della Venuta nelle Venute: le Profezie antiche, severe e struggenti, innegabili e trascinanti. I Salmi con la loro scelta sapiente, dove la Regalità divina è cantata ed esaltata dossologicamente. Le Epi­stole, con le dottrine divine e la “paraclesi”, esortazione e consolazione insieme, per la Comunità raccolta che “attende”. Il Natale, che secondo scoperte recenti è data storica, diventa insieme il prezioso primo traguardo, e l’indispensabile “osservatorio”, stori­co e liturgico. Da esso contempliamo il tenero divino Bambino perseguitato, che cresce, è bat­tezzato, passa con l’Evangelo e le opere del Regno, è trasfigurato, è crocifisso e sepolto, ma risorge nello Spirito Santo, e così il Padre può donare lo Spirito suo e del Figlio… “Quante feste! esclama nella sua celeberrima Omelia per la Na­scita del Salvatore il grande Gregorio il Teologo (Nazianzeno) – tutte per me!”.“Per noi uomini e la nostra salvezza” è la Venuta.

T Federici

Da: “La Vita in Cristo e nella Chiesa”, p.5, n.10, dicembre 2002

Publié dans:liturgia, Liturgia: Avvento |on 26 novembre, 2011 |Pas de commentaires »

Avvento ( Thomas Merton)

dal sito:

http://www.pensieriparole.it/poesie/autori/t/thomas-merton/pag1

THOMAS MERTON

Avvento

Affascinate, cieli, con la vostra purezza
queste notti d’inverno
e siate perfetti!
Volate più vive nel buio di fuoco, silenziose meteore,
e sparite.
Tu, luna, sii lenta a tramontare,
questa è la tua pienezza!

Le quattro bianche strade se ne vanno in silenzio
verso i quattro lati dell’universo stellato.
Il tempo cade, come manna, agli angoli
della terra invernale.

Noi siamo diventati più umili delle rocce,
più attenti delle pazienti colline.

Affascinate con la vostra purezza queste notti di Avvento,
o sante sfere,
mentre le menti, docili come bestie,
stanno vicine, al riparo, nel dolce fieno,
e gli intelletti sono più tranquilli delle greggi che
pascolano alla luce delle stelle.

Oh, versate, cieli il vostro buio e la vostra luce sulle nostre
Solenni vallate;
e tu, viaggia come la Vergine gentile
verso il maestoso tramonto dei pianeti,
o bianca luna piena, silente come Betlemme!

Eucarestia e Silenzio

dal sito:

http://www.meditazionecristiana.org/Dettaglio.asp?IdPagina=5&IdNews=19&Id=24

Eucarestia e Silenzio

di Padre Laurence Freeman, OSB Lettore alla Scuola di Preghiera Arcidiocesi di Melbourne 20 Aprile 2005

Secondo l’antica saggezza Cattolica ci sono tre liturgie: la liturgia del cielo, la liturgia dell’altare e fra loro due, la liturgia del cuore. La pienezza della liturgia deve pertanto attingere un po’ da tutte e tre le dimensioni, che si compenetrano: i regni su ogni lato della valle della morte e del mistero della più profonda interiorità umana.
Parlando del silenzio nell’Eucaristia, parliamo della Legge degli Spazi Bianchi. Una volta un gruppo di studenti rabbinici stava discutendo sul significato di un testo biblico. Si rivolsero al loro insegnante, il quale disse loro di mostrargli la pagina. Che cosa vedete qui? chiese, Le parole di cui stiamo discutendo, risposero. Questi segni neri sulla pagina, disse il vecchio maestro, contengono metà del significato del racconto. L’altra metà si trova negli spazi bianchi fra le parole. Questo è il margine di silenzio attorno a qualsiasi pagina. E’ anche la pausa necessaria fra i singoli respiri, la calma fra i pensieri, il riposo fra momenti di attività.
I recenti promemoria dell’insegnamento del Papa sul ripristino dell’esperienza del silenzio nella liturgia dell’altare c’indica di rispettare questa legge universale. Ci aiutano anche a riscoprire il pleroma di adorazione liturgica in ognuno dei suoi tre regni, che seppur distinti sono anche sovrapposti, quello terreno, quello celeste e quello del cuore. Dobbiamo! poiché per un numero sempre crescente di persone oggi l’Eucaristia è un rituale il cui significato è ed è stato a lungo in stato emorragico. Ci sono quelli che non hanno mai percepito la sua ispirazione e consolazione. Per loro non è in nessun modo un rituale sacramentale comune, che da significato alla vita. La sua affermazione del significato trascendente della comune esistenza umana, anche nella sua più mondana e mortale forma, scivola via su di loro completamente. Non è collegata al significato di gioie, pene, speranze e delusioni della vita. Non è cibo per il duro viaggio del lavoro quotidiano. Per molti la Messa può sembrare strana e poco accogliente. In un’epoca di nuova evangelizzazione, dovremmo ricordare il potere della liturgia di comunicare il Vangelo ai non credenti. Quando vengono alla messa, sia essa di funerale di un collega di lavoro o di matrimonio di un amico, il modo in cui l’Eucaristia è celebrata può comunicare loro qualcosa di sorprendente e di un valore durevole. Può presentare un volto della Cristianità che loro non hanno mai visto prima e che li porta a riconoscere un qualcosa, che fino a quel momento avevano ignorato.
Poi ci sono quelli che una volta avevano provato il mistero e il misticismo dell’Eucaristia ma che ne hanno perso il contatto.. Forse, una volta maturata la loro spiritualità, sono andati in cerca dell’interiorità che essa esprimeva – la grazia interna della quale essa è un segno esteriore – e hanno sentito di non poterla trovare nella chiesa. Per queste persone, scoprire un modo di preghiera contemplativo, può aiutarli a ricongiungersi con la loro perduta sensibilità sacramentale e ricondurli alla chiesa. Ci sono anche quelli che perseverano nell’adorazione regolare dell’Eucaristia, spesso per la necessità dei loro figli, o per mantenere qualche collegamento con il mondo spirituale, ma lo percepiscono incapace di esprimere se stesso in modo soddisfacente durante la loro adorazione domenicale. Ed infine ci sono quelli che nonostante tutte le imperfezioni individuali ed ecclesiali posseggono la grazia di vedere l’efficacia misteriosa e mistica dell’Eucaristia ovunque e comunque sia celebrata.
Il silenzio, come dimensione dell’Eucaristia è prezioso e necessario per ognuna di queste categorie di persone. Prima che io mi inoltri in ciò che può sembrare l’argomento inesistente ed astratto del silenzio, lasciate che io vi renda partecipi di ciò che ho udito recentemente durante un ritiro tenuto a Sidney. Un assistente pastorale, di una parrocchia nel Nuovo Galles del Sud, mi ha detto che il sacerdote del luogo fa esattamente ciò che Papa Giovanni Paolo II ha chiesto ai sacerdoti di fare,e ciò che le linee guida della nuova edizione delle Istruzioni generali del Messale Romano, sottolineano. Ha riportato il silenzio liturgico all’adorazione della sua parrocchia. Sono rimasto sorpreso, non tanto per questo, ma per l’intensità. Hanno silenzi dopo le letture, cinque minuti dopo l’omelia e quindici dopo la comunione. Ho chiesto come ha risposto la gente e mi è stato detto che nessuno se ne era andato via, e che anzi molti avevano espresso la loro approvazione. Non voglio comunque ridurre questo argomento a semplici cifre espresse in minuti di silenzio – e per delle buone ragioni.
Ci sono molti tipi di celebrazioni eucaristiche e la discrezione del celebrante è cruciale. Ora possiamo osservare un momento di silenzio deve essere interpretato. Ma io credo che sia importante che una comune congregazione parrocchiale, domenicale possa essere introdotta a questo grado di silenzio e apprezzarlo. I momenti di preghiera silenziosa senza parole o immagini possono essere una sorpresa per alcuni, come lo è il fatto che i bambini rispondano bene alla meditazione. Lo fanno, amano farlo e ne vorrebbero di più. Parlando dell’Eucaristia e del silenzio stiamo infatti prendendo in considerazione la dimensione contemplativa della fede, della lectio, l adorazione e l’interezza della vita. Come ha detto Papa Giovanni Paolo II nel Mane Nobiscum Domine, abbiamo bisogno di progredire dall’esperienza del silenzio liturgico alla spiritualità del silenzio – alla dimensione della vita contemplativa. In altre parole, come la chiesa degli inizi aveva ben capito, il modo in cui preghiamo è quello in cui viviamo. Oggigiorno la gente è alla ricerca di questa dimensione contemplativa come mai prima, e quando vengono in chiesa, a celebrare l’Eucaristia, si aspettano e ne hanno il diritto, di trovarla.
Meister Eckart tipicamente diceva, “non c’è nulla di più somigliante a Dio del silenzio”. Madre Teresa, che insisteva sulla centralità di due ore di preghiera silenziosa nella vita delle sue sorelle apostoliche, diceva tipicamente che “ il silenzio era Dio che ci parlava”. Ognuno di questi detti illustra un modo di comprendere il significato del silenzio. Perchè Dio è cosi simile al silenzio? Eckart non dice che Dio ama il silenzio o ama l’adorazione silenziosa, ma che Dio è come il silenzio (1*) San Benedetto ha due termini per tradurre silenzio: quies e silentium. Quies è la quiete, il silenzio fisico, l’assenza di rumore – di sbattimento di porte, di rumori di sedie, colpi di tosse o lo scartare caramelle. E’ la quies, che ci aspettiamo dei buoni genitori sappiano insegnare ai loro figli, un auto-contenimento e modestia che rispetti la presenza di altre persone. Quies rende il mondo abitabile e civile. E’ spesso mancante in grande misura nella cultura moderna urbana dove musica registrata invade ascensori e raramente si trova un momento o un luogo dove non arrivi rumore creato dall’uomo. Ci sono ora delle cuffie molto care che la gente indossa, non per sentire la musica ma per tenere fuori il rumore. Silentium comunque, non è assenza di rumore ma uno stato della mente e un’ attitudine della coscienza volta verso gli altri o Dio. E’ attenzione. Quando qualcuno viene per vedere un sacerdote o un consulente, per condividere un problema o un dispiacere, il sacerdote sa che innanzitutto ciò che deve dare è l’attenzione. Può non esserci una soluzione al problema, e gran parte delle nostre parole di speranzoso aiuto, scivolano sul dolore nella loro banalità. Ascoltare profondamente, prestare attenzione non è giudicare, fissare o condannare, ma amare.Visto in questo modo, non c’è veramente nient’altro di così simile a Dio del silenzio, poiché Dio è amore.
Più tardi guarderemo al significato sacrificale dell’Eucaristia e a come il silenzio lo riveli. A questo punto, vorrei collegare l’atto dell’attenzione al dono di se. Filosofi decostruzionistici si sono lasciati poco spazio per il valore umano, ma in ogni caso, arrivano alla conclusione che l’atto supremo umano che da valore e significato alla vita sia il dono di se. Mettono però in discussione se ciò sia veramente possibile. Solitamente c’è una condizione o una domanda quando noi ci doniamo . Vogliamo riconoscenza, una gratifica, gratitudine, insomma qualcosa in cambio. Questo però vanifica la purezza del dono di se. I Cristiani vedrebbero l’Incarnazione come il dono divino di se e la vita, morte e resurrezione di Gesù come la manifestazione di tale dono alla sua umanità. Un dono perfetto di se conferisce al ricevente, non il fardello del debito, ma la capacità di donarsi in cambio. Ciò è quello che l’Eucaristia insegna, mette in atto e alimenta. In ogni forma di donazione di se stessi- anche quando imperfetta, – ci zittiamo colpiti da un riverente timore. Di quanto silenzio ancora abbiamo bisogno nell’Eucaristia per poter apprezzare tale perfetto sacrificio d’amore?
La liturgia – come ogni forma di preghiera – è essenzialmente centrata sull’attenzione. Al momento dell’Eucaristia volgiamo la nostra attenzione a Dio, attraverso il dono di se che Gesù ha storicamente fatto e continua a fare attraverso lo Spirito, sia nei nostri cuori che sull’altare. Sebbene la nostra attenzione possa errare, guardando i volti nuovi nella congregazione, o sfogliando il bollettino, l’attenzione di Gesù rivolta a noi non vacilla mai, non ci condanna per la nostra distrazione, ne per essa gli diventiamo meno cari. Seppure noi non gli siamo fedeli, lui lo rimane perché non può tradire se stesso. Questo, almeno per i credenti, è il mistero inesprimibile dell’Eucarstia e l’attrazione ultima, irresistibile e dolce della presenza reale.
Il silenzio è lavoro, il lavoro di un’attenzione amabile e il suo frutto è un cuore riempito di riconoscenza. Ciò unisce l’idea del silenzio di Meister Eckart al silenzio di Madre Teresa, che è come Dio, alla stessa maniera che lo è anche Dio che parla a noi. Quando prestiamo attenzione a Dio, ci rendiamo ben presto conto che Dio presta attenzione a noi. Infatti è proprio l’ attenzione di Dio verso noi che ci permette di prestare attenzione a Dio. Secondo una discussione fra Cassiano e Agostino sulla buona volontà, è Dio che installa in noi la prima scintilla di buona volontà. Ma poi noi dobbiamo fare la nostra parte. Come dice San Giovanni, questo è quello che l’amore realmente è: non che noi abbiamo amato Dio ma che lui ha amato noi. Noi amiamo perché lui ci ha amato prima. Quando celebriamo l’Eucaristia, facciamo infatti il primo passo verso l’essere catturati nella vita divina. Come con il Figliol Prodigo, non appena Dio ci vede tornare a casa, anche molto prima che noi ci arriviamo, ci corre incontro per darci il benvenuto e abbracciarci. Questo amore stravagante e rischioso per se stesso, che fluisce dal cielo, è sperimentato nel cuore. Dovrebbe riflettersi nell’ospitalità ecclesiale dell’altare. Nel silenzio dell’Eucaristia assaporiamo ed entriamo nel silenzio del Padre dal quale si sprigiona eternamente la Parola. Nell’icona della Trinità di Rubliev le tre persone sono radunate attorno all’Eucaristia.
E’ lo Spirito che opera questa metamorfosi dell’ordinario. Dentro e attraverso il celebrante, rappresentando ma non sostituendo il Cristo, l’assemblea sperimenta l’unione e la riapparizione delle persone, che rende l’Eucaristia un esperienza preliminare della liturgia celeste. Il celebrante diventa un punto focale e fluido per la corrente dell’amore che il sacramento rilascia e alimenta. Cristo è nel celebrante che rappresenta le persone che sono il suo Corpo e dal quale il celebrante è stato chiamato al suo ministero. C’è una perdita del se e una condivisione e riscoperta di individualità nell’Eucaristia, che ci libera dalla prigione del nostro ego individuale. Questa è la sua gioia e le sue implicazioni che influenzano il modo in cui noi viviamo nella società. Io in loro e tu in me, che possano essi essere perfettamente uno. O come l’antica omelia del Sabato Santo riporta “ Alzati, andiamo dunque; poiché tu in me ed io in te assieme siamo un’unica persona”.
Questa è la dimensione mistica dell’Eucaristia che per molti adoratori domenicali è il cibo spirituale principale per la loro settimana e lavoro quotidiano. Pertanto deve essere fatto qualsiasi sforzo per assicurare che questo raro e prezioso momento sia assaporato al suo massimo livello. Il modo in cui l’Eucaristia viene celebrata è estremamente importante per concedere il tempo e creare lo spazio perchè il suo mistero interiore si possa manifestare. Ivan Illich ha detto che, l’Incarnazione che rende possibile il fiorire sorprendente ed interamente nuovo dell’amore e della conoscenza, provoca anche un’ombra. E’ l’ombra dell’istituzionalizzazione della carità e regolamentazione dello spirito. Probabilmente dobbiamo ancora liberarci di parecchio bagaglio storico a causa di quest’ombra e dell’aver reso complicato il mistero dell’Eucaristia con un approccio freddo e legalista che ha spesso insistito più sull’obbligo di andare a messa che sulla grazia e il privilegio di parteciparvi. Quando pensiamo troppo all’Eucaristia come ad un obbligo, la sua essenza mistica, ne viene praticamente oscurata. A quel punto sarà improbabile che i silenzi all’interno della messa diventino niente di più che segnali di pausa. Il Sacramentum Concilium ci dice che quando si celebra la liturgia serve molto di più che la semplice osservanza delle leggi che governano la validità. Ora comunque non possiamo passare agli estremi opposti ed imporre obbligatoriamente i silenzi, ciò che importa è la qualità, non la durata del silenzio.
I silenzi prescritti non possono essere resi obbligatori e anche sperare che funzionino spiritualmente. Fintanto che l’approccio fondamentale all’Eucaristia viene condizionato da legalismi o da controllo eccessivo, sembrerà che l’Eucaristia e il silenzio non possano essere compatibili. I momenti, o i periodi estesi di silenzio sembreranno impraticabili, pretenziosi ed artificiali; un’ imposizione alla congregazione, che già si dimostra magnanima nel venire e non dovrebbe essere assoggettata a qualcosa di non familiare che allunghi l’ ora di permanenza in chiesa. I silenzi nell’Eucaristia devono piuttosto sgorgare dall’esperienza dell’esplorazione della profondità mistica, da parte di tutta la comunità. Ma come tutta l’Eucaristia stessa, questi silenzi hanno bisogno di essere guidati dal celebrante in collaborazione con i dirigenti liturgici della comunità. Chiaramente, è nel seminario che la dimensione contemplativa della preghiera necessita di essere alimentata, se vogliamo che i futuri celebranti possano sentire questo silenzio liturgico.
I sacerdoti sono spesso timorosi o sospettosi del silenzio sull’altare – come gli intervistatori radiofonici. Recentemente ho sentito di un’intervista radiofonica registrata dalla BBC con l’Arcivescovo Rowan Williams, riguardante le attuali controversie presenti nella Chiesa Anglicana. Alla fine l’intervistatore ha fatto una domanda inaspettata sull’Iraq e ha chiesto se la guerra fosse moralmente giustificabile. L’Arcivescovo rimase in silenzio per ben diciannove secondi, un’eternità sull’etere, e l’intervistatore ruppe il silenzio dicendo che naturalmente stava pensando a lungo alla risposta. L’Arcivescovo replicò senza scuse, che se gli era stata fatta una domanda così importante doveva aver tempo per considerare la sua risposta e che un argomento di tale sensibilità morale necessitava di più che di una frazione di secondo. L’intervistatore rimase molto sorpreso e sinceramente impressionato. La paura del silenzio nell’Eucaristia generalmente influenza più il celebrante che la congregazione. Può essere che al momento di riaprire gli occhi dopo un lungo silenzio tema di trovare la chiesa vuota? E’ paura di perdere il controllo? La paura del silenzio è spesso paura dell’assenza, del vuoto che temiamo, l’orrore crescente del non pensare a nulla. O sarà anche perché la nostra formazione teologica e liturgica non ci ha preparato per l’altra metà, la metà mistica dell’Eucaristia, la dimensione apofatica che è presente in tutti gli aspetti della vita spirituale?
Il silenzio restituisce e riconosce questa dimensione apofatica e contemplativa. L’Eucaristia può essere vista nella sua totalità, solo come la fonte e vertice della vita della Chiesa se la sua celebrazione rappresenta questo paradosso del doppio mistero del cataphatico e apofatico – Il rivelato e il nascosto – che si trova in tutta la vita Cristiana per il fatto vero e proprio di questa natura dualistica, nella persona di Gesù. Mosè è entrato nel buio denso dove c’era Dio. Eppure similmente Dio è luce e in lui non c’è traccia di buio. La lingua dei mistici esprime questo paradosso, come anche il canone della messa stessa: il buio luminoso del mistero divino, il silenzio dal quale la Parola è pronunciata e scende giù nella carne e l’incarnazione, l’immobilità al centro di ogni azione. Il silenzio può essere compreso dicendo ciò che Dio non è – il modo apofatico. Ma afferma anche prepotentemente ciò che diciamo di Dio quando parliamo. Il silenzio rinfresca il linguaggio, rigenera la precisione ed il significato specialmente a testi familiari frequentemente citati. Senza il silenzio, anche parole sacre possono diventare rumore, chiacchiere. Il silenzio nell’Eucaristia non minaccia il vuoto, o denota assenza, ma esprime presenza ed invita alla comprensione.
I momenti nell’Eucaristia dove i silenzi sono particolarmente utili e magnificanti sono già stati identificati. Molti celebranti iniziano con alcuni momenti di silenzio nella sacrestia, con gli accoliti e i lettori, prima di procedere. Ogniqualvolta il celebrante chiama la comunità alla preghiera, “Preghiamo” chiede un momento di silenzio, prima che le parole della Colletta siano pronunciate per raccogliere le preghiere non formulate di tutta la gente. Il rito penitenziale poi, invita la gente a riflettere interiormente, in modo che possano prepararsi a vivere l’Eucaristia nella loro vita imperfetta, come una celebrazione di guarigione e perdono. Le letture in particolare, chiamano a pause silenziose, prima che il salmo responsoriale o l’enunciazione del vangelo ci coinvolgano. Spesso, dove viene osservato il silenzio durante la Liturgia della Parola viene anche effettuato un breve commento parlato su un passaggio difficile o oscuro che potrebbe altrimenti sfuggire alle facoltà cognitive della congregazione e qualche volta anche del celebrante. Le letture devono essere proclamate con preparazione, attenzione devota e silenzio meditativo che permettano alla Parola di Dio di toccare le menti e i cuori delle persone. (Mane Nobiscum Domine).
I predicatori cattolici sono generalmente molto sensibili alla lunghezza delle omelie, a differenza dei ministri protestanti da cui la gente si aspetta di ricevere in cambio del proprio denaro una contropartita in termine di lunghezza e passione. Lo stile più modulato della maggior parte delle prediche cattoliche rende ancora più appropriato un conseguente periodo di riflessione silenziosa. Si parte dal presupposto che la congregazione abbia ascoltato intelligentemente e che voglia avere tempo per riflettere anche se non viene ancora permesso loro di rispondere. Le Istruzioni Generali non consigliano un tempo di silenzio durante o alla fine dell’intercessione generale ma ciò, come in realtà avviene, è ampiamente praticato: “preghiamo ora per un breve periodo nel silenzio dei nostri cuori. Ciò permette alla congregazione, a beneficio della quale le intercessioni sono state offerte, di aggiungere silenziosamente le loro preghiere, così il sacerdote può concludere con le parole “Signore, tu sai di che cosa abbiamo bisogno prima ancora che te lo chiediamo, perciò poniamo davanti a te tutte le nostre preghiere, parlate o silenziose. Tutti i tipi di preghiere, Papa Giovanni Paolo II ha scritto, sono costruite sulla base del silenzio.
Lo spezzare il pane, il rompere l’ostia è un momento mistico di grande sacralità durante il quale un momento di silenzio è naturale. Ma il momento di silenzio più importante e necessario nell’Eucaristia è naturalmente dopo la Comunione. Se tutta l’Eucaristia è il culmen et fons della chiesa, questo momento è sicuramente il suo epicentro mistico. Però è generalmente affrontato senza un momento di silenzio eccetto quello fra i canti o la pulizia dei calici. Questo può essere il punto in cui il celebrante si innervosisce nel trattenere la gente troppo a lungo, i bambini possono diventare irrequieti e un’ altra assemblea formarsi all’esterno. Ora, dobbiamo soprattutto ricordare, che il silenzio non è semplicemente l’assenza di rumore ma lo spirito di attenzione amorevole. Sono rimasto seduto in un prolungato silenzio, dopo la comunione della messa domenicale nella parrocchia del nostro monastero, in un rione periferico di Londra, mentre un coro di bebè piagnucolosi, bambini irrequieti e macchinisti invisibili stavano facendo rumore. Non ha materialmente influito sul silenzio. I genitori e gli altri lo hanno apprezzato e molti, se non tutti i bambini sono diventati più tranquilli. E una volta concluso con la preghiera del dopo Comunione si è percepito un senso di gratitudine e di freschezza, non di sollievo per il fatto che era terminato. Il celebrante deve mantenere i nervi saldi all’inizio di tali silenzi, e naturalmente preparare l’assemblea ad essi. Ciò che serve è un momento importante di silenzio, non una pausa veloce. Può essere di aiuto avere un tempo prescritto e contrassegnarne l’inizio e la fine suonando un gong o una campanella. Il silenzio nell’Eucaristia non privatizza la liturgia, come qualcuno potrebbe temere. Ciò succedeva spesso nel rito Tridentino. Le persone percepivano che stava succedendo qualche cosa di misterioso e sacro, ma non ne venivano personalmente coinvolte, così continuavano a recitare le loro preghiere mentre il sacerdote proseguiva nel suo ruolo. Contrariamente il silenzio come esperienza liturgica, avvicina la comunità e unifica la loro attenzione, così che uniti nella mente e nel cuore possono ascoltare la parola e condividere il mistero. Sant’Ignazio di Antiochia diceva che se non possiamo capire il silenzio di Cristo non saremo capaci di capire nemmeno le sue parole. Possiamo capire il suo silenzio soltanto rimanendo anche noi silenziosi. Facendo ciò assieme, sperimentiamo il mistero del silenzio che costruisce la comunità.
Concludendo, mi piacerebbe ricordare una frase significativa di Papa Giovanni Paolo che ho già citato prima. Avendo enfatizzato l’importanza del silenzio nell’Eucaristia ci spiega che esso non è un silenzio riservato e artificiale. “Dobbiamo progredire dall’esperienza del silenzio liturgico verso la spiritualità del silenzio” – verso la dimensione contemplativa della vita. San Francesco una volta sollecitò i suoi seguaci a predicare il vangelo in tutte le occasioni e ad ognuno che incontravano. Quando è assolutamente necessario, aggiungeva usate le parole. Penso volesse dire, non solo il silenzio ma la testimonianza silenziosa ed implicita della propria vita.
Il collegamento fra l’Eucaristia e il nostro modo di vivere, è cruciale per ogni comprensione o esperienza del suo significato e valore. Se celebriamo l’Eucaristia solo come un obbligo ecclesiale o come un radunarsi di persone, ciò influirà ben poco sul nostro conformare le nostre vite secondo il vangelo. A meno che non ci siamo uniti ad un livello più profondo durante la sua celebrazione, le parole di chiusura, Andate in pace avranno il significato di andare in…pezzi, (*2) così come siamo arrivati. Il silenzio permette al pieno significato dell’Eucaristia, di svelarsi alla nostra vita, ai suoi livelli più profondi, oltre quello verbale di efficacia sacramentale. Ciò significa, che noi sapremo che l’aver condiviso simbolicamente i frutti della terra, ci permetterà di servire meglio il Regno della Giustizia, sia nella nostra vita che nel lavoro. Abbiamo tutti preso la stessa quantità di pane e di vino. In giro, se il sacrestano ha svolto bene il proprio lavoro, ce n’era abbastanza per ognuno. Pertanto, se la nostra vita deve essere Eucaristica, non dovremmo forse lavorare per una distribuzione equa della ricchezza, per il sollievo degli oppressi e la cura degli emarginati? La profondità mistica dell’Eucaristia ha delle implicazioni politiche dirette. Non furono forse assassinati Thomas a Becket e Oscar Romero nel momento silenzioso della consacrazione?
Il silenzio Eucaristico porta nella nostra casa, anche il significato reale della pace come frutto della non violenza. Pace non significa soltanto comoda scappatoia dal luogo del mercato, come silenzio non vuol dire semplice assenza di rumore. Il sacrificio della messa ci ricorda tutto quello che, recentemente Rene Girard ci ha aiutato a vedere nella relazione fra violenza e sacro. Apparentemente nella prima chiesa Romana, prima di Costantino, molti sacerdoti pagani hanno chiesto il battesimo. I pagani non si vedevano tanto come ministri della religione ma piuttosto come servitori civili che prescrivevano sacrifici sugli altari Romani secondo dei rituali prestabiliti. Se commettevano un errore con le parole dovevano ritornare all’inizio e ricominciare da capo. Importante era l’offerta di sangue sacrificale, le esatte e scrupolose parole e i gesti.
I Cristiani invece avevano capito che il sacrificio perfetto di Cristo, celebrato nell’Eucaristia, era abbastanza diverso dai rituali pagani. L’Eucaristia era il sacrificio di se nell’amore, che si concludeva come mezzo necessario per guadagnare il favore di Dio – in verità significava tenere sotto controllo la violenza nella comunità offrendo dei capi espiatori. La Croce è rappresentata sull’altare di una comunità Cristiana e simboleggia il termine del ciclo umano della violenza. E’ pietà non sacrificio che io voglio, come ha detto Hosea, e Gesù ha citato. Se noi celebriamo l’Eucaristia senza il silenzio necessario che rispetti e riveli la sua profondità mistica, sarà facile interpretarla teologicamente, in modo sbagliato: vederla come un rito sacrificale necessario per placare un Dio arrabbiato. Il silenzio nell’Eucaristia, compreso spiritualmente non legalisticamente, conferisce al potere del sacramento i poteri della giustizia e della pace. La pace non può essere mai raggiunta dalla violenza. Non c’è rabbia o violenza in Dio.
L’ultimo insegnamento pubblico di Papa Giovanni Paolo e la benedizione dalla finestra del Vaticano erano silenziose. E’ significativo che, nei suoi più recenti insegnamenti oltre aver enfatizzato la sacralità della vita, l’inaccettabilità della pena di morte e l’immoralità della guerra in Iraq, egli avesse anche rimarcato il significato mistico dell’Eucaristia. Il Collegamento fra contemplazione e non-violenza traspare nei suoi più recenti pensieri e pronunciamenti. Non sono forse questi le colonne gemelle degli insegnamenti di Gesù e l’eterno messaggio del suo Vangelo? Pertanto le implicazioni del silenzio nell’Eucaristia ci portano al cuore della nostra fede e sul filo tagliente dell’evangelizzazione contemporanea. Non riguarda solo ciò che avviene durante la Messa, si tratta di esprimere ciò che c’è di vero al centro del nostro essere e nel tessuto della vita quotidiana e del lavoro. Questo, penso sia il motivo per cui Papa Giovanni Paolo ha collegato l’esperienza del silenzio liturgico al rinnovamento contemplativo della chiesa. In un mondo sempre più diviso e logorato da rumore e stress, ha saputo riconoscere la necessità per la chiesa di attingere alle sue più profonde e contemplative tradizioni, e a partire da queste di insegnare modi di preghiera contemplativa. Ha detto “ E’ vitale riscoprire il valore del silenzio”. Anche John Main, morto nel 1982, aveva intravisto la medesima cosa: La sfida più grande per il mondo moderno, è riscoprire il valore e il significato del silenzio. Nei suoi scritti sull’Eucaristia John Main aveva anche detto che per riscoprire la dimensione contemplativa della preghiera, la gente moderna doveva sperimentare il pieno significato dei sacramenti.
La visione di Papa Giovanni Paolo del silenzio liturgico, si estendeva alla sua coscienza nella spiritualità contemporanea. Il dilagare, anche fuori dall’adorazione Cristiana, di pratiche di meditazione che danno la priorità al richiamare alla mente, non è accidentale. Perché non iniziare con un osare un’educazione pedagogica specifica all’interno delle coordinate di esperienza personale cristiana? (Spiritus et Sponsa).
Qui si riferisce ad un’ educazione nell’arte della preghiera, cosa, che egli aveva spesso sollecitato. L’insegnamento della preghiera contemplativa a livello di parrocchia e diocesi è naturale e forse un corollario inevitabile del silenzio liturgico. Dobbiamo pur iniziare da qualche parte – con il silenzio dopo la comunione o con gruppi di meditazione nella parrocchia. La chiesa è un corpo vivo con una vita spirituale, perciò i suoi pastori non devono essere troppo preoccupati con analisi di sistema. Basta che preghino e incoraggino la gente a pregare sempre più in profondità. Può essere un osare fuori dal tempo, applicare ciò all’educazione religiosa e alla formazione spirituale di bambini e giovani. Questo osare pedagogico è già iniziato, come nella diocesi di Queensland di Townsville e in molte scuole e famiglie Cattoliche in giro per il mondo, dove i bambini vengono introdotti alla pratica di meditazione Cristiana.
Un silenzio vivo dopo le letture, l’omelia e la comunione, si innalzerà, o meglio ancora, identificherà la fame più profonda che si trova al cuore della chiesa e nel nostro mondo. Imparare a pregare ad un livello contemplativo, ci insegnerà a vivere meglio nello spirito, perché il modo in cui preghiamo è il modo in cui viviamo, come preghiamo è il modo in cui celebriamo l’Eucaristia. Questa fame di contemplazione, dunque è la nostra più grande speranza. E’ vitale riscoprire il valore del silenzio.

Laurence Freeman OSB

Nota – 1* e 2* l’originale inglese gioca sui termini simili

Publié dans:liturgia |on 4 novembre, 2011 |Pas de commentaires »

IL SILENZIO IN CHIESA E IN SAGRESTIA PRIMA E DOPO LA CELEBRAZIONE

dal sito:

http://www.zenit.org/article-26045?l=italian

IL SILENZIO IN CHIESA E IN SAGRESTIA PRIMA E DOPO LA CELEBRAZIONE

Rubrica di teologia liturgica a cura di don Mauro Gagliardi

di Juan José Silvestre*

ROMA, mercoledì, 23 marzo 2011 (ZENIT.org).- Sin dalle origini della Chiesa, si incontrano testimonianze che mostrano come la Celebrazione Eucaristica esiga necessariamente una preparazione previa, non solo da parte del sacerdote celebrante, bensì di tutto il popolo fedele (cf. J.A. Jungmann, Missarum sollemnia, p. 227). A questo riguardo, afferma Guardini: «A mio avviso la vita liturgica inizia con il silenzio. Senza di esso tutto appare inutile e vano […]. Il tema del silenzio è molto serio, molto importante e purtroppo molto trascurato. Il silenzio è il primo presupposto di ogni azione sacra» (Il testamento di Gesù, p. 33).
La Institutio Generalis Missalis Romani (IGMR) nella editio typica tertia include per la prima volta al n. 45 un riferimento a ciò che precede la celebrazione: «Anche prima della stessa celebrazione è bene osservare il silenzio in chiesa, in sagrestia e nel luogo dove si assumono i paramenti e nei locali annessi, perché tutti possano prepararsi devotamente e nei giusti modi alla sacra celebrazione».
Pertanto, conviene che tutti osservino il silenzio: sia il celebrante, che in questo momento preparatorio deve ricordarsi di nuovo che si mette a disposizione di Colui che «è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risorto per loro» (2Cor 5,15); sia i fedeli che, prima che inizi la celebrazione, devono prepararsi per l’incontro con il loro Signore. Cristo non li convoca solo per parlare loro della sua futura Passione, morte e risurrezione; bensì il suo mistero pasquale si fa realmente presente nella Santa Messa, perché possano partecipare di Lui.
In questa linea, annota il Catechismo della Chiesa Cattolica: «L’assemblea deve prepararsi ad incontrare il suo Signore, essere un popolo ben disposto. Questa preparazione dei cuori è opera comune dello Spirito Santo e dell’assemblea, in particolare dei suoi ministri. La grazia dello Spirito Santo cerca di risvegliare la fede, la conversione del cuore e l’adesione alla volontà del Padre. Queste disposizioni sono il presupposto per l’accoglienza delle altre grazie offerte nella celebrazione stessa e per i frutti di vita nuova che essa è destinata a produrre in seguito» (n. 1098).
In questo contesto di preparazione alla celebrazione, i ministri hanno un ruolo imprescindibile ed il silenzio occupa un luogo preminente. Silenzio che non è una semplice pausa, nella quale ci assalgono mille pensieri e desideri, bensì quel raccoglimento che ci dà pace interiore, che ci permette di riprendere respiro e che svela ciò che è vero. Ma perché il silenzio è parte della celebrazione? In primo luogo perché esso favorisce il clima di preghiera che deve caratterizzare qualunque azione liturgica. La celebrazione è preghiera, dialogo con Dio, e il silenzio è il luogo privilegiato della rivelazione di Dio. La permanenza nel deserto, ed il silenzio che spontaneamente viene evocato da questa immagine, segnano tutta la relazione tra Israele e il suo Signore. La sagrestia e la navata della chiesa, nei momenti che precedono la celebrazione, dovrebbero essere quel luogo deserto nel quale Gesù si ritira prima degli avvenimenti più importanti. Il deserto è il luogo di silenzio, della solitudine; esso suppone un allontanarsi, l’abbandonare per un momento le occupazioni quotidiane, il rumore, la superficialità.
Come ricordava il cardinale Ratzinger, predicando gli esercizi spirituali a Giovanni Paolo II, «tutte le cose grandi iniziano nel deserto, nel silenzio, nella povertà. Non si può partecipare alla missione di Gesù, alla missione del Vangelo, senza partecipazione all’esperienza del deserto, della sua povertà, della sua fame […]. Chiediamo al Signore che ci conduca, che ci faccia trovare quel silenzio profondo in cui abita la sua parola»(Il cammino pasquale, p. 10).
In secondo luogo, la presenza del silenzio nell’azione liturgica si deve al fatto che l’incontro con Dio si rende possibile e anche richiede uno spirito di conversione continua, che deve caratterizzare la vita di ogni fedele. Il silenzio è perciò l’ambiente adeguato affinché tale processo di trasformazione abbia luogo. Di fatto, «non ci si può aspettare una partecipazione attiva alla Liturgia Eucaristica, se ci si accosta ad essa superficialmente, senza prima interrogarsi sulla propria vita. Favoriscono tale disposizione interiore, ad esempio, il raccoglimento ed il silenzio, almeno qualche istante prima dell’inizio della liturgia, il digiuno e, quando necessario, la confessione sacramentale. Un cuore riconciliato con Dio abilita alla vera partecipazione» (Benedetto XVI, Sacramentum Caritatis, n. 55).
Come sempre, dobbiamo “specchiarci” in Gesù: Egli cerca il silenzio per entrare in dialogo con il Padre suo: «Al mattino presto si alzò quando ancora era buio e, uscito, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava» (Mc 1,35). Per questo, «dobbiamo confessare che abbiamo tutti bisogno di questo silenzio carico di presenza adorata» (Giovanni Paolo II, Orientale Lumen, n. 16). Ne ha bisogno ogni individuo, sacerdote o fedele laico, che spesso non riesce a fare silenzio per paura di incontrare se stesso, di scoprirsi, di sentire il vuoto che si trasforma in domanda di senso. Ne ha bisogno anche la comunità riunita, per saper lasciare spazio alla presenza di Dio, evitando così di celebrare se stessa. In una società che vive in modo sempre più frenetico, spesso stordita dai rumori e dispersa nell’effimero, è di vitale importanza riscoprire il valore del silenzio.
Il sacro silenzio dovrebbe essere osservato anche al termine della celebrazione. Come ricorda la IGMR ancora al n. 45, il silenzio dopo la comunione favorisce la preghiera interiore di lode e di supplica. E appare logico che lo stesso silenzio che precede e prepara la Messa conduca al silenzio che ringrazia e prolunga nelle opere ciò che si è vissuto in essa. Si comprende allora perché san Josemaría Escrivá de Balaguer ci ricordi: «L’amore per Cristo, che si offre per noi, ci fa trovare, al termine della Messa, alcuni minuti per un ringraziamento personale, intimo, che prolunghi nel silenzio del cuore l’azione di grazie dell’Eucaristia. [...] Se si vive bene la Messa, come è possibile poi, per tutto il resto del giorno, non avere il pensiero in Dio, non aver la voglia di restare alla sua presenza per lavorare come Egli lavorava e amare come Egli amava?» (È Gesù che passa, nn. 92 e 154).
[Traduzione dallo spagnolo di don Mauro Gagliardi; il prossimo articolo della rubrica sarà pubblicato il 6 aprile]
————-
* Don Juan José Silvestre è professore di Liturgia presso la Pontificia Università della Santa Croce e consultore della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, nonché dell’Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice.

Publié dans:liturgia |on 5 octobre, 2011 |Pas de commentaires »

LITANIE AGLI ANGELI CUSTODI

dal sito:

http://www.piccolifiglidellaluce.it/angelocustode2.htm

LITANIE AGLI ANGELI CUSTODI

Signore pietà,
Cristo pietà
Signore pietà,
Cristo ascoltaci
Cristo esaudiscici,
Padre dei cielo che sei Dio, abbi pietà di noi
Figlio Redentore del mondo che sei Dio, abbi pietà di noi
Spirito Santo che sei Dio, abbi pietà di noi
Santissima Trinità, unico Dio, abbi pietà di noi
Santa Maria, prega per noi
Santa Madre di Dio, prega per noi
Regina degli Angeli, prega per noi
San Michele, prega per noi
San Gabriele, prega per noi
San Raffaele, prega per noi
Voi tutti santi angeli ed arcangeli, pregate per noi
Voi tutti santi angeli custodi, pregate per noi
Voi santi angeli custodi che non vi allontanate mai dal nostro fianco, pregate per noi
Voi santi angeli custodi che siete in celestia­le amicizia con noi, pregate per noi
Voi santi angeli custodi, nostri fedeli ammonitori, pregate per noi
Voi santi angeli custodi, nostri saggi consiglieri, pregate per noi
Voi santi angeli custodi che ci difendete da tanti mali del corpo e dell’anima, pregate per noi
Voi santi angeli custodi, nostri potenti difensori contro gli assalti del Maligno, pregate per noi
Voi santi angeli custodi, nostro rifugio nel tempo della tentazione, pregate per noi
Voi santi angeli custodi, che ci confortate nelle miserie e nel dolore, pregate per noi
Voi santi angeli custodi, che portate e avvalorate le nostre preghiere davanti al trono di Dio, pregate per noi
Voi santi angeli custodi che con le vostre esortazioni e i vostri lumi ci aiutate a pro­gredire nel bene, pregate per noi
Voi santi angeli custodi che, nonostante le nostre mancanze, non vi allontanate da noi, pregate per noi
Voi santi angeli custodi, che vi rallegrate quando diventiamo migliori, pregate per noi
Voi santi angeli custodi che ci aiutate quando inciampiamo e cadiamo, pregate per noi
Voi santi angeli custodi che vegliate e pregate mentre noi riposiamo, pregate per noi
Voi santi angeli custodi che non ci abbandonate nell’ora dell’agonia, pregate per noi
Voi santi angeli custodi che confortate le nostre anime nel Purgatorio, pregate per noi
Voi santi angeli custodi che conduceste in Cielo i giusti, pregate per noi
Voi santi angeli custodi, con i quali noi vedremo il volto di Dio un giorno e lo esalteremo in eterno, pregate per noi
Voi gloriosi Principi dei Cielo, pregate per noi
 
Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo, perdonaci, o Signore
Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo, ascoltaci, o Signore
Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo, abbi pietà di noi
 
PREGHIAMO Dio onnipotente ed eterno, che nella tua immensa bontà, hai messo vicino a ciascun uomo fin dal grembo materno uno speciale angelo a difesa del corpo e dell’anima, con­cedimi, di seguire fedelmente e di amare il mio santo angelo custode. Fa che, con la Tua grazia e sotto la sua protezione, giunga un giorno alla Patria Celeste e là, insieme con lui e con tutti i santi angeli, meriti di con­templare il tuo volto divino. Per Cristo nostro Signore. Amen

Publié dans:liturgia, liturgia: Litanie |on 1 octobre, 2011 |Pas de commentaires »

CONFESSIONI TRA GLI ANNUNCI A NEW YORK

dal sito:

http://www.zenit.org/article-27804?l=italian

CONFESSIONI TRA GLI ANNUNCI A NEW YORK

di Elizabeth Lev


ROMA, giovedì, 1° settembre 2011 (ZENIT.org).- A New York la pubblicità è un’arte. In ogni via, venditori, pannelli luminosi e vetrine attirano i passanti con cibo, tecnologia e qualsiasi prodotto si possa desiderare. Dovrebbe allora sorprendere un grande striscione rosso in una chiesa cattolica che annuncia confessioni? Francamente sono rimasta esterrefatta. Correndo dal museo alla biblioteca, per cenare con gli amici, l’ultima cosa alla quale pensavo era il sacramento della riconciliazione.
La parrocchia di Sant’Agnese è un’elegante chiesa al numero 143 E della 43rd Street, che l’ex Sindaco di New York, Ed Koch, definì “la strada più transitata al mondo”. La chiesa offre tre ore di confessioni e sette Messe al giorno. Incuriosita, sono andata a visitarla. Sono stata ricevuta da Anna Megan, che amministra la chiesa e ha voluto per prima cosa sottolineare l’importante localizzazione del tempio. “A mezzo isolato dalla stazione Grand Central Terminal e dall’altro lato della strada rispetto al Chrysler Building, Sant’Agnese è al centro delle rotte di viaggiatori e turisti”.
I fedeli di Sant’Agnese non sono molti, circa 400, ma sono costanti. Possono però arrivare a più di 10.000 nei giorni di festa, quando molte persone assistono alle Messe e si confessano.
Sant’Agnese è stata costruita nel 1873 per i lavoratori del Grand Central Terminal, ma ha subito un incendio nel 1992. La chiesa attuale, ricostruita nel 1998, segue il modello della chiesa del Gesù, uno dei templi romani più noti per il sacramento della penitenza. Da 30 anni, Sant’Agnese offre un orario regolare di confessioni giornaliere, risultato di un’iniziativa pastorale ma anche dell’insistenza dei fedeli.
Ho visitato la parrocchia un pomeriggio, mentre iniziava l’adorazione eucaristica, con la chiesa piena per tre quarti della sua capacità. Ogni diversità etnica, economica ed estetica di New York si inginocchiava unita nei banchi. Giovani con anziani, tatuaggi e veli, borse griffate e sacchetti di carta.
Ovviamente molte altre chiese offrono confessioni regolari a New York. La Cattedrale di St. Patrick offre confessioni al mattino e all’ora di pranzo, e il santuario di Sant’Antonio ne offre con tale frequenza da essere conosciuto come il confessionale di New York.
Dopo aver visto tante chiese chiuse tutto il giorno negli Stati Uniti, con i bollettini parrocchiali che annunciavano discretamente gli orari delle confessioni (solo il sabato, dalle 15.15 alle 15.30, o per appuntamento), Sant’Agnese è però una meraviglia e un modello per tante di loro.
Ho chiesto delle difficoltà di tenere la chiesa aperta tutto il giorno e di assicurare sacerdoti per i sacramenti. Megan mi ha detto che i fedeli collaborano per far restare aperta la chiesa, custodendo il tabernacolo.
Anche se nella parrocchia c’è solo un sacerdote diocesano, padre Richard Adams, in genere cinque o sei presbiteri di luoghi come le Filippine, il Ghana o la Birmania aiutano ad amministrare i sacramenti.
Questa disponibilità è divenuta talmente popolare che ci sono sempre file nei due confessionali, e più di una volta è stato chiamato un sacerdote all’ora di pranzo o di cena per assistere qualcuno che era arrivato. San Giovanni Maria Vianney ne sarebbe molto orgoglioso.
In una città che offre in ogni angolo prodotti perché l’aspetto delle persone sia sempre pronto per una fotografia, Sant’Agnese promuove un trattamento di bellezza molto più profondo.

MARTIRIO DI SAN GIOVANNI BATTISTA – PREFAZIO

MARTIRIO DI SAN GIOVANNI BATTISTA

MESSA:

PREFAZIO
La missione del Precursore.

È veramente cosa buona e giusta,
nostro dovere e fonte di salvezza,
rendere grazie sempre e in ogni luogo
a te, Signore, Padre santo,
Dio onnipotente ed eterno.
Noi ti lodiamo per le meraviglie
operate in san Giovanni Battista,
che fra tutti i nati di donna
hai eletto e consacrato
a preparare la via a Cristo Signore.
Fin dal grembo materno
esultò per la venuta del redentore;
nella sua nascita
preannunziò i prodigi dei tempi messianici
e, solo fra tutti i profeti,
indicò al mondo l’Agnello del nostro riscatto.
Egli battezzò nelle acque del Giordano
lo stesso tuo Figlio, autore del Battesimo,
e rese a lui la testimonianza suprema
con l’effusione del sangue.
E noi,
uniti agli angeli e ai santi,
cantiamo senza fine
l’inno della tua lode: Santo.

Publié dans:liturgia |on 29 août, 2011 |Pas de commentaires »

L’IMPORTANZA DELL’ALLELUIA

dal sito:

http://osbnorcia.org/2011/04/23/the-importance-of-alleluia/?lang=it

L’IMPORTANZA DELL’ALLELUIA

AUTORE:

Fr. Cassian Folsom, O.S.B.

DATA LITURGICA EF: Vigilia Paschalis

Con il canto del  triplice Alleluia, la Chiesa proclama la Risurrezione di Cristo ed esorta tutti i fedeli a celebrare il Signore, perché è buono, perché eterna è la sua misericordia (Sal 117:1).  L’Alleluia è uno dei simboli più importanti del Cristo Risorto – così importante che la Chiesa ha creato tutta una serie di gesti liturgici per sottolineare il suo ruolo privilegiato.
L’attenzione particolare alla parola “Alleluia” comincia già all’inizio della Settuagesima.  Alla fine dei Primi Vespri, il Benedicamus Domino con il consueto Alleluia viene cantato secondo il tono pasquale.  E da quel momento fino alla Veglia Pasquale, l’Alleluia viene sospeso.  Per nove lunghe settimane non lo sentiamo più, e sostituiamo il canto dell’Alleluia con un’altra frase (Laus tibi Domine, Rex aeternae gloriae).  Durante questo periodo, sentiamo la mancanza dell’Alleluia, e questa mancanza ha come obiettivo quello di aumentare il nostro desiderio per la Pasqua.  San Benedetto esorta i monaci ad attendere la santa Pasqua con la gioia del desiderio spirituale (RB 49:7), e la sospensione dell’Alleluia è un modo concreto di rafforzare questo desiderio.  Nel medioevo, c’erano canti speciali e riti particolari per congedare l’Alleluia in previsione del suo ritorno al momento della Veglia Pasquale.  In alcune tradizioni monastiche, si scriveva la parola “Alleluia” su una pergamena, la si depositava in un contenitore speciale, e in una cerimonia para-liturgica, si nascondeva lo scrigno in uno dei locali del monastero, o addiritura  si sepelliva l’Alleluia in un luogo particolare.
Successivamente aveva inizio il lungo periodo di attesa.  La Veglia di questa santa notte non è un elemento isolato dall’insieme delle usanze quaresimali, ma i suoi elementi caratteristici sono presenti fin dall’inizio.  Il periodo della sospensione dell’Alleluia è lungo.  C’è tempo per riflettere.  E’ un periodo di gestazione spirituale, di maturazione.  E’ un tempo di purificazione e conversione.  Il tempo non si può affrettare, si deve aspettare la Pasqua con pazienza, ma allo stesso tempo con uno slancio di desiderio spirituale.  Durante questo periodo, comprendiamo meglio le parole del profeta Geremia: “E’ bene aspettare in silenzio la salvezza del Signore” (Lam 2, 26).
La Veglia Pasquale, che stiamo per celebrare, completa questo lungo periodo di attesa, e quando arriva il momento giusto la Chiesa irrompe di gioia e intona solennamente l’Alleluia – non soltanto una volta, che sarebbe troppo poco, ma tre volte, per indicare la pienezza della gioia.  L’Alleluia, sospeso per tanto tempo, è ormai restituito alla Chiesa, e lo cantiamo con slancio e grande entusiamo.  Qual è il motivo della nostra gioia?  Cristos anesti!  Alethos anesti!  Cristo è risorto, è veramente risorto, con la morte calpestando la morte, e ai morti nei sepolcri donando la vita.  Tutto è nuovo!  Nel Vangelo, si vede chiaramente che l’avvenimento della risurezzione fu totalmente inaspettato.  Le donne vengono alla tomba per motivi di lutto. Per loro, l’annuncio dell’Angelo è motivo di spavento, proprio perché la risurrezione del Signore va oltre ogni categoria dell’esperienza umana.  Ma quando i discepoli incontrano il Signore Risorto — e mentre, pian piano, si rendono conto del significato di questa nuova realtà — arde loro il cuore nel petto, e una nuova fonte di amore zampilla nei loro cuori al punto che devono esprimersi non in povere parole, ma in canto: Alleluia!  Sant’Agostino osserva che “cantare amantis est” – è caratteristico degli inamorati di cantare.  E i discepoli sono come gli inamorati, pieni di gioia indicibile.  L’alleluia è il cantico nuovo della risurrezione.
Le nostre emozioni, però, sono effimere, e hanno bisogno di essere rafforzate.  San Benedetto, proprio per gettare le fondamenta di una gioia duratura, prescrive che l’Alleluia debba essere cantanto per tutto il periodo che intercorre tra il giorno di Pasqua e la Pentecoste.  Poi, San Benedetto spiega che oltre alla Pasqua annuale, c’è una Pasqua settimanale, cioè ogni domenica – e la domenica è un tempo privilegiato per cantare l’Alleluia.  Inoltre, c’è un ricordo pasquale giornaliero, perché si canta l’Alleluia come antifona ai salmi del secondo notturno del Mattutino ogni giorno.  Tutta la vita del monaco è quindi sigillata dalla Pasqua.
C’è una sequenza antica in cui l’Alleluia viene personificato, e l’inno si rivolge a questo simbolo di Cristo Risorto con l’esclamazione: “Alleluia, dolce carme, voce di gioia perenne!  Alleluia, lode soave, melodia dei cori celesti” (cf. Guéranger, The Liturgical Year, v.4, p.114).  Uniamo la nostra voce alla lode degli angeli, e cantiamo il nostro inno a Cristo Risorto con tutto il cuore e con tutta l’anima: Alleluia!

Publié dans:Inni, liturgia |on 25 août, 2011 |Pas de commentaires »
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