Archive pour la catégorie 'LITURGIA: SACRAMENTI'

IL SACRAMENTO DELLA CONFESSIONE – PADRE PIO

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IL SACRAMENTO DELLA CONFESSIONE  – PADRE PIO                 

Il Catechismo della Chiesa Cattolica sottolinea che « Quelli che si accostano al sacramento della Penitenza ricevono dalla misericordia di Dio il perdono delle offese fatte a lui e insieme si riconciliano con la Chiesa, alla quale hanno inflitto una ferita col peccato e che coopera alla loro conversione con la carità, l’esempio e la preghiera ». È chiamato sacramento della Confessione poiché l’accusa, la confessione dei peccati davanti al sacerdote è un elemento essenziale di questo sacramento. In un senso profondo esso è anche una «confessione», riconoscimento e lode della santità di Dio e della sua misericordia verso l’uomo peccatore. È chiamato sacramento del Perdono poiché, attraverso l’assoluzione sacramentale del sacerdote, Dio accorda al penitente « il perdono e la pace ». La Confessione impegnava Padre Pio per molte ore della sua giornata. Egli la esercitava con visione introspettiva e non lasciava al penitente adito ad ambiguità. Non era possibile mentire a chi vedeva nell’anima. Spesso, di fronte ai penitenti più emozionati, era lo stesso padre Pio che elencava i peccati commessi dal penitente. Padre Pio invitava alla Confessione, chiedendo di farvi ricorso, al più tardi, una volta alla settimana. Egli diceva: “Una stanza, per quanto possa essere rimasta chiusa, necessita di una spolverata, almeno una volta alla settimana”. In questo Padre Pio era molto esigente, egli esigeva una conversione vera e propria e non transigeva coloro i quali si recavano al confessionale per la sola curiosità di vedere il frate “Santo”. Un confratello raccontava: “Un giorno padre Pio negò l’assoluzione ad un penitente e poi gli disse: “Se vai a confessarti da un altro, vai all’inferno tu e quell’altro che ti da l’assoluzione”, come a dire, senza proposito di cambiare vita si profana il sacramento e chi lo fa si rende colpevole davanti a Dio. Spesso infatti Padre Pio trattava i fedeli con « apparente durezza » ma è altrettanto vero che lo stravolgimento spirituale che quel « rimprovero » procurava alle anime dei penitenti, si trasformava in una forza interiore a ritornare da Padre Pio, contriti, per riceverne la definitiva assoluzione. Un signore, tra il 1954 e il 1955 andò a confessarsi da Padre Pio, a San Giovanni Rotondo. Quando terminò l’accusa dei peccati padre Pio chiese: “Hai altro?” ed egli rispose, “No padre”. Il padre ripeté la domanda: “Hai altro?” “No padre”. Per la terza volta padre Pio gli chiese: “Hai altro?”. Al reiterato diniego si scatenò l’uragano. Con la voce dello Spirito Santo padre Pio urlò: “Vattene! Vattene! Perché non sei pentito dei tuoi peccati!”. L’uomo rimase impietrito anche per la vergogna che provava di fronte a tanta gente. Quindi cercò di dire qualcosa…ma padre Pio continuò: “Stai zitto, chiacchierone, hai parlato abbastanza; ora voglio parlare io. E’ vero o non è vero che frequenti le sale da ballo?” – “ Si padre” – “E non sai che il ballo è un invito al peccato?”. Stupito non sapevo che dire: nel portafoglio avevo il tesserino di socio di una sala da ballo. Promisi di emendarmi e dopo tanto mi diede l’assoluzione.   Le bugie Un giorno, un signore disse a Padre Pio. “Padre, dico bugie quando sono in compagnia, tanto per tenere in allegria gli amici.”. E Padre Pio rispose: “Eh, vuoi andare all’inferno scherzando?!”   La mormorazione La malizia del peccato della mormorazione consiste nel distruggere la reputazione e l’onore di un fratello che ha invece diritto a godere di stima. Un giorno Padre Pio disse ad un penitente: “Quando tu mormori di una persona vuol dire che non l’ami, l’hai tolta dal cuore. Ma sappi che, quando togli uno dal tuo cuore, con quel tuo fratello se ne va via anche Gesù”. Una volta, invitato a benedire una casa, arrivato all’ingresso della cucina disse “Qui ci sono i serpenti, non entro”. E ad un sacerdote che spesso ci andava per mangiare disse di non andarci più perché li si mormorava.

La bestemmia Un uomo era originario delle Marche ed insieme ad un suo amico era partito dal suo paese con un camion per trasportare dei mobili vicino a San Giovanni Rotondo. Mentre facevano l’ultima salita, prima di giungere a destinazione, il camion si ruppe e si fermò. Ogni tentativo di farlo ripartire risultò vano. A quel punto l’autista perse la calma e preso dall’ira bestemmiò. Il giorno dopo i due uomini andarono a San Giovanni Rotondo dove uno dei due aveva una sorella. Tramite lei riuscirono a confessarsi da Padre Pio. Entrò il primo ma padre Pio non lo fece neanche inginocchiare e lo cacciò via. Venne poi il turno dell’autista che cominciò il colloquio e disse a Padre Pio: “Mi sono adirato”. Ma Padre Pio gridò: “Sciagurato! Hai bestemmiato la Mamma nostra! Che ti ha fatto la Madonna?”. E lo cacciò via.   Il demonio è molto vicino a coloro che bestemmiano. In un albergo di San Giovanni Rotondo non si poteva riposare né di giorno né di notte perché c’era una bambina indemoniata che urlava da fare spavento. La mamma portava ogni giorno la piccola in Chiesa con la speranza che Padre Pio la liberasse  dallo spirito del male. Anche qui il baccano che si verificava era indescrivibile. Una mattina dopo la confessione delle donne, nell’attraversare la chiesa per far ritorno in convento, Padre Pio si ritrovò davanti la bambina che urlava paurosamente, trattenuta a stento da due o tre uomini. Il Santo, stanco di tutto quel trambusto, diede una pestata sul piede e poi una violenta pacca sulla testa, gridando. “Mo basta!” La piccola cadde a terra esamine. Ad un medico presente il Padre disse di portarla a San Michele, al vicino santuario di Monte Sant’Angelo. Arrivati a destinazione, entrarono nella grotta dove è apparso san Michele. La bambina si rianimò ma non c’era verso di farla avvicinare all’altare dedicato all’Angelo. Ma ad un certo punto un frate riuscì a far toccare l’altare alla bambina. La bambina come folgorata cadde a terra. Si risvegliò più tardi come se non fosse successo nulla e con dolcezza chiese alla Mamma: “Mi compri un gelato?” A quel punto il gruppo di persone ritornò a San Giovanni Rotondo per informare e ringraziare Padre Pio il quale disse alla Mamma: “Di a tuo marito che non bestemmiasse più, altrimenti il demonio ritorna”.   Mancare all’Eucarestia Un giovane medico, agli inizi degli anni ’50, andò a confessarsi da Padre Pio. Fece l’accusa dei suoi peccati e rimase in silenzio. Padre Pio chiese se avesse altro da aggiungere ma il medico risposte negativamente. Allora Padre Pio disse al medico “Ricordati che nei giorni festivi non si può mancare neanche ad una sola Messa, perché è peccato mortale”. A quel punto il giovane ricordò di avere “saltato” un appuntamento domenicale con la Messa, qualche mese prima.   La magia Padre Pio proibiva ogni forma di ricorso allo spiritismo ed alle pratiche dell’occulto. Una signora racconta: “Mi confessai da Padre Pio nel mese di novembre del 1948. Tra le altre cose disse al Padre che nella nostra famiglia eravamo preoccupati perché una zia leggeva le carte. Il padre con tono perentorio disse: “Gettate via subito quella roba”.

Il Divorzio Nella famiglia unita e santa, Padre Pio vedeva il luogo dove germoglia la fede. Egli diceva. Il Divorzio è il passaporto per l’Inferno. Una giovane signora, terminata la confessione dei propri peccati, ricevette la penitenza da Padre Pio che le disse: “Devi chiuderti nel silenzio della preghiera e salverai il tuo matrimonio”. La Signora rimase sorpresa perché il suo rapporto matrimoniale non aveva problemi. Dovette invece ricredersi di li a poco quando una tempesta colpì il suo rapporto matrimoniale. Lei era però preparata e seguendo il consiglio di Padre Pio, superò quel triste momento evitando la distruzione della famiglia.

L’Aborto Un giorno, padre Pellegrino chiese a Padre Pio: “Padre, lei stamattina ha negato l’assoluzione per un procurato aborto ad una signora. Perché è stato tanto rigoroso con quella povera disgraziata?”. Padre Pio rispose: “Il giorno in cui gli uomini, spaventati dal, come si dice, boom economico, dai danni fisici o dai sacrifici economici, perderanno l’orrore dell’aborto, sarà un giorno terribile per l’umanità. Perché è proprio quello il giorno in cui dovrebbero dimostrare di averne orrore. L’aborto non è soltanto omicidio ma pure suicidio. E con coloro che vediamo sull’orlo di commettere con un solo colpo l’uno e l’altro delitto, vogliamo avere il coraggio di mostrare la nostra fede? Vogliamo recuperarli si o no?” “Perché suicidio?” chiese padre Pellegrino. “Assalito da una di quelle insolite furie divine, compensato da uno sconfinato entroterra di dolcezza e di bontà, padre Pio rispose: “Capiresti questo suicidio della razza umana, se con l’occhio della ragione, vedessi “la bellezza e la gioia” della terra popolata di vecchi e spopolata di bambini: bruciata come un deserto. Se riflettessi, allora si che capiresti la duplice gravità dell’aborto: con l’aborto si mutila sempre anche la vita dei genitori. Questi genitori vorrei cospargerli con le ceneri dei loro feti distrutti, per inchiodarli alle loro responsabilità e per negare ad essi la possibilità di appello alla propria ignoranza. I resti di un procurato aborto non vanno seppelliti con falsi riguardi e falsa pietà. Sarebbe un abominevole ipocrisia. Quelle ceneri vanno sbattute sulle facce di bronzo dei genitori assassini. Il mio rigore, in quanto difende il sopraggiungere dei bambini al mondo è sempre un atto di fede e di speranza nei nostri incontri con Dio sulla terra.

Publié dans:LITURGIA: SACRAMENTI |on 11 janvier, 2016 |Pas de commentaires »

PAPA FRANCESCO (SUL BATTESIMO, 13.11.13)

http://w2.vatican.va/content/francesco/it/audiences/2013/documents/papa-francesco_20131113_udienza-generale.html

PAPA FRANCESCO (SUL BATTESIMO, 13.11.13)

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro

Mercoledì, 13 novembre 2013

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Nel Credo, attraverso il quale ogni domenica facciamo la nostra professione di fede, noi affermiamo: «Professo un solo battesimo per il perdono dei peccati». Si tratta dell’unico riferimento esplicito a un Sacramento all’interno del Credo. In effetti il Battesimo è la “porta” della fede e della vita cristiana. Gesù Risorto lasciò agli Apostoli questa consegna: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo ad ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato» (Mc 16,15-16). La missione della Chiesa è evangelizzare e rimettere i peccati attraverso il sacramento battesimale. Ma ritorniamo alle parole del Credo. L’espressione può essere divisa in tre punti: «professo»; «un solo battesimo»; «per la remissione dei peccati».
1. «Professo». Cosa vuol dire questo? È un termine solenne che indica la grande importanza dell’oggetto, cioè del Battesimo. In effetti, pronunciando queste parole noi affermiamo la nostra vera identità di figli di Dio. Il Battesimo è in un certo senso la carta d’identità del cristiano, il suo atto di nascita, e l’atto di nascita alla Chiesa. Tutti voi conoscete il giorno nel quale siete nati e festeggiate il compleanno, vero? Tutti noi festeggiamo il compleanno. Vi faccio una domanda, che ho fatto altre volte, ma la faccio ancora: Chi di voi si ricorda la data del proprio Battesimo? Alzi la mano: sono pochi (e non domando ai Vescovi per non far loro provare vergogna…). Ma facciamo una cosa: oggi, quando tornate a casa, domandate in quale giorno siete stati battezzati, cercate, perché questo è il secondo compleanno. Il primo compleanno è quello della nascita alla vita e il secondo compleanno è quello della nascita alla Chiesa. Farete questo? È un compito da fare a casa: cercare il giorno in cui io sono nato alla Chiesa, e ringraziare il Signore perché nel giorno del Battesimo ci ha aperto la porta della sua Chiesa. Al tempo stesso, al Battesimo è legata la nostra fede nella remissione dei peccati. Il Sacramento della Penitenza o Confessione è, infatti, come un “secondo battesimo”, che rimanda sempre al primo per consolidarlo e rinnovarlo. In questo senso il giorno del nostro Battesimo è il punto di partenza di un cammino bellissimo, un cammino verso Dio che dura tutta la vita, un cammino di conversione che è continuamente sostenuto dal Sacramento della Penitenza. Pensate a questo: quando noi andiamo a confessarci delle nostre debolezze, dei nostri peccati, andiamo a chiedere il perdono di Gesù, ma andiamo pure a rinnovare il Battesimo con questo perdono. E questo è bello, è come festeggiare il giorno del Battesimo in ogni Confessione. Pertanto la Confessione non è una seduta in una sala di tortura, ma è una festa. La Confessione è per i battezzati! Per tenere pulita la veste bianca della nostra dignità cristiana!
2. Secondo elemento: «un solo battesimo». Questa espressione richiama quella di san Paolo: «Un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo» (Ef 4,5). La parola “battesimo” significa letteralmente “immersione”, e infatti questo Sacramento costituisce una vera immersione spirituale nella morte di Cristo, dalla quale si risorge con Lui come nuove creature (cfr Rm 6,4). Si tratta di un lavacro di rigenerazione e di illuminazione. Rigenerazione perché attua quella nascita dall’acqua e dallo Spirito senza la quale nessuno può entrare nel regno dei cieli (cfr Gv 3,5). Illuminazione perché, attraverso il Battesimo, la persona umana viene ricolmata della grazia di Cristo, «luce vera che illumina ogni uomo» (Gv 1,9) e scaccia le tenebre del peccato. Per questo, nella cerimonia del Battesimo, ai genitori si dà una candela accesa, per significare questa illuminazione; il Battesimo ci illumina da dentro con la luce di Gesù. In forza di questo dono il battezzato è chiamato a diventare egli stesso “luce” – la luce della fede che ha ricevuto – per i fratelli, specialmente per quelli che sono nelle tenebre e non intravedono spiragli di chiarore all’orizzonte della loro vita.
Possiamo domandarci: il Battesimo, per me, è un fatto del passato, isolato in una data, quella che oggi voi cercherete, o una realtà viva, che riguarda il mio presente, in ogni momento? Ti senti forte, con la forza che ti dà Cristo con la sua morte e la sua risurrezione? O ti senti abbattuto, senza forza? Il Battesimo dà forza e dà luce. Ti senti illuminato, con quella luce che viene da Cristo? Sei uomo e donna di luce? O sei una persona oscura, senza la luce di Gesù? Bisogna prendere la grazia del Battesimo, che è un regalo, e diventare luce per tutti!
3. Infine, un breve accenno al terzo elemento: «per la remissione dei peccati». Nel sacramento del Battesimo sono rimessi tutti i peccati, il peccato originale e tutti i peccati personali, come pure tutte le pene del peccato. Con il Battesimo si apre la porta ad una effettiva novità di vita che non è oppressa dal peso di un passato negativo, ma risente già della bellezza e della bontà del Regno dei cieli. Si tratta di un intervento potente della misericordia di Dio nella nostra vita, per salvarci. Questo intervento salvifico non toglie alla nostra natura umana la sua debolezza – tutti siamo deboli e tutti siamo peccatori -; e non ci toglie la responsabilità di chiedere perdono ogni volta che sbagliamo! Io non mi posso battezzare più volte, ma posso confessarmi e rinnovare così la grazia del Battesimo. È come se io facessi un secondo Battesimo. Il Signore Gesù è tanto buono e mai si stanca di perdonarci. Anche quando la porta che il Battesimo ci ha aperto per entrare nella Chiesa si chiude un po’, a causa delle nostre debolezze e per i nostri peccati, la Confessione la riapre, proprio perché è come un secondo Battesimo che ci perdona tutto e ci illumina per andare avanti con la luce del Signore. Andiamo avanti così, gioiosi, perché la vita va vissuta con la gioia di Gesù Cristo; e questa è una grazia del Signore. 

CONFESSIONE E STORIA DELLE INDULGENZE

http://www.serraclubitalia.com/2012/11/10/confessione-e-storia-delle-indulgenze/

CONFESSIONE E STORIA DELLE INDULGENZE

BY RENATO VADALA

Definito nel Catechismo della Chiesa Cattolica il sacramento della Penitenza e della Riconciliazione perché concede la remissione dei peccati e riconcilia il peccatore con Dio, la Confessione è il processo di purificazione che consente la riammissione allo stato di grazia di chi è venuto meno ai precetti della conversione ricevuti con il Battesimo.
La Confessione è chiamata anche sacramento del Perdono perché, attraverso l’assoluzione sacramentale del sacerdote, Dio accorda al penitente il perdono e la pace.
Per i cattolici la Confessione è il sacramento più ostico e difficile da accettare perché impone al penitente di rivelare i suoi peccati ad altra persona, anche se questi è un sacerdote, che è ministro di Dio, e nel segreto confessionale. Sono molti, infatti, i credenti che rinunciano a confessarsi e partecipano ugualmente al sacramento dell’Eucarestia, perché ritengono che sia più giusto chiedere direttamente perdono a Dio delle proprie colpe, come avviene per i protestanti, senza la mediazione del sacerdote. La rinuncia del mondo protestante al rito della Confessione è sostenuta dal convincimento che sia stata la Chiesa e non Gesù Cristo a istituire e imporre questo sacramento per ottenere il perdono dei propri peccati.
Per rispondere a questa errata interpretazione occorre rifarsi alle Sacre Scritture dalle quali si evince inconfutabilmente che non è stata la Chiesa a concepire il sacramento della Confessione ma lo stesso Nostro Signore Gesù Cristo, perché solo Dio ha il potere di rimettere i peccati, e che l’esercizio di questo potere è stato affidato da Dio stesso a Cristo e, quindi, alla Chiesa.
Questo principio è stato assunto dal Concilio di Trento come verità dogmatica e per questo motivo chi si pone contro questa verità non manifesta tutta intera la fede cattolica.
In un passo del Vangelo si legge di come Gesù esercitò questo potere divino dicendo al paralitico che gli Scribi gli avevano portato davanti: “ti siano rimessi tuoi peccati” e di come abbia dato questo potere agli Apostoli quando disse: “ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete resteranno non rimessi”. Gesù che è Dio e che ha il potere di rimettere i peccati, dona agli Apostoli, e quindi alla Chiesa, l’esercizio di questo stesso potere di rimettere i peccati.
Non c’è dubbio che il potere di assolvere o condannare sia un potere giudiziario e che per poterlo esercitare è necessario che i peccati siano confessati alla Chiesa, e per la Chiesa ai sacerdoti che sono i successori degli Apostoli.
Una accurata analisi storica ci consente di asserire come l’esercizio del sacramento della Confessione, dalle origini della Chiesa, sia stato assolto sempre dall’ordine sacerdotale.
Una prima traccia la troviamo sin dal I secolo nel “Didachè” o “Dottrina dei dodici Apostoli”, antichissimo scritto quasi contemporaneo ai Vangeli di Matteo, Marco e Luca, che rappresenta la sintesi dell’insegnamento di Nostro Signore Gesù Cristo agli Apostoli, dove si legge: “nella Chiesa confesserai i tuoi peccati”.
Un’altra traccia antica è quella di San Cipriano, Vescovo di Cartagine (205 d.C.), che rivolgendosi ai cristiani li esorta con queste parole: “vi prego, fratelli, di confessare ciascuno il proprio delitto, mentre chi ha peccato è ancora su questa terra, mentre è ancora possibile confessarsi, mentre la soddisfazione, come pure la remissione fatta per mezzo dei sacerdoti è gradita al Signore”.
Altre testimonianze autorevoli sono quelle di San Metodio, (311 d.C.), Vescovo di Olimpo nella Licia: “al vescovo, sacerdote figlio del vero arcisacerdote, manifesti ognuno la sua propria piaga” e di San Basilio (379 d. C.), Vescovo di Cesarea: “i preposti della Chiesa ricevono dai colpevoli la confessione dei loro segreti di cui non è stato testimonio nessuno tranne Dio”.
Conseguenza della confessione e dell’assoluzione del peccatore è la remissione della colpa e della pena eterna. Pur nella riconciliazione con Dio restano, tuttavia, gli effetti derivanti dalla natura stessa del peccato che necessitano di una successiva purificazione, la cosiddetta pena temporale. Per superare ed eliminare il debito della pena temporale, la Chiesa ha fatto ricorso alle indulgenze.
Il Catechismo della Chiesa Cattolica definisce l’indulgenza “la remissione dinanzi a Dio della pena temporale per i peccati, già rimessi quanto alla colpa, remissione che il fedele acquista per intervento della Chiesa, la quale, come ministra della redenzione, autorativamente dispensa ed applica il tesoro delle soddisfazioni di Cristo e dei santi”.
La storia delle indulgenze inizia con l’età apostolica, che si identifica con l’epoca dei dodici Apostoli. Nell’arco di tempo dall’età apostolica fino all’VIII secolo, il cammino della penitenza era pubblico e comportava severe mortificazioni; in tale contesto le indulgenze avevano lo scopo di ottenere una riduzione o la remissione della pena canonica (privazione di un bene spirituale o temporale) attraverso le implorazioni ai martiri. Con il loro sacrificio, i martiri, in punto di morte, trasmettevano al Vescovo una supplica, detta “supplices belli martyrum”, con la quale si invocava l’applicazione dell’indulgenza a favore del penitente che ne avrebbe fatto richiesta.
In un secondo periodo, che si estende dall’VIII al XIV secolo, si pervenne a una attenuazione della severità della penitenza, che da pubblica divenne privata, consentendo la concessione dell’indulgenza a quanti acquisivano meriti per la loro partecipazione a opere di misericordia, alle crociate e ai pellegrinaggi. Significativo di questo periodo è l’indulgenza concessa da Papa Bonifacio VIII in occasione del primo Giubileo nel 1300, applicata ai pellegrini che si fossero recati a Roma in visita alle Basiliche.

Foto Fabio Pignata

Il terzo periodo, che va dal XIV al XVI secolo, vide l’allargamento della pratica dell’indulgenza, che divenne un vero e proprio abuso quando fu introdotta l’usanza di poterla ottenere con offerte di denaro a favore di opere di apostolato, le cosiddette “oblationes”. L’errata convinzione che con le offerte di denaro era possibile liberarsi non soltanto dalla pena temporale ma anche dalla colpa, sminuiva fortemente il concetto della Confessione e del Perdono e diede luogo a una dura reazione da parte di alcuni teologi, tra i quali San Tommaso d’Aquiino, e allo scisma protestante di Martin Lutero. Il “mercato delle indulgenze”, che tanti danni procurò alla Chiesa, ebbe fine con il Concilio di Trento (1545-1563), che mise ordine agli abusi con l’abolizione della raccolta di denaro e con la riaffermazione delle dottrine della Chiesa.

Nel quarto periodo, che parte dal XVI secolo fino ai nostri giorni, la concessione delle indulgenze è stata regolamentata dai Pontefici che si sono succeduti sempre nel segno della continuità del significato originario. L’ultima riforma in materia è stata quella di Papa Paolo VI che, con la Costituzione apostolica “Indulgentiarum doctrina et usus” del 1967, pone i fondamentali dottrinali delle indulgenze e contiene norme che ne regolano l’uso e la concessione.

Cosimo Lasorsa
Nel redigere le nuove norme, si è cercato, in particolar modo, di stabilire una nuova misura con l’indulgenza parziale, di apportare una congrua riduzione al numero delle indulgenze plenarie e di dare alle indulgenze cosiddette reali e locali una forma più semplice e dignitosa. L’indulgenza è plenaria o parziale a seconda che liberi in tutto o in parte dalla pena temporale dovuta per i peccati.

Cosimo Lasorsa

Publié dans:LITURGIA: SACRAMENTI |on 27 mars, 2014 |Pas de commentaires »

L’ELEVAZIONE DELL’OSTIA E DEL CALICE ALLA CONSACRAZIONE EUCARISTICA (sito Vaticano)

http://www.vatican.va/news_services/liturgy/details/ns_lit_doc_20110628_elevazione_it.html  

UFFICIO DELLE CELEBRAZIONI LITURGICHE DEL SOMMO PONTEFICE

L’ELEVAZIONE DELL’OSTIA E DEL CALICE ALLA CONSACRAZIONE EUCARISTICA

(dal link direi che la data è 28 giugno 2011)

A pochi giorni dalla solennità del Corpus Domini, ci piace concludere questa terza annata della nostra rubrica «Spirito della Liturgia» trattando dell’elevazione dell’Ostia e del Calice, subito dopo la consacrazione, all’interno della Messa. L’introduzione nel Canone di questo gesto risale all’inizio del sec. XII per l’Ostia, mentre l’elevazione del Calice si imporrà più lentamente e verrà ufficialmente prescritta solo dal Messale di san Pio V (1570). Le fonti individuano la Francia come luogo di origine dell’elevazione eucaristica e sembrano suggerire che il motivo circostanziale fu la volontà di evitare che i fedeli adorassero l’Ostia già all’inizio della consacrazione, quando il sacerdote prende il pane nelle mani, per pronunciare le parole del Signore. Sin dalla prima metà del Novecento, diversi autori hanno però sostenuto che il vero motivo dell’introduzione dell’elevazione sarebbe stato il desiderio, da parte del popolo cristiano, di guardare l’Ostia. L’opera probabilmente più indicativa al riguardo è quella di E. Dumoutet, Le désir de voir l’hostie et les origines de la dévotion au Saint-Sacrament (Paris, 1926). J.A. Jungmann, uno dei più noti liturgisti del secolo scorso, subì l’influenza di questo libro, come si nota da quanto dice sull’elevazione nel suo famoso libro del 1949 Missarum sollemnia: «È sorto [nel sec. XII] tra i fedeli un movimento religioso volto ad ottenere che sia loro concesso di posare lo sguardo su quel Santissimo Sacramento al quale osano appena di accostarsi» (ediz. it., II, p. 159). Già nel 1940, però, G.G. Grant, in un articolo pubblicato su Theological Studies, aveva mostrato che la tesi sostenuta da Dumoutet non poteva dirsi davvero fondata. Essa supponeva nel popolo una forma di devozione eucaristica, che in realtà sappiamo essere stata più effetto che causa dell’introduzione dell’elevazione. Grant sosteneva che l’elevazione fosse dovuta piuttosto a motivi dottrinali, ossia per innalzare una solida barriera liturgica contro gli errori degli eretici riguardo la presenza reale. In questo senso, l’introduzione dell’elevazione risponderebbe alla stessa preoccupazione che ha spinto Benedetto XVI a distribuire la Comunione solo in ginocchio e sulla lingua: mettere un punto esclamativo sulla dottrina della presenza reale (cf. Luce del mondo, Città del Vaticano 2010, pp. 219-220). Ma Jungmann, pur citando Grant nel primo dei due volumi di Missarum sollemnia, mantenne la posizione di Dumoutet, presentando tutti gli argomenti che da quel momento in poi sarebbero divenuti affermazioni ripetute, negli scritti e nelle conferenze di molti teologi e pastori. Tutto quello che lì dice, come pure il legame che individua tra l’introduzione dell’elevazione e la nascita dell’adorazione eucaristica, viene presentato in fondo in termini di degenerazione, più che di progresso (cf. I, pp. 103 ss.). La riforma liturgica post-conciliare della Messa ha dimezzato il numero delle genuflessioni che il sacerdote compie alla consacrazione, ma non ha eliminato l’elevazione dell’Ostia e del Calice. Nonostante ciò, la tesi Dumoutet-Jungmann ha continuato ad essere proposta, lasciando emergere la convinzione che elevare e guardare l’Ostia consacrata sarebbe segno di una fede poco matura, se non addirittura di una fede scaduta a livello di superstizione o di magia – certo questo, ieri come oggi, è sempre possibile; ma non è detto che rappresenti il significato del gesto in sé. Dobbiamo al contrario riconoscere che l’introduzione dell’elevazione alla consacrazione è un punto di vero progresso nella storia della Santa Messa. È da qui che nasce quel movimento di fede eucaristica che sfocia prima nel Corpus Domini (1264) e poi in tutte le forme di sana devozione eucaristica sviluppate fino ai nostri giorni. La contemplazione adorante dell’Ostia e del Calice appena consacrati non fa altro che esprimere due punti assolutamente fermi della fede cattolica sull’Eucaristia: la transustanziazione, che avviene nell’istante stesso in cui termina la dizione delle parole consacratorie da parte del sacerdote (cf. san Tommaso, Summa Theologiae III, 75, 7); e la presenza reale di Cristo nel sacramento. In realtà, l’elevazione esprime anche l’aspetto sacrificale della Messa, che per motivi di spazio non possiamo qui sviluppare. La duplice elevazione e le genuflessioni manifestano, e allo stesso tempo favoriscono, il giusto modo di accostarsi al Cristo eucaristico, modo segnalato da san Paolo prima (cf. 1Cor 11), e poi da sant’Agostino, con le celebri parole riprese da Benedetto XVI in Sacramentum caritatis, n. 66. Rileggiamo il testo del Pontefice: «Mentre la riforma [post-conciliare] muoveva i primi passi, a volte l’intrinseco rapporto tra la Santa Messa e l’adorazione del Ss.mo Sacramento non fu abbastanza chiaramente percepito. Un’obiezione allora diffusa prendeva spunto, ad esempio, dal rilievo secondo cui il Pane eucaristico non ci sarebbe stato dato per essere contemplato, ma per essere mangiato. In realtà, alla luce dell’esperienza di preghiera della Chiesa, tale contrapposizione si rivelava priva di ogni fondamento. Già Agostino aveva detto: “nemo autem illam carnem manducat, nisi prius adoraverit; peccemus non adorando – Nessuno mangia questa carne senza prima adorarla; peccheremmo se non la adorassimo”». Il fatto che durante il primo millennio cristiano non vi fosse l’uso di elevare l’Ostia alla vista dei fedeli, non significa che tale gesto vada contro la purezza della fede: significa soltanto che esso all’epoca non era stato ancora sviluppato, e che verrà introdotto in seguito, come valida manifestazione della stessa fede eucaristica dei Padri. Ai Padri, infatti, non sono affatto estranei né il senso di adorazione verso l’Eucaristia, né l’importanza del guardare con gli «occhi della fede». I limiti di questo breve articolo non ci consentono di dilungarci. Basterà perciò ricordare un testo che negli ultimi decenni è divenuto piuttosto noto, in quanto attesta l’uso del primo millennio di ricevere la Comunione sul palmo della mano da parte dei fedeli. In questo testo delle Cathechesi mistagogiche, san Cirillo di Gerusalemme imparte alcune raccomandazioni a coloro che comunicano, affinché non vadano dispersi i frammenti eucaristici. L’attenzione si sofferma in genere su questo aspetto. Non si nota, pertanto, che egli accenna anche al tema del guardare l’Ostia consacrata prima di portarla alla bocca e che parla di questo guardare come di un sacramentale, un’azione che santifica l’uomo purificandone lo sguardo. Ecco parte del testo: «Quando tu ti avvicini [a ricevere la Comunione], non andare con le giunture delle mani rigide, né con le dita separate; ma facendo della sinistra un trono alla destra, dal momento che questa sta per ricevere il re, e facendo cavo il palmo, ricevi il Corpo di Cristo, rispondendo “amen”. Poi, santificando con cura gli occhi con il contatto del santo corpo, prendi facendo attenzione a non perderne nulla…» (V, 21). Come minimo, si può dire che al tempo dei Padri non esisteva l’elevazione delle Specie consacrate, ma che se vi fosse stata, essi non l’avrebbero osteggiata. La Institutio Generalis del Messale di Paolo VI (qui nell’ediz. 2008) valorizza il guardare l’Ostia consacrata durante la Messa: al n. 222 essa prescrive che, al momento dell’elevazione, «i concelebranti sollevano lo sguardo verso l’Ostia consacrata e il Calice» (n. 222 e ugualmente ai nn. 227, 230 e 233). Per quanto riguarda la «forma straordinaria» del Rito Romano, l’Ordo servandus del Messale di Giovanni XXIII stabilisce che il celebrante, rialzatosi dalla prima genuflessione rivolta all’Ostia appena consacrata, «alza l’Ostia in alto e tenendo fissi su di essa gli occhi (cosa che fa anche all’elevazione del Calice), la presenta con riverenza al popolo affinché l’adori» (VIII, 5). Lungi dal rappresentare una degenerazione della fede eucaristica, l’elevazione dell’Ostia e del Calice consacrati fu un vero progresso nella storia della Celebrazione eucaristica, progresso che va salvaguardato e valorizzato mediante l’opportuna catechesi liturgica e il modo corretto di compiere il gesto da parte dei sacerdoti. D’altro canto, sarebbe incomprensibile ai nostri giorni opporsi ad una pratica che permette ai fedeli una maggiore partecipazione attiva ai sacri riti. L’innesto dell’elevazione dell’Ostia e del Calice nel Canone è un segno del fatto che la liturgia della Chiesa non è un oggetto da dissezionare sul tavolo della “sala operatoria” degli esperti, bensì è soggetto vivo della fede e della preghiera ecclesiali: «Purtroppo, forse, anche da noi Pastori ed esperti, la Liturgia è stata colta più come un oggetto da riformare che non come soggetto capace di rinnovare la vita cristiana, dal momento in cui “esiste un legame strettissimo e organico tra il rinnovamento della Liturgia e il rinnovamento di tutta la vita della Chiesa. La Chiesa dalla Liturgia attinge la forza per la vita”» (Benedetto XVI, Discorso nel 50° di fondazione del Pontificio Ateneo Sant’Anselmo, 06.05.2011).

 

GIOVANNI PAOLO II: L’EUCARISTIA APRE AL FUTURO DI DIO

http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/audiences/2000/documents/hf_jp-ii_aud_20001025_it.html

GIOVANNI PAOLO II

UDIENZA GENERALE

MERCOLEDÌ, 25 OTTOBRE 2000 

L’EUCARISTIA APRE AL FUTURO DI DIO 

1. “Nella liturgia terrena noi partecipiamo, pregustandola, a quella celeste” (SC n.8; cfr GS n. 38). Queste parole così limpide ed essenziali del Concilio Vaticano II ci presentano una dimensione fondamentale dell’Eucaristia: il suo essere “futurae gloriae pignus”, pegno della gloria futura, secondo una bella espressione della tradizione cristiana (cfr SC n. 47). “Questo sacramento – osserva san Tommaso d’Aquino – non ci introduce subito nella gloria ma ci dà la forza di giungere alla gloria ed è per questo che è detto «viatico»” (Summa Th. III, 79, 2, ad I). La comunione con Cristo che ora viviamo mentre siamo pellegrini e viandanti nelle strade della storia anticipa l’incontro supremo del giorno in cui “noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è” (1Gv 3,2). Elia, che in cammino nel deserto si accascia privo di forze sotto un ginepro e viene rinvigorito da un pane misterioso fino a raggiungere la vetta dell’incontro con Dio (cfr 1Re 19,1-8), è un tradizionale simbolo dell’itinerario dei fedeli, che nel pane eucaristico trovano la forza per camminare verso la meta luminosa della città santa.
2. È questo anche il senso profondo della manna imbandita da Dio nelle steppe del Sinai, “cibo degli angeli” capace di procurare ogni delizia e soddisfare ogni gusto, manifestazione della dolcezza (di Dio) verso i suoi figli (cfr Sap 16,20-21). Sarà Cristo stesso a far balenare questo significato spirituale della vicenda dell’Esodo. È lui a farci gustare nell’Eucaristia il duplice sapore di cibo del pellegrino e di cibo della pienezza messianica nell’eternità (cfr Is 25,6). Per mutuare un’espressione dedicata alla liturgia sabbatica ebraica, l’Eucaristia è un “assaggio di eternità nel tempo” (A. J. Heschel). Come Cristo è vissuto nella carne permanendo nella gloria di Figlio di Dio, così l’Eucaristia è presenza divina e trascendente, comunione con l’eterno, segno della “compenetrazione tra città terrena e città celeste” (GS n. 40). L’Eucaristia, memoriale della Pasqua di Cristo, è di sua natura apportatrice dell’eterno e dell’infinito nella storia umana.
3. Questo aspetto che apre l’Eucaristia al futuro di Dio, pur lasciandola ancorata alla realtà presente, è illustrato dalle parole che Gesù pronunzia sul calice del vino nell’ultima cena (cfr Lc 22,20; 1Cor 11,25). Marco e Matteo evocano in quelle stesse parole l’alleanza nel sangue dei sacrifici del Sinai (cfr Mc 14,24; Mt 26,28; cfr Es 24,8). Luca e Paolo, invece, rivelano il compimento della “nuova alleanza” annunziata dal profeta Geremia: “Ecco verranno giorni – dice il Signore – nei quali con la casa di Israele e di Giuda io concluderò una nuova alleanza, non come l’alleanza conclusa coi vostri padri” (31,31-32). Gesù, infatti, dichiara: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue”. ‘Nuovo’, nel linguaggio biblico, indica di solito progresso, perfezione definitiva. 
Sono ancora Luca e Paolo a sottolineare che l’Eucaristia è anticipazione dell’orizzonte di luce gloriosa propria del regno di Dio. Prima dell’Ultima Cena Gesù dichiara: “Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione; poiché vi dico: non la mangerò più, finché essa non si compia nel regno di Dio. Preso un calice, rese grazie e disse: Prendetelo e distribuitelo tra voi, poiché vi dico: da questo momento non berrò più del frutto della vite, finché non venga il regno di Dio” (Lc 22,15-18). Anche Paolo ricorda esplicitamente che la cena eucaristica è protesa verso l’ultima venuta del Signore: “Ogni volta che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore finché egli venga” (1Cor 11,26).
4. Il quarto evangelista, Giovanni, esalta questa tensione dell’Eucaristia verso la pienezza del regno di Dio all’interno del celebre discorso sul “pane di vita”, che Gesù tiene nella sinagoga di Cafarnao. Il simbolo da lui assunto come punto di riferimento biblico è, come già s’accennava, quello della manna offerta da Dio a Israele pellegrino nel deserto. A proposito dell’Eucaristia Gesù afferma solennemente: “Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno (…). Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno (…). Questo è il pane disceso dal cielo, non come quello che mangiarono i vostri padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno” (Gv 6,51.54.58). La ‘vita eterna ’, nel linguaggio del quarto vangelo, è la stessa vita divina che oltrepassa le frontiere del tempo. L’Eucaristia, essendo comunione con Cristo, è quindi partecipazione alla vita di Dio che è eterna e vince la morte. Per questo Gesù dichiara: “La volontà di colui che mi ha mandato è che io non perda nulla di quanto mi ha dato, ma lo risusciti nell’ultimo giorno. Perché questa è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno” (Gv 6,39-40).
5. In questa luce – come diceva suggestivamente un teologo russo, Sergej Bulgakov – “la liturgia è il cielo sulla terra”. Per questo nella Lettera Apostolica Dies Domini, riprendendo le parole di Paolo VI, ho esortato i cristiani a non trascurare “questo incontro, questo banchetto che Cristo ci prepara nel suo amore. Che la partecipazione ad esso sia insieme degnissima e gioiosa! È il Cristo, crocifisso e glorificato, che passa in mezzo ai suoi discepoli, per trascinarli insieme nel rinnovamento della sua risurrezione. È il culmine, quaggiù, dell’alleanza d’amore tra Dio e il suo popolo: segno e sorgente di gioia cristiana, tappa per la festa eterna” (Gaudete in Domino, conclusione; Dies Domini 58).

CONFESSARSI, PERCHÈ? (BRUNO FORTE)

http://pastorale.myblog.it/archive/2009/10/01/confessarsi-perche-bruno-forte.html

CONFESSARSI, PERCHÈ? (BRUNO FORTE)

LA RICONCILIAZIONE E LA BELLEZZA DI DIO

01/10/2009

Proviamo a capire insieme che cos’è la confessione:
se lo capisci veramente, con la mente e col cuore,
sentirai il bisogno e la gioia di fare esperienza di questo incontro,
in cui Dio, donandoti il Suo perdono attraverso il ministro della Chiesa,
crea in Te un cuore nuovo, mette in te uno Spirito nuovo,
perché Tu possa vivere un’esistenza ricon­ciliata con Lui, con Te stesso e con gli altri,
divenendo a tua volta capace di perdono e di amore
al di là di ogni tentazione di sfiducia e di ogni misura di stanchezza


1. Perché confessarsi? Fra le domande che vengono poste al mio cuore di Vescovo, ne scelgo una che mi è stata fatta spesso: perché bisogna confessarsi? È una domanda che ritorna in molteplici forme: perché si deve andare da un sacerdote a dire i propri peccati e non lo si può fare direttamente con Dio, che ci conosce e comprende molto meglio di qualunque interlocutore umano? E, ancora più radicalmente: perché parlare delle mie cose, specie di quelle di cui ho vergogna perfino con me stesso, a qualcuno che è peccatore come me, e che forse valuta in modo completamente diverso dal mio ciò di cui ho fatto esperienza o non lo capisce affatto? Che ne sa lui di che cosa è veramente peccato per me? Qualcuno aggiunge: e poi, esiste veramente il peccato, o è solo un’invenzione dei preti per tenerci buoni? A quest’ultima domanda sento di poter rispondere subito e senza timore di smentita: il peccato c’è, e non solo è male, ma fa male. Basta guardare la scena quotidiana del mondo, dove violenze, guerre, ingiustizie, sopraffazioni, egoismi, gelosie e vendette si sprecano (un esempio di questo “bollettino di guerra” ce lo danno ogni giorno le notizie su giornali, radio, televisione e internet!). Chi crede nell’amore di Dio, poi, percepisce come il peccato sia amore ripiegato su se stesso (“amor curvus”, “amore curvo”, dicevano i Medioevali), ingratitudine di chi risponde all’amore con l’indifferenza e il rifiuto. Questo rifiuto ha conseguenze non solo su chi lo vive, ma anche sulla società tutta intera, fino a produrre dei condizionamenti e degli intrecci di egoismi e di violenze che costituiscono delle vere e proprie “strutture di peccato” (si pensi alle ingiustizie sociali, alla sperequazione fra paesi ricchi e paesi poveri, allo scandalo della fame nel mondo…). Proprio per questo non si deve esitare a sottolineare quanto sia grande la tragedia del peccato e quanto la perdita del senso del peccato – ben diverso da quella malattia dell’anima che chiamiamo “senso di colpa” – indebolisca il cuore davanti allo spettacolo del male e alle seduzioni di Satana, l’Avversario che cerca di separarci da Dio.
2. L’esperienza del perdono Nonostante tutto, però, non mi sento di dire che il mondo è cattivo e che fare il bene è inutile. Sono, anzi, convinto che il bene c’è ed è molto più grande del male, che la vita è bella e che vivere rettamente, per amore e con amore, vale veramente la pena. La ragione profonda che mi fa pensare così è l’esperienza della misericordia di Dio, che faccio in me stesso e che vedo risplendere in tante persone umili: è un’esperienza che ho vissuto tante volte, sia dando il perdono come ministro della Chiesa, sia ricevendolo. Sono anni che mi confesso regolarmente, più volte al mese e con la gioia di farlo. La gioia nasce dal sentirmi amato in modo nuovo da Dio ogni volta che il Suo perdono mi raggiunge attraverso il sacerdote che me lo dà in Suo nome. È la gioia che ho visto tanto spesso sul volto di chi veniva a confessarsi: non il futile senso di leggerezza di chi “ha vuotato il sacco” (la confessione non è uno sfogo psicologico né un incontro consolatorio, o non lo è principalmente), ma la pace di sentirsi bene “dentro”, toccati nel cuore da un amore che sana, che viene dall’alto e ci trasforma. Chiedere con convinzione, ricevere con gratitudine e dare con generosità il perdono è sorgente di una pace impagabile: perciò, è giusto ed è bello confessarsi. Vorrei far partecipi delle ragioni di questa gioia tutti coloro che riuscirò a raggiungere con questa lettera.
3. Confessarsi da un sacerdote? Mi chiedi dunque: perché bisogna confessare a un sacerdote i propri peccati e non lo si può fare direttamente a Dio? Certamente, è sempre a Dio che ci si rivolge quando si confessano i propri peccati. Che sia, però, necessario farlo anche davanti a un sacerdote ce lo fa capire Dio stesso: scegliendo di inviare Suo Figlio nella nostra carne, egli dimostra di volerci incontrare mediante un contatto diretto, che passa attraverso i segni e i linguaggi della nostra condizione umana. Come Lui è uscito da sé per amore nostro ed è venuto a “toccarci” con la sua carne, così noi siamo chiamati ad uscire da noi stessi per amore Suo e andare con umiltà e fede da chi può darci il perdono in nome Suo con la parola e col gesto. Solo l’assoluzione dei peccati che il sacerdote ti dà nel sacramento può comunicarti la certezza interiore di essere stato veramente perdonato e accolto dal Padre che è nei cieli, perché Cristo ha affidato al ministero della Chiesa il potere di legare e sciogliere, di escludere e di ammettere nella comunità dell’allean­za (cf. Mt 18,17). È Lui che, risorto dalla morte, ha detto agli Apostoli: “Ricevete lo Spirito Santo; a chi ri­mette­rete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteran­no non rimessi” (Gv 20,22s). Perciò, confessarsi da un sacerdote è tutt’altra cosa che farlo nel segreto del cuore, esposto alle tante insicurezze e ambiguità che riempiono la vita e la storia. Da solo non saprai mai veramente se a toccarti è stata la grazia di Dio o la tua emozione, se a perdonarti sei stato tu o è stato Lui per la via che Lui ha scelto. Assolto da chi il Signore ha scelto e inviato come ministro del perdono, potrai sperimentare la libertà che solo Dio dona e capirai perché confessarsi è fonte di pace.
4. Un Dio vicino alla nostra debolezza La confessione è dunque l’incontro col perdono divino, offertoci in Gesù e trasmessoci mediante il ministero della Chiesa. In questo segno efficace della grazia, appuntamento con la misericordia senza fine, ci viene offerto il volto di un Dio che conosce come nessuno la nostra condizione umana e le si fa vicino con tenerissimo amore. Ce lo dimostrano innumerevoli episodi della vita di Gesù, dall’incontro con la Samaritana alla guarigione del paralitico, dal perdono all’adultera alle lacrime di fronte alla morte dell’amico Lazzaro… Di questa vicinanza tenera e compassionevole di Dio abbiamo immenso bisogno, come dimostra anche un semplice sguardo alla nostra esistenza: ognuno di noi con­vive con la propria debolezza, attraver­sa l’infermità, si affaccia alla morte, avverte la sfida delle domande che tutto questo accende nel cuore. Per quanto, poi, possiamo desiderare di fare il bene, la fragilità che ci caratterizza tutti ci espone conti­nuamente al rischio di cadere nella tentazione. L’Apostolo Paolo ha descritto con precisione questa esperienza: “C’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio” (Rom 7,18s). È il conflitto interiore da cui nasce l’invocazione: “Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?” (Rom 7, 24). Ad essa risponde in modo particolare il sacra­mento del perdono, che viene a soccor­rerci sempre di nuovo nella nostra condi­zione di peccato, rag­giun­gendoci con la po­tenza sanante della grazia divina e trasfor­mando il nostro cuore e i compor­tamenti in cui ci esprimiamo. Perciò, la Chiesa non si stanca di proporci la grazia di questo sacramento durante l’intero cammino della nostra vita: attraverso di essa è Gesù, vero medico cele­ste, che viene a farsi carico dei nostri peccati e ad accompagnarci, con­ti­nuando la sua opera di guari­gione e di salvezza. Come accade per ogni storia d’amore, anche l’alleanza col Signore va rinnovata senza sosta: la fedeltà è l’impegno sempre nuovo del cuore che si dona e accoglie l’amore che gli viene donato, fino al giorno in cui Dio sarà tutto in tutti.
5. Le tappe dell’incontro col perdono Proprio perché desiderato da un Dio profondamente “umano”, l’incontro con la misericordia offertaci da Gesù avviene attraverso varie tappe, che rispettano i tempi della vita e del cuore. All’inizio c’è l’ascol­to della buona novella, in cui ti raggiunge l’appello dell’Amato: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo” (Mc 1,15). Attraverso questa voce è lo Spirito Santo ad agire in te, dandoti dolcezza nel consentire e credere alla Verità. Quando ti rendi docile a questa voce e decidi di rispondere con tutto il cuore a Colui che ti chiama, intraprendi il cammino che ti porta al dono più grande, quel dono tanto prezioso da far dire a Paolo: “Vi sup­plichiamo in nome di Cristo: la­sciatevi riconciliare con Dio” (2 Cor 5,20). La riconciliazione è appunto il sacramento dell’incontro con Cristo, che attraverso il ministero della Chiesa viene a soccorrere la debolezza di chi ha tradito o rifiutato l’alleanza con Dio, lo riconcilia col Padre e con la Chiesa, lo ricrea come creatura nuova nella forza dello Spirito Santo. Questo sacramento è chiamato anche della penitenza, perché in esso si esprime la conversione dell’uo­mo, il cammino del cuore che si pente e viene ad invocare il perdo­no di Dio. Il termine confessione – usato comunemente – si riferisce invece all’atto di confessare le proprie colpe davanti al sacerdote, ma richiama anche la triplice confessione da fare per vivere in pienezza la celebrazione della riconciliazione: la confessione di lode (“confessio laudis”), con cui facciamo memoria dell’amore divino che ci precede e ci accompagna, riconoscendone i segni nella nostra vita e comprendendo meglio in tal modo la gravità della nostra colpa; la confessione del peccato, con la quale presentiamo al Padre il nostro cuore umile e pentito riconoscendo i nostri peccati (“confessio pecca­ti”); la confessione di fede, infine, con cui ci apriamo al perdono che libera e salva, offertoci con l’assoluzione (“confessio fidei”). A loro volta, i gesti e le parole in cui esprimeremo il dono che abbiamo ricevuto confesseranno nella vita le meraviglie operate in noi dalla misericordia di Dio.
6. La festa dell’incontro Nella storia della Chiesa la peni­ten­za è stata vissuta in una grande varietà di forme, comunitarie e individuali, che hanno però tutte mante­nuto la struttura fondamentale dell’incontro personale fra il peccatore pentito e il Dio vivente attraverso la media­zione del ministero del vescovo o del sacerdote. Attraverso le parole dell’assoluzio­ne, pro­nunciate da un uomo peccatore, che però è stato scelto e consacrato per il ministero, è Cristo stesso che accoglie il peccatore pentito e lo riconcilia col Padre e nel dono dello Spirito Santo lo rinnova come mem­bro vivo della Chiesa. Riconciliati con Dio, veniamo accolti nella comunione vivificante della Trinità e riceviamo in noi la vita nuova della grazia, l’amore che solo Dio può effondere nei nostri cuori: il sacra­mento del perdono rinnova, così, il nostro rapporto col Padre, col Figlio e con lo Spirito Santo, nel cui nome ci è data l’assoluzione delle colpe. Come mostra la parabola del Padre e dei due figli, l’incontro della riconciliazione culmina in un banchetto di vivande saporite, cui si partecipa col vestito nuovo, l’anello e i calzari ai piedi (cf. Lc 15,22s): immagini che esprimono tutte la gioia e la bellezza del dono offerto e ricevuto. Veramente, per usare le parole del Padre della parabola, “bisogna far festa e rallegrarsi, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato” (Lc 15,24). Come è bello pensare che quel figlio può essere ognuno di noi!
7. Il ritorno alla casa del Padre In rapporto a Dio Padre la peni­ten­za si presenta come un “ritorno a casa” (questo è propriamente il senso della parola “teshuvà”, che l’ebraico usa per dire “conversione”). Attraverso la presa di co­scien­za delle tue colpe, ti accorgi di essere in esilio, lontano dalla patria dell’amore: avverti disagio, dolore, perché capisci che la colpa è una rottura dell’alleanza col Signore, un rifiuto del Suo amore, è “amore non amato”, e proprio così è anche sorgente di alie­nazione, perché il peccato ci sradica dalla nostra vera dimora, il cuore del Padre. È allora che occorre ricordarci della casa dove siamo attesi: senza questa memoria dell’amore non potremmo mai avere la fiducia e la speranza necessarie a prendere la decisione di tornare a Dio. Con l’umiltà di chi sa di non essere degno di venir chiamato “figlio”, possiamo deciderci di andare a bussare alla porta della casa del Padre: quale sorpresa scoprire che lui è alla finestra a scrutare l’orizzonte, perché aspetta da tanto il nostro ritorno! Alle nostre mani aperte, al cuore umile e pentito risponde la gratuita offerta del perdo­no, con cui il Padre ci riconcilia con sé, “convertendosi” in qualche modo a noi: “Quando era ancora lontano il padre lo vide e commosso gli corse incon­tro, gli si gettò al collo e lo baciò” (Lc 15,20). Con straordinaria tenerezza Dio ci introduce in modo rinnovato nella condizione di figli, offerta dall’alleanza stabilita in Gesù.
8. L’incontro con Cristo, morto e risorto per noi In rapporto al Figlio il sacra­men­to della riconciliazione ci offre la gioia dell’incontro con Lui, il Signore crocifisso e risorto, che attraverso la Sua Pasqua ci dona la vita nuova infondendo il Suo Spirito nei nostri cuori. Questo incontro si compie attraverso l’itinerario che porta ognuno di noi a confessare le nostre colpe con umiltà e dolore dei peccati e a ricevere con gratitudine piena di stupore il perdono. Uniti a Gesù nella Sua morte di Croce, moriamo al peccato e all’uomo vecchio che in esso ha trionfato. Il Suo sangue sparso per noi ci riconcilia con Dio e con gli altri, abbattendo il muro dell’inimicizia che ci teneva prigionieri della nostra solitudine senza speranza e senza amore. La forza della Sua resurrezione ci raggiunge e trasforma: il Risorto ci tocca il cuore, lo fa ardere in noi di una fede nuova, che schiude i nostri occhi e ci rende capaci di riconoscere Lui accanto a noi e la Sua voce in chi ha bisogno di noi. Tutta la nostra esistenza di peccatori, unita a Cristo crocifisso e risorto, si offre alla misericordia di Dio per essere sanata dall’angoscia, liberata dal peso della colpa, confermata nei doni di Dio e rinno­vata nella potenza del Suo amore vittorioso. Liberati dal Signore Gesù, siamo chiamati a vivere come Lui nella libertà dalla paura, dalla colpa e dalle seduzioni del male, per compiere opere di verità, di giustizia e di pace.
9. La vita nuova nello Spirito Grazie al dono dello Spirito che effonde in noi l’amore di Dio (cf. Rm 5,5), il sacramento della riconciliazione è sorgente di vita nuova, comunione rinnovata con Dio e con la Chiesa, di cui proprio lo Spirito è l’anima e la forza di coesione. È lo Spirito a spingere il peccatore perdonato a esprimere nella vita la pace ricevuta, ac­cettando anzitutto le conseguenze della colpa com­messa, e cioè la cosiddetta “pena”, che è come l’effetto della malattia rappresentata dal peccato e va considerata come una ferita da sanare con l’olio della grazia e la pazienza dell’amore da avere verso noi stessi. Lo Spirito, poi, ci aiuta a maturare il proposito fermo di vivere un cammino di conversione fatto di impegni concreti di carità e di preghiera: il segno penitenziale richiesto dal confessore serve appunto ad esprimere questa scelta. La vita nuova, a cui così rinasciamo, può dimostrare più di ogni altra cosa la bellezza e la forza del perdono sempre di nuovo invocato e ricevuto (“perdono” vuol dire appunto dono rinnovato: perdonare è donare all’infinito!). Ti chiedo, allora: perché fare a meno di un dono così gran­de? Accostati alla confes­sione con cuore umile e contrito e vivila con fede: ti cambierà la vita e darà pace al tuo cuore. Allora, i tuoi occhi si apriranno per riconoscere i segni della bellezza di Dio presenti nel creato e nella storia e ti sgorgherà dall’anima il canto della lode. Ed anche a te, sacerdote che mi leggi e come me sei ministro del perdono, vorrei rivolgere un invito che mi nasce dal cuore: sii sempre pronto – a tempo e fuori tempo – ad annunciare a tutti la misericordia e a dare a chi te lo chiede il perdono di cui ha bisogno per vivere e per morire. Per quella persona potrebbe trattarsi dell’ora di Dio nella sua vita!
10. Lasciamoci riconciliare con Dio! L’invito dell’Apostolo Paolo diventa, così, anche il mio: lo esprimo servendomi di due voci diverse. La prima è quella di Friedrich Nietzsche, che negli anni della giovinezza scrive queste parole appassionate, segno del bisogno della misericordia divina che tutti ci portiamo dentro: “Ancora una volta, prima di partire e volgere i miei sguardi verso l’alto, rimasto solo, levo le mie mani a Te, presso cui mi rifugio, cui dal profondo del cuore ho consacrato altari, affinché ogni ora la voce Tua mi torni a chiamare… ConoscerTi io voglio, Te, l’Ignoto, che a fondo mi penetri nell’anima e come tempesta squassi la mia vita, inafferrabile eppure a me affine! ConoscerTi, io voglio, e anche servirTi” (Scritti giovanili, I, 1, Milano 1998, 388). L’altra voce è quella attribuita a Francesco d’Assisi, che esprime la verità di una vita rinnovata dalla grazia del perdono: “Signore, fa’ di me uno strumento della Tua pace. Dove è odio, che io porti l’amore. Dov’è offesa, che io porti il perdono. Dov’è discordia, che io porti l’unione. Dov’è errore, che io porti la verità. Dov’è dubbio, che io porti la fede. Dov’è disperazione, che io porti la speranza. Dove sono tenebre, che io porti la luce. Dov’è tristezza, che io porti la gioia. Maestro, fa’ che io non cerchi tanto di essere consolato quanto di consolare, di essere compreso quanto di comprendere, di essere amato quanto di amare”. Sono questi i frutti della riconciliazione, invocata ed accolta da Dio, che auguro a tutti Voi che mi leggete. Con questo augurio, che diventa preghiera, Vi abbraccio e benedico uno per uno

+ Bruno, Vostro Padre nella fede
Per l’esame di coscienza

Publié dans:Bruno Forte, liturgia, LITURGIA: SACRAMENTI |on 17 septembre, 2013 |Pas de commentaires »

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