Archive pour la catégorie 'letteratura'

Leopardi e il destino (Divo Barsotti)

dal sito:

http://www.figlididio.it/meditazioni/indicepentecoste.htm

Leopardi e il destino

Firenze (5 luglio 1970)

In Leopardi il dolore non nasce solo dalla fine delle illusioni. Il dolore ha una radice religiosa: l’uomo
cerca disperatamente un suo partner che non può che essere fuori dal mondo mutevole.
«S’avessi io l’ale»

Leopardi si rivela con una semplicità e candore ammirabile nell’epistolario (lett. 824, 931). Nelle sue lettere, specialmente al padre, si spoglia di ogni veste letteraria e lascia parlare il suo cuore con un linguaggio di pura umiltà. Sono le lettere che più direttamente ci dicono la sua esperienza di pena. Quale è stato il rapporto tra il suo dolore e la visione che egli ebbe della infelicità universale? La sua poesia altissima è insieme testimonianza della sua pena e visione della universale infelicità: dalla poesia è così possibile riconoscere l’intimo rapporto tra l’esperienza e il pensiero. I Canti rimangono espressione di questa profonda unità. Nell’epistolario il poeta ci apre candidamente il suo cuore, nelle Operette morali, se non crea un vero sistema filosofico, ci vuol dare sicuramente il suo pensiero.
È indubbio che le Operette morali sono l’espressione più elaborata del pensiero del poeta. Come iniziano con un testo religioso, così avrebbero dovuto avere il loro compimento con un testo che ha tutta la solennità di un testo ispirato. Queste due operette possono rivelarci il nucleo centrale del pensiero leopardiano riguardo al tema fondamentale del dolore. All’inizio è la Storia del genere umano, alla fine Il canto del gallo silvestre. Sembra che il pensiero del poeta sia ondeggiante, tuttavia vi è una coerenza profonda in questo suo ondeggiamento medesimo. Vi è una fedeltà nel dubbio, ma anche una fedeltà nel proclama re quella che è la sua verità. E la verità fondamentale rimane, nel Leopardi, il dolore: «Arcano è tutto fuor che il nostro dolor» egli afferma nell’Ultimo canto di Saffo. Perché il dolore invece della gioia? Il poeta ne dà la colpa all’età vile nella quale si è trovato a vivere. È in opposizione al costume del tempo che egli dunque è infelice. Non si dà per lui ora altra scelta: «O codardi o infelici» (cfr. Per le nozze di Paolina). Nella sua prima giovinezza animata da «eroici furori» aveva preteso di risvegliare da solo un popolo schiavo; lo aveva esaltato la volontà dell’impresa, la visione di una gloria che avrebbe potuto conseguire, ma non ci volle molto perché egli stesso si risvegliasse dal suo sogno di gloria. Cadeva la prima illusione: doveva vivere in un mondo meschino, e vi sarebbe rimasto e sentito sempre un estraneo: sarebbe stato suo destino la solitudine. Del resto, anche se avesse conseguito la gloria, cos’era la gloria? Della potenza, della grandezza di Roma che rimaneva? Solo il canto di un carrettiere rompeva ora il silenzio della notte. Tutto, tutto sarebbe affondato nel nulla: così l’eroismo, oltre che impossibile, era inutile. Cercò allora il poeta rifugio nella natura. Crede che del male non fosse causa il grigiore dell’età, ma il progresso, la civiltà stessa che distaccava l’uomo dalla natura. L’integrazione dell’uomo con la natura era stato l’ideale della Grecia più antica: in quella età remota, l’uomo viveva una comunione col tutto, viveva in compagnia degli dei. Poteva l’uomo rinnovare questa alleanza? Leopardi sentì viva la nostalgia della Grecia, ma, a differenza del suo grande fratello, Hoelderlin, egli sentì irrevocabile il passato. Visse allora la natura ed era amica dell’uomo, ma il ricordo di questa età remota faceva ora più grande l’infelicità dell’uomo che si sentiva straniero. Cadevano una dopo l’altra tutte le illusioni che potevano far bella e desiderabile la vita, e il poeta si sentiva sempre più solo. Rimaneva una illusione e, come aveva scritto nella Storia del genere umano, questa illusione lo accompagnerà per tutta la vita, sorgente di ineffabili vagheggiamenti e di desolati risvegli: l’amore. Tutta la poesia del Leopardi canta l’amore. È vero che gli è sempre negato, ma in lui continuamente risorge. Neppure si è accorta di lui la cugina, la prima che lo fece palpitare di amore. Poi, la sua deformità fisica gli fece comprendere che, sì, egli poteva amare, ma non sarebbe stato mai amato. Così nell’Ultimo canto di Saffo, ma più vivo e personale è lo schianto ne La sera del dì di festa: «Non io, non già ch’io speri, / al pensier ti ricorro. Intanto io chieggio / quanto a viver mi resta, e qui per terra / mi getto e grido e fremo». A distanza di anni, nella dolcezza del ricordo riaffiorano le immagini di Silvia, di Nerina, fanciulle segretamente amate. La loro morte segna per lui la fine della giovinezza e, con questa, la fine della speranza. Non rimane al poeta che la morte. Eppure no, l’amore sembra immortale. Risorge la vita. Nell’opera del poeta solitario, unico è l’inno che canta l’amore. È l’amore che trionfa di ogni pena, l’amore che solleva a felicità «nuova» il poeta. Da tanta esaltazione, è proprio l’amore che, respinto e schernito, precipita il poeta nella più cupa e nera disperazione. Anche questa illusione l’abbandona. Quasi epigrafe sepolcrale nella sua brevità, conclude la parabola la poesia A se stesso. Il dolore non nasce solo dalla fine delle illusioni, più fonda è la sua radice. Non è frutto e conseguenza di qualcosa, dal momento che è all’origine di tutto: la vita stessa è dolore. Invano cerca il poeta un altro contenuto, una ragione alla vita. Dalla infelicità sua egli passa al riconoscimento di una infelicità universale, al dolore del mondo, al dolore di ogni essere creato. Ogni uomo tende a divenire la coscienza del mondo. Leopardi diviene il poeta del dolore universale. L’alta poesia delle Operette morali più direttamente si libera da ogni riferimento alla sua persona, tranne nell’ultima, che fu composta dopo vari anni; vuole essere una lucida e fredda accusa alla presunzione umana, alla viltà dell’uomo che rifiuta di vedere; ed è visione grandiosa e apocalittica della comune infelicità. Questa rimane per il poeta la verità unica e suprema. Se non vogliamo soltanto scorrere i suoi scritti, ma cercar di capire quale sia la posizione del poeta rispetto al suo tempo e che cosa può dirci oggi, se più profondamente vogliamo determinare il valore oggettivo del suo pensiero e come egli è potuto giungere a questa visione, s’impone che ci arrestiamo senza richiamare anche solo indirettamente i testi, – che sono innumerevoli, e appartengono ai Canti, alle Operette morali, allo Zibaldone. Il poeta ha voluto prima di tutto conciliare il suo pensiero col cristianesimo. A differenza di Hoelderlin, egli ben presto si è reso conto della crisi profonda della Grecia. Se Leopardi è discepolo dei greci, egli tuttavia è stato soprattutto segnato dalla crisi che la grecità conobbe nell’età dei sofisti. Egli non poteva credere agli dei dell’Olimpo; ogni sua integrazione con la natura gli era impossibile: egli sentiva di non essere soltanto un elemento della natura. Poteva sentire, sì, ed era questo uno dei motivi più forti della sua angoscia, che la natura aveva ogni potere sull’uomo. Sentiva che il tempo e la vastità sconfinata dell’universo, annullavano l’uomo, eppure l’uomo trascendeva, nel suo spirito, la natura. Il pensiero dei tragici greci gli aveva insegnato che l’uomo, nonostante la sua grandezza, non può nulla contro il fato e la natura, è senza difese contro un potere cieco che lo distrugge. Il cristianesimo nulla aveva cambiato, ma aveva aiutato l’uomo a superare l’angoscia col rinnovare le illusioni delle antiche età. Finché l’uomo ha creduto, non ha conosciuto l’angoscia: il cristianesimo ha saputo dare all’umanità, con una nuova fede, una nuova giovinezza. Ma la fede cristiana non aveva maggiore fondamento, secondo il poeta, delle favole antiche. Come gli antichi avevano creduto che scendevano fra i mortali gli dei dell’Olimpo (Alla primavera…), così ora. Al mito pagano si sostituiva il mito cristiano. La pena era, nella morte degli dei, il vuoto della creazione, il non-senso di tutto, il riconoscimento che «unico obietto» dell’esistenza era la morte. Il poeta vive la tragicità di una vita che gli appare vuota ed assurda. Più del dolore diveniva insopportabile la noia. Anche il dolore poteva essere un diversivo, ma dalla noia nulla poteva liberarlo. Ai vertici di ogni sua poesia, perché espressione suprema dell’umana infelicità, il Canto notturno di un pastore errante nell’Asia, chiedeva inutilmente un perché della vita, delle cose, del mondo. L’amore sembrava dare un fine alla vita, dal momento che per l’amore a questa infelice scena del mondo sorride all’uomo in vista di paradiso» (La vita solitaria). È certo significativo che il poeta, quando canta l’amore, usi inevitabilmente un linguaggio religioso, e inno divenga la sua poesia. Addirittura forse non si ritrova nella letteratura italiana un linguaggio così alto, così ispirato, così religioso come il canto Alla sua donna e Il pensiero dominante. E, certo, l’amore era la suprema illusione, e forse avrebbe potuto accompagnare l’uomo fino alla morte, ma l’uomo cercava disperatamente un suo partner senza trovarlo. Il partner dell’uomo non poteva essere che fuori di un mondo mutevole, di un mondo nel quale l’uomo si sentiva prigioniero: «Forse s’avess’io l’ale… ». Il dolore del poeta aveva un fondamento metafisico. L’uomo è straniero nel mondo: desideri immensi lo agitano, lo ispirano pensieri sublimi, ma tutto nella vita è disinganno. La vita non offriva nulla di quanto aveva promesso e l’uomo aveva potuto sperare. Si può pensare che se avesse conosciuto l’amore, il poeta avrebbe vinto la pena? Di fatto egli stesso aveva detto che questa illusione può accompagnare l’uomo fino alla morte, ma rimaneva illusione. Nonostante tutto, egli chiedeva e voleva di più dalla vita, pretendeva che la vita avesse un senso, una ragione. Non credeva al progresso, non credeva che l’uomo avrebbe potuto vincere mai la natura nella sua bruta necessità, nel suo potere di distruzione. Nonostante che invocasse la morte, perché intollerabile gli era la vita, non poteva accettare che la morte fosse «l’unico obietto» della vita. Il desiderio di morire non era in lui che rifiuto della vita, perché la vita era peggiore della morte. Chi avrebbe potuto dare un senso alla vita? Se nulla, nessuno vi è al di là della natura- e la natura è dio – allora l’uomo diviene incomprensibile. Come la natura può aver prodotto lo spirito? L’uomo di fatto si sente, ed è, della natura più grande. Come la natura, che è necessità senza ragione, avrebbe potuto dare una ragione alla vita? Unico, in un mondo cieco e muto, l’uomo soltanto conosce: può avere una ragione a quanto egli fa, non può dare un senso a se stesso. Ma se la natura non è dio, allora una divinità malvagia, intesa soltanto al male, «a comune danno impera». L’uomo diviene rivolta disperata e impotente. Potrebbe lo sforzo dell’uomo, inteso a debellare questo potere occulto, avere successo? Nella Ginestra il poeta si fa banditore ed apostolo di questo proposito. L’unione degli uomini postulata da lui ha qualche accento cristiano, il fine di questa unione sembra invece satanico. In questo proposito il poeta è l’uomo di un tempo che aveva già conosciuto la ribellione prometeica. Tuttavia Leopardi non è così ingenuo da credere che anche la coalizione di tutti possa cangiare la sorte degli uomini. Al fondo di tutto vi è in lui una immensa pietà per gli uomini condannati irrimediabilmente al dolore, alla infelicità. Nel Canto del gallo silvestre il poeta contempla l’immancabile fine dell’universo e dice che prima che sia svelata la ragione del tutto, l’universo medesimo si dissolverà, ritornerà nel nulla. Rimane, e rimarrà sempre, il mistero. L’uomo sarà solo sino alla fine. Alle sue domande nessuno risponderà. Al contrario di integrarsi come parte di un tutto in una natura amica, il poeta si sentirà sempre più un estraneo e la natura indifferente e ostile. Sempre più si allontanerà dagli uomini, frivoli e vuoti. Arido diverrà il suo cuore; il suo linguaggio, amaro. Dirà a se stesso: «Non val cosa nessuna / moti tuoi». Egli ha conosciuto qualcosa di più terribile del dolore. Vi è nell’esperienza del poeta la testimonianza di quanto paventava Nietzsche per gli uomini quando si accorgeranno che Dio per loro è morto. Senza Dio l’uomo vive già l’infelicità del dannato, una infelicità senza lenimento. Certo, non è stato pacifico nel poeta il rifiuto della fede cristiana, potrà persino affermare al padre di non essere stato mai irreligioso, e sempre risorgente sarà in lui il dubbio della vita futura; tuttavia l’incapacità di affidarsi alla fede è veramente all’origine della sua infelicità. Si ha quasi l’impressione che la sua bestemmia volesse provocare Dio a uscire dal silenzio. Dio e nessun altro poteva infatti essere il vero partner dell’uomo. Leopardi anticipa il pensiero di alcuni celebri filosofi contemporanei; il suo pensiero che nasce da un’esperienza profonda di pena è ben altrimenti vivo. Il poeta meglio assai di quei filosofi ci insegna l’origine religiosa del dolore. La donna gli avrebbe forse dato una momentanea ebbrezza, ma non avrebbe saputo rispondere alla domanda più fonda del suo spirito, e nello spirito era la sorgente della sua infelicità. Il cammino del pastore nella notte fu il cammino del poeta. L’uomo fatto per Iddio in Dio solo può trovare riposo. La tragica esperienza del poeta è una riprova della verità delle parole di Agostino. Come in Dio è la beatitudine dell’uomo così nell’assenza di Dio è la sua infelicità.

U.S.F.P.V.

Divo Barsotti

Publié dans:letteratura |on 22 novembre, 2010 |Pas de commentaires »

Presenza biblica nella poesia e cultura di Leopardi

dal sito:

http://www.gesuiti.it/moscati/Ital2/Leopardi_Bortone.html

Presenza biblica nella poesia e cultura di Leopardi

Giuseppe Bortone s.j.

[Articolo pubblicato sui nn.2 e 3 del Gesù Nuovo, 2006]

1.1 – Introduzione

Nel 1998 è stato festeggiato il bicentenario della nascita di Leopardi, il lirico, universale cantore dell’Io profondo, l’appassionato Giobbe della poesia italiana, come l’hanno definito Gioberti, De Sanctis e Carducci. Leopardi è stato studiato in tutti i suoi aspetti: la poesia, gli scritti, la personalità, ecc. In un saggio sintetico voglio delineare le varie ipotesi prospettate dagli studiosi e da me sul tipo di religiosità che si annidava nel suo animo e sulla presenza rilevante della Bibbia nella cultura, nella poesia e nella sua formazione umano-religiosa. Leopardi era un uomo esasperato dal dolore e dall’ultrarigorismo della madre, ma anche teso verso quegli « interminati spazi » in cui gli era dolce « naufragare ».
Il presente saggio, come risulta dal titolo, si compone di due parti, apparentemente slegate ma intrecciate fra loro: difatti la lettura impegnata della Bibbia, le molteplici pagine in cui si percepisce il suo legame con il Cristianesimo, prima e dopo il 1816, e insieme le svariate dichiarazioni di anticristianesimo, fanno sorgere il problema sul tipo di cristianesimo, di religiosità, presenti nella vita e nelle opere di Giacomo Leopardi.
Al di là del periodo 1798-1816, in cui vi è accordo fra pratica cristiana ed opere scritte, nel periodo successivo si nota un contrasto, a volte stridente, fra vita privata e pensiero ufficiale: si pensi alle Operette Morali, alla Ginestra, etc. Il problema sarà affrontato nella seconda parte, con il confronto tra le varie prospettive.
Purtroppo nella Critica e Saggistica italiana l’aspetto biblico è stato glissato per molto tempo, in forza della scomparsa secolare della Bibbia dal popolo cristiano e dalla cultura ufficiale italiana. Interessante a questo proposito il volume di Gigliola Fragnito, La Bibbia al rogo, edito dal Mulino, Bologna. Su un piano più divulgativo si pone l’articolo di Ranieri Polese apparso sul Corriere della Sera del 5-3-1998, dove si riferiscono alcune osservazioni del prof. Carlo Ossola, docente di Letteratura Italiana presso l’Università di Torino. Secondo Ossola l’assenza della Bibbia, dopo il Concilio Tridentino, ha prodotto « un generale impoverimento culturale » sia nella religiosità popolare sia nella stessa Letteratura italiana.
Per esempio gli stessi Promessi Sposi, alta espressione della visione cristiana, sono impregnati di Morale cattolica, di Provvidenza, di frati, di vescovi, di santi, di filosofia, di cultura classica, ma riecheggiano poco o niente la Bibbia. Un’eccezione si verifica negli Inni Sacri dello stesso Manzoni: ma lì la presenza biblica si giustifica con l’atmo-sfera liturgica in cui essi sono immersi.
Invece la diretta presenza biblica si realizza nella Letteratura novecentesca, per l’ampio sviluppo degli studi biblici di questo secolo: si pensi a Rebora, Papini, Ungaretti, Mario Luzi, Betocchi, Diego Fabbri, Testori (Interrogatorio a Maria, Factum est…), ai registi Rossellini (Gli Atti degli Apostoli), Pasolini (Il Vangelo secondo Matteo), Olmi (Genesi).
Anche nella Saggistica emerge l’interesse per la Bibbia: accanto all’impostazione sociologica di Asor Rosa (Scrittori e Popolo), si pongono volumi di ben altro taglio: Auerbach con la dottrina del « Figuralismo » derivata dalla Bibbia, Cacciari (Trattato sugli Angeli), Guido Ceronetti ed Erri De Luca con le loro traduzioni bibliche, l’esimio prof. Carlo Bo, Divo Barsotti (La Religione di Giacomo Leopardi) etc.
Ossola giunge a questa conclusione: « I lettori oggi cercano la Bibbia, perché essa presenta ragioni di vita e di morte, modi di abitare e di rifiutare il mondo; s’interroga con « Giobbe » sui grandi temi dell’esistenza ed esprime la sua sete di unione, armonia, attraverso il « Cantico dei Cantici ».
Una grande eccezione all’assenza biblica nella Letteratura dell’800 è costituita da Leopardi, che leggeva la Bibbia in ebraico e greco e la riecheggiava, sia pure a volte adulterandola, nei suoi scritti: dallo Zibaldone ai Canti, alle Operette Morali.
Ecco alcuni esempi di distorsione biblica in Leopardi: egli mutua il « Vanitas Vanitatum et omnia Vanitas » del Qohelet, ma tace sul punto fermo proclamato dall’Ecclesiaste: Dio. Invece il Kempis ha capito l’insieme dell’opera e l’ha sintetizzato nel celebre aforisma: « Vanitas Vanitatum et omnia Vanitas, praeter amare Deum et illi soli servire » (De Imitatione Christi I,1).
Ugualmente Leopardi dà continuo risalto alle domande angoscianti di Giobbe, ma riferisce poco o niente delle risposte di Dio (Giobbe 38-41) e soprattutto tace l’intervento provvidenziale di Dio, con cui si conclude il libro.
Allo stesso modo non si capisce bene il senso dato a Giovanni 3,19, posto come esergo alla Ginestra. Su questa linea va rilevato un altro abbaglio: usa l’opposizione radicale di S.Giovanni evangelista tra Cristo ed il mondo, per maledire la società, la storia civile, il mondo e gli uomini, pur sentendosi cristiano. Ma S.Giovanni usa la parola « mondo » come equivalente di « male morale, corruzione, peccato »: invece Leopardi usa « mondo » come equivalente di « società, storia, uomini » (cfr Zibaldone 112 e Pensiero LXXXIV).
Nei nn. 432-33 dello Zibaldone, stravolgendo a mio parere la narrazione genesiaca sul peccato originale, ne deduce che il Cristianesimo mortifica la ragione. Leopardi effettua un altro stravolgimento nell’interpretazione della parabola degli operai, chiamati nelle varie ore della giornata (Matteo 20,1 ss.).
Le sue riflessioni sono inesatte, perché egli non inquadra la parabola nel versetto del cap.19 (cfr Zibaldone 1201): « Molti dei primi saranno ultimi e gli ultimi i primi » (Matteo 19,30). Ed ecco il brano di Leopardi: « Perché la parzialità è sempre odiosa e intollerabile, quando anche colui che favorisce o benefica alcuno più degli altri, non tolga niente agli altri del loro dovuto, […] né li disfavorisca in alcun modo? Per l’odio naturale dell’uomo verso l’uomo, inseparabile dall’amor proprio. E vedi in questo proposito la parabola del padre di famiglia e degli operai del Vangelo (Matteo 20, ss) » (1).
A volte, come osserva il Timpanaro in Classicismo e Illuminismo nell’800 italiano (p.210), Leopardi interpreta in modo irrazionalistico il Cristianesimo: cfr Zibaldone 2481-2482 e 2456-2457, dove si addebita al Cristianesimo l’abbassamento della morale umana, perché prospetta ideali troppo elevati (Giacomo Leopardi: il problema delle fonti,a cura di Frattini, p.48).
È triste che un genio così elevato emetta simili giudizi piuttosto strani; v’è però una spiegazione possibile: l’enorme valanga di dolori fisici e psicologici abbattutasi su di lui e l’incarnazione di un becero Cristianesimo ultrarigorista in sua madre (Zibaldone 353-356).
Chiusa questa necessaria digressione, « ad inceptum redeo » (Sallustio). Divo Barsotti, nel volume La religione di Leopardi (ed. Morcelliana, Brescia), dedica l’intero capitolo 14 al rapporto tra Bibbia e Leopardi, sottolineando la vasta presenza nella sua opera di Giobbe e Qohelet, attribuito da Leopardi a Salomone. Ugualmente ritorna la Genesi nella « Storia del genere umano », primo dialogo delle Operette Morali e nell’Inno ai Patriarchi del luglio 1822.
Del 1990 è il volume G.Leopardi: il problema delle fonti, ed. Coletti, a cura del prof. Frattini: qui il saggio del Casoli è dedicato alle fonti bibliche. Nel 1998 è uscito il volume di Niccoli-Salvarani: In difesa di Giobbe e Salomone. Leopardi e la Bibbia, ed. Diabasis, Reggio Emilia, recensito da Elena Loewenthal sul « Sole 24ore » del 26-6-1998.
La rivista « Humanitas », ed. Morcelliana, ha dedicato due numeri al centenario leopardiano con vari saggi: al rapporto Leopardi-Giobbe e Leopardi-Qohelet sono dedicati i due saggi del prof. Moretto e di Roberto Gatti. Del 1975 è il volume di G.Casoli: Dio in Leopardi. Ateismo o Nostalgia del divino?, ripubblicato nel 1988 da Città Nuova-Editrice.
Sulla rivista Il Regno-Attualità del 15-9-98, Alessandra Dioriti pubblica il saggio « Per questa valle », dove sfiora l’argomento. Non ne riesco a condividere la conclusione secondo cui Leopardi assumerebbe una posizione radicalmente negativa verso Dio, l’al di là e il Cristianesimo. Basterebbe leggere l’Epistolario del periodo napoletano ed i documenti sulla sua morte, per assumere posizioni più sanamente problematiche e meno assiomatiche.
Un’altra interessante e critica pubblicazione sul Cristianesimo di Leopardi ed il suo rapporto con la Bibbia è l’opera di Antimo Negri, ordinario di Storia della filosofia a Tor Vergata, Roma. L’opera s’intitola: Leopardi: un’esperienza cristiana. Qui l’ampio capitolo II è dedicato alla presenza biblica nelle prime opere, nei Canti, nelle Operette Morali, nello Zibaldone e in varie poesie giovanili, come Per il giorno delle ceneri, Per il Santo Natale, Il Diluvio Universale, Appressamento della morte del 1816; infine nel Trionfo della Verità, con richiamo al I libro dei Re, cap.18, dove si narra la vittoria di Elia sui profeti di Baal.

3. 1 – Bibbia e opere bibliche nella biblioteca di Leopardi

Leopardi tratta in vari punti dello Zibaldone il tema dell’imitazione: nei nn. 3 e 6 afferma che il diletto delle Belle Arti non è dato dal Bello ma dall’imitazione, anche se questa è difficile (n. 8); la facoltà imitativa è una delle principali dell’ingegno umano (nn. 1364-1365): tuttavia l’imitazione non deve uccidere l’originalità dell’artista che s’ispira e perciò, se questi vuol creare una nobile letteratura nazionale, il testo letto ed ammirato dev’essere incarnato, conformato al luogo, al tempo, alle persone cui l’artista imitatore s’indirizza (nn. 3463-64).
Fra le opere imitate dal Recanatese occupa un posto rilevante la Bibbia, anche se a volte è adattata al proprio pensiero, stato d’animo o ribellione interna: ma questo fa parte della sua teoria sulla libera imitazione, come si è detto.
Leopardi da giovane studia ebraico e greco, legge la Bibbia in ebraico, in greco, in latino. Nella sua biblioteca vi è la Bibbia poliglotta (Londra 1657); vi è la Bibbia latino-francese di Liegi, 1701; vi sono diverse traduzioni in ebraico della Bibbia dal secolo XVI al XVIII; vi sono varie edizioni della Vulgata con le revisioni di Sisto V e Clemente VIII. Vi sono studi sulla Bibbia: da L’istoria santa dell’Antico Testamento del Granelli (Venezia 1792) alle Regole per intendere le Sacre Scritture di Jean Guet (Padova 1738).
Si ritrovano opere letterarie ispirate alla Bibbia: Il Paradiso perduto di Milton, il Messias di Klopstock; da questi letterati impara a gustare il sapore omerico della Bibbia, che lo avrebbe indotto a scrivere nei nn. 3543 e 1028 dello Zibaldone: « Nella Bibbia bisogna considerare l’immaginazione orientale e l’immaginazione antichissima e la straordinaria forza (poetica) che sprigiona dai Salmi, dal Cantico, dai Profeti » o « La Bibbia e Omero sono i due gran fonti dello scrivere, così Dante nell’italiano » (A. Negri, op. cit. pp. 46-49).
Un esempio concreto che realizza la teoria leopardiana dell’imitazione è la poesia Imitazione, in cui il poeta traduce la nota composizione La Feuille di Antonio Arnault (cfr. Leopardi, Canti, a cura di Fubini, pp. 257-58). A questo tipo di impostazione mi sembra ispirarsi Quasimodo, nella sua traduzione dei lirici greci e latini.
Dal numero 395 al 401 Leopardi disquisisce ampiamente sui primi capitoli della Genesi e in particolare sul « Peccato Originale », affermando che esso consiste nell’uso eccessivo della ragione: l’uomo non seppe contentarsi delle cognizioni raggiungibili con la mente propria e la Rivelazione, ma volle superare ogni limite, nell’intento di apprendere tutta la scienza del bene e del male, anzi apprenderla solo con la ragione; da ciò Leopardi deriva che la ragione e la scienza sono fonti di infelicità. In questo modo egli si oppone all’Illuminismo, che riponeva una fiducia totale nella ragione e nella scienza. Come si vede Leopardi non solo legge la Bibbia, ma ne disquisisce con interessanti meditazioni.
Nei nn. 132, 881-82, 920, 1230, 1441-44, 1637, 1639, 1710-11, 2627, 3342, ragiona sugli Ebrei, sul Popolo eletto da cui nasce la Bibbia: tra l’altro sottolinea il loro spirito di casta, l’intreccio tra politica e religione e la loro frequente opposizione agli stranieri. Nel contesto di queste affermazioni generali, Leopardi annota le sue riflessioni particolari sui vari libri biblici che legge: sul piano stilistico e concettuale.
Con questo metodo nei nn. 433-35 e 2939-2941 disquisisce sulla Genesi con lo stravolgimento di cui ho parlato prima. Però fa giustamente notare che la tradizione sul peccato di origine e conseguente decadenza dell’uomo si ritrova anche presso altri popoli. Noi oggi possiamo confermare pienamente questa intuizione leopardiana, comparando la Genesi e il poema « Ghilgamesh ».
Nei nn. 507 e 3343 stila i suoi giudizi su Giobbe, rilevando il suo sfogo, quasi la sua bestemmia contro Dio, contro la propria esistenza, perché esasperato dal dolore e sottolineando l’abbandono da parte di amici e familiari, perché colpito da Dio anche nella sua persona fisica: ciò supponeva una sua colpevolezza.
Ecco il brano leopardiano: « Una malattia, un naufragio, oltre tali disgrazie provenienti più dirittamente dalla natura erano segni più che mai certi dell’odio divino. [...] Qua si deve riferire l’infamia pubblica in cui erano i lebbrosi appresso gli Ebrei… Gli amici e la moglie di Giobbe lo stimarono uno scellerato, com’ei lo videro percosso da tante disgrazie, benché testimoni dell’innocenza della passata sua vita. I Barbari dell’isola di Malta, vedendo l’apostolo Paolo naufrago… e assalito da una vipera, lo stimarono un omicida che la divina vendetta perseguitasse per ogni dove » (Atti degli Apostoli, 28, 36).
Questa era una concezione degli Ebrei ed anche della civiltà greco-romana: si pensi al Prometeo incatenato di Eschilo o all’Enea nella tempesta, come narra Virgilio nel I libro dell’Eneide. Ma soprattutto in Giobbe Leopardi adombra la propria tragedia: giustamente Carducci definì Leopardi « il Giobbe della letteratura e del pensiero italiani » (cfr. Opere-Ediz. Nazionale, vol. XX, pag. 221, ed. Zanichelli, 1937).
Questa intuizione è stata ripresa da Gioanola in Leopardi, la Malinconia, pp. 247 e 394-95. A Giobbe Leopardi ha dedicato un frammento poetico dalla data incerta e oggi riportato in Poesie e Prose, vol. 1, pag. 600, Mondadori, 1994.
Manoscritto del canto « A Silvia », con correzioni autografe.
Nei nn. 1710-11 si parla della legge giudaica; in molti paragrafi si disquisisce della lingua ebraica, della sua povertà linguistica (nn. 806, 1969, 2005-7, 2909-2913) per l’assenza dei composti ma anche della forza sinestetica insita in molte parole, per cui suscitano varietà di concetti e di emozioni. Leopardi apprende bene questa lezione e cerca di inserire parole sinestetiche nella sua poesia, attraverso un’austera ascesi del linguaggio poetico: si pensi alla redazione conclusiva di « ridenti e fuggitivi » riferiti agli occhi di Silvia o di « interminati spazi » riferiti all’Infinito.
Nei nn. 336-37 si esprimono impressioni, valutazioni negative e positive sul Nuovo Testamento, sul Cristianesimo: rilevando, tuttavia, la forza interiore del Cristianesimo, che vivificò il pensiero ormai languido della civiltà greco-romana. Vari paragrafi sono dedicati a S.Paolo: nel 3343 chiama « barbari » i Maltesi perché non seppero accogliere bene S.Paolo, naufragato sulle loro coste.
In 1443-44 si sottolinea l’intimo intreccio fra religiosità ebraica e Tempio, fra religione e nazionalismo presso gli Ebrei; interessante il n. 1849, dove Leopardi afferma che i popoli meridionali brillano nella filosofia, nell’indagine metafisica: tra questi popoli meridionali egli annovera gli Ebrei, la loro Bibbia, ed elogia due libri di profonda filosofia: l’Ecclesiaste, attribuito a Salomone, ed il Siracide.
Giusto il rilievo leopardiano: del resto, anche in Italia la maggioranza dei grandi filosofi proviene dal Meridione: da S.Tommaso d’Aquino a Vico, ai filosofi rinascimentali, sino a Gentile e Croce. Due paragrafi, 1201 e 1639, sono dedicati al Vangelo; purtroppo, come ho già detto, Leopardi prende un abbaglio sul cap. XX di Matteo: nei nn. 1639-45 il Recanatese si addentra in un ginepraio di riflessioni sulla « Legge Nuova », il comandamento dell’amore proclamato da Gesù. Dopo vari ragionamenti, colpisce la frase conclusiva, in cui Leopardi afferma che « la Religion Cristiana resta tutta in piedi… vera e necessaria: però dipendentemente dall’arbitrio (volontà) di Dio che stabilì la Natura in questa tal guisa ». Le suddette elucubrazioni furono stilate nel 1821.
Al di là delle riflessioni personali sui vari libri, Leopardi si rifà alla Bibbia anche nei suoi saggi filosofico-culturali: si ricollega ai primi capitoli della Genesi nel Saggio sopra gli errori popolari degli antichi: qui nel capitolo II viene bollato il politeismo di Omero, mentre si esalta il monoteismo biblico: monoteismo che riscontra anche in filosofi antichi, come Senofane, una cui sentenza è riportata da Clemente Alessandrino: « Unico e solo fra gli uomini e i Numi massimo è il Dio ».
Tuttavia, secondo Leopardi, una qualche traccia di politeismo potrebbe riemergere da Genesi 3, 22: « Ecce Adam quasi unus ex nobis factus est, sciens bonum et malum « . Giustamente A.Negri (op. cit. pp. 50) ed altri biblisti fanno notare che questo brano va inquadrato in Esodo XX, 3; Deuter. XIII, 2; Primo Samuele 12, 2021; Ger. 7, 6-25, dove si afferma chiaro il monoteismo: quindi l’espressione genesiaca potrebbe interpretarsi come plurale maiestatico. Indubbiamente i vari abbagli di esegesi destano stupore in un alto ingegno come Leopardi: bastava leggere il v. 23 dello stesso cap. III dove ritorna l’espressione al singolare: « Il Signore Iddio ».
Chiudo questo capitolo con un rapido accenno alla Speranza: tema ampiamente sviluppato dal Recanatese, che ne sottolinea vari aspetti positivi. Così nel n.1545 si afferma che « senza la speranza non si può assolutamente vivere »; nel n.105 si nota che nella Speranza il bene lontano è sempre maggiore del presente; nel n.85 si rileva che il tempo vero della Speranza è tra la fanciullezza e la giovinezza: perciò queste due età sono le più felici. Questa visione sostanzialmente positiva della suddetta virtù sembra riecheggiare le molte pagine bibliche dedicate ad essa.
Si pensi all’Epistola ai Romani di S.Paolo: 5, 1-5. Per altri brani biblici sulla Speranza, cfr. Bibbia di Gerusalemme, la nota lunga che si estende da p. 2425 a p. 2426. Da ricordare anche il celebre entimema leopardiano sulla Speranza che si trova nei nn. 4145-4146: « Vivo, dunque spero ».
La Speranza è insita nell’essenza della vita sia per la Bibbia, sia per Leopardi. Il poeta scrive le sue osservazioni anche su alcuni personaggi biblici, come Mosè (1639-1640), il Siracide (1176), Gesù di Nazareth, Paolo di Tarso (n° 3342 e parecchi altri). Su Gesù (nn. 1639-1640) Leopardi mette in rilievo la sua consonanza (cfr. il Decalogo) e insieme il superamento della stessa Legge Mosaica: così richiama l’amore dei nemici, elogiato come idea veramente nuova dal Recanatese (n. 1640).

Note:
1. Zibaldone, a cura di F. Flora, ed. Mondadori, n.1201.

Publié dans:letteratura |on 25 octobre, 2010 |Pas de commentaires »

La notte santa di Guido Gozzano

dal sito:

http://www.lestagioni.altervista.org/2poesia.htm

La notte santa

Guido Gozzano

- Consolati, Maria, del tuo pellegrinare!
Siam giunti. Ecco Betlemme ornata di trofei.
Presso quell’osteria potremo riposare,
ché troppo stanco sono e troppo stanca sei.

Il campanile scocca
lentamente le sei.

- Avete un po’ di posto, o voi del Caval Grigio?
Un po’ di posto per me e per Giuseppe?
- Signori, ce ne duole: è notte di prodigio;
son troppi i forestieri; le stanze ho piene zeppe

Il campanile scocca
lentamente le sette.

- Oste del Moro, avete un rifugio per noi?
Mia moglie più non regge ed io son così rotto!
- Tutto l’albergo ho pieno, soppalchi e ballatoi:
Tentate al Cervo Bianco, quell’osteria più sotto.

Il campanile scocca
lentamente le otto.

- O voi del Cervo Bianco, un sottoscala almeno
avete per dormire? Non ci mandate altrove!
- S’attende la cometa. Tutto l’albergo ho pieno
d’astronomi e di dotti, qui giunti d’ogni dove.

Il campanile scocca
lentamente le nove.

- Ostessa dei Tre Merli, pietà d’una sorella!
Pensate in quale stato e quanta strada feci!
- Ma fin sui tetti ho gente: attendono la stella.
Son negromanti, magi persiani, egizi, greci…

Il campanile scocca
lentamente le dieci.

- Oste di Cesarea… – Un vecchio falegname?
Albergarlo? Sua moglie? Albergarli per niente?
L’albergo è tutto pieno di cavalieri e dame
non amo la miscela dell’alta e bassa gente.

Il campanile scocca
le undici lentamente.

La neve! – ecco una stalla! – Avrà posto per due?
- Che freddo! – Siamo a sosta – Ma quanta neve, quanta!
Un po’ ci scalderanno quell’asino e quel bue…
Maria già trascolora, divinamente affranta…

Il campanile scocca
La Mezzanotte Santa.

È nato!
Alleluja! Alleluja!

È nato il Sovrano Bambino.
La notte, che già fu sì buia,
risplende d’un astro divino.
Orsù, cornamuse, più gaje
suonate; squillate, campane!
Venite, pastori e massaie,
o genti vicine e lontane!

Non sete, non molli tappeti,
ma, come nei libri hanno detto
da quattro mill’anni i Profeti,
un poco di paglia ha per letto.
Per quattro mill’anni s’attese
quest’ora su tutte le ore.
È nato! È nato il Signore!
È nato nel nostro paese!
Risplende d’un astro divino
La notte che già fu sì buia.
È nato il Sovrano Bambino.

È nato!
Alleluja! Alleluja!

di Hans Christian Andersen : L’ultimo sogno della vecchia quercia (Storia di Natale)

dal sito:

http://www.andersenstories.com/it/andersen_fiabe/ultimo_sogno_della_vecchia_quercia

L’ultimo sogno della vecchia quercia (Storia di Natale)

Fiaba di Hans Christian Andersen – 081
 
Nel bosco in cima alla collina, verso la spiaggia aperta, si trovava una vecchissima quercia che aveva proprio trecentosessantacinque anni, ma questo lungo periodo di tempo corrisponde per la quercia a non più di altrettanti giorni per noi uomini; noi ci svegliamo al mattino, dormiamo di notte e facciamo i nostri sogni; per gli alberi è diverso: restano svegli per tre stagioni e solo d’inverno dormono, l’inverno è il loro periodo di riposo, è la loro notte dopo il lungo giorno che si chiama primavera, estate e autunno.
Per molte giornate estive le effimere avevano danzato intorno alla sua corona di foglie, avevano vissuto, volato e erano state felici, e quando quelle creaturine si riposavano un attimo, nella loro beatitudine, su una delle grosse foglie fresche della quercia, questa diceva «Poverine! Tutta la vostra vita dura solo un giorno! com’è corta! è così triste!».
«Triste?» rispondevano sempre le effimere «che cosa intendi? Tutto è straordinariamente limpido, così caldo e bello, e noi siamo felici!»
«Ma dura solo un giorno, poi tutto è finito!»
«Finito?» dicevano le effìmere «che cosa è finito? Anche tu finisci?»
«No, io vivrò probabilmente ancora migliaia dei vostri giorni e la mia giornata corrisponde a un anno intero. È un tempo così lungo che non siete neppure in grado di immaginarlo!»
«No, ma non ti capiamo. Tu hai migliaia dei nostri giorni, ma noi abbiamo migliaia di momenti di gioia e di felicità! Finirà tutta la bellezza di questo mondo, quando tu morirai?»
«No» rispose l’albero «durerà certamente a lungo e molto più a lungo di quanto si possa pensare!»
«Allora è proprio lo stesso, solo che calcoliamo in modo diverso!»
L’effìmera danzò e si mosse nell’aria, si rallegrò per le sue sottili ali ben fatte di velluto e di veli, si rallegrò per l’aria mite, dove si diffondeva un forte profumo che veniva dal campo di trifoglio e dalle rose selvatiche della siepe, dal sambuco e dal caprifoglio, per non parlare dell’asperula odorosa, della primula e della menta selvatica; il profumo era così intenso che l’effìmera credette di essere un po’ ubriaca. Il giorno fu lungo e bellissimo, pieno di gioia e di dolci sensazioni; quando il sole tramontò l’effimera si sentì, come sempre, piacevolmente stanca per tutto quel divertimento. Le ali non la volevano più sostenere, così si posò lentamente su un morbido stelo d’erba ondeggiante, piegò la testa come potè e si addormento felice: era la morte.
«Povera piccola effìmera!» esclamò la quercia «è stata una vita molto breve!»
Ogni giorno d’estate si ripeteva la stessa danza, lo stesso discorso, la stessa risposta, e lo stesso sonno finale; si ripeteva per ogni generazione di effimere e tutte erano ugualmente felici, ugualmente gaie. La quercia rimase sveglia al mattino della primavera, al mezzogiorno dell’estate e alla sera dell’autunno; ora era quasi tempo di dormire: la sua notte, l’inverno, stava arrivando.
Già le tempeste cantavano: «Buona notte! Buona notte! È caduta una foglia, un’altra! Noi le raccogliamo. Cerca di dormire! Ti canteremo la ninna nanna, ti scuoteremo nel sonno, ma questo giova ai vecchi rami, vero? Scricchiolano già dalla gioia! dormi bene! dormi bene! È la tua trecentosessantacinquesima notte, in realtà hai solamente un anno! dormi bene! Le nuvole ti cospargeranno di neve che diventerà come un lenzuolo, un tiepido tappeto ai tuoi piedi; dormi bene e sogni d’oro!».
La quercia si spogliò del suo fogliame per potersi riposare nel lungo inverno e sognare molte volte, sempre qualche esperienza vissuta, proprio come i sogni degli uomini.
Una volta era stata piccola e aveva tratto origine da una ghianda; secondo il calcolo degli uomini stava vivendo il suo quarto secolo, era l’albero più grande e più robusto del bosco: con la sua corona dominava su tutti gli altri alberi e la si vedeva anche da molto lontano, dal mare aperto costituiva un punto di riferimento per le navi. Non sapeva neppure quanti occhi la cercavano. In cima alle sue fronde verdi si era stabilita la colomba, e il cuculo gridava il suo cucù; in autunno, quando le foglie sembravano lamine di rame battuto, arrivavano gli uccelli migratori e vi si riposavano prima di partire per il mare aperto. Ora però era inverno, l’albero era senza foglie, e si vedeva con chiarezza il disegno dei rami contorti e nodosi. Le cornacchie e i corvi vi si posavano a turno e parlavano dei tempi diffìcili che stavano per cominciare e delle difficoltà invernali per trovare il cibo.
Era quasi il giorno di Natale quando la quercia fece il suo sogno più bello: ascoltiamolo!
Ebbe la sensazione che quella fosse una giornata di festa, le sembrò di sentire tutte le campane delle chiese suonare a festa e le sembrò anche che fosse un bel giorno estivo, tanto l’aria era calda e mite; la quercia allargava il suo fitto fogliame, fresco e verde, i raggi del sole giocavano tra i rami e le foglie, l’aria era piena del profumo delle erbe e dei cespugli, le farfalle variopinte giocavano « a prendersi » e le effìmere ballavano, era come se tutto esistesse affinché potessero ballare e divertirsi. Tutto quello che l’albero aveva vissuto e visto nei suoi lunghi anni di vita, gli sfilò davanti, come in un corteo. Vide cavalieri e dame dei tempi antichi, con le piume sui cappelli e i falchi in pugno, cavalcare nel bosco; il corno da caccia risuonò e i cani abbaiarono. Vide i soldati nemici con armi lucenti, abiti variopinti e lance e alabarde montare e smontare le tende; i fuochi delle sentinelle ardevano e si cantava e si dormiva sotto i rami tesi della quercia. Vide anche gli innamorati che s’incontravano pieni di gioia al chiaro di luna e incidevano i loro nomi, le loro iniziali, nella sua corteccia grigio-verde.
Una volta, moltissimi anni prima, cetre e arpe eolie erano state appese ai suoi rami da alcuni giovani viaggiatori; ora erano ancora li appese e risuonavano con tanta dolcezza. Le colombe tubavano come volessero raccontare quello che l’albero provava, e il cuculo gridò il suo cucù per tante volte quante erano i giorni d’estate che la quercia avrebbe vissuto.
Fu come se un nuovo flusso di vita scorresse dalle radici più piccole fino ai rami più esposti, fino alle foglie; l’albero sentì che si stava allargando, sentì con le radici che anche nella terra c’era vita e calore; sentì crescere le sue forze e crebbe sempre più alto. Il tronco s’innalzò senza un attimo di sosta, continuò a crescere, la corona di foglie si infìtti, si allargò, si sollevò, e, crescendo l’albero, cresceva anche il suo senso di benessere, il suo desiderio beatificante di andare sempre più in alto, fino al caldo sole luminoso.
Ormai era già cresciuto oltre le nubi, che come schiere di neri uccelli migratori o come stormi di grandi cigni bianchi passavano sotto di lui!
Ogni foglia della quercia poteva vedere quasi avesse avuto gli occhi; le stelle erano visibili alla luce del giorno, così grosse e luccicanti, brillavano come occhi chiari e trasparenti e ricordavano tutti quei cari occhi conosciuti, appartenuti ai bambini, agli innamorati che si erano incontrati sotto la quercia.
Che momento meraviglioso e che gioia! Eppure, in tutta quella gioia, la quercia provò nostalgia, e desiderò che tutti gli altri alberi del bosco, tutti i cespugli, le erbe e i fiori si potessero innalzare insieme a lei, e potessero provare quella gioia e godere quello splendore. La grande quercia, nel suo sogno di grandezza, non era completamente felice se non aveva con sé tutti quanti, grandi e piccini, e questo sentimento si ripercosse in modo profondo tra le foglie e i rami, come fosse stato un cuore umano.
Il fogliame della quercia ondeggiò quasi in un gesto di nostalgia, riandò al passato e risentì il profumo delle asperule e subito dopo, ancor più intenso, quello dei caprifogli e delle viole, poi le sembrò di sentire il cuculo cantare.
Tra le nuvole spuntavano le cime verdi degli altri alberi del bosco; la quercia vide che, sotto di sé, gli altri alberi crescevano e si innalzavano come lei, i cespugli e le erbe si tendevano verso l’alto; alcuni di loro si liberarono delle radici e si innalzarono prima degli altri. La betulla fu la più veloce, come un raggio bianco luminoso il suo tronco slanciato si allungò, i rami si piegarono come verdi veli o bandiere; tutta la natura del bosco, persino le canne brune e piumate, cresceva con la quercia, e gli uccelli la seguivano cantando; su un filo d’erba che pareva uno svolazzante nastro di seta verde stava una cavalletta che suonava con le ali; i maggiolini brontolavano e le api ronzavano; ogni uccello usava il proprio strumento, e tutto fu un solo canto di gioia verso il cielo.
«Quel fiorellino rosso che si trovava vicino all’acqua, anche lui doveva salire!» esclamò la quercia «e anche la campanula azzurra, e la margheritina!» Certo, la quercia li voleva tutti con sé.
«Ci siamo anche noi, ci siamo anche noi!» si sentiva risuonare.
«E quelle belle asperule dell’estate scorsa; e l’anno prima c’era un’aiuola di mughetti! e il melo selvatico, come era bello! E tutta quella bellezza del bosco, per tanti e tanti anni! Se fossero vissuti fino a oggi, sarebbero potuti venire anche loro!»
«Ci siamo anche noi, ci siamo anche noi!» si sentì di nuovo ancora più in alto; sembrava che la avessero preceduta in volo.
«È troppo bello per potervi credere!» gridò la quercia piena di gioia. «Sono tutti qui, grandi e piccoli! Nessuno è stato dimenticato! Dove è possibile immaginare una tale beatitudine?»
«Nel regno di Dio è possibile e immaginabile!» si sentì risuonare.
La quercia, che continuava a crescere, sentì che le radici si erano staccate dalla terra.
«Adesso è ancora meglio!» commentò «ora non c’è più nulla che mi trattiene! Posso volare in cielo fino all’Onnipotente, nella luce e nella magnificenza. E ho con me tutti i miei cari. Grandi e piccoli. Tutti quanti, tutti!»
Questo fu il sogno della quercia, ma mentre sognava ci fu una violenta tempesta sia in mare che sulla terra, proprio nella notte santa di Natale; il mare rovesciò grosse onde sulla spiaggia, l’albero scricchiolò, si schiantò e si sradicò proprio nel momento in cui la quercia sognò che le radici si erano liberate. La quercia cadde. I suoi trecentosessantacinque anni valevano ormai come un sol giorno dell’effimera.
Il mattino di Natale, quando spuntò il giorno, la tempesta si era ormai calmata. Tutte le campane delle chiese suonarono a festa e da ogni camino, anche da quello così piccolo del bracciante, si levò il fumo, azzurro come quello che nelle feste dei druidi si levava dall’ara; era il fumo del sacrificio, del ringraziamento. Il mare divenne sempre più calmo e su una grande imbarcazione che durante la notte aveva affrontato quel tempaccio terribile si innalzarono ora tutte le bandiere, per festeggiare il Natale.
«L’albero non c’è più! La vecchia quercia, il nostro punto di riferimento sulla terra!» esclamarono i marinai. «È caduta con la tempesta di questa notte. Potremo mai sostituirla con qualcos’altro?»
Fu questo il breve, ma accorato discorso funebre per la quercia, che si trovava distesa su un manto di neve sulla spiaggia; sopra di lei risuonò l’inno cantato sulla nave, quello sulla gioia del Natale, sulla liberazione degli uomini in Cristo e sulla vita eterna.
Cantate al cielo,
Cantate Alleluia, schiere della Chiesa, Questa gioia è senza uguali! Alleluia, Alleluia!
Così diceva l’antico inno, e ognuno di coloro che si trovavano sulla nave si sentì sollevare da quelle parole e dalle preghiere, proprio nello stesso modo in cui la quercia si era sentita innalzare nel suo ultimo e magnifico sogno della notte di Natale.

FINE

UFFICIO DELLE LETTURE INNO – DANTE, DIVINA COMMEDIA CANTO XXXIII

UFFICIO DELLE LETTURE – INNO

DANTE, DIVINA COMMEDIA CANTO XXXIII

«Vergine madre, figlia del tuo Figlio,
umile e alta più che creatura,
termine fisso d’eterno consiglio,

tu se’ colei che l’umana natura
nobilitasti sì, che ‘l suo fattore
non disdegnò di farsi sua fattura.

Nel ventre tuo si raccese l’amore
per lo cui caldo ne l’eterna pace
così è germinato questo fiore.

Qui se’ a noi meridïana face
di caritate, e giuso, intra i mortali,
se’ di speranza fontana vivace.

Donna, se’ tanto grande e tanto vali,
che qual vuol grazia ed a te non ricorre,
sua disïanza vuol volar sanz’ali.

La tua benignità non pur soccorre
a chi domanda, ma molte fiate
liberamente al dimandar precorre.

In te misericordia, in te pietate,
in te magnificenza, in te s’aduna
quantunque in creatura è di bontate».

Publié dans:letteratura, Maria Vergine |on 8 septembre, 2009 |Pas de commentaires »

I santi sanno ridere

dal sito:

http://www.zenit.org/article-19288?l=italian

I santi sanno ridere

ROMA, sabato, 29 agosto 2009 (ZENIT.org).- Riportiamo uno stralcio del libro di Ferdinando Castelli, “All’uscita del tunnel. Panoramiche religiose dell’odierna letteratura” (Città del Vaticano, Libreria editrice vaticana, 2009, pagine 214, euro 16), apparso su “L’Osservatore Romano”.

* * *

di Ferdinando Castelli

«La letteratura antica non conosce — questo è caratteristico — l’umorismo, ma solo il comico: l’umorismo è serbato al cristiano quale espressione della sua nuova libertà, che lo innalza, come creatura spirituale, sopra tutte le creature non libere» (Giuseppe Sellmair). E ancora: «Noi siamo dei comici. Dovremmo vederci sotto questo aspetto. Solo l’umorismo, rosa o nero o crudele, solo l’umorismo può renderci la serenità». L’affermazione è di Ionesco. Con essa il drammaturgo rumeno vuol ricordarci che la sola maniera di poterci consolare dell’infelicità di sentirci perduti in questo mondo votato alla morte è l’evasione nell’umorismo. Dunque, suggerisce: ridere della nostra comicità di creature che non riescono mai a sentirsi a loro agio in un’esistenza tallonata dalla sofferenza e dalla morte; ridere per sfuggire alla disperazione e alla follia; ridere per non essere sempre costretti a vedersi dinanzi il muro del mistero (o dell’assurdo).

In realtà, molti testi teatrali di Ionesco fanno ridere, divertono, trasportano in mondi surreali: si pensi a La lezione, Le sedie, La cantatrice calva, Il rinoceronte. Danno anche la serenità? Ne dubitiamo. L’umorismo, nero e crudele, che da essi si sprigiona, offre un divertimento che sa di desolazione.

È indubbio però che l’umorismo è un mezzo regale per stabilirci nella serenità. Esso fa parte della saggezza che è dono dello Spirito Santo; «occupa un posto molto importante nella vita religiosa», anzi «è il sale della vita, e in un certo senso è il sale della vita religiosa, il quale la preserva da ogni guasto».

Padre Benson non esitava a definire l’umorismo di santa Teresa d’Avila «dono divino», dono che ha reso la vita di tanti santi un’avventura piena di fascino: si pensi a Francesco di Sales, Tommaso Moro, Filippo Neri, Ignazio di Loyola, Papa Giovanni, Giorgio La Pira. Il Roche arriva ad affermare che «la storia di tante eresie è in molta misura una storia di perdita del senso dell’umorismo. Non si potrebbero altrimenti spiegare, lasciando da parte l’opera del demonio, certe loro aberrazioni e assurdità».

Bisogna pertanto concludere che c’è umorismo e umorismo. Altro è l’umorismo di George Bernard Shaw, intriso di amara ironia, altro quello di Gilbert Keith Chesterton, sapido di saggezza umana e cristiana; altro l’umorismo di Voltaire, corrosivo e chiuso a ogni trascendenza, altro quello di Tommaso Moro, benevolo e illuminato da una sapienza superiore; altro l’umorismo di Cervantes, espressione dell’anima religiosa, altro quello degli scrittori dell’assurdo, riso amaro e soffocato.

Allora, quando c’è vero umorismo? E che cos’è l’umorismo? Definirlo non è semplice. Le sfumature, le sottigliezze, la varietà di significato che caratterizzano il termine impediscono una definizione precisa. Del resto ogni espressione di umorismo riflette diversità di cultura, di mentalità, di abitudini; non solo, ma esso è una proiezione dell’individuo. Ogni popolo ha una specifica forma di umorismo e ogni umorista una sua particolare fisionomia. Sintetizzando, gli elementi essenziali dell’umorismo — o del sense of humour, nella caratteristica espressione anglosassone — sono la capacità di cogliere i lati buffi e contraddittori della vita, ridendone con benevola comprensione, uno sguardo superiore che permette di vedere meglio e «oltre»; un’intelligenza nuova che relativizza e ridimensiona quanto si vorrebbe prendere per assoluto ed eccelso.

Si comprende subito che l’umorismo ha vari elementi in comune col comico, con l’ironia e col riso, ma che da essi si diversifica nettamente. Il comico si alimenta degli aspetti bizzarri della vita per divertire e divertirsi, l’umorismo nasce dalla scoperta delle miserie umane e si accompagna a un atteggiamento di comprensione, che compatisce e costruisce; fa anche divertire, ma soprattutto fa pensare.

L’ironia aggredisce, ferisce, distrugge anche; l’umorismo è indulgente, benevolo, compassionevole. Ma come l’ironia, il riso e il comico, l’umorismo prende le distanze dal soggetto, non per una reazione di difesa né per un senso di disprezzo o di rifiuto, ma per una nuova dimensione in esso scoperta. Agli occhi dell’umorista certi eventi o persone assumono aspetti diversi, capaci di suscitare nuovi punti di vista e di significato. Così una situazione seria si trasforma in una situazione buffa, e viceversa, in un’atmosfera di simpatia che avvicina le persone, le comprende, le affratella. Per realizzare tale spostamento di piani e acquistare questa nuova intelligenza, l’umorista deve poter disporre «di una certa saggezza umana, frutto di esperienza, e di una notevole capacità di osservazione sugli altri e su se stessi. Diciamo, se si preferisce, che nasconde un giudizio implicito, fondato su una concezione dell’uomo e dell’esistenza umana. Ciò probabilmente spiega perché il bambino è incapace di humour».

Se l’umorismo fiorisce su una determinata concezione dell’uomo e dell’esistenza, bisogna dire che il cristianesimo ne è la sua più piena e più ricca espressione. Non per nulla Kierkegaard considera l’umorismo come l’estrema approssimazione dell’umano a ciò che è propriamente religioso-cristiano. C’è anche chi sostiene che soltanto nel cristianesimo è possibile una piena forma di humour.

In verità, esaminando attentamente la questione, si approda alla convinzione che cristianesimo e umorismo vanno perfettamente d’accordo, anche se, a prima vista, parrebbe vero il contrario.

Nonostante qualche accenno, il principale lavoro teologico sulla commedia è stato effettuato soltanto di recente, e può riassumersi nella nozione che sia per il cristianesimo sia per la sensibilità comica nulla va preso troppo sul serio. Il mondo è importante, ma non in modo assoluto.

«Come il buffone, l’uomo di fede può sorridere alle pretese del principe perché sa che il principe non è altro che un uomo che un giorno sarà ridotto in polvere». Dunque, è umorista Dio? La risposta ci è data innanzitutto dal mistero dell’Incarnazione. Che Dio, eterno e infinito, del quale nessuno può vedere il volto e restare vivo (Esodo, 33, 20), che «abita una luce inaccessibile» (1 Timoteo, 6, 6), «alfa e omega» (Apocalisse, 1, 8), semper maior di quanto di lui si possa dire o pensare, supra quem nihil, extra quem nihil, sine quo nihil: che questo Dio assuma la natura umana e diventi uomo come noi; come noi soffra la fame e la sete, la solitudine e la malattia, il freddo e il caldo; subisca come noi la passione e la morte; si sottometta ai capricci degli uomini; che «con l’Incarnazione si sia unito in certo modo ad ogni uomo» (Gaudium et spes, n. 22), tutto ciò sconvolge la mente.

Ma, se l’uomo si smarrisce, Dio «si diverte»: di un divertimento che è espressione di amore infinito, che sfugge a ogni comprensione, annienta ogni misura. Dietro lo scandalo dell’Incarnazione c’è l’abisso inesplicabile della ricchezza dell’amore e della sapienza con cui Dio ha disposto la trama segreta dei fatti di cui è intessuta la storia umana (Romani, 11, 33).

Se la base dell’umorismo va ricercata nella legge del contrasto e nell’accostamento dei contrari, bisogna concludere che, in fatto di umorismo, Dio è maestro insuperabile.

Questo umorismo divino accompagna l’opera della salvezza e s’incarna in scelte che non finiscono mai di sconcertare. «Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono» (1 Corinzi, 1, 28). Tutta la storia della Chiesa è una sequenza di scelte — scelte di persone, di eventi, di strumenti — che Dio opera con immutato sense of humour e che le conferiscono un inconfondibile sapore di ottimismo e di gioiosa sorpresa.

In questa prospettiva umoristica va inquadrata e compresa l’esistenza cristiana. Essa paradossalmente si snoda tra l’eterno di Dio e gli eventi, spesso insignificanti, del nostro quotidiano; tra la vittoria definitiva del Signore e le nostre impotenze e sconfitte; in una Chiesa che è, nello stesso tempo, sposa senza macchia e comunità di peccatori. Tutto ciò getta sull’esistenza cristiana una luce nuova, che permette di vedere uomini e cose in angolature ricche di significato. Concepito in chiave cristiana, l’umorismo non chiude gli occhi sulle brutture e miserie della vita; neanche si pone — come succede per l’ironia, la satira e l’arguzia — di fronte a esse come un giudice.

Guidato dalla fede, esso scorge il lontano grande comune progetto di Dio; getta qui il suo pensiero e avanza sorridendo mentre scopre le stoltezze di noi mortali. Nell’umorista si nasconde una straordinaria forza di sopportazione e un’irrefrenabile libertà dell’essere; il suo regno è oltre i contrasti terreni e nessuna fredda valutazione riesce a deprimerlo.

Tra gli effetti più importanti dell’umorismo cristiano vi è la demitizzazione di sé e degli altri. Capitano giorni in cui tutti sono tentati di vedersi in prospettive eroiche, in pose da grandi, su piedistalli costruiti col materiale più vario. In queste ore di grazia ci si sente padroni del mondo, capaci di sfidare e vincere le debolezze nelle quali, chi più chi meno, inciampano tutti. In ognuno di noi c’è un po’ di Pietro che proclama: «Se anche dovessi morire con te, non ti rinnegherò» (Marco, 14, 31). L’impatto con la realtà della nostra miseria, quando questa s’impadronirà di noi e stenderà la sua ombra sulla nostra vita, potrebbe essere drammatico. Vera valvola di sicurezza sarà, allora, il sense of humour. Esso non nasconde le nostre debolezze, né le edulcora o le ammanta di inutili orpelli, ma ce le fa vedere con lo sguardo del Signore: con quell’amore che è comprensione dei nostri limiti, dono di fiducia, promessa di perdono. Egli sa che Pietro, prima che il gallo canti due volte, lo rinnegherà tre volte, ma invece di rifiutarlo, gli affida la sua Chiesa. Sa che il triplice rinnegamento non è espressione di cattiveria, ma di debolezza. E deve aver sorriso di fronte alla baldanza del futuro primo Papa.

Con questo stesso sguardo l’umorismo riesce a «ridimensionare» noi e gli altri. Sul crollo delle impalcature eroiche germoglia allora l’umiltà e la fiducia. La prima sgombra il terreno da ogni presunzione e permette di camminare in verità, invita ad «attingere forza nel Signore e nel vigore della sua potenza» (Efesini, 6, 10), ricorda «agli anziani che il mondo non è finito con loro e ai giovani che il mondo non è incominciato con loro». La fiducia ci proietta in avanti, ci rende intraprendenti, ci fa soggetti di storia, ci apre la porta all’amore degli altri.

Si comprende pertanto che l’umorismo cristiano è un nuovo modo di essere e di sentire: converte il pessimismo in audacia, il disprezzo in pietà, l’insofferenza dei limiti in feconda accettazione. Questa benefica novità deriva dal fatto che, nell’ottica umoristica, l’esistenza e gli eventi ricevono senso e valore non in se stessi, ma in Dio che «sa di che siamo plasmati, ricorda che noi siamo polvere» (Salmi, 102, 14).

Isolata dal flusso della redenzione operata da Cristo, la realtà umana fa orrore perché prigioniera del male, del banale, della noia, della disperazione. «Innumerevoli — afferma Sofocle nell’Antigone — sono le cose spaventose, ma nulla c’è di più spaventoso dell’uomo». L’uomo? «Un misero commediante, che incede e si agita sulla scena e più non se ne parla».

Conseguenza? Disgusto, rifiuto, pena, che si esprimono nel lazzo, nell’ironia amara, nel riso senza gioia. L’umorismo opera un’inversione di prospettiva. L’uomo non è visto isolato e abbandonato alla sua miseria, ma all’ombra dell’amore di Dio che comprende e usa misericordia; non si offre al nostro sguardo come una «cosa spaventosa», ma come un figlio amato che, per un capriccio di bambini, crede di poter fare a meno dei genitori; meritevole più di indulgenza che di condanna, più di tenerezza che di severità.

Questo sguardo di tenerezza e d’indulgenza ci dà la grazia — poiché di una vera grazia si tratta — di ridere di noi stessi: dei nostri fallimenti, dei nostri sogni infranti, dei nostri voli mancati. L’umorismo riesce a sdrammatizzare gli eventi, a sottolineare la relatività di ogni cosa, a eliminare ogni patina di fatalità, e tutto collocare in una giusta prospettiva. Grazie al suo famoso sense of humour, espressione della speranza cristiana e di una fede viva, sir Thomas More è riuscito a sdrammatizzare anche la sua morte. Salendo la vacillante scaletta del patibolo, esclama: «Per favore, messer luogotenente, volete darmi una mano per farmi salire sicuro? Poi, per scendere, lasciate pure che mi arrangi da solo». Incoraggia anche il carnefice: «Su, amico, fatti animo, e compi il tuo ufficio senza timore. Ma guarda che ho il collo piuttosto corto: perciò sta’ attento a colpire diritto, per non macchiare il tuo buon nome».

Il senso d’insoddisfazione e di amarezza di cui spesso tanti di noi sono vittime deriva dal fatto che il mondo non va come noi vorremmo e che la Chiesa non la pensa come a noi piacerebbe. Qui deve soccorrerci l’umorismo che ci fa prendere una certa distanza dai nostri punti di vista e ci ricorda che non siamo le sole persone intelligenti, le sole che pensano rettamente e che dispongono dello Spirito Santo. Nello spazio creato dall’umorismo le tensioni si allentano, molte cose si vedono meglio e trovano la loro giusta collocazione.

«Troppi individui stanno eccessivamente addossati alle cose. E allora la visione risulta parziale, distorta, centrata sui particolari, senza prospettiva, senza sfumature, marcata dalla passionalità, da tinte troppo cariche. Significative, a questo proposito, certe discussioni tra gente accigliata, tesa, arrabbiata, amara, nervosa, perfino isterica, che fa di ogni problema una tragedia, di ogni novità un’eresia, di ogni critica una sciagura, di ogni protesta una rivoluzione. La confusione celebra inenarrabili trionfi. Invece è urgente, è igienico costruirsi una nicchia nel cuore, da dove scaturirà quel sorriso che è capacità di guardare con benevolenza a tutte le cose, che è senso del limite, proprio e altrui».

Tale capacità  è anche libertà di spirito che permette di dominare gli eventi e di navigare nei mari della serenità e della fiducia. Un teologo tutt’altro che superficiale, il cardinale Henri-Marie de Lubac, ha scritto: «Al colmo della sofferenza guardati ogni tanto con humour, onde sfuggire al veleno che essa distilla. Credimi, il rimedio è più efficace di qualsiasi eroico combattimento. È anche più facile, per poco che tu sia abitualmente sensibile alla commedia umana, senza però metterti fuori del gioco». E riporta il consiglio di un anonimo cenobita: «Se la tua anima è turbata va in chiesa, prosternati e prega. Se la tua anima rimane ancora turbata vai a trovare il tuo padre spirituale, siediti ai suoi piedi e aprigli l’animo. E se la tua anima è sempre turbata, ritirati allora nella tua cella, stenditi sulla stuoia e dormi».

L’opposto dell’umorista è il corrucciato. Sprovvisto del senso del relativo, prende tutto sul serio, soprattutto se stesso; dimentico della sostanziale debolezza umana, non sa compatire; il suo sorriso, quando c’è, è stentato; la sua presenza non suscita né fiducia né simpatia; parla di Dio come di un giudice e di un custode della legge più che di un padre. Quando un suo progetto fallisce o gli vengon meno gli amici, si lascia andare a un’amarezza che gli avvelena l’esistenza. Generalmente angosciato, è anche «pesante» perché carico dei propri punti di vista, dei propri umori, delle proprie disillusioni.

Il cristiano che ha il sense of humour, invece, quando cozza contro la disillusione, comprende e sorride: comprende i suoi limiti e sorride del crollo delle sue illusioni. L’intelligenza del relativo lo sposta sul terreno dell’assoluto: può così collocarsi al suo giusto posto, in rapporto a un Altro immensamente più grande di lui, che lo avvolge con benevola Provvidenza. Per questo motivo Champollion, a proposito di Taulero, parla dell’umorismo come di un dono estremamente frequente presso i mistici. Ossia, presso persone che «non si fanno soverchie illusioni sulla santità del loro stato».

Sorride, si diceva. E ci viene in mente una pagina di Karl Rahner in cui si argomenta sul fatto che Dio «ride nel cielo», come si legge nel salmo 2: «Se ne ride chi abita nei cieli». Dinanzi al tumulto dei popoli che vogliono liberarsi dal suo dominio, Dio ride.

«Ride con calma — scrive Rahner — si potrebbe quasi dire: come se tutto ciò non lo toccasse. Pieno di compassione. Lui conosce perfettamente il dramma amaro di questa terra. Dio ride, dice la Scrittura. E, con ciò, afferma che perfino il più minuscolo riso puro e argentino, che scaturisce da non importa dove, da un cuore retto, dinanzi a una qualsiasi idiozia di questo mondo, riflette un’immagine e un raggio di Dio. È un ricalco del Dio vincitore e signore della storia e dell’eternità. Di quel Dio il cui riso sta a dimostrare che, in fondo, tutto è buono alla fin fine».

Nel mosaico dell’abside di San Paolo fuori le mura, Papa Onorio iii si è fatto ritrarre piccolissimo, su misura del piede destro del Signore. «In tal modo, con un sorriso di soddisfazione che la barba non riesce a celare, lascia al Pantocràtor il compito di governare da Signore la propria Chiesa».

In merito, la lezione più sorprendente ce l’ha fornita Papa Giovanni. L’umorismo è stato tra le principali e più feconde caratteristiche della sua spiritualità: esso si rifletteva in quel sorriso, aperto, cordiale, paterno, che era un irresistibile invito alla fiducia e alla pace interiore. Scriveva: «Lo Spirito Santo ha scelto me. Si vede che vuole lavorare da solo. Mi sembra talvolta di essere un sacco vuoto che lo Spirito Santo riempie improvvisamente di forza».

Publié dans:letteratura |on 1 septembre, 2009 |Pas de commentaires »

Lorenzo il Magnifico: O Dio, o sommo Bene, or come fai.

dal sito:

http://ildemedici.interfree.it/ilmagnifico_laude.html

DI LORENZO IL MAGNIFICO  – LAUDE
O Dio, o sommo Bene, or come fai.

Cantasi come Canzone del Fagiano

O Dio, o sommo Bene, or come fai,
che te sol cerco e non ti trovo mai?
Lasso, s’io cerco questa cosa o quella,
te cerco in esse, o dolce Signor mio!
Ogni cosa per te è buona e bella
e muove, come buona, il mio disio;
tu se’ pur tutto in ogni luogo, o Dio,
e in alcun luogo non ti truovo mai.
Per trovar te la trista alma si strugge,
il dì m’affliggo e la notte non poso.
Lasso, quanto più cerco, più si fugge
il dolce e desiato mio riposo!
Deh, dimmi, Signor mio, ove se’ ascoso:
stanco già son, Signor, dimmelo omai.
Se a cercar di te, Signor, mi muovo
in ricchezze, in onore o in diletto,
quanto più di te cerco, men ne truovo,
onde stanco mai posa il vano affetto.
Tu m’hai del tuo amore acceso il petto,
poi se’ fuggito, e non ti veggo mai.
La vista, in mille varie cose volta,
ti guarda e non ti vede, e sei lucente;
l’orecchio ancor diverse voci ascolta,
il tuo suono è per tutto, e non ti sente:
la dolcezza comune a ogni gente
cerca ogni senso, e non la truova mai.
Deh, perché cerchi, anima trista, ancora
beata vita in tanti affanni e pene?
Cerca quel cerchi pur, ma non dimora
nel luogo ove tu cerchi questo bene:
beata vita onde la morte viene
cerchi, e vita ove vita non fu mai.
Muoia in me questa misera vita,
acciò che io viva, o vera vita, in te;
la morte in multitudine infinita
in te sol vita sia, che vita se’;
muoio quanto te lascio e guardo me:
converso a te, io non morrò già mai.
Degli occhi vani ogni luce sia spenta,
perché vegga te, vera luce amica;
assorda e miei orecchi, acciò che io senta
la disiata voce che mi dica:
« Venite a me, chi ha peso o fatica,
ch’io vi ristori »: egli è ben tempo omai!
Allor l’occhio vedrà luce invisibile,
l’orecchio udirà suon ch’è senza voce,
luce e suon che alla mente è sol sensibile,
né il troppo offende o a tal senso nuoce.
Stando e piè fermi, correrà veloce
l’alma a quel ben che è seco sempre mai.
Allor vedrò, o Signor dolce e bello,
che questo bene o quel non mi contenta,
ma levando dal bene e questo e quello,
quel ben che resta il dolce Dio diventa.
Questa vera dolcezza e sola senta
chi cerca il ben: questo non manca mai.
La nostra eterna sete mai non spegne
l’acqua corrente di questo o quel rivo,
ma giugne al tristo foco ognor più legne:
sol ne contenta il fonte eterno e vivo.
O acqua santa, se al tuo fonte arrivo,
berrò, e sete non arò più mai.
Tanto desio non dovria esser vano,
a te si muove pure il nostro ardore.
Porgi benigno l’una e l’altra mano,
O Iesù mio: tu se’ infinito amore!
Poiché hai piagato dolcemente il core,
sana tu quella piaga che tu fai!

Publié dans:Laude, letteratura |on 4 février, 2009 |Pas de commentaires »

Alessandro Manzoni: Regala ciò che non hai

REGALA CIÒ CHE NON HAI 
Occupati dei guai,
dei problemi del tuo prossimo.
Prenditi a cuore gli affanni,
le esigenze di chi ti sta vicino.
Regala agli altri la luce che non hai,
la forza che non possiedi,
la speranza che senti vacillare in te,
la fiducia di cui sei privo.
Illuminali dal tuo buio.
Arricchiscili con la tua povertà.
Regala un sorriso
quando hai voglia di piangere.
Produci serenità
dalla tempesta che hai dentro.
« Ecco, quello che non hai, te lo do ».
Questo è il tuo paradosso.
Ti accorgerai che la gioia
a poco a poco entrerà in te,
invaderà il tuo essere,
diventerà veramente tua
nella misura in cui
l’avrai regalata agli altri.

A. Manzoni

Publié dans:letteratura, poemi |on 9 janvier, 2009 |Pas de commentaires »

DANTE ALIGHIERI: GUIDO , IO VORREI CHE TU LAPO ED IO..

du site:

http://balbruno.altervista.org/index-181.html

DANTE ALIGHIERI:

GUIDO , IO VORREI CHE TU LAPO ED IO..

La prima parte del sonetto è incentrata sull’amicizia e circoscrive un universo esclusivamente maschile ; nella seconda entra l’amore e compaiono le donne amate dai poeti.Si mantiene , però, la distinzione: la vera comunione è fra i tre amici, le donne costituiscono un altro schieramento.

La compagnia è più forte della coppia , il senso di solidarietà maschile vince il senso d’intimità amorosa, com’è ribadito dal finale « noi », che raggruppa Dante , Lapo e Guido ( contrapposto a « loro » che identifica le tre donne).

Nel tema del desiderio, che si attualizza nel sogno , si sottolinea una comunione d’intenti: Dante parte da un desiderio individuale,  » vorrei » , che poi si estende ai due amici, « voler vostro e mio  » , sino a fondersi in un’unica volontà, in « un talento », destinata ad accrescersi,  » crescesse ‘l desio » .

Nel sonetto compaiono elementi fiabeschi che richiamano la lirica provenzale « la magia  » , »il vascello incantato » ,  » il mago benefico (Merlino) » .E’ di un certo interesse la frase « io vorrei » presente nella prima strofa , ma che si sottindende comunque ripetutamente nelle altre.

Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io
fossimo presi per incantamento,
e messi in un vasel ch’ad ogni vento
per mare andasse al voler vostro e mio,

sì che fortuna od altro tempo rio
non ci potesse dare impedimento,
anzi, vivendo sempre in un talento,
di stare insieme crescesse ’l disio1.

E monna Vanna e monna Lagia poi
con quella ch’è sul numer de le trenta
con noi ponesse il buono incantatore2:

e quivi ragionar sempre d’amore,
e ciascuna di lor fosse contenta,
sì come i’ credo che saremmo noi3.

Publié dans:letteratura |on 4 mai, 2008 |Pas de commentaires »

Dante a settecento anni dal viaggio della “Commedia” II parte

II PARTE, AVEVO POSTATO LA PRIMA PARTE IL 29 FEBBRAIO POI MI SONO SCORDATA DI POSTARE LA SECONDA, SCUSATE, LA METTO ORA, PRIMA PARTE ALLA PAG: 

 

http://incamminoverso.unblog.fr/tag/letteratura/

dal sito:

http://www.santamelania.it/approf/sacchi/dante1.htm

 

  

Dante a settecento anni dal viaggio della “Commedia” 

IN VIAGGIO VERSO DIO, di Carlo Maria Martini
La Repubblica, sabato 9 settembre 2000, pp. 1 e 50-51

 

Grazia e missione
Soprattutto lo sguardo rivolto dal paradiso alle vicende umane non può essere sguardo che estrania, che sottrae alla solidarietà; il mondo resta l’aiuola che ci fa tanto feroci. La tragica vicenda terrena segnata dall’odio e dalla violenza è come placata nell’immagine dell’aiuola, ma il pronome ci riconsegna il pellegrino Dante – che pur si è liberato dai “difettivi silogismi” che fanno “in basso batter l’ali” – coinvolto nel destino dell’intera comunità umana. Il paradosso centrale della fede, il mistero dell’Incarnazione, è principio di ogni paradiso. Come testimonia anche la grande intuizione di Dostoevskij: il paradiso si realizza “oggi” se ci si rende responsabili “di tutto e per tutti” e si chiede perdono “di tutto e per tutti”, accettando con umile disponibilità il comune cammino di espiazione. L’itinerario in Deum è anche – sempre – momento di conversione; come per Dante, anche per ogni cristiano il desiderio dell’eterna beatitudine è insieme motivo per cui piangere spesso il proprio peccato percuotendosi il petto, nell’umile, e profondamente vera, convinzione che non esistono peccati soltanto “di altri”.
In particolare per chi ha maggiormente ricevuto. Ogni dono di Dio è grazia e missione insieme. Quella di Dante riceve il sigillo papale da San Pietro stesso che, di fronte al tralignare delle più alte autorità e alla conseguente degenerazione della cristianità, prospetta tutta l’urgenza del servizio alla verità per una nuova “rievangelizzazione”:

E tu figliuol, che per lo mortal pondo
ancor giù tornerai, apri la bocca
e non asconder quel ch’io non ascondo
(XXVII 64-66)

Ma l’accettazione era già avvenuta nell’incontro con Cacciaguida che, con paterna sollecitudine, lo aveva indotto a vedere con occhi nuovi le circostanze della sua vita, e ad affrontare l’esilio non come pietra d’inciampo, ma come occasione privilegiata per il realizzarsi del disegno divino su di lui. Ogni cammino cristiano è un prendere la croce per seguire Cristo; il sacrificio del suo troppo parziale progetto di felicità è per Dante in funzione di un radicale “fare la verità” possibile soltanto nella piena obbedienza a Dio, con l’umiltà del peccatore perdonato e la gratitudine di un “figlio della grazia”.

La bellezza della vita redenta
La dilatazione dell’itinerario attraverso cieli “sensibili” permette al poeta di tracciare, nel dramma dell’eterna lotta tra bene e male, le grandi strade della santità, mostrando tutta la bellezza di una vita umana perfettamente riuscita proprio perchè pienamente cristiana. E’ la storia degli apostoli, innanzitutto, e poi di Francesco, perdutamente innamorato di colei che “con Cristo pianse in su la croce” (XI 72); di Domenico, interamente consacrato alla diffusione e alla difesa della fede; di San Pier Damiani che sopporta sereno ogni disagio “contento né pensier contemplativi” (XXI 117); di Benedetto che, a imitazione degli apostoli, inizia la sua opera “con orazione e con digiuno” (XXII 89); di Bernardo che già in questo mondo contemplando gustò la pace del cielo… E, soprattutto, la storia di Maria, la Vergine Madre che ha richiuso la piaga aperta da Eva e ora rifulge al vertice di ogni umana perfezione, specchio fedele del volto di Cristo: “Riguarda omai ne la faccia che a Cristo / più si somiglia” (XXXII 85 -86). In Maria, “umile e alta più che creatura”, la natura umana raggiunge il culmine della perfezione permettendo al creatore di prendere carne in lei, diventando sua creatura. L’umile fanciulla ebrea, totalmente disponibile alla grazia, manifesta ora in pienezza quanto Dio riesca a innalzare e glorificare un cuore docile:

In te misericordia, in te pietate,
in te magnificenza, in te s’aduna
quantunque in creatura è di bontate
(XXXIII 19-21)

Beatitudine e carità
Nel progredire del suo cammino Dante fa continuamente esperienza di come la carità sia la manifestazione più chiara e visibile della beatitudine: i santi che si chinano con affettuosa comprensione all’ascolto del pellegrino, o ne prevengono le richieste leggendole in Dio, mostrano sempre un accrescimento di gioia che si traduce in bagliori di luce, danze, indicibili armonie, mostrando così tutta la loro conformità con la “divina voglia” che è amore senza confini. La lezione più alta verrà da Bernardo nel momento decisivo quando, rivolgendosi alla mediatrice di ogni grazia con un fervore di carità che coinvolge tutti i cittadini della candida rosa, chiederà per Dante la grazia di alzare gli occhi al “sommo piacer” con l’intensità di una preghiera che non potrebbe essere più ardente nemmeno se fosse in gioco la propria “ultima salute”.

E io, che mai per mio veder non arsi
più ch’i’ fo per lo suo, tutti miei prieghi
ti porgo, e priego che non sieno scarsi
(XXXIII 28-30)

Desiderare per gli altri, con la stessa intensità, quanto desideriamo per noi stessi, quasi immedesimandoci: questa è carità, e questo è “paradiso”. Mentre in terra l’invidia fa sì che la partecipazione di un maggior numero allo stesso bene renda minore la pienezza di ciascuno, in paradiso amore e beatitudine si dilatano con l’accrescersi del numero dei beati. Per giungere a questo occorre unificare, ricondurre all’Uno, le diverse tendenze della nostra anima, gli “infiniti stranieri” in noi, facendo della nostra vita una casa accogliente in cui possano convivere, in pace, intelligenza e affettività, presente e futuro, desiderio del piacere e attesa della beatitudine. Soltanto delle persone “unificate” potranno ricostruire una società non fondata sulla prepotenza dell’uno sugli altri, ma sull’accoglienza e la valorizzazione di ciascuno come portatore di un dono unico, indispensabile alla pienezza della gioia di tutti. Paradiso, allora, è pace, ma non immobilismo. Perchè l’amore si alimenta continuamente, ma anche perchè la chiesa della candida rosa ama, prega e spera per noi, partecipa alla nostra storia, come aveva intuito, nella sua semplicità e profondità, Santa Teresa di Lisieux: “Passerò il mio cielo a fare del bene sulla terra”.

Beatrice
Accompagna il viaggiatore dell’assoluto in quest’ultima parte dell’umano-divino itinerario -che è viaggio compiuto anche col corpo, a ribadire la novità del mistero dell’Incarnazione che innalza l’uomo, con la sua carne e la sua storicità, nell’eterna realtà di Dio – la donna della sua giovinezza. E Beatrice lo invita a rivolgere a lei il suo sguardo proprio per essergli guida nel mondo del divino. Ciò che conduce l’uomo a Dio è sempre un’esperienza affettiva particolarmente intensa, e Beatrice è per Dante quello spazio umano in cui Dio si è fatto presente, quasi sensibile. L’incontro con l’ineffabile non comporta il dissolversi dell’io e dei suoi rapporti; nessun affetto umano è cancellato se in esso Dio non era assente. L’amore che l’uomo riversa sulla propria donna, sui figli, sugli amici, su tutto il suo prossimo, acquista senso e valore definitivi se la donna, i figli, gli amici e il prossimo sono amati in Dio. Il legame affettivo anzichè sminuirsi è riscattato da ogni egoismo e dilatato fino a comprendere anch’esso “e cielo e terra”.
Il “ritorno” a Beatrice permette a Dante di fondere l’ardore della ricerca intellettuale con il calore dell’umana esperienza, trasformando in un canto di lode alla Bellezza il suo desiderio di verità e di giustizia. Non si tratta di qualcosa a margine o eccedente la missione ricevuta; il “sacrato poema” è esso stesso segno dell’ordine di Dio nel mondo e appello agli uomini a non “torcer li piedi” dal Vero che appaga ogni intelletto, che è pure “somma beninanza” e bellezza senza pari.

Oggi
Il cammino e la parola del poeta-profeta sono sempre per l’oggi; l’ascesa di Dante al sommo Bene è anche in funzione del nostro “santo viaggio”. Sempre attuale e urgente risulta l’appello alla renovatio rivolto anzitutto alla chiesa e che si configura come un ritorno alla vita “apostolica”, caratterizzata essenzialmente dal primato della parola evangelica – che ha come conseguenza una totale disponibilità nei suoi confronti, fino al dono della vita -, da un forte recupero della “dimensione contemplativa” e dalla gioiosa accettazione della povertà per il regno, liberi da rimpianti e da paralizzanti sensi di colpa, e riconoscenti nei confronti di Dio che può sempre trasformare in amore vero anche i nostri troppo umani desideri.
La missione profetica e “teologica” è affidata a ogni cristiano. E se l’essere profeti esige il coraggio della “parresia”, non bisogna tuttavia dimenticare che la verità da riproporre al mondo e alla chiesa deve essere anzitutto “contemplata” in Dio. E questo è di vitale importanza per una teologia, e anche per una filosofia, che dovranno unire la passione della ricerca con il gusto della bellezza e la capacità di riconoscere i propri limiti, sottraendo la ragione a un uso distorto che mortifica il mistero ma mortifica anche la ragione stessa.
L’ideale della convivenza civile, poi, risulta chiaramente e sinteticamente indicato dalla triplice connotazione della Firenze antica: in pace, sobria e pudica. Dove sobrietà e pudore sembrano essere condizioni indispensabili alla pace e investono anche la coscienza di sè e del proprio potere, la relatività delle proprie opinioni e il bisogno dell’altro per la realizzazione del bene comune.
Per ciascuno resta soprattutto il senso della corresponsabilità, il “mai senza l’altro”, la capacità di sentire come proprio il male del mondo e di unificare l’esistenza affinchè le nostre passioni e i nostri affetti diventino capaci di costruire rapporti “ecclesiali”, di tenerci uniti come convocati da Dio, per incamminarci verso di lui e essere con lui, “oggi”, in paradiso. 

Publié dans:letteratura |on 13 mars, 2008 |Pas de commentaires »
123

PUERI CANTORES SACRE' ... |
FIER D'ÊTRE CHRETIEN EN 2010 |
Annonce des évènements à ve... |
Unblog.fr | Annuaire | Signaler un abus | Vie et Bible
| Free Life
| elmuslima31