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«LA VERA DIFFICOLTÀ DELL’UOMO È DI GODERE IL GODIMENTO,… » G.K. Chesterton

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«LA VERA DIFFICOLTÀ DELL’UOMO È DI GODERE IL GODIMENTO, DI MANTENERSI CAPACE DI FARSI PIACERE CIÒ CHE GLI PIACE».

IL PROTAGONISTA DI LE AVVENTURE DI UN UOMO VIVO DI G.K. CHESTERTON, DI MARZIA PLATANIA

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 06 /07 /2012 –

Riprendiamo dal sito Cultura cattolica un articolo di Marzia Platania, apparso con il titolo L’innocente: Innocenzo Smith. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (9/7/2012)

L’innocente è naturalmente Innocenzo Smith, protagonista del romanzo “Le avventure di un uomo vivo”. Egli è un uomo decisamente stravagante e di primo acchito sembrerebbe tutto meno che innocente: sul suo capo pendono le accuse di tentato omicidio, abbandono del tetto coniugale, bigamia e forse uccisione delle sventurate mogli, furto.
Il romanzo è appunto diviso in due parti, la prima che enumera gli enigmi di Innocenzo Smith, la seconda alle prese con il processo casalingo che faticosamente li risolve. Tutte le apparenti stranezze del personaggio hanno la soluzione nel nome ch’egli stesso si è dato, annunciando il proprio arrivo: « manalive », l’uomovivo appunto. Il segreto di Innocenzo Smith è che egli si rifiuta di morire, finché è vivo
E poiché la vita è una sorpresa, una piacevole sorpresa nel sentimento immediato di Chesterton, ecco che la vera nemica della vita non é la morte, che ne é solo la fine, ma la noia, l’abitudine. Ciò che ci impedisce di godere delle cose come ne gode il bambino per il quale sono tutte nuove e quindi fatate, intriganti, è solo l’abitudine, la blasfema credenza che ci siano dovuto
“La vera difficoltà dell’uomo non è di godere i lampioni o i panorami, non di godere i denti-di-leone o le braciole, ma di godere il godimento, di mantenersi capace di farsi piacere ciò che gli piace” (GKC, Autobiografia, pag. 331).
L’esistenza di questa difficoltà, di questa sorta di inerzia che si oppone alla profonda felicità che deriverebbe all’uomo semplicemente dal fatto di essere vivo, quando potrebbe benissimo non esserlo, è resa intelligibile solo dalla dottrina della Caduta:
“II paradosso fondamentale del Cristianesimo è che la ordinaria condizione dell’uomo non è il suo stato di sanità e di sensibilità normale: la normalità stessa è un anormalità. Questa è la filosofia profonda della caduta” (GKC, Ortodossia, pag. 216).
Ecco il significato dell’innocenza di Innocenzo Smith. Egli si costringe a fare la più grande fatica per godere di quelle cose di cui tutti godono distrattamente, vale a dire che tutti di solito rinunciano a godere. Tutto ciò che egli fa, lo fa per recuperare quella posizione originale di sorpresa, di gratitudine e di letizia per l’esistenza stessa delle cose.
Così si è guadagnato l’accusa di tentato omicidio per aver puntato il suo revolver contro i pessimisti, perché faccia a faccia con la morte ammettessero la fallacia delle loro dottrine, liberando le loro vite dalla tristezza. Per questo egli lascia la propria moglie per rincontrarla e ricorteggiarla, ritrovando ogni volta i tremiti e gli abissi del primo amore, sicché tutte le mogli con le quali risultava sposato erano in definitiva sempre la sua unica moglie, persa e ritrovata.
Per questo egli entra nella propria casa dalle finestre o dai tetti come un ladro, per riscoprirne il valore e i tesori contenuti come farebbe un estraneo venuto per impossessarsene. Per questo egli ha abbandonato la propria casa, per tornarvi percorrendo in linea retta tutta la circonferenza del mondo.
Perché solo nel controluce della non-esistenza le cose, tutte le cose, manifestano il loro valore; solo davanti al rischio di andare perdute, le cose ritornano ai nostri occhi preziose. Dice Innocenzo Smith all’inizio del romanzo, sostenendo la creazione di uno Stato autonomo consistente nella sola pensione in cui si svolge l’azione, che egli ritiene poter essere autosufficiente: “Soltanto quando avete fatto naufragio sul serio, trovate sul serio ciò che vi occorre” (GKC, Le avventure di un uomo vivo, pag. 62).
“II valore delle cose sta nell’essere state salvate da un naufragio, ripescate dal Nulla all’esistenza. Ma io ho fantasticato (l’idea può sembrare pazzesca) che l’ordine e il numero delle cose non sia che il romantico avanzo del naviglio di Crusoe [...]. Gli alberi e i pianeti mi parevano come salvati dal naufragio, e quando vidi il Matterhorn fui contento che non fosse stato dimenticato nella confusione” (GKC, Ortodossia, pag. 89).
Si chiarisce cosi anche la ragionevolezza della posizione del patriota: dobbiamo fedeltà alle cose perché sono un dono, qualcosa che non ci era dovuto e ci è stato dato.
“Nessun uomo ha veramente misurato la vastità del debito verso quel qualsiasi essere che l’ha creato e che lo ha reso capace di chiamarsi qualcosa. Dietro il nostro cervello, per così dire, v’era una vampa o uno scoppio di sorpresa per la nostra stessa esistenza: scopo della vita artistica e spirituale era di scavare questa sommersa alba di meraviglia, cosicché un uomo seduto su una sedia potesse comprendere all’improvviso di essere veramente vivo, ed essere felice” (GKC, Autobiografia, pag. 94)
Lo stesso scopo Innocenzo Smith raggiunge con il puntare una rivoltella alla tempia dei pessimisti.
L’inizio delle sue avventure data appunto dal giorno in cui minacciò di morte il suo insegnante di filosofia, minacciando contemporaneamente se stesso; perché se il professore in cui aveva riposto tutta la sua giovanile fiducia, avesse realmente accettato la morte come una liberazione, così come stava dicendo dovesse fare ogni uomo ragionevole, egli avrebbe dovuto seguirlo sulla stessa via.
Per Innocenzo Smith, come per Chesterton, non vi può esser distacco tra la filosofia che si professa e i criteri secondo i quali si agisce. II professore, però, messo alle strette preferisce senza esitare la vita alle proprie teorie e si rifugia, per sfuggire al suo allievo improvvisamente « impazzito », sul cornicione della finestra.
Per lasciarlo tornare sano e salvo nella stanza Innocenzo esige da lui un atto religioso, un ringraziamento a Dio per averlo salvato dai propri sofismi. Ottenutolo insiste:
« Ringraziate Dio anche per le anatre giù nella vasca ». II celebre pessimista espresse a mezza voce il suo vivo desiderio di ringraziare Dio per le anatre della vasca. « E non dimenticate i paperi », insisté Innocenzo, implacabile. Eames concedette fievolmente anche i paperi. « Nulla, mi raccomando, dovete dimenticare. E cosi rendete grazie al Cielo per le Chiese, le Cappelle, i villini, la gente ordinaria, le pozzanghere, le pentole e i tegami, i bastoni, i cenci, gli ossi, e le tende a pallini ». « Sta bene, sta bene » ripeteva la vittima disperata « bastoni, cenci, ossi, tende ». « Tende a pallini, mi pare di avere detto » (GKC, Le avventure…, pag. 136).
Queste tende a pallini erano state pochi istanti prima portate dal professore Eames come prove della essenziale infelicità umana, di cui la loro bruttezza era un riflesso: da qui l’insistenza di Innocenzo perché egli ringrazi Dio in modo particolare per esse. Non solo le cose belle sono un dono, ma anche le cose brutte. Non solo la rosa ha un valore infinito, di fronte alla possibilità di un mondo che non conoscesse la bellezza di una rosa, ma anche i brutti lampioni verdi hanno un valore infinito, che tutti riconosceremmo se naufragassimo su un’isola deserta, senza nulla che ci faccia lume. Tutto è bello, se guardato da questo particolare punto di vista.
“Tutto era magnifico, paragonato al nulla” (Ibidem, pag. 140).
L’inconsistenza delle cose, la semplice constatazione che esse non si sono fatte da sé, non consistono in se stesse e perciò sono caduche, mortali, non conduce alla disperazione e al disprezzo per esse, ma alla gioia e alla riconoscenza: perché disperazione e disprezzo oblitererebbero un dato oggettivo, che esse, malgrado tutto, ci sono. Neppure la morte è male per l’uomo innocente: dice Innocenzo Smith nel corso del romanzo:
“Con il nostro spirito fiacco, empiremmo della nostra decrepitudine l’eternità, se non fossimo mantenuti giovani dalla morte. La Provvidenza ci ha tagliato l’immortalità a pezzetti, come la nutrice taglia a bastoncelli il pane imburrato al bambino” (GKC, Le avventure…, pag. 140).
Questa posizione originale non è però affatto semplice o immediata, è frutto, come dicevamo, di un lavoro. Dice il giornalista Moon che pure si fa difensore di Innocenzo Smith nel casalingo processo che offre la materia al romanzo:
“Non mettetevi in testa, vi prego, che un atteggiamento simile davanti alla vita mi sembri facile, o sollevi in modo particolare le mie simpatie. [...]. Per conto mio sento che l’uomo è legato ad un destino angoscioso; e che non c’è scampo alla trappola del dubbio e del decadere. Ma posto che un rimedio ci sia allora, per Cristo e san Patrizio, non può essere che cotesto. Per conservarsi felici come un bambino o come un cane, non c’è che essere innocenti come il bambino; o, come il cane, incapaci di peccato. [...]. Innocenzo è felice per la ragione ch’egli è innocente. Può sfidare le convenzioni appunto perché sa osservare i comandamenti” (Ibidem, pag. 217).
Quando uno dei due accusatori del processo obietta a questa teoria affermando di non credere che l’innocenza, la bontà, basti per essere felice, la risposta è definitiva: « E allora » riprese tranquillamente Michele « ditemi un po’ un’altra cosa. Chi di noi ci si è provato? » (Ibidem, pag. 217).
È difficile per l’uomo essere buono. L’innocenza di Innocenzo Smith è l’unica innocenza che all’uomo, dopo la Caduta, è concessa. Non un’innocenza primitiva, spontanea, ma una innocenza che deve essere continuamente riconquistata, attraverso un lavoro e una sorveglianza su di sé, attraverso una ascesi. È un’innocenza che consiste nell’osservare i comandamenti, che non erano necessari all’innocenza primeva, perché ha ormai conosciuto la colpa. In ognuno degli episodi criminosi, che poi rivelano avere di criminoso solo l’apparenza,
Innocenzo stesso o un altro dei personaggi coinvolti affermano di avere finalmente compreso la natura malvagia degli atti che si accingevano o credevano di compiere. Innocenzo dopo aver puntato la pistola contro il proprio professore: “Ho imparato per la prima volta che l’assassinio è veramente una colpa” (Ibidem, pag. 140). Il curato socialista che l’accompagna durante l’atto di derubare la propria casa: “per la prima volta capivo che, tutto considerato, rubare è veramente una colpa”. (Ibidem, pag. 163). Di nuovo Innocenzo Smith, parlando in Russia con un seguace di Ibsen: “M’avete persuaso che, abbandonando la propria moglie, uno realmente commette qualche cosa di iniquo e pericoloso”. (Ibidem, pag. 185).
L’innocenza agisce come una cartina di tornasole, distinguendo tra il vero male, la colpa da ciò che solo sembra male, il contravvenire alle convenzioni. Lavorando contro l’abitudine per recuperare la propria innocenza, sia Innocenzo che gli altri personaggi che vengono a contatto con la sua vivificante presenza riacquistano la limpidità di giudizio sul bene e sul male. Più profondamente, solo facendo l’esperienza del male e rifiutandola, l’uomo può ancora essere innocente. Quando fu chiesto a Chesterton perché fosse entrato nella Chiesa Cattolica egli rispose « per liberarmi dai miei peccati » (riferito da Chesterton stesso in Autobiografia, pag. 327).
L’innocenza non è più possibile senza la fatica di un lavoro su di sé come quello cui si sottomette Innocenzo, e più profondamente senza un luogo ove sia possibile il perdono. Solo nell’innocenza, però, diventa possibile la felicità. Fin dall’inizio Innocenzo Smith irrompe nel romanzo come un gran vento, un vento di gioia, di rumorosa e dirompente allegria, che meraviglia e conquista tutti; e solo la sua presenza permette agli altri personaggi di uscire da una oppressiva impasse che è una profonda incapacità di agire per la propria felicità.
L’innocenza del protagonista diventa così in un certo senso contagiosa, facendolo in qualche modo segno della Chiesa, luogo del perdono da cui l’uomo può continuamente ricominciare la sua via. Egli va via, lasciando dietro a sé due coppie in procinto di sposarsi, capaci finalmente di prendere una decisione impegnativa per la propria felicità.
Solo il medico cui ha sparato, mancandolo di proposito, poiché stava affermando che non avrebbe festeggiato il proprio compleanno, giacché la vita non è qualcosa che meriti di essere festeggiato, (evento che ha dato il via al processo casalingo), se ne va via tale quale, senza aver in nulla cambiato le proprie opinioni. Quando persino l’altro accusatore del processo gli grida dietro che in realtà il colpo sparato da breve distanza l’ha mancato di parecchi metri, Moon, il difensore, ribatte sottovoce che il colpo lo ha mancato di parecchi anni, che Innocenzo è arrivato tardi e ch’essi hanno parlato, in realtà, con un uomo che è già morto.

CHARLES PÉGUY – LA FEDE CHE PIÙ AMO, DICE DIO, È LA SPERANZA…

http://www.fractio.it/Gemme.htm

CHARLES PÉGUY

LA FEDE CHE PIÙ AMO, DICE DIO, È LA SPERANZA.
LA FEDE, NO, NON MI SORPRENDE. LA FEDE NON È SORPRENDENTE.

Io risplendo talmente nella mia creazione.
Nel sole e nella luna e nelle stelle. In tutte le mie creature.
Negli astri del firmamento e nei pesci del mare. Nell’universo delle mie creature.
Sulla faccia della terra e sulla faccia delle acque.
Nei movimenti degli astri che sono nel cielo.
Nel vento che soffia sul mare e nel vento che soffia nella valle. Nella calma valle.
Nella quieta valle. Nelle piante e nelle bestie e nelle bestie delle foreste.
E nell’uomo. Mia creatura.
Nei popoli e negli uomini e nei re e nei popoli. Nell’uomo e nella donna sua compagna.
E soprattutto nei bambini. Mie creature.
Nello sguardo e nella voce dei bambini. Perché i bambini sono più creature mie.
Che gli uomini. Non sono ancora stati disfatti dalla vita. Della terra.
E fra tutti sono i miei servitori. Prima di tutti.
E la voce dei bambini è più pura della voce del vento nella calma della valle.
Nella quieta valle.
E lo sguardo dei bambini è più puro dell’azzurro del cielo, del bianco latteo del cielo, e di un raggio di stella nella calma notte.

Ora io risplendo talmente nella mia creazione.
Sulla faccia delle montagne e sulla faccia della pianura.
Nel pane e nel vino e nell’uomo che ara e nell’uomo che semina e nella mietitura
e nella vendemmia.
Nella luce e nelle tenebre.
E nel cuore dell’uomo, che è ciò che di più profondo v’è nel mondo. Creato.
(….)
Nella preghiera e nei sacramenti.
Nelle case degli uomini e nella chiesa che è la mia casa sulla terra.
Nell’aquila mia creatura che vola sui picchi.
L’aquila reale che ha almeno due metri d’apertura d’ali e fors’anche tre.
E nella formica mia creatura che striscia e che ammassa miseramente.
Nella terra. Nella formica mio servitore. E fin nel serpente.
Nella formica mia serva, mia infima serva, che ammassa a fatica, la parsimoniosa.
Che lavora come una disgraziata e non conosce sosta e non conosce riposo.
Se non la morte e il lungo sonno invernale.
(…)
Io risplendo talmente in tutta la mia creazione.
Nell’infima, nella mia creatura infima, nella mia serva infima, nella formica infima.
Che tesaurizza miseramente, come l’uomo. Come l’uomo infimo.
E che scava gallerie nella terra. Nel sottosuolo della terra.
Per ammassarvi meschinamente dei tesori. Temporali. Poveramente.
(….)
Io risplendo talmente nella mia creazione.
In tutto ciò che accade agli uomini e ai popoli, e ai poveri.
E anche ai ricchi. Che non vogliono esser mie creature. E che si mettono al riparo.
Per non esser miei servitori.
In tutto ciò che l’uomo fa e disfa in male e in bene.
(E io passo sopra a tutto, perché sono il Signore, e faccio ciò che lui ha disfatto e disfo quello che lui ha fatto).
E fin nella tentazione del peccato. Stesso.
E in tutto ciò che è accaduto a mio figlio. A causa dell’uomo. Mia creatura.
Che io avevo creato.
Nell’incorporazione, nella nascita e nella vita e nella morte di mio figlio.
E nel santo sacrificio della Messa.
In ogni nascita e in ogni vita. E in ogni morte.
E nella vita eterna che non avrà mai fine. Che vincerà ogni morte.
Io risplendo talmente nella mia creazione.
Che per non vedermi realmente queste povere persone dovrebbero esser cieche.
La carità, dice Dio, non mi sorprende.
La carità, no, non è sorprendente.
Queste povere creature son così infelici che, a meno di aver un cuore di pietra, come potrebbero non aver carità le une per le altre.
Come potrebbero non aver carità per i loro fratelli.
Come potrebbero non togliersi il pane di bocca, il pane di ogni giorno, per darlo a dei bambini infelici che passano.
E da loro mio figlio ha avuto una tale carità.
Mio figlio loro fratello.
Una così grande carità.
Ma la speranza, dice Dio, la speranza, sì, che mi sorprende.
Me stesso.
Questo sì che è sorprendente.
Che questi poveri figli vedano come vanno le cose e credano che domani andrà meglio.
Che vedano come vanno le cose oggi e credano che andrà meglio domattina.
Questo sì che è sorprendente ed è certo la più grande meraviglia della nostra grazia.
Ed io stesso ne son sorpreso.
E dev’esser perché la mia grazia possiede davvero una forza incredibile.
E perché sgorga da una sorgente e come un fiume inesauribile
Da quella prima volta che sgorgò e da sempre che sgorga.
Nella mia creazione naturale e soprannaturale.
Nella mia creazione spirituale e carnale e ancora spirituale.
Nella mia creazione eterna e temporale e ancora eterna.
Mortale e immortale.
E quella volta, oh quella volta, da quella volta che sgorgò, come un fiume di sangue,
dal fianco trafitto di mio figlio.
Quale non dev’esser la mia grazia e la forza della mia grazia perché questa piccola speranza, vacillante al soffio del peccato, tremante a tutti i venti,
ansiosa al minimo soffio,
sia così invariabile, resti così fedele, così eretta, così pura; e invincibile, e immortale, e impossibile da spegnere; come questa fiammella del santuario.
Che brucia in eterno nella lampada fedele.
Una fiamma tremolante ha attraversato la profondità dei mondi.
Una fiamma vacillante ha attraversato la profondità delle notti.
Da quella prima volta che la mia grazia è sgorgata per la creazione del mondo.
Da sempre che la mia grazia sgorga per la conservazione del mondo.
Da quella volta che il sangue di mio figlio è sgorgato per la salvezza del mondo.
Una fiamma che non è raggiungibile,
una fiamma che non è estinguibile dal soffio della morte.
Ciò che mi sorprende, dice Dio, è la speranza.
E non so darmene ragione.
Questa piccola speranza che sembra una cosina da nulla.
Questa speranza bambina. Immortale.
Perché le mie tre virtù, dice Dio. Le tre virtù mie creature. Mie figlie mie fanciulle.
Sono anche loro come le altre mie creature. Della razza degli uomini.
La Fede è una Sposa fedele.
La Carità è una Madre.
Una madre ardente, ricca di cuore.
O una sorella maggiore che è come una madre.
La Speranza è una bambina insignificante.
Che è venuta al mondo il giorno di Natale dell’anno scorso.
Che gioca ancora con il babbo Gennaio.
Con i suoi piccoli abeti in legno di Germania coperti di brina dipinta.
E con il suo bue e il suo asino in legno di Germania. Dipinti.
E con la sua mangiatoia piena di paglia che le bestie non mangiano.
Perché sono di legno.
Ma è proprio questa bambina che attraverserà i mondi. Questa bambina insignificante.
Lei sola, portando gli altri, che attraverserà i mondi passati.
Come la stella ha guidato i tre re dal più remoto Oriente.
Verso la culla di mio figlio.
Così una fiamma tremante. Lei sola guiderà le Virtù e i Mondi.
Una fiamma squarcerà delle tenebre eterne.
(…)
Si dimentica troppo, bambina mia, che la speranza è una virtù, che è una virtù teologale, e che di tutte le virtù, e delle tre virtù teologali, è forse quella più gradita a Dio.
Che è certamente la più difficile, che è forse l’unica difficile,
e che probabilmente è la più gradita a Dio.
La fede va da sé. La fede cammina da sola. Per credere basta solo lasciarsi andare, basta solo guardare. Per non credere bisognerebbe violentarsi, torturarsi, tormentarsi, contrariarsi. Irrigidirsi. Prendersi a rovescio, mettersi a rovescio, andare all’inverso. La fede è tutta naturale, tutta sciolta, tutta semplice, tutta quieta. Se ne viene pacifica. E se ne va tranquilla. È una brava donna che si conosce, una brava vecchia, una brava vecchia parrocchiana, una brava donna della parrocchia, una vecchia nonna, una brava parrocchiana. Ci racconta le storie del tempo antico, che sono accadute nel tempo antico. Per non credere, bambina mia, bisognerebbe tapparsi gli occhi e le orecchie.
Per non vedere, per non credere.
La carità va purtroppo da sé. La carità cammina da sola. Per amare il proprio prossimo basta solo lasciarsi andare, basta solo guardare una tal miseria. Per non amare il proprio prossimo bisognerebbe violentarsi, torturarsi, tormentarsi, contrariarsi. Irrigidirsi. Farsi male. Snaturarsi, prendersi a rovescio, mettersi a rovescio. Andare all’inverso. La carità è tutta naturale, tutta fresca, tutta semplice, tutta quieta. È il primo movimento del cuore. E il primo movimento quello buono. La carità è una madre e una sorella.
Per non amare il proprio prossimo, bambina mia,
bisognerebbe tapparsi gli occhi e le orecchie.
Dinanzi a tanto grido di miseria.
Ma la speranza non va da sé. La speranza non va da sola. Per sperare, bambina mia, bisogna esser molto felici, bisogna aver ottenuto, ricevuto una grande grazia.
È la fede che è facile ed è non credere che sarebbe impossibile. È la carità che è facile ed è non amare che sarebbe impossibile. Ma è sperare che è difficile
(…)
E quel che è facile e istintivo è disperare ed è la grande tentazione.
La piccola speranza avanza fra le due sorelle maggiori
e su di lei nessuno volge lo sguardo.

Sulla via della salvezza, sulla via carnale, sulla via accidentata della salvezza, sulla strada interminabile, sulla strada fra le sue due sorelle la piccola speranza.
Avanza. Fra le due sorelle maggiori. Quella che è sposata. E quella che è madre.
E non si fa attenzione, il popolo cristiano non fa attenzione che alle due sorelle maggiori.
La prima e l’ultima. Che badano alle cose più urgenti. Al tempo presente.
All’attimo momentaneo che passa.
il popolo cristiano non vede che le due sorelle maggiori, non ha occhi che per le due sorelle maggiori.
Quella a destra e quella a sinistra.
E quasi non vede quella ch’è al centro.
La piccola, quella che va ancora a scuola. E che cammina.
Persa fra le gonne delle sorelle.
E ama credere che sono le due grandi a portarsi dietro la piccola per mano.
Al centro. Fra loro due.
Per farle fare questa strada accidentata della salvezza.
Ciechi che sono a non veder invece
Che è lei al centro a spinger le due sorelle maggiori.
E che senza di lei loro non sarebbero nulla.
Se non due donne avanti negli anni. Due donne d’una certa età. Sciupate dalla vita.
È lei, questa piccola, che spinge avanti ogni cosa.
Perché la Fede non vede se non ciò che è. E lei, lei vede ciò che sarà.
La Carità non ama se non ciò che è. E lei, lei ama ciò che sarà.
La Fede vede ciò che è. Nel Tempo e nell’Eternità.
La Speranza vede ciò che sarà. Nel tempo e per l’eternità.
Per così dire nel futuro della stessa eternità.
La Carità ama ciò che è. Nel Tempo e nell’Eternità.
Dio e il prossimo.
Così come la Fede vede.
Dio e la creazione.
Ma la Speranza ama ciò che sarà. Nel tempo e per l’eternità.
Per così dire nel futuro dell’eternità.
La Speranza vede quel che non è ancora e che sarà.
Ama quel che non è ancora e che sarà.
Nel futuro del tempo e dell’eternità.
Sul sentiero in salita, sabbioso, disagevole. Sulla strada in salita.
Trascinata, aggrappata alle braccia delle due sorelle maggiori,
Che la tengono per mano. La piccola speranza. Avanza.
E in mezzo alle due sorelle maggiori sembra lasciarsi tirare.
Come una bambina che non abbia la forza di camminare.
E venga trascinata su questa strada contro la sua volontà.
Mentre è lei a far camminar le altre due.
E a trascinarle. E a far camminare tutti quanti. E a trascinarli.
Perché si lavora sempre solo per i bambini.
E le due grandi camminan solo per la piccola.

Publié dans:Letteratura straniera, meditazioni |on 27 janvier, 2015 |Pas de commentaires »

DA « CANTO DI NATALE » BRANO DI CHARLES DICKENS

http://www.ilnatale.org/leggende/canto_natale_dickens.htm

DA « CANTO DI NATALE » BRANO DI CHARLES DICKENS

… Corse alla finestra, l’aprì e sporse fuori la testa; niente nebbia, niente bruma; una giornata chiara, luminosa, gioviale, stimolante, fredda; un freddo che frustava il sangue e metteva voglia di ballare; un sole d’oro, un cielo incantevole; aria fresca e dolce; campane gioiose. Oh, splendido, splendido!
« Che giorno è oggi? », gridò Scrooge, verso la strada, a un ragazzo vestito a festa, che forse si era fermato proprio per guardare lui.
« Eh…? », rispose il ragazzo, con tutto lo stupore di cui era capace.
« Che giorno è oggi, mio bel figliolo? », chiese Scrooge.
« oggi… », replicò il ragazzo, « ma come? È Natale! »
« È Natale », disse Scrooge a se stesso. « Non l’ho lasciato passare. Gli spiriti hanno fatto tutto in una notte sola. Possono fare qualunque cosa vogliono, naturalmente; naturalmente, possono fare qualunque cosa vogliono! » « Senti, ragazzino. »
« Sì », rispose il ragazzo.
« Sei un ragazzino intelligente », disse Scrooge, « un ragazzino straordinario. Sai se hanno venduto quel tacchino che c’era appeso in mostra alla bottega? Non il tacchino piccolo, ma quello grosso. »
« Quale, quello grosso come me? », rispose il ragazzino.
 » – Che ragazzino delizioso! E un piacere parlare con lui. – Sì, figliolo mio. »
« C’è ancora appeso adesso », replicò il ragazzo.
« C’è », disse Scrooge. « Va’ a comperarlo. »
« È matto! », rispose il ragazzo.
« No, no », disse Scrooge. « Va’ a comperarlo, e di che lo portino qui, perché possa dare l’indirizzo dove deve essere mandato. Ritorna col commesso e ti darò uno scellino; ritorna con lui in meno di cinque minuti e ti darò mezza corona. »
Il ragazzo partì come una palla di fucile; e chi avesse potuto far partire una palla con una velocità pari a metà della sua avrebbe dovuto avere la mano ben ferma sul grilletto.
« Lo voglio mandare a Bob Cratchit », mormorò Scrooge, fregandosi le mani e scoppiando in una risata. « Non saprà chi è che glielo ha mandato. E grande il doppio di Tiny Tim. Nessuno ha mai fatto uno scherzo così ben riuscito come quello di mandare quel tacchino a Bob. »
La calligrafia con la quale scrisse l’indirizzo non era molto ferma; tuttavia, in un modo o nell’altro, lo scrisse, poi scese giù ad aprire la porta di strada per trovarsi pronto all’arrivo del commesso del pollaiolo. Mentre stava sulla porta, aspettandolo, gli cadde sott’occhio il batacchio.
« A questo vorrò bene finché vivo », gridò Scrooge, accarezzandolo con le mani. « E dire che prima lo avevo appena guardato! Che espressione onesta c’è in quella faccia! E un batacchio magnifico. Ma ecco il tacchino. Hello, come state? Buon Natale! »
Quello era un tacchino! E impossibile che quell’uccello fosse mai stato in piedi. Le zampe gli si sarebbero piegate sotto in un minuto, come bastoncini di ceralacca.
« Ma è impossibile portarlo fino a Camden Town. Bisogna che prendiate una carrozza. »
Il risolino col quale pronunciò queste parole, e quello col quale pagò il tacchino, e quello col quale pagò la carrozza, e quello col quale ricompensò il ragazzo, furono superati soltanto da quello col quale tornò a sedersi senza fiato sulla sua sedia, continuando a ridere finché non gli venne da piangere.
Farsi la barba non fu cosa facile perché la mano continuava a tremargli molto; e farsi la barba è una cosa che richiede attenzione anche quando uno, facendosela, non si mette a ballare; pure, se si fosse tagliato la punta del naso, ci avrebbe messo sopra un pezzetto di cerotto e sarebbe stato perfettamente soddisfatto lo stesso.
Si vestì dei suoi abiti migliori, e finalmente uscì in strada. In questo momento la gente stava uscendo dalle case, così come egli l’aveva vista in compagnia dello Spettro del Natale Presente. E Scrooge, camminando con le mani dietro la schiena, guardava tutti quanti con un sorriso compiaciuto. Per dirla in breve, aveva l’aria così irresistibilmente piacevole che tre o quattro tipi di buon umore dissero « buon giorno, signore, buon Natale », e Scrooge disse spesso, più tardi, che di tutti i suoni gioiosi che egli aveva mai udito, quelli al suo orecchio erano stati i più gioiosi.
Non aveva fatto molta strada, quando vide venirgli incontro quel signore imponente che il giorno prima era entrato nel suo ufficio dicendo: « La ditta Scrooge e Marley, credo ». Sentì un colpo al cuore nel pensare all’occhiata che gli avrebbe dato il vecchio signore nel momento in cui si fossero incontrati; ma conosceva ormai quale strada gli si apriva diritta dinanzi e la prese.
« Caro signore », disse Scrooge, affrettando il passo, e prendendo il vecchio per ambe le mani, « come state? Spero che abbiate avuto successo ieri. E stato molto gentile da parte vostra. Buon Natale, signore! »
« Il signor Scrooge? »
« Sì », disse Scrooge: « questo è il mio nome, e ho paura che non vi riesca molto gradito. Permettetemi di chiedervi scusa, e vogliate avere la bontà…  » e qui Scrooge gli sussurrò qualcosa all’orecchio.
« Signore Iddio! », gridò il signore, come se gli fosse stato mozzato il fiato. « Mio caro signor Scrooge, parlate sul serio? »
« Per favore », disse Scrooge, « neanche un soldo di meno. In questa somma, vi assicuro, sono compresi molti arretrati. Volete farmi questo favore? »
« Ma, caro signore », disse l’altro, stringendogli la mano, « non so che cosa dire di fronte a una simile munifi… »
« Non dite niente, vi prego », replicò Scrooge. « Venite a trovarmi. Verrete a trovarmi? »
« Ma certo », esclamò il vecchio signore, ed era chiaro che diceva sul serio.
« Grazie », disse Scrooge, « vi sono molto obbligato. Vi ringrazio mille volte. Dio vi benedica. »
Si recò in chiesa, passeggiò per le strade, guardò la gente che si affrettava in tutte le direzioni, accarezzò bambini sulla testa, rivolse la parola ai mendicanti, guardò dentro le cucine delle case e dentro le finestre, e trovò che tutto quanto gli procurava piacere. Non aveva mai sognato che una passeggiata, che una cosa qualunque potesse dargli tanta felicità. Nel pomeriggio si diresse verso la casa di suo nipote.
Passò e ripassò davanti alla porta una dozzina di volte, prima di avere il coraggio di andar su e bussare. Finalmente si decise e lo fece.
« E in casa il vostro padrone, mia cara? », disse Scrooge alla domestica. Ragazza graziosa, davvero!
« Sì, signore. »
« Dov’è, amor mio? », disse Scrooge.
« E in sala da pranzo, insieme con la signora. Vi accompagno di sopra, col vostro permesso. »
« Grazie, lui mi conosce », disse Scrooge, che aveva già la mano sulla maniglia della sala da pranzo. « Entrerò qui, mia cara. »
Fece girare la maniglia pian piano, e si affacciò alla porta semiaperta. Stavano guardando la tavola apparecchiata con un gran lusso, perché i padroni di casa, quando sono giovani, sono sempre nervosi su questo punto e vogliono esser sicuri che tutto sia in perfetto ordine.
« Fred! », disse Scrooge.
Signore! come trasalì la sua nipote acquisita! Per un attimo Scrooge si era scordato che c’era anche lei, seduta in un angolo, col panchettino sotto i piedi; altrimenti non lo avrebbe fatto di certo.
« Ma come, benedetto Iddio », gridò Fred, « chi è mai? »
« Sono io, tuo zio Scrooge. Son venuto a pranzo. Vuoi lasciarmi entrare, Fred? »
Lasciarlo entrare! E un miracolo che, stringendogli la mano, non gli staccasse addirittura il braccio. Si sentì a casa propria in cinque minuti. Non c’era nulla che potesse essere più cordiale. Sua nipote aveva esattamente lo stesso aspetto, e così Topper quando arrivò, e così la sorellina paffutella quando arrivò e così tutti quanti quando arrivarono. Festa meravigliosa, giochi meravigliosi, armonia meravigliosa, felicità meravigliosa.
Però la mattina seguente arrivò presto in ufficio. Oh, se ci arrivò presto! Solo poter arrivare per primo e sorprendere Bob Cratchit che arrivava in ritardo: era questa la cosa che più gli stava a cuore.
E vi riuscì; sì, vi riuscì. L’orologio batté le nove – niente Bob; le nove e un quarto – niente Bob. Era ben diciotto minuti e mezzo in ritardo. Scrooge stava seduto con la porta spalancata, in modo da poterlo veder entrare nella cisterna.
Si era levato il cappello e la sciarpa prima di aprire la porta, e si arrampicò in un baleno sul suo panchetto, correndo via con la penna come se tentasse di riacchiappare le nove.
« Ehi là! », grugnì Scrooge, con la sua voce consueta, imitandola il più fedelmente possibile. « Che cosa significa arrivare a quest’ora? »
« Vi chiedo mille scuse, signor Scrooge », disse Bob, « sono in ritardo. »
« Davvero? », ripeté Scrooge. « Sì, credo che siate in ritardo. Venite un momento qua, per favore! »
« Una volta sola all’anno, signor Scrooge », supplicò Bob, venendo fuori dalla cisterna. « Non succederà più. Ieri siamo stati un po’ allegri. »
« Ora vi dirò una cosa, amico mio », disse Scrooge. « Non intendo tollerare più a lungo questa razza di cose, e perciò », proseguì, balzando su dalla sedia e dando a Bob una tale spinta nel panciotto da farlo andare all’indietro barcollando dentro la cisterna, « e perciò mi propongo di aumentarvi lo stipendio. »
Bob tremò e si avvicinò un po’ più al righello. Ebbe per un momento l’idea dì servirsene per stordire Scrooge, e poi tenerlo fermo e chiedere alla gente della corte aiuto e una camicia di forza.
« Buon Natale, Bob! », disse Scrooge, con una serietà che non poteva essere fraintesa, battendogli sulle spalle. « Un Natale più buono, Bob, mio bravo figliolo, di quelli che vi ho dato per molti anni. Vi aumenterò lo stipendio e tenterò di assistere la vostra famiglia nelle sue difficoltà; e questo stesso pomeriggio discuteremo i vostri affari, seduti davanti a un bel punch natalizio fumante. Ravvivate il fuoco, Bob Cratchit, e comperatevi un’altra paletta per il carbone, prima di mettere il punto su un’altra i. »
Scrooge fece più che mantenere la parola. Fece tutto quanto, e infinitamente di più: e per Tiny Tim, il quale non morì, fu un secondo padre. Divenne un amico, un padrone, un uomo così buono, come poteva mai averne conosciuto quella buona vecchia città, o qualunque altra buona vecchia città, borgata o villaggio di questo buon mondo. Alcuni ridevano, vedendo il suo cambiamento; ma egli era abbastanza saggio da sapere che su questo globo niente di buono è mai accaduto, di cui qualcuno non abbia riso al primo momento. E sapendo che in ogni modo la gente siffatta è cieca, pensò che non aveva nessuna importanza se strizzavano gli occhi in un sogghigno, come fanno gli ammalati di certe forme poco attraenti di malattie. Il suo cuore rideva e questo per lui era perfettamente sufficiente.
Non ebbe più rapporti con gli spiriti; ma visse sempre, d’allora in poi, sulla base di una totale astinenza; e di lui si disse sempre che se c’era un uomo che sapeva osservare bene il Natale, quell’uomo era lui. Possa questo esser detto veramente di noi, di noi tutti! E cosi, come osservò Tiny Tim, che Dio ci benedica, tutti!

(Brano di Natale di Charles Dickens)

“CONFESSIONE” DI LEV TOLSTOJ: I QUATTRO MODI DI RAPPORTARSI ALLA VITA E LA SOLUZIONE CATTOLICA

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“CONFESSIONE” DI LEV TOLSTOJ: I QUATTRO MODI DI RAPPORTARSI ALLA VITA E LA SOLUZIONE CATTOLICA

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“Io – artista, poeta – scrivevo, insegnavo senza sapere io stesso che cosa”.

Così Tolstoj descrive la propria giovinezza, nella quale la sua cultura, unita alla perdita della fede, lo aveva reso superbo e avido di guadagno.
L’unica sua fede era quella nel progresso, fede che si incrinò, per la prima volta, a Parigi, alla vista di un’esecuzione capitale, e la seconda volta in occasione della morte di suo fratello.
Circa cinque anni dopo il suo matrimonio, la crisi si esacerbò, divenendo più profonda: iniziò a domandarsi il senso di tutto, il senso della sua esistenza e del suo agire.
“La mia vita si arrestò. Io potevo respirare, mangiare, bere, dormire, non bere, non dormire; ma la vita non c’era, perché non c’erano desideri la cui soddisfazione mi sembrasse razionale” ; la vita gli apparve priva di senso, intrisa di nulla, un malvagio scherzo giocatogli da qualcuno.
Non riusciva ad attribuire alcun senso né ad ogni singolo suo atto né all’intera sua vita. Una (possibile) salvezza nell’arte?
“Fino a quando la vita che vivevo non era la mia propria, bensì la vita degli altri che mi trasportava sulle sue onde, finché credetti che la vita avesse un senso […] i riflessi della vita, di qualsiasi genere fossero, nella poesia e nelle arti, mi procuravano gioia, ed era rallegrante per me guardare la vita in quello specchietto dell’arte; ma quando cominciai a cercare il senso della vita, quando avvertii l’esigenza di vivere la vita mia propria, quello specchietto mi divenne o inutile, superfluo e ridicolo, oppure tormentoso” .
Del resto, neppure la scienza gli forniva le risposte sul senso della vita, ambito che riguarda la filosofia speculativa, o metafisica, la quale, tuttavia, neppure essa poteva risolvere il suo dilemma esistenziale.
“Dunque io andavo vagando per questa foresta delle scienze umane fra le radure delle scienze matematiche e sperimentali che mi aprivano orizzonti nitidi, ma tali che nella loro direzione non si potesse avvistare neppure una casa, e fra le tenebre delle scienze speculative, nelle quali finii per immergermi in un buio sempre più fitto, via via che avanzavo, finché mi convinsi del fatto che un’uscita non c’era e non poteva esserci” .
Dinanzi a noi, il nulla. Ma la volontà di vivere si ribella a questa risposta nichilista. Si è in costante bilico tra la volontà e il nulla.
Non riuscendo a trovare una spiegazione nella scienza, Tolstoj cominciò a cercarla nella vita: osservò che, dinanzi agli uomini intorno a lui, quattro vie si profilavano, quattro modi di rapportarsi alla vita.
La prima via è quella dell’ignoranza: non comprendere che la vita è male e non ha senso. La seconda è quella dell’epicureismo: approfittare del presente, di ciò che abbiamo qui ed ora, pur consci della situazione disperata della vita. La terza è quella della forza e dell’energia: consiste nel distruggere la vita, dopo aver compreso che la vita è un male e un non-senso. La quarta è quella della debolezza: continuare a trascinare la vita, pur comprendendone l’insensatezza, non avendo la forza sufficiente per porre fine alla vita.
Poi, Tolstoj si accorge dell’errore alla base del suo ragionamento.
“Io domandavo: qual è il significato non temporale, non casuale, non spaziale della mia vita? E invece rispondevo a quest’altra domanda: qual è il significato temporale, casuale, spaziale, della mia vita? Il risultato fu che dopo un lungo lavorìo del pensiero, io risposi: nessuno” .
Comprese che non era possibile cercare nella conoscenza razionale una risposta alla sua domanda e che, per quanto irrazionali e mostruose fossero le risposte fornite dalla fede, esse potevano introdurre in ogni risposta il rapporto tra il finito e l’infinito, senza il quale non poteva darsi una risposta. Ogni individuo vivente, ammise Tolstoj, oltre alla conoscenza razionale possiede anche un’altra conoscenza, di natura irrazionale, ossia la fede, che offre la possibilità di vivere. La conoscenza razionale, dal canto suo, lo aveva indotto a considerare la vita come priva di senso.
“La fede è la forza della vita. Se l’uomo vive, significa che in qualcosa crede”.
Sicché, dunque, Tolstoj fu pronto ad accettare qualsiasi fede, purché essa non avesse avuto come rovescio della medaglia una decisa negazione della ragione.
Dopo aver constatato negli intellettuali e nei teologi ortodossi una fede che ottenebrava la vita e contrastava con il vissuto, cominciò ad avvicinarsi alla fede delle persone semplici, dei monaci, dei pellegrini.
“Contrariamente a ciò che vedevo nella nostra cerchia, dove tutta la vita trascorre nell’ozio, nei divertimenti e nella insoddisfazione per la vita, io vedevo che tutta la vita di quegli uomini trascorreva in una dura fatica e che essi erano meno scontenti della vita in confronto ai ricchi” .
Dunque, la convinzione che la vita fosse una male era riferita soltanto alla sua vita, come comprese Tolstoj.
“Compresi che, se volevo capire la vita e il suo senso, dovevo vivere non la vita del parassita, bensì la vita autentica e che, accettando il senso che ad essa l’umanità autentica attribuisce, dovevo prima fondermi con quella vita, e poi verificarlo” .
Tornò quindi alla fede in Dio, la sola che trasmette senso alla vita, una fede consapevolmente abbracciata. Rifiutò la vuotezza della vita degli intellettuali, guardando con fervente simpatia alla vita del semplice popolo lavoratore, illuminata dalla fede in Dio.
“Il compito dell’uomo nella vita è di salvare la propria anima; per salvare la propria anima occorre vivere secondo la volontà di Dio e per vivere secondo la volontà di Dio bisogna rinnegare tutti i piaceri della vita, darsi da fare, umiliarsi, sopportare ed essere misericordiosi” .
Come evoluzione della sua ritrovata fede (unita, ricordiamo, allo scetticismo verso la dottrina religiosa di intellettuali e teologi), arrivò la contrapposizione alla Chiesa ortodossa; in particolare riguardo al rapporto dell’Ortodossia nei confronti di altre confessioni cristiane.
“Quella dottrina che mi aveva promesso di unire tutti in un’unica fede e in un unico amore, quella dottrina stessa per bocca dei suoi migliori rappresentanti mi diceva che quelle erano tutte persone che si trovavano immerse nella menzogna e che ciò che dava loro la forza di vivere era la tentazione del diavolo e che noi soli eravamo in possesso dell’unica verità possibile”.
Smise dunque di dubitare, convincendosi pienamente che, nella conoscenza della fede cui aveva aderito, non tutto era verità. Bisogna dunque, concluse, esaminare tutto, sino ad essere condotti a ciò che è inevitabilmente inspiegabile, a causa dei limiti della ragione.
“Confessione“. Una dialettica interiore. Il racconto del procedere di una crisi interiore condensato in poche pagine, evitando, in tal modo, di divenire una lagnante lamentazione di sé. Un’introspezione interiore in cui traspare una forza e un’esigenza dialettica di chiarezza e verità.

Publié dans:Letteratura straniera |on 13 octobre, 2014 |Pas de commentaires »

LA FEDE CHE PIÙ AMO, DICE DIO, È LA SPERANZA. – CHARLES PÉGUY

http://www.fractio.it/Gemme.htm

LA FEDE CHE PIÙ AMO, DICE DIO, È LA SPERANZA. – CHARLES PÉGUY

La fede che più amo, dice Dio, è la speranza.
La fede, no, non mi sorprende. La fede non è sorprendente.

Io risplendo talmente nella mia creazione.
Nel sole e nella luna e nelle stelle. In tutte le mie creature.
Negli astri del firmamento e nei pesci del mare. Nell’universo delle mie creature.
Sulla faccia della terra e sulla faccia delle acque.
Nei movimenti degli astri che sono nel cielo.
Nel vento che soffia sul mare e nel vento che soffia nella valle. Nella calma valle.
Nella quieta valle. Nelle piante e nelle bestie e nelle bestie delle foreste.
E nell’uomo. Mia creatura.
Nei popoli e negli uomini e nei re e nei popoli. Nell’uomo e nella donna sua compagna.
E soprattutto nei bambini. Mie creature.
Nello sguardo e nella voce dei bambini. Perché i bambini sono più creature mie.
Che gli uomini. Non sono ancora stati disfatti dalla vita. Della terra.
E fra tutti sono i miei servitori. Prima di tutti.
E la voce dei bambini è più pura della voce del vento nella calma della valle.
Nella quieta valle.
E lo sguardo dei bambini è più puro dell’azzurro del cielo, del bianco latteo del cielo, e di un raggio di stella nella calma notte.

Ora io risplendo talmente nella mia creazione.
Sulla faccia delle montagne e sulla faccia della pianura.
Nel pane e nel vino e nell’uomo che ara e nell’uomo che semina e nella mietitura
e nella vendemmia.
Nella luce e nelle tenebre.
E nel cuore dell’uomo, che è ciò che di più profondo v’è nel mondo. Creato.
(….)
Nella preghiera e nei sacramenti.
Nelle case degli uomini e nella chiesa che è la mia casa sulla terra.
Nell’aquila mia creatura che vola sui picchi.
L’aquila reale che ha almeno due metri d’apertura d’ali e fors’anche tre.
E nella formica mia creatura che striscia e che ammassa miseramente.
Nella terra. Nella formica mio servitore. E fin nel serpente.
Nella formica mia serva, mia infima serva, che ammassa a fatica, la parsimoniosa.
Che lavora come una disgraziata e non conosce sosta e non conosce riposo.
Se non la morte e il lungo sonno invernale.
(…)
Io risplendo talmente in tutta la mia creazione.
Nell’infima, nella mia creatura infima, nella mia serva infima, nella formica infima.
Che tesaurizza miseramente, come l’uomo. Come l’uomo infimo.
E che scava gallerie nella terra. Nel sottosuolo della terra.
Per ammassarvi meschinamente dei tesori. Temporali. Poveramente.
(….)
Io risplendo talmente nella mia creazione.
In tutto ciò che accade agli uomini e ai popoli, e ai poveri.
E anche ai ricchi. Che non vogliono esser mie creature. E che si mettono al riparo.
Per non esser miei servitori.
In tutto ciò che l’uomo fa e disfa in male e in bene.
(E io passo sopra a tutto, perché sono il Signore, e faccio ciò che lui ha disfatto e disfo quello che lui ha fatto).
E fin nella tentazione del peccato. Stesso.
E in tutto ciò che è accaduto a mio figlio. A causa dell’uomo. Mia creatura.
Che io avevo creato.
Nell’incorporazione, nella nascita e nella vita e nella morte di mio figlio.
E nel santo sacrificio della Messa.
In ogni nascita e in ogni vita. E in ogni morte.
E nella vita eterna che non avrà mai fine. Che vincerà ogni morte.
Io risplendo talmente nella mia creazione.
Che per non vedermi realmente queste povere persone dovrebbero esser cieche.
La carità, dice Dio, non mi sorprende.
La carità, no, non è sorprendente.
Queste povere creature son così infelici che, a meno di aver un cuore di pietra, come potrebbero non aver carità le une per le altre.
Come potrebbero non aver carità per i loro fratelli.
Come potrebbero non togliersi il pane di bocca, il pane di ogni giorno, per darlo a dei bambini infelici che passano.
E da loro mio figlio ha avuto una tale carità.
Mio figlio loro fratello.
Una così grande carità.
Ma la speranza, dice Dio, la speranza, sì, che mi sorprende.
Me stesso.
Questo sì che è sorprendente.
Che questi poveri figli vedano come vanno le cose e credano che domani andrà meglio.
Che vedano come vanno le cose oggi e credano che andrà meglio domattina.
Questo sì che è sorprendente ed è certo la più grande meraviglia della nostra grazia.
Ed io stesso ne son sorpreso.
E dev’esser perché la mia grazia possiede davvero una forza incredibile.
E perché sgorga da una sorgente e come un fiume inesauribile
Da quella prima volta che sgorgò e da sempre che sgorga.
Nella mia creazione naturale e soprannaturale.
Nella mia creazione spirituale e carnale e ancora spirituale.
Nella mia creazione eterna e temporale e ancora eterna.
Mortale e immortale.
E quella volta, oh quella volta, da quella volta che sgorgò, come un fiume di sangue,
dal fianco trafitto di mio figlio.
Quale non dev’esser la mia grazia e la forza della mia grazia perché questa piccola speranza, vacillante al soffio del peccato, tremante a tutti i venti,
ansiosa al minimo soffio,
sia così invariabile, resti così fedele, così eretta, così pura; e invincibile, e immortale, e impossibile da spegnere; come questa fiammella del santuario.
Che brucia in eterno nella lampada fedele.
Una fiamma tremolante ha attraversato la profondità dei mondi.
Una fiamma vacillante ha attraversato la profondità delle notti.
Da quella prima volta che la mia grazia è sgorgata per la creazione del mondo.
Da sempre che la mia grazia sgorga per la conservazione del mondo.
Da quella volta che il sangue di mio figlio è sgorgato per la salvezza del mondo.
Una fiamma che non è raggiungibile,
una fiamma che non è estinguibile dal soffio della morte.
Ciò che mi sorprende, dice Dio, è la speranza.
E non so darmene ragione.
Questa piccola speranza che sembra una cosina da nulla.
Questa speranza bambina. Immortale.
Perché le mie tre virtù, dice Dio. Le tre virtù mie creature. Mie figlie mie fanciulle.
Sono anche loro come le altre mie creature. Della razza degli uomini.
La Fede è una Sposa fedele.
La Carità è una Madre.
Una madre ardente, ricca di cuore.
O una sorella maggiore che è come una madre.
La Speranza è una bambina insignificante.
Che è venuta al mondo il giorno di Natale dell’anno scorso.
Che gioca ancora con il babbo Gennaio.
Con i suoi piccoli abeti in legno di Germania coperti di brina dipinta.
E con il suo bue e il suo asino in legno di Germania. Dipinti.
E con la sua mangiatoia piena di paglia che le bestie non mangiano.
Perché sono di legno.
Ma è proprio questa bambina che attraverserà i mondi. Questa bambina insignificante.
Lei sola, portando gli altri, che attraverserà i mondi passati.
Come la stella ha guidato i tre re dal più remoto Oriente.
Verso la culla di mio figlio.
Così una fiamma tremante. Lei sola guiderà le Virtù e i Mondi.
Una fiamma squarcerà delle tenebre eterne.
(…)
Si dimentica troppo, bambina mia, che la speranza è una virtù, che è una virtù teologale, e che di tutte le virtù, e delle tre virtù teologali, è forse quella più gradita a Dio.
Che è certamente la più difficile, che è forse l’unica difficile,
e che probabilmente è la più gradita a Dio.
La fede va da sé. La fede cammina da sola. Per credere basta solo lasciarsi andare, basta solo guardare. Per non credere bisognerebbe violentarsi, torturarsi, tormentarsi, contrariarsi. Irrigidirsi. Prendersi a rovescio, mettersi a rovescio, andare all’inverso. La fede è tutta naturale, tutta sciolta, tutta semplice, tutta quieta. Se ne viene pacifica. E se ne va tranquilla. È una brava donna che si conosce, una brava vecchia, una brava vecchia parrocchiana, una brava donna della parrocchia, una vecchia nonna, una brava parrocchiana. Ci racconta le storie del tempo antico, che sono accadute nel tempo antico. Per non credere, bambina mia, bisognerebbe tapparsi gli occhi e le orecchie.
Per non vedere, per non credere.
La carità va purtroppo da sé. La carità cammina da sola. Per amare il proprio prossimo basta solo lasciarsi andare, basta solo guardare una tal miseria. Per non amare il proprio prossimo bisognerebbe violentarsi, torturarsi, tormentarsi, contrariarsi. Irrigidirsi. Farsi male. Snaturarsi, prendersi a rovescio, mettersi a rovescio. Andare all’inverso. La carità è tutta naturale, tutta fresca, tutta semplice, tutta quieta. È il primo movimento del cuore. E il primo movimento quello buono. La carità è una madre e una sorella.
Per non amare il proprio prossimo, bambina mia,
bisognerebbe tapparsi gli occhi e le orecchie.
Dinanzi a tanto grido di miseria.
Ma la speranza non va da sé. La speranza non va da sola. Per sperare, bambina mia, bisogna esser molto felici, bisogna aver ottenuto, ricevuto una grande grazia.
È la fede che è facile ed è non credere che sarebbe impossibile. È la carità che è facile ed è non amare che sarebbe impossibile. Ma è sperare che è difficile
(…)
E quel che è facile e istintivo è disperare ed è la grande tentazione.
La piccola speranza avanza fra le due sorelle maggiori
e su di lei nessuno volge lo sguardo.

Sulla via della salvezza, sulla via carnale, sulla via accidentata della salvezza, sulla strada interminabile, sulla strada fra le sue due sorelle la piccola speranza.
Avanza. Fra le due sorelle maggiori. Quella che è sposata. E quella che è madre.
E non si fa attenzione, il popolo cristiano non fa attenzione che alle due sorelle maggiori.
La prima e l’ultima. Che badano alle cose più urgenti. Al tempo presente.
All’attimo momentaneo che passa.
il popolo cristiano non vede che le due sorelle maggiori, non ha occhi che per le due sorelle maggiori.
Quella a destra e quella a sinistra.
E quasi non vede quella ch’è al centro.
La piccola, quella che va ancora a scuola. E che cammina.
Persa fra le gonne delle sorelle.
E ama credere che sono le due grandi a portarsi dietro la piccola per mano.
Al centro. Fra loro due.
Per farle fare questa strada accidentata della salvezza.
Ciechi che sono a non veder invece
Che è lei al centro a spinger le due sorelle maggiori.
E che senza di lei loro non sarebbero nulla.
Se non due donne avanti negli anni. Due donne d’una certa età. Sciupate dalla vita.
È lei, questa piccola, che spinge avanti ogni cosa.
Perché la Fede non vede se non ciò che è. E lei, lei vede ciò che sarà.
La Carità non ama se non ciò che è. E lei, lei ama ciò che sarà.
La Fede vede ciò che è. Nel Tempo e nell’Eternità.
La Speranza vede ciò che sarà. Nel tempo e per l’eternità.
Per così dire nel futuro della stessa eternità.
La Carità ama ciò che è. Nel Tempo e nell’Eternità.
Dio e il prossimo.
Così come la Fede vede.
Dio e la creazione.
Ma la Speranza ama ciò che sarà. Nel tempo e per l’eternità.
Per così dire nel futuro dell’eternità.
La Speranza vede quel che non è ancora e che sarà.
Ama quel che non è ancora e che sarà.
Nel futuro del tempo e dell’eternità.
Sul sentiero in salita, sabbioso, disagevole. Sulla strada in salita.
Trascinata, aggrappata alle braccia delle due sorelle maggiori,
Che la tengono per mano. La piccola speranza. Avanza.
E in mezzo alle due sorelle maggiori sembra lasciarsi tirare.
Come una bambina che non abbia la forza di camminare.
E venga trascinata su questa strada contro la sua volontà.
Mentre è lei a far camminar le altre due.
E a trascinarle. E a far camminare tutti quanti. E a trascinarli.
Perché si lavora sempre solo per i bambini.
E le due grandi camminan solo per la piccola.

Publié dans:Letteratura straniera, poesie |on 16 septembre, 2014 |Pas de commentaires »

LO SPIRITO DI LEONE (TOLSTOJ)

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TESTIMONI – NOVEMBRE 2010

LO SPIRITO DI LEONE (TOLSTOJ)

In conclusione del nostro viaggio nel pensiero e nelle opere di Leone Tolstoj, invito alla lettura dei suoi scritti filosofico-religiosi.
Gloria Gazzeri (Associazione Amici di Tolstoj italiani –
Riportano i giornali dell’epoca che, al momento dei funerali di Leone Tolstoj la voce di uno sconosciuto gridò: “Il grande Leone è morto. Viva il grande spirito di Leone. Possano realizzarsi i suoi principi sul cristianesimo e sull’amore”.
Oggi si sta ampiamente celebrando il centenario della morte di Leone Tolstoj (che morì ad Astapovo nel novembre del 1910).
Eppure poco si parla ancora della seconda parte della sua vita e della sua opera filosofico-religiosa.
Alle soglie dei 50 anni, il famoso autore di “Guerra e pace” e “Anna Karenina”, ricco, celebre, amato, ebbe una gravissima crisi spirituale e giunse alle soglie del suicidio. La salvezza gli venne dalla rilettura del Vangelo sine glossa e dalla ritrovata fede in Dio. Scrisse: “E allora, cosa sto cercando – gridò a un tratto una voce dentro di me: eccolo dunque Dio. Egli è colui senza il quale non si può vivere” (La confessione).
Passò il resto della sua vita cercando di far conoscere alla gente quella verità che lo aveva salvato.
Nella sua rilettura del Vangelo, la chiave di tutto gli apparve il precetto dell’amore per i nemici e della non resistenza al male. Gandhi dichiarò di essere stato convertito alla nonviolenza, nel 1894, quando era in Sudafrica, proprio dalla lettura di un’opera fondamentale di Tolstoj : “Il regno di Dio è dentro di voi”.
Il Vangelo resterà il testo fondamentale nella sua ricerca filosofico-religiosa. Egli affermerà: “Quando mi domandano in che consiste la mia dottrina, io rispondo che non ho alcuna dottrina mia, ma intendo la dottrina cristiana appunto come è stata esposta nei Vangeli” (Come leggere il Vangelo).
Si tratta, però, pur sempre di una lettura molto personale. Il suo primo lavoro, dopo la conversione, sarà una rilettura nell’originale greco dei quattro Vangeli e relativa traduzione. Da essi, però, elimina i miracoli e ogni fenomeno soprannaturale, perché gli interessava soprattutto il messaggio etico.
Per lui, si deve passare da una religione della morte, preoccupata soprattutto del destino dell’anima, a una religione della vita, preoccupata di realizzare il Regno di Dio qui in terra. Contemporaneamente, però, a un mondo che sembra aver rimosso ogni riflessione sulla morte, Tolstoj parla spesso della morte, ne cerca i significati più consolanti.
Tolstoj trovò poi nei maestri orientali la conferma delle verità evangeliche, ne tradusse e diffuse le opere in Russia.
Gli autori orientali più amati e citati da Tolstoj sono Buddha, Lao Tze, Confucio, Mencio, Maometto.
In un’importante breve lettera che contiene il suo pensiero conclusivo sulla religione, Tolstoj scrisse: “La spiegazione razionale della vita ciascuno può trovarla nella propria fede. Questa spiegazione è la stessa in tutte le religioni. Essa consiste in ciò: l’uomo è il servo della potenza superiore, che si chiama Dio e deve esaudire la volontà di questa potenza; la volontà di questa potenza è l’unità di tutti gli uomini, che può essere raggiunta per tramite dell’amore” (Lettera a un giapponese, 1905).
Nel corso della sua ricerca, però, si trovò a criticare le Chiese istituzionali. Le accusò di ritualismo, dogmatismo, collusione coi poteri politici. La polemica scoppiò furiosa e Tolstoj fu scomunicato nel 1901 dal Santo Sinodo di Mosca.
Negli ultimi anni, questo furore polemico andò attenuandosi, e scrisse: “Esito a mandare molti dei miei libri ricordando i sentimenti cattivi, le condanne brutali che vi sono espresse… Ci dovrebbe essere l’umile affettuosa ragionevolezza della persuasione. Eppure questo non è in me. Mi sento in colpa” (Lettera a Certkòv del 1 luglio 1904). E anche: “Mi sono accorto che spesso ho avuto torto a calcare la mano, con troppa poca prudenza, contro la fede altrui” (Diari 7-8 marzo 1910).
Per le sue accuse contro le Chiese e contro lo Stato, i suoi libri in Russia vennero proibiti. Spesso furono stampati all’estero e poi, in epoca attuale, quasi dimenticati, e Tolstoj considerato soltanto un grande romanziere. E pensare che egli considerava “sciocchezze” (Diari 6.12.1908) i suoi romanzi; e scrisse a un suo amico: “Scrivevo dei librucoli sulle inezie e tutti i miei librucoli vennero esaltati e pubblicati, ma appena mi venne il desiderio di servire Dio, i miei libri vengono vietati e bruciati” (Lettera a Bondarev, 1.3.1886).
Il senso vero della vita
Tolstoi era consapevole di avere una missione. “I miei pensieri, i miei scritti sono solo passati attraverso di me, e ciò che in essi vi è di cattivo è mio; ciò che vi è di buono, non è mio, ma di Dio” (Lettera a E. V. Molostova, 15 giugno 1904).
Nei suoi scritti, Tolstoj voleva avvertirci che guerre, sciagure e dissolvimento attendevano la civiltà occidentale, se non fosse tornata a praticare il Vangelo autentico, “perché – scriveva – la sorgente di tutti i malintesi consiste nell’opinione che il cristianesimo sia una dottrina, che si può accettare senza cambiar vita”.
Scrisse Tolstoj, “Se ti accorgi di non avere fede, sappi che ti trovi nella più pericolosa situazione nella quale può trovarsi un uomo sulla terra… Le persone possono vivere e vivono quella vita ragionevole e concorde loro propria, allorquando sono unite dallo stesso modo di comprendere la vita… La causa della disastrosa situazione dei popoli cristiani è l’assenza in essi di una spiegazione del significato della vita che sia comune a tutti loro, l’assenza della fede e delle regole di condotta da essa derivanti. Il mezzo per salvarsi dalla presente disastrosa situazione consiste in ciò: la gente del mondo cristiano deve far sua quella concezione della vita che le è stata rivelata diciannove secoli fa… e deve applicare le regole di condotta contenute nella dottrina cristiana autentica” (La legge della violenza e la legge dell’amore, cap. I).
La salvezza è dunque possibile: “Il cristianesimo travisato e il potere di pochi e la schiavitù di molti verranno sostituiti da un cristianesimo autentico e dal riconoscimento dell’uguaglianza di tutti quanti gli uomini” (La fine del secolo, Capitolo primo).
E ancora : “Noi ci troviamo alle soglie di una vita nuova e completamente gioiosa; accedere ad essa dipende unicamente da ciò: liberarsi dalla tormentosa superstizione che sia necessaria la violenza nella vita di relazione e accettare l’eterno principio dell’amore” (La rivoluzione inevitabile, Capitolo XII).
Ci sembra piena di profetica speranza la conclusione del saggio sulla religione, là dove né gli intellettuali né le classi al potere sapranno, né avranno interesse a cercare nuove vie di salvezza, saranno gli uomini di fede a ritrovare la strada.
“Ci sono tempi come il nostro, in cui la gente religiosa non è visibile, essa passa la sua vita disprezzata e umiliata. Proprio questa gente religiosa, sebbene sia poca, può spezzare e spezzerà il cerchio magico in cui è chiusa e come stregata la gente. Queste persone certamente incendieranno tutto il mondo e tutti i cuori degli uomini, inariditi da una lunga vita senza religione, ma bramosi di un rinnovamento, così come il fuoco incendia la steppa secca” (Che cos’è la religione e quale ne è l’essenza? Capitolo XVII)

CHARLES PÉGUY, La fede che più amo, dice Dio…

http://www.fractio.it/Gemme.htm

CHARLES PÉGUY

La fede che più amo, dice Dio, è la speranza.
La fede, no, non mi sorprende. La fede non è sorprendente.

Io risplendo talmente nella mia creazione.
Nel sole e nella luna e nelle stelle. In tutte le mie creature.
Negli astri del firmamento e nei pesci del mare. Nell’universo delle mie creature.
Sulla faccia della terra e sulla faccia delle acque.
Nei movimenti degli astri che sono nel cielo.
Nel vento che soffia sul mare e nel vento che soffia nella valle. Nella calma valle.
Nella quieta valle. Nelle piante e nelle bestie e nelle bestie delle foreste.
E nell’uomo. Mia creatura.
Nei popoli e negli uomini e nei re e nei popoli. Nell’uomo e nella donna sua compagna.
E soprattutto nei bambini. Mie creature.
Nello sguardo e nella voce dei bambini. Perché i bambini sono più creature mie.
Che gli uomini. Non sono ancora stati disfatti dalla vita. Della terra.
E fra tutti sono i miei servitori. Prima di tutti.
E la voce dei bambini è più pura della voce del vento nella calma della valle.
Nella quieta valle.
E lo sguardo dei bambini è più puro dell’azzurro del cielo, del bianco latteo del cielo, e di un raggio di stella nella calma notte.

Ora io risplendo talmente nella mia creazione.
Sulla faccia delle montagne e sulla faccia della pianura.
Nel pane e nel vino e nell’uomo che ara e nell’uomo che semina e nella mietitura
e nella vendemmia.
Nella luce e nelle tenebre.
E nel cuore dell’uomo, che è ciò che di più profondo v’è nel mondo. Creato.
(….)
Nella preghiera e nei sacramenti.
Nelle case degli uomini e nella chiesa che è la mia casa sulla terra.
Nell’aquila mia creatura che vola sui picchi.
L’aquila reale che ha almeno due metri d’apertura d’ali e fors’anche tre.
E nella formica mia creatura che striscia e che ammassa miseramente.
Nella terra. Nella formica mio servitore. E fin nel serpente.
Nella formica mia serva, mia infima serva, che ammassa a fatica, la parsimoniosa.
Che lavora come una disgraziata e non conosce sosta e non conosce riposo.
Se non la morte e il lungo sonno invernale.
(…)
Io risplendo talmente in tutta la mia creazione.
Nell’infima, nella mia creatura infima, nella mia serva infima, nella formica infima.
Che tesaurizza miseramente, come l’uomo. Come l’uomo infimo.
E che scava gallerie nella terra. Nel sottosuolo della terra.
Per ammassarvi meschinamente dei tesori. Temporali. Poveramente.
(….)
Io risplendo talmente nella mia creazione.
In tutto ciò che accade agli uomini e ai popoli, e ai poveri.
E anche ai ricchi. Che non vogliono esser mie creature. E che si mettono al riparo.
Per non esser miei servitori.
In tutto ciò che l’uomo fa e disfa in male e in bene.
(E io passo sopra a tutto, perché sono il Signore, e faccio ciò che lui ha disfatto e disfo quello che lui ha fatto).
E fin nella tentazione del peccato. Stesso.
E in tutto ciò che è accaduto a mio figlio. A causa dell’uomo. Mia creatura.
Che io avevo creato.
Nell’incorporazione, nella nascita e nella vita e nella morte di mio figlio.
E nel santo sacrificio della Messa.
In ogni nascita e in ogni vita. E in ogni morte.
E nella vita eterna che non avrà mai fine. Che vincerà ogni morte.
Io risplendo talmente nella mia creazione.
Che per non vedermi realmente queste povere persone dovrebbero esser cieche.
La carità, dice Dio, non mi sorprende.
La carità, no, non è sorprendente.
Queste povere creature son così infelici che, a meno di aver un cuore di pietra, come potrebbero non aver carità le une per le altre.
Come potrebbero non aver carità per i loro fratelli.
Come potrebbero non togliersi il pane di bocca, il pane di ogni giorno, per darlo a dei bambini infelici che passano.
E da loro mio figlio ha avuto una tale carità.
Mio figlio loro fratello.
Una così grande carità.
Ma la speranza, dice Dio, la speranza, sì, che mi sorprende.
Me stesso.
Questo sì che è sorprendente.
Che questi poveri figli vedano come vanno le cose e credano che domani andrà meglio.
Che vedano come vanno le cose oggi e credano che andrà meglio domattina.
Questo sì che è sorprendente ed è certo la più grande meraviglia della nostra grazia.
Ed io stesso ne son sorpreso.
E dev’esser perché la mia grazia possiede davvero una forza incredibile.
E perché sgorga da una sorgente e come un fiume inesauribile
Da quella prima volta che sgorgò e da sempre che sgorga.
Nella mia creazione naturale e soprannaturale.
Nella mia creazione spirituale e carnale e ancora spirituale.
Nella mia creazione eterna e temporale e ancora eterna.
Mortale e immortale.
E quella volta, oh quella volta, da quella volta che sgorgò, come un fiume di sangue,
dal fianco trafitto di mio figlio.
Quale non dev’esser la mia grazia e la forza della mia grazia perché questa piccola speranza, vacillante al soffio del peccato, tremante a tutti i venti,
ansiosa al minimo soffio,
sia così invariabile, resti così fedele, così eretta, così pura; e invincibile, e immortale, e impossibile da spegnere; come questa fiammella del santuario.
Che brucia in eterno nella lampada fedele.
Una fiamma tremolante ha attraversato la profondità dei mondi.
Una fiamma vacillante ha attraversato la profondità delle notti.
Da quella prima volta che la mia grazia è sgorgata per la creazione del mondo.
Da sempre che la mia grazia sgorga per la conservazione del mondo.
Da quella volta che il sangue di mio figlio è sgorgato per la salvezza del mondo.
Una fiamma che non è raggiungibile,
una fiamma che non è estinguibile dal soffio della morte.
Ciò che mi sorprende, dice Dio, è la speranza.
E non so darmene ragione.
Questa piccola speranza che sembra una cosina da nulla.
Questa speranza bambina. Immortale.
Perché le mie tre virtù, dice Dio. Le tre virtù mie creature. Mie figlie mie fanciulle.
Sono anche loro come le altre mie creature. Della razza degli uomini.
La Fede è una Sposa fedele.
La Carità è una Madre.
Una madre ardente, ricca di cuore.
O una sorella maggiore che è come una madre.
La Speranza è una bambina insignificante.
Che è venuta al mondo il giorno di Natale dell’anno scorso.
Che gioca ancora con il babbo Gennaio.
Con i suoi piccoli abeti in legno di Germania coperti di brina dipinta.
E con il suo bue e il suo asino in legno di Germania. Dipinti.
E con la sua mangiatoia piena di paglia che le bestie non mangiano.
Perché sono di legno.
Ma è proprio questa bambina che attraverserà i mondi. Questa bambina insignificante.
Lei sola, portando gli altri, che attraverserà i mondi passati.
Come la stella ha guidato i tre re dal più remoto Oriente.
Verso la culla di mio figlio.
Così una fiamma tremante. Lei sola guiderà le Virtù e i Mondi.
Una fiamma squarcerà delle tenebre eterne.
(…)
Si dimentica troppo, bambina mia, che la speranza è una virtù, che è una virtù teologale, e che di tutte le virtù, e delle tre virtù teologali, è forse quella più gradita a Dio.
Che è certamente la più difficile, che è forse l’unica difficile,
e che probabilmente è la più gradita a Dio.
La fede va da sé. La fede cammina da sola. Per credere basta solo lasciarsi andare, basta solo guardare. Per non credere bisognerebbe violentarsi, torturarsi, tormentarsi, contrariarsi. Irrigidirsi. Prendersi a rovescio, mettersi a rovescio, andare all’inverso. La fede è tutta naturale, tutta sciolta, tutta semplice, tutta quieta. Se ne viene pacifica. E se ne va tranquilla. È una brava donna che si conosce, una brava vecchia, una brava vecchia parrocchiana, una brava donna della parrocchia, una vecchia nonna, una brava parrocchiana. Ci racconta le storie del tempo antico, che sono accadute nel tempo antico. Per non credere, bambina mia, bisognerebbe tapparsi gli occhi e le orecchie.
Per non vedere, per non credere.
La carità va purtroppo da sé. La carità cammina da sola. Per amare il proprio prossimo basta solo lasciarsi andare, basta solo guardare una tal miseria. Per non amare il proprio prossimo bisognerebbe violentarsi, torturarsi, tormentarsi, contrariarsi. Irrigidirsi. Farsi male. Snaturarsi, prendersi a rovescio, mettersi a rovescio. Andare all’inverso. La carità è tutta naturale, tutta fresca, tutta semplice, tutta quieta. È il primo movimento del cuore. E il primo movimento quello buono. La carità è una madre e una sorella.
Per non amare il proprio prossimo, bambina mia,
bisognerebbe tapparsi gli occhi e le orecchie.
Dinanzi a tanto grido di miseria.
Ma la speranza non va da sé. La speranza non va da sola. Per sperare, bambina mia, bisogna esser molto felici, bisogna aver ottenuto, ricevuto una grande grazia.
È la fede che è facile ed è non credere che sarebbe impossibile. È la carità che è facile ed è non amare che sarebbe impossibile. Ma è sperare che è difficile
(…)
E quel che è facile e istintivo è disperare ed è la grande tentazione.
La piccola speranza avanza fra le due sorelle maggiori
e su di lei nessuno volge lo sguardo.

Sulla via della salvezza, sulla via carnale, sulla via accidentata della salvezza, sulla strada interminabile, sulla strada fra le sue due sorelle la piccola speranza.
Avanza. Fra le due sorelle maggiori. Quella che è sposata. E quella che è madre.
E non si fa attenzione, il popolo cristiano non fa attenzione che alle due sorelle maggiori.
La prima e l’ultima. Che badano alle cose più urgenti. Al tempo presente.
All’attimo momentaneo che passa.
il popolo cristiano non vede che le due sorelle maggiori, non ha occhi che per le due sorelle maggiori.
Quella a destra e quella a sinistra.
E quasi non vede quella ch’è al centro.
La piccola, quella che va ancora a scuola. E che cammina.
Persa fra le gonne delle sorelle.
E ama credere che sono le due grandi a portarsi dietro la piccola per mano.
Al centro. Fra loro due.
Per farle fare questa strada accidentata della salvezza.
Ciechi che sono a non veder invece
Che è lei al centro a spinger le due sorelle maggiori.
E che senza di lei loro non sarebbero nulla.
Se non due donne avanti negli anni. Due donne d’una certa età. Sciupate dalla vita.
È lei, questa piccola, che spinge avanti ogni cosa.
Perché la Fede non vede se non ciò che è. E lei, lei vede ciò che sarà.
La Carità non ama se non ciò che è. E lei, lei ama ciò che sarà.
La Fede vede ciò che è. Nel Tempo e nell’Eternità.
La Speranza vede ciò che sarà. Nel tempo e per l’eternità.
Per così dire nel futuro della stessa eternità.
La Carità ama ciò che è. Nel Tempo e nell’Eternità.
Dio e il prossimo.
Così come la Fede vede.
Dio e la creazione.
Ma la Speranza ama ciò che sarà. Nel tempo e per l’eternità.
Per così dire nel futuro dell’eternità.
La Speranza vede quel che non è ancora e che sarà.
Ama quel che non è ancora e che sarà.
Nel futuro del tempo e dell’eternità.
Sul sentiero in salita, sabbioso, disagevole. Sulla strada in salita.
Trascinata, aggrappata alle braccia delle due sorelle maggiori,
Che la tengono per mano. La piccola speranza. Avanza.
E in mezzo alle due sorelle maggiori sembra lasciarsi tirare.
Come una bambina che non abbia la forza di camminare.
E venga trascinata su questa strada contro la sua volontà.
Mentre è lei a far camminar le altre due.
E a trascinarle. E a far camminare tutti quanti. E a trascinarli.
Perché si lavora sempre solo per i bambini.
E le due grandi camminan solo per la piccola.

Publié dans:Letteratura straniera, poemi |on 9 décembre, 2013 |Pas de commentaires »

GIBRAN KHALIL GIBRAN

http://www.stpauls.it/letture/0811let/0811l123.htm

GIBRAN KHALIL GIBRAN

di Isabella Farinelli

L’ardore di cogliere la verità profonda in un personaggio e, al tempo stesso, di specchiarvi se stesso e l’umana universale vicenda anima la produzione poetica dell’autore libanese, al cui centro regna un Gesù trasfigurato.
  «Un uomo venuto dal Libano diciannove secoli dopo» è l’ultimo in una sequenza di personaggi che narrano, gridano, tacciono, intessono congetture e sogni sulla figura, l’opera e la fama di Gesù di Nazaret, ciascuno secondo la propria esperienza o prospettiva. È il tema di Gesù Figlio dell’uomo, l’opera che Kahlil Gibran pubblicò, in inglese, nell’autunno del 1928, cinque anni dopo Il profeta e sull’onda di quel successo. Se il resto degli ottanta monologhi è posto sulle labbra di personaggi coevi, documentati o immaginari (Pietro, la Maddalena, una vicina di Maria, Tommaso, la sposa di Cana, Barabba, la mamma di Giuda), nell’epilogo parla lui stesso, il poeta pittore nato all’ombra dei cedri nel 1883 ed emigrato bambino in America, che, come certi artisti in ritratti corali, svela tra i personaggi il proprio volto.
«Sette volte sono nato e sette volte sono morto / e ora nuovamente vivo, e ti guardo, / guerriero tra i guerrieri, / poeta dei poeti, / re al di sopra dei re, / nudo fino alla cintola a fianco dei compagni di viaggio. / … / Vengono crocifissi, e nessuno assiste alla loro agonia. / Volgono il viso verso sinistra e verso destra, / e non trovano nessuno che prometta l’ingresso in un regno. / Ma un’altra volta e un’altra ancora si farebbero crocifiggere / perché il tuo Dio fosse il loro Dio, / e Padre loro il Padre tuo».
Posto a confronto con il canone, questo Gesù risulta eterodosso, se non altro per l’insistita volontà, da parte dell’autore, di sfatare i fraintendimenti o addirittura i tradimenti che sarebbero stati perpetrati a danno della sua dottrina da alcuni interpreti, san Paolo in primis. Sfogandosi con l’amico e più tardi biografo Mikhail Naimy, Gibran contestava che la tradizione ne avesse fatto «una dolce signora con la barba». Se dal canto suo lo definisce «poeta dei poeti», non è per allinearsi a chi ne sottolinea la mitezza, ma il contrario: il massimo dell’energia coincide per Gibran con il massimo della poesia, in quanto aderenza al dettato primario della natura e di Dio. Il Gesù che emerge dai monologhi va visto infatti, e in primo luogo, come soggetto poetico, e la stessa chiave può aprire, al di là delle tante letture che ne sono state fatte, un efficace spiraglio interpretativo sia dell’opera sia della vita di Kahlil, nel loro intimo intreccio.
Se il Gesù di Gibran è fantastico ancorché suggestivo, come viene giustamente notato dalla critica cattolica (tra i nomi più illustri Castelli e Ravasi), il Gibran di Gesù Figlio dell’uomo è invece scopertamente vero, forse al di là delle intenzioni. Quanto più si appassiona nel cercare di restituire al personaggio la dimensione etica e insieme estetica che crede essergli stata sottratta, tanto più si lascia prendere la mano da questa tentazione di bellezza, con una densità di paradossi, ossimori, endiadi e parallelismus membrorum che in altre opere (e nel canone scritturale!) sono piuttosto simmetrie alluse, sapientemente sospese.
Si stava allontanando, in quegli anni, la cometa della sua vita: l’amica, agente, mentore, mecenate Mary Haskell, che dal 1904 lo aveva seguito, portandolo a quel sereno approdo, anche formale, che è Il profeta. Nel 1929, a una festa per il suo quarantaseiesimo compleanno organizzata presso l’amico artista messicano José Clemente Orozco, Gibran dichiarò di rimpiangere l’irruenza creativa degli esordi. In realtà siamo nella fase ultramatura della sua produzione, che suddivisa tra due idiomi, l’arabo madrelingua e l’angloamericano di adozione, era iniziata nel primo con un saggio poetico sulla musica (1905) e nel secondo con una raccolta di parabole dal significativo titolo, Il folle (1918), raggiungendo nel Profeta (1923) sia l’equilibrio tra le due culture, sia quello tra il dire e l’evocare.
Sempre nel 1929, Gibran sottopose a Naimy il progetto di un libro composto di quattro storie: su Michelangelo, Shakespeare, Spinoza e Beethoven. «Che ne diresti se ciascuna delle storie fosse l’inevitabile esito del dolore, dell’ambizione, del senso di distacco e, infine, della speranza che sempre agita il cuore umano?». L’ardore di cogliere la verità profonda di un personaggio noto, e al tempo stesso di specchiarvi se stesso e l’umana universale vicenda, anima Gibran sin dalla fase giovanile, ma solo in Gesù Figlio dell’uomo assume forma di un’opera compiuta. Più volte, ai suoi confidenti, Kahlil racconta di avere incontrato il Nazareno in sogno, sempre in situazioni di grande prossimità (Gesù gli si avvicina con i sandali impolverati, condivide con gusto il crescione selvatico, discorre con lui di argomenti qualsiasi); addirittura Kahlil ci si è immedesimato quando, bambino, ha subito una brutta frattura della scapola ed è rimasto ancorato per quaranta giorni a una specie di barra orizzontale, alla quale si è sentito crocifisso. Se anche non lo dichiarasse esplicitamente, il suo modo di esprimersi, sia nelle opere sia nell’eloquio, ricalca l’andamento delle Scritture, peraltro inseparabile dai moduli espressivi della letteratura semitica. Il « ma » che ricorre, oltre che nel lessico, nella tendenza di Gibran all’antitesi, riecheggia l’espressione secondo lui più significativa di Gesù ai discepoli: «Ma io vi dico». Così il Nazareno annunciava la propria novità rispetto ai luoghi comuni.
Dal canto suo Gibran, nato da famiglia maronita, educato in contesto musulmano e, più tardi, eclettico, ha sempre rifiutato di apporsi una qualsiasi etichetta, ribellandosi quando altri ci hanno provato, non solo in ambito religioso, ma anche politico, culturale e, addirittura, metrico. Se nella formazione, tanto letteraria quanto artistica, ciò lo ha portato a scegliere la libertà di proposte flessibili (a Parigi l’Académie Julian, a Beirut certi corsi del Madrasat al-Hikmat),nell’età adulta, refrattario alla « cristallizzazione » di formule e man-made laws, vittima forse a sua volta di fraintendimenti e di filtri non suoi, ma consapevole di cosa significassero nella storia i fondamentalismi, non ha mai voluto « ismi » di alcun genere. Neanche il buddismo: lo dicono i biografi, lo ammettono autorevoli studiosi che, confrontando i suoi scritti con la dottrina del Nirvana, giungono alla stessa conclusione a cui giunge chi analizza il suo Gesù o le sue assonanze sufite, bahai, induiste o altro.
Nelle elaborazioni sulla trascendenza che Kahlil condivide con Mary Haskell si legge un credo in Dio penetrante e radicato, ma dottrinalmente innominato; e le sue allusioni letterarie alle molteplici « nascite », come il famoso finale del Profeta, traducono anzitutto la fiducia nel potere vitale e unificante – e con ciò sacro – della parola poetica.
«Un ponte tra Oriente e Occidente»: così lo vede, non senza una sfumatura autobiografica, il critico libanese Suheil Bushrui; ma forse Gibran troverebbe limitante anche questa definizione. Barbara Young, che gli fu vicina negli ultimi anni, dedicandogli a sua volta una biografia, sceglie di intitolarla con le sue stesse parole, sigla di appartenenza e insieme di alterità: This Man from Lebanon. L’uomo venuto dal Libano diciannove secoli dopo non ha ancora concluso la sua appassionata ricerca sul Figlio dell’uomo e su se stesso. È forse questo, a 77 anni dalla morte (avvenuta a New York nel 1931), a garantirne la non comune vitalità, attraverso e nonostante le molte edizioni e ristampe. Una divulgazione talvolta a suo sfavore, che tra l’altro contribuisce a perpetuare su di lui e sui suoi aforismi, citati talvolta in modo distorto, curiosi equivoci e luoghi comuni. Errori anche banali, emblematici del suo detachment: la vicenda erratica dell’acca (sono corretti l’originario Gibran Khalil Gibran o l’anglicizzato Kahlil Gibran, ma non l’ibrido Gibran Kahlil Gibran), le inesattezze sulla sua età e l’errore sulla sua data di nascita, che è il sei gennaio e non il sei dicembre come alcuni continuano a scrivere. Per non parlare delle credenze, fedi e filosofie che gli vengono attribuite, proprio in forza della sua capacità polisemica.

Il dialogo con le anime
È il 17 giugno 1895. Un ragazzino di dodici anni fa la fila a Ellis Island. In una babele di rumori, pacchi, odori, ansie, Kahlil lancia richiami per non perdere la mamma Kamila, il fratello maggiore Boutros e le due sorelline Mariana e Sultana; comunica in qualche modo con i funzionari portuali; ma soprattutto dialoga con se stesso, con le ombre profonde della Valle Sacra, con i cespugli del monastero di Mar Sarkis, con i fiumi incassati nelle gole, con le cime coperte di neve e di cedri che, ancora presenti, erano già mito. Mentre lo sottopongono ai controlli sanitari, lui corre incontro alla pioggia impetuosa dei suoi monti, al Mediterraneo appena scorto in cima all’erta salita a dorso di mulo, alle stelle che «lassù proiettano ombre»… Quelle ombre ridisegna sulla bruma di « Al-Nayurk », iniziando così a trasfigurarla in mist, simbolo ricorrente nei suoi scritti, intraducibile forse anche per l’assonanza con misticismo e mistero. Così comincia ad amare la terra nuova, alla quale riconoscerà sempre il merito di averlo sostenuto e fatto crescere.
È difficile trovare una vicenda esposta quanto la sua a interferenze sociali e culturali, ed è difficile enumerarle tutte; ma è nel monologo interiore, avviato in età precocissima, che si innestano le successive esperienze, e non viceversa. Nel dialogo con le anime, dolente ma rasserenante, trovano un solco familiare anche i lutti che ben presto lo colpiscono. Quando Kahlil racconta alla Haskell – incontrata subito dopo – la morte di Sultana, di Boutros e della mamma, il tono, più che di tragedia, è di trasfigurazione, sia degli eventi, sia delle figure, sia del contesto domestico. Non a caso il ritratto a memoria della madre morente – colei che, stando al racconto, lo introdusse a Leonardo e a san Tommaso d’Aquino – è intitolato Verso l’infinito. A vent’anni, nei primi timidi colloqui con la direttrice di scuola che lo invitava a esporre nel proprio istituto, traspare già il riconoscimento della poesia e dell’arte come crinale tra nostalgia e futuro. Fu Mary a sua volta, per Kahlil, lo spartiacque tra i salotti neoplatonici di Boston e la crescita in forme espressive anche tecnicamente più mature, quando lo mandò a Parigi a studiare belle arti come primo atto di amorosa pedadogia.
Nella capitale francese, com’era stato a Boston e come continuerà a essere dopo il trasferimento a New York, Kahlil continua a dar prova di un singolare approccio alle idee e alle persone: più che l’acquisizione di una conoscenza, spesso la sorpresa di un riconoscimento, un’intuizione, quasi un’agnizione, sia in positivo (Rodin, i romantici, Nietzsche, con cui tuttavia non si va oltre una parentela di simboli) sia in negativo (ad esempio Tagore, alla cui opera rimproverò la scarsa «coscienza mondiale»). Significativo anche il modo di relazionarsi alle presenze femminili: i rapporti più stabili saranno quello con la Haskell, che trascende il piano della fisicità, e con May Ziadah, con la quale corrispose diciannove anni nella madrelingua senza mai incontrarla di persona, e alla quale scrisse che la vera comunicazione avviene tra i nostri «doppi invisibili». Kahlil parla anche di anima, nella cui immortalità crede fermamente, come crede alla verità che si svela al di là della soglia terrena: ma nei suoi contesti sfumati questa e altre parole, che pure usa in traslato (resurrezione, incarnazione), perdono la consistenza teologica loro propria.
Sul piano letterario, la preminenza del dialogo interiore lo portò molto presto a elaborare una sequela originale, benché ovviamente non asettica, di personaggi e personificazioni riconducibili sia a moltiplicazioni di identità e di « maschere » (Folli, Eretici, Precursori, Scavatori di Fosse, Greater Self e Pigmy Selves) sia alla fiducia nel congiungersi e ricongiungersi degli esseri e di tutto l’Essere: due movimenti solo apparentemente contraddittori, evidentissimi nella sua pittura. Se ogni cosa è visibile in due o più aspetti, d’altro canto Gioia e Dolore, come molte coppie di opposti, sono due aspetti dello stesso volto. Mentre, a cavallo tra Ottocento e Novecento, la letteratura occidentale propone modelli di frantumazione dell’io che sfociano tra problematicità e incomunicabilità, in lui (che conobbe e ritrasse anche Jung) prevale il moto della conciliazione, nell’emblema dinamico di un half-embrace. Ciò è evidente – talora più nella forma che nel contenuto – in quasi tutte le raccolte di aforismi e parabole, ma soprattutto nel poemetto Il profeta, nel quale l’esile cornice narrativa è pretesto per la ricomposizione dei vari aspetti enunciati nei sermons, e la partenza del protagonista Almustafa prelude a un più grande ritorno.
Esperienza forte dovette essere il riapprodare in Libano nell’adolescenza: in una terra dove, quindici chilometri a nord di Beirut, è presente una rupe con diciannove iscrizioni in quasi altrettante lingue, il paesaggio stesso suggerisce il dialogo con «i fantasmi delle ere», come scrive in una poesia. Più avanti, tornato in America per rimanervi, Gibran ambienterà in quel Libano la scena culminante del suo unico romanzo, Le ali infrante, pubblicato nel 1912, ispirato a una frase della madre. Un antichissimo tempietto conserva i resti di due affreschi: in una parete Venere-Astarte di ascendenza fenicia, nell’altra una Crocifissione bizantina; proprio davanti a quest’ultima l’eroina rinuncia all’amore terreno in vista di un più sublime amore, quello che veramente unisce.

Il costruttore di aquiloni
Settembre 1922. Gibran e Mary, ritrovandosi al solito dopo l’estate, si raccontano come hanno trascorso le vacanze. Lei, tornata dal Sud, gli confida la corte pressante dell’uomo che di lì a quattro anni diventerà suo marito; lui, tornato dal mare, la rassicura comunque vada: «La relazione tra te e me è la cosa più bella della mia vita. È la più splendida che io abbia conosciuto in qualsiasi vita. È eterna».
Forse proprio Nantasket, la spiaggia di Boston dove Kahlil trascorse alcune estati con la sorella – sempre più spesso negli ultimi anni, quando la salute declinava – gli ispirò una splendida affermazione di poetica, riferita nel diario di Mary allo stile del Profeta: «I poeti dovrebbero prestare orecchio al ritmo del mare. È il ritmo del libro di Giobbe e di tutte le parti magnifiche del Vecchio Testamento. Quel duplice modo di esprimere un’idea che era tipico degli ebrei. Si dice, e poi si dice nuovamente, in modo solo un poco diverso. Come accade per le onde del mare. Sai quando arriva una grande onda, frusciando, e porta con sé i sassolini con il loro caratteristico rumore. Poi alcuni dei ciottoli ruzzolano indietro, con un rumore più lieve, una specie di sottocorrente di suono; e arriva frusciando una seconda ondata, minore della prima… Poi, pausa. E ben presto, ecco un’altra onda, e tutto si ripete».
Dinanzi al ritmo puro, lo stesso delle forme arcaiche di poesia, Gibran, che stringendo una meteorite disse di percepire la vita dell’intero universo, somiglia al protagonista di 2001 Odissea nello spazio, quando, scartati il teatro e la lirica che pure ha a disposizione nell’astronave, si fa accompagnare da una musica « senza architetture », e la spoliazione va di pari passo con lasemplicità dell’infinito. Racconta Kahlil a Mary: «Sì, le persone che stavano in spiaggia devono aver capito che cercavo la solitudine… perché gli adulti raramente si avvicinavano. Ma ci sono novantasette bambini su quella collina. E devo aver fabbricato, per loro, qualcosa come… sessanta o settanta aquiloni! Tutti i tipi di aquiloni: grandi, piccoli, colorati, bianchi. E aquiloni siriani. Hai mai visto gli aquiloni siriani?».
Facile visualizzare, su quella spiaggia, molti pronunciamenti del Profeta: «Vorrei che andaste incontro al sole e al vento più con la pelle e meno col vestito…». Oppure: «Se è Dio che vuoi conoscere, non essere per questo solutore di enigmi; guardati intorno, invece, e lo vedrai giocare con i tuoi figli». I bambini, notando la sua perizia nel fabbricare aquiloni, gli chiesero di essere giudice nella gara finale; e il trofeo, un enorme aquilone-segnale, andò al ragazzone grassoccio di una famiglia numerosa che viveva là tutto l’anno. Forse il poeta aveva letto nei suoi occhi l’anelito che era anche suo: «Non c’è desiderio più profondo del desiderio di rivelarsi. Tutti vogliamo che la piccola luce che è in noi sia tratta da sotto il moggio. Il primo poeta deve aver sofferto intensamente quando gli abitatori delle caverne si mettevano a ridere delle sue folli parole. Avrebbe dato arco e frecce e pelle di leone, tutto ciò che possedeva, solo per comunicare ai suoi compagni di umanità l’intensa emozione e il trasporto che il tramonto gli creava nell’anima. E tuttavia, non è questa oscura pena – la pena di non essere compresi – che genera l’arte e gli artisti?».
I ragazzi si allontanano uno a uno dalla spiaggia: comincia a far freddo, è la stagione del ritorno a scuola. Molti anni più tardi, le gare tra aquiloni, che nelle biografie di Gibran costituiscono un episodio marginale se mai menzionato, saranno al centro di un famoso struggente romanzo. Gibran non poteva prevederlo, ma è qualcosa del genere che intende quando dice: «Ancora un poco, una pausa tra gli aliti dell’aria, e un’altra donna mi darà alla luce». Più che il ritorno in una terra definita, è l’unione trascendente, quella tra Goccia e Oceano, tra Sabbia e Schiuma (titolo del 1926) il richiamo del mare al quale Almustafa obbedisce, non senza lasciarne l’invito alla donna che ha creduto in lui: «Quando Amore ti chiama, segui il segno».
Altro non spiegherebbe, se lo si intervistasse oggi. Ripeterebbe forse, lanciando un aquilone o, come nel giugno 1912, guardando il Cambridge Street Bridge: «Costruire un ponte… ecco cosa voglio fare: costruirne uno così robusto e solido che lo si possa attraversare per sempre».

Isabella Farinelli

QUELLA SERA DI NATALE DEL 1886 – PAUL CLAUDEL: COLPITO DAL CANTO DEL MAGNIFIICAT…

http://www.stpauls.it/madre/1111md/incontri.htm

(forse l’ho già messo, ma è bello e lo propongo – o ripropongo)

INCONTRI CON MARIA

 di MARIA DI LORENZO

QUELLA SERA DI NATALE DEL 1886

PAUL CLAUDEL:: COLPITO DAL CANTO DEL MAGNIFIICAT, «IN UN ISTANTE IL MIO CUORE FU TOCCATO E IO CREDETTI»…

«C’è una cosa, Dio supremo, che Tu non puoi fare. / Ed è di impedire che io Ti ami». L’amore radicale, oseremmo dire bruciante, che il poeta nutre nei confronti di Dio è espresso da due versi fulminanti in cui la supplica si fa assoluta. Paul Claudel nella primavera del 1900, all’età di 32 anni, si era presentato all’abbazia benedettina di Solesmes, e qualche mese più tardi a quella di Ligugé, per un ritiro. Maaveva compreso di non essere fatto per la vita monastica. «Fu un momento molto crudele nella mia vita», scrive a Louis Massignon nove anni dopo. «Benché non sia piaciuto a Dio di farmi uno dei suoi preti, amo profondamente le anime», dirà ad André Gide con cui, insieme a Jacques Rivière, fonderà La Nouvelle Revue française (1909).
Da questo momento Claudel decide di praticare la letteratura come una sorta di sacerdozio. Sente che è questa la sua missione. E per guadagnare le anime a Dio mette in scena le questioni morali e spirituali proprie del cattolicesimo testimoniando i piani divini attraverso le realtà terrestri. A tutt’oggi è riconosciuto come uno dei massimi autori francesi del Novecento e le sue opere teatrali sono ancora rappresentate con successo in tutto il mondo.
Una vocazione unica. Era nato a Villeneuve- sur-Fère il 6 agosto 1868 – giorno della Trasfigurazione, come lui stesso noterà anni più tardi – e alla nascita viene consacrato alla Vergine, come primo maschio. A Villeneuve resta solo due anni, poiché il padre, che era conservatore delle ipoteche, è costretto dal suo lavoro a continui trasferimenti, finché nel 1882, a 13 anni, si trasferisce a Parigi con la madre e le sorelle.
Al liceo Louis Le Grand è un allievo molto brillante: legge Baudelaire, scopre con passione Goethe, ma è verso il poeta Arthur Rimbaud che sente di avere una sorta di « filiazione spirituale », forse perché percepisce nel precoce genio letterario, sotto le apparenze di una vita da maudit, la sua stessa sete bruciante di assoluto. Anche Paul è un ribelle. Tutto gli dà noia. Tutto in quei primi anni giovanili, imbevuto com’è di idee positiviste, gli risulta intollerabile, la morte come la vita, la solitudine come la compagnia. Comincia a cercare delle risposte che sazino la sua fame esistenziale. Simpatizza con il movimento anarchico del suo tempo e inizia a frequentare i Martedì letterari di Mallarmé.
Dai quattordici ai vent’anni vive il tempo difficile della crisi adolescenziale. «Chi sono io?», si chiede il giovanissimo Paul, e non sa trovare risposta. In questo periodo, abbandonate le pratiche religiose dell’infanzia, non ha punti fermi nella sua vita. È introverso e solitario. Nessuno, in famiglia come nella cerchia di amici, sospetta la crisi profonda in cui è immerso. Legge molto, ma confusamente: i romanzi di Hugo, di Zola, La vie de Jésus di Renan. Al liceo Louis Le Grand imperversa la moda del positivismo materialista di Taine e di Renan che invece di placare acuisce la sua inquietudine interiore. Del mondo ha una visione tanto cupa e disperata che non ha il coraggio di comunicare ad anima viva. La prima luce gli viene dalla lettura dei versi di Rimbaud, poi accadrà quello che sarà l’evento decisivo della sua vita.
A diciotto anni, la sera di Natale del 1886, Paul va ad ascoltare i Vespri a Notre- Dame e lì avviene il « giro di boa », una conversione così potente che imprimerà un segno fortissimo non solo alla sua anima, ma finirà per avvolgere e racchiudere tutta la sua esperienza letteraria. Colpito dal canto del Magnificat durante la funzione dei Vespri, avverte il sentimento vivo della presenza di Dio. «In un istante – scrive – il mio cuore fu toccato e io credetti».
Claudel in quell’istante si è sentito chiamato inequivocabilmente alla scrittura. Si può dire che solo ora comincia la sua attività letteraria, che non sarà mai disgiunta dal suo percorso di fede, ma costituirà un tutt’uno con esso, divenendone per questo strumento di conoscenza e di espressione artistica.
Tre anni dopo pubblica l’opera teatrale Testa d’oro. «Certamente – gli dirà Mallarmé – il teatro è in lei». Ma Paul in quegli anni decide di impegnarsi soprattutto nel diritto e nelle scienze politiche; superato un concorso, comincia a lavorare presso il Ministero degli affari esteri. Viene nominato viceconsole e mandato a New York, successivamente a Boston (1893). Lì stabilisce quella che sarà la sua regola di vita: sveglia ogni mattina alle 6 per pregare o recarsi a Messa; lavori personali fino alle 10, il resto del tempo dedicato alla diplomazia.
Scrive due nuove pièces, La città e Lo scambio, in cui esprime la sua scoperta della città e della società del profitto. Sente di aver trovato nel poema e soprattutto nel teatro la sua personale forma espressiva. Il suo stile è impetuoso, passionale, quasi violento, a tratti impenetrabile. Pensiamo per esempio al primo abbozzo del dramma La giovane Violaine che nasce da una antitesi potente, e irrisolta, tra cielo e terra, tra l’attaccamento profondo alle cose del mondo e il desiderio ineludibile di Dio, che nessuna brama terrena, appagata o no, può mai riuscire a saziare.
Un’opera magistrale per il sì di Maria. A 27 anni s’imbarca per la Cina. Su consiglio del suo confessore, porta con sé le due « summe » di Tommaso d’Aquino, che leggerà per cinque anni. Qui scrive la prima parte di Conoscenza dell’Est, la sua prima opera in prosa, che i contemporanei definiscono come il massimo traguardo raggiunto dalla lingua francese. Nel 1909 lascia la Cina per andare a Praga: qui termina L’Annonce faite à Marie, una delle più belle pièces teatrali di tutti i tempi, che sarà rappresentata per la prima volta al Théâtre de l’Oeuvre di Parigi nel 1912, ricevendo un’accoglienza trionfale da un pubblico costituito soprattutto di giovani.
La pièce s’incentra su un tema particolarmente caro a Claudel: ogni essere umano vive nel mondo per volontà di Dio che ha affidato a ciascuno una missione specifica sulla terra. È un compito unico che ciascuno ha per sé, diverso da tutti gli altri, ma che concorre alla fine all’armonia di tutto il creato. Lo stesso titolo dell’opera ne spiega la portata: l’annuncio dell’Angelo a Maria fu il segno concreto della volontà divina che chiamava la giovane a una missione nel mondo che avrebbe non solo sconvolto la sua vita, ma cambiato radicalmente le sorti dell’intera umanità. È stato il manifestarsi, limpido e concreto, di una vocazione. L’Annuncio parte da questo dato per porre in luce l’errore che può compiere l’essere umano di fronte a questo, ritenendo che la propria vocazione dipenda in ultima analisi esclusivamente da se stessi.
Dopo la cessazione dall’attività diplomatica avvenuta nel 1935, Claudel si ritira nel suo castello di Brangues per dedicarsi intensamente all’esplorazione dei segreti e dei misteri di quella che per lui è la fonte di ogni poesia e di ogni grazia, la Bibbia, scrivendo numerosi commenti alla Sacra Scrittura: Introduction au Livre de Ruth (1937), Un poète regarde la croix (1938), Le Cantique des cantiques (1948-1954), L’Apocalypse (1952), solo per citare i più noti. Per il teatro realizza altre pièces, come La crisi meridiana, La scarpina di raso e l’oratorio drammatico Il libro di Cristoforo Colombo. Ma rimane L’Annuncio a Maria l’opera che Claudel amava di più. Quando, nel 1955, venne rappresentata alla Comédie française, si organizzò la replica nel suo appartamento. La prima ebbe luogo il 17 febbraio, di fronte al Presidente della Repubblica. Ma solo cinque giorni più tardi il cuore di Paul Claudel cedette. Morì infatti il 23 febbraio 1955, poco dopo aver ricevuto la Comunione. Le ultime parole che il figlio maggiore intese dalla sua bocca furono: «Non ho paura».

Maria Di Lorenzo

« IN DIFESA DI ME STESSO », DI FËDOR DOSTOEVSKIJ

http://www.zenit.org/article-32871?l=italian

« IN DIFESA DI ME STESSO », DI FËDOR DOSTOEVSKIJ

La rilettura di un piccolo libro edito nel luglio del 1994

di Antonio D’Angiò

ROMA, sabato, 29 settembre 2012 (ZENIT.org).- “Niente è più funesto, infatti, più irragionevole e più ingiusto di alcune parole prese chissà da dove, riferite dio sa a che cosa, origliate casualmente, capite in qualche modo, ma forse, anzi, nemmeno capite, scritte in fretta e furia. Ma, ripeto, io conosco me stesso, e non temo nemmeno questo tipo d’accusa.”
Questa frase, tratta dal libro “In difesa di me stesso”, si trova nella parte centrale della memoria difensiva, databile 6 maggio 1849, che Dostoevskij consegna alla commissione d’inchiesta, poiché accusato di aver partecipato, nella città di San Pietroburgo, agli incontri del circolo intellettuale – politico di Michail Petrasevskij, sostenitore del socialismo utopico di Fourier e Saint-Simon.
Dostoevskij, arrestato il 23 aprile 1849, rimase in carcere per otto mesi, sino al 22 dicembre 1849 quando, condannato a morte e già allineato per la fucilazione, si vide commutata la pena capitale in quattro anni di lavori forzati e altri quattro di servizio militare obbligatorio.
Il libro “In difesa di me stesso”, proposto nel 1994 dalle edizioni Il Melangolo, faceva parte di una collana di testi che componevano la serie “Il fondaco di MicroMega”, testi in precedenza apparsi sull’omonima rivista bimestrale.
L’opera è suddivisa in tre parti; la prima è l’introduzione, curata da Giovanni Buttafava e intitolata “L’incontenibile diffidenza verso l’Occidente”; la seconda è la memoria difensiva vera e propria, mentre l’ultima è composta dall’interrogatorio formale e dalla deposizione dello scrittore russo.
Nella memoria difensiva Dostoevskij cerca di rispondere a tre quesiti: Qual é il carattere dell’uomo e del politico Petrasevskij; cosa succedeva nelle serate da Petrasevskij ed il parere di Dostoevskij in proposito; se quelle riunioni avevano uno scopo segreto.
E’ chiaramente la seconda domanda, cioè quella che attiene a cosa accadesse durante le serate in casa Petrasevskij, che consente di riflettere sui motivi che portarono all’arresto di Dostoevskij e di come un cittadino si potesse difendere da accuse che reputasse ingiuste. In tutte quelle pagine c’è, naturalmente anche, un ritratto dell’epoca storica, dei fermenti ideali e della predilezione di Dostoevskij, comunque, per una società autocratica.
Lo scrittore russo chiarisce, nella memoria difensiva, le poche volte che ha preso la parola in quegli incontri e gli argomenti sui quali ha espresso le considerazioni, e cioè la letteratura (e il suo rapporto con la censura) e il legame tra personalità umana ed egoismo.
Per chiedersi:”Ma di cosa, insomma, mi si accusa? D’aver parlato di politica, dell’Occidente, della censura e di altro? Ma chi, al giorno d’oggi, non ne parla e non pensa a questi problemi? Per quale ragione aver studiato, a quale scopo la scienza avrebbe risvegliato la mia curiosità, se poi non avessi il diritto di esprimere la mia opinione personale oppure non potessi trovarmi d’accordo con altre opinioni, tutte di per sé autorevoli? In Occidente sta avvenendo qualcosa di terribile, si sta compiendo un dramma senza precedenti. Il vecchio ordine delle cose sta crollando, sta scomparendo. I princìpi fondamentali della società minacciano ogni momento di precipitare trascinandosi dietro l’intera nazione.”
Non si può non ricordare che, in quell’estate del 1994 quando questo libro di Dostoevskij fu stampato, si era in uno dei momenti di massima contrapposizione tra magistratura e politica e, a distanza di diciotto anni, alcuni argomenti sono ancora vivissimi; come il tema della libertà di espressione e quello della situazione carceraria.
Quest’anno lo scrittore russo è stato al centro di una mostra al Meeting di Rimini e, nel catalogo edito da Itaca curato da Tat’jana Kasatkina, vi è una bella icona russa moderna che rappresenta la “Resurrezione di Lazzaro”, all’interno del capitolo dedicato al romanzo “Delitto e Castigo”.
Si può terminare la rilettura di “In difesa di me stesso” (nonché della vista e del commento all’icona russa) riflettendo su cosa sia stato il castigo senza delitto, subìto da Dostoevskij e poi l’esservi scampato; quasi da credere ad una sua personale resurrezione, da una morte apparente.

Publié dans:Letteratura straniera |on 29 septembre, 2012 |Pas de commentaires »
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