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DIALOGO DELLA TERRA E DELLA LUNA – GIACOMO LEOPARDI

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DIALOGO DELLA TERRA E DELLA LUNA – GIACOMO LEOPARDI

Le domande filosofiche sulla vita

Giacomo Leopardi
1824
dalle Operette Morali

L’originale dialogo fra la Terra e la Luna composto da Leopardi si snoda entro un contesto e mediante immagini che tengono conto delle interazioni di ambito fisico-astronomico fra i due corpi celesti (attrazione mareale, reciproche eclissi, moti di rotazione e di rivoluzione). Come in altre opere leopardiane, il contesto dell’osservazione del cielo non è mai separato dai sentimenti di natura esistenziale che essa suscita. Al di là delle differenze di ambiente, di prospettive geometriche, di moti e di possibili abitatori, la Terra e la Luna condividono la medesima riflessione: la felicità non è facile da ottenere e nessun corpo celeste può assicurarla; gli uomini sulla terra la cercano avidamente ma si affannano in attività che non la procurano.
Terra. Cara Luna, io so che tu puoi parlare e rispondere; per essere una persona; secondo che ho inteso molte volte da’ poeti: oltre che i nostri fanciulli dicono che tu veramente hai bocca, naso e occhi, come ognuno di loro; e che lo veggono essi cogli occhi propri; che in quell’età ragionevolmente debbono essere acutissimi. Quanto a me, non dubito che tu non sappi che io sono né più né meno una persona; tanto che, quando era più giovane, feci molti figliuoli: sicché non ti maraviglierai di sentirmi parlare. Dunque, Luna mia bella, con tutto che io ti sono stata vicina per tanti secoli, che non mi ricordo il numero, io non ti ho fatto mai parola insino adesso, perché le faccende mi hanno tenuta occupata in modo, che non mi avanzava tempo da chiacchierare. Ma oggi che i miei negozi sono ridotti a poca cosa, anzi posso dire che vanno co’ loro piedi; io non so che mi fare, e scoppio di noia: però fo conto, in avvenire, di favellarti spesso, e darmi molto pensiero dei fatti tuoi; quando non abbia a essere con tua molestia.
Luna. Non dubitare di cotesto. Così la fortuna mi salvi da ogni altro incomodo, come io sono sicura che tu non me ne darai. Se ti pare di favellarmi, favellami a tuo piacere; che quantunque amica del silenzio, come credo che tu sappi, io t’ascolterò e ti risponderò volentieri, per farti servigio.
Terra. Senti tu questo suono piacevolissimo che fanno i corpi celesti coi loro moti?
Luna. A dirti il vero, io non sento nulla.
Terra. Né pur io sento nulla, fuorché lo strepito del vento che va da’ miei poli all’equatore, e dall’equatore ai poli, e non mostra saper niente di musica. Ma Pitagora dice che le sfere celesti fanno un certo suono così dolce ch’è una maraviglia; e che anche tu vi hai la tua parte, e sei l’ottava corda di questa lira universale: ma che io sono assordata dal suono stesso, e però non l’odo.
Luna. Anch’io senza fallo sono assordata; e, come ho detto, non l’odo: e non so di essere una corda.
Terra. Dunque mutiamo proposito. Dimmi: sei tu popolata veramente, come affermano e giurano mille filosofi antichi e moderni, da Orfeo sino al De la Lande? Ma io per quanto mi sforzi di allungare queste mie corna, che gli uomini chiamano monti e picchi; colla punta delle quali ti vengo mirando, a uso di lumacone; non arrivo a scoprire in te nessun abitante: se bene odo che un cotal Davide Fabricio, che vedeva meglio di Linceo, ne scoperse una volta certi, che spandevano un bucato al sole.
Luna. Delle tue corna io non so che dire. Fatto sta che io sono abitata.
Terra. Di che colore sono cotesti uomini?
Luna. Che uomini?
Terra. Quelli che tu contieni. Non dici tu d’essere abitata?
Luna. Sì, e per questo?
Terra. E per questo non saranno già tutte bestie gli abitatori tuoi.
Luna. Né bestie né uomini; che io non so che razze di creature si sieno né gli uni né l’altre. E già di parecchie cose che tu mi sei venuta accennando, in proposito, a quel che io stimo, degli uomini, io non ho compreso un’acca.
Terra. Ma che sorte di popoli sono coteste?
Luna. Moltissime e diversissime, che tu non conosci, come io non conosco le tue.
Terra. Cotesto mi riesce strano in modo, che se io non l’udissi da te medesima, io non lo crederei per nessuna cosa del mondo. Fosti tu mai conquistata da niuno de’ tuoi?
Luna. No, che io sappia. E come? e perché?
Terra. Per ambizione, per cupidigia dell’altrui, colle arti politiche, colle armi.
Luna. Io non so che voglia dire armi, ambizione, arti politiche, in somma niente di quel che tu dici.
Terra. Ma certo, se tu non conosci le armi, conosci pure la guerra: perché, poco dianzi, un fisico di quaggiù, con certi cannocchiali, che sono instrumenti fatti per vedere molto lontano, ha scoperto costì una bella fortezza, co’ suoi bastioni diritti; che è segno che le tue genti usano, se non altro, gli assedi e le battaglie murali.
Luna. Perdona, monna Terra, se io ti rispondo un poco più liberamente che forse non converrebbe a una tua suddita o fantesca, come io sono. Ma in vero che tu mi riesci peggio che vanerella a pensare che tutte le cose di qualunque parte del mondo sieno conformi alle tue; come se la natura non avesse avuto altra intenzione che di copiarti puntualmente da per tutto. Io dico di essere abitata, e tu da questo conchiudi che gli abitatori miei debbono essere uomini. Ti avverto che non sono; e tu consentendo che sieno altre creature, non dubiti che non abbiano le stesse qualità e gli stessi casi de’ tuoi popoli; e mi alleghi i cannocchiali di non so che fisico. Ma se cotesti cannocchiali non veggono meglio in altre cose, io crederò che abbiano la buona vista de’ tuoi fanciulli; che scuoprono in me gli occhi, la bocca, il naso, che io non so dove me gli abbia.
Terra. Dunque non sarà né anche vero che le tue province sono fornite di strade larghe e nette; e che tu sei coltivata; cose che dalla parte della Germania, pigliando un cannocchiale, si veggono chiaramente.
Luna. Se io sono coltivata, io non me ne accorgo, e le mie strade io non le veggo
Terra. Cara Luna, tu hai a sapere che io sono di grossa pasta e di cervello tondo; e non è maraviglia che gli uomini m’ingannino facilmente. Ma io ti so dire che se i tuoi non si curano di conquistarti, tu non fosti però sempre senza pericolo: perché in diversi tempi, molte persone di quaggiù si posero in animo di conquistarti esse; e a quest’effetto fecero molte preparazioni. Se non che, salite in luoghi altissimi, e levandosi sulle punte de’ piedi, e stendendo le braccia, non ti poterono arrivare. Oltre a questo, già da non pochi anni, io veggo spiare minutamente ogni tuo sito, ricavare le carte de’ tuoi paesi, misurare le altezze di cotesti monti, de’ quali sappiamo anche i nomi. Queste cose, per la buona volontà ch’io ti porto, mi è paruto bene di avvisartele, acciò che tu non manchi di provvederti per ogni caso. Ora, venendo ad altro, come sei molestata da’ cani che ti abbaiano contro? Che pensi di quelli che ti mostrano altrui nel pozzo? Sei tu femmina o maschio? perché anticamente ne fu varia opinione. È vero o no che gli Arcadi vennero al mondo prima di te? che le tue donne, o altrimenti che io le debba chiamare, sono ovipare; e che uno delle loro uova cadde quaggiù non so quando? che tu sei traforata a guisa dei paternostri, come crede un fisico moderno?che sei fatta, come affermano alcuni Inglesi, di cacio fresco? che Maometto un giorno, o una notte che fosse, ti spartì per mezzo, come un cocomero; e che un buon tocco del tuo corpo gli sdrucciolò dentro alla manica? Come stai volentieri in cima dei minareti? Che ti pare della festa del bairam?
Luna. Va pure avanti; che mentre seguiti così, non ho cagione di risponderti, e di mancare al silenzio mio solito. Se hai caro d’intrattenerti in ciance, e non trovi altre materie che queste; in cambio di voltarti a me, che non ti posso intendere, sarà meglio che ti facci fabbricare dagli uomini un altro pianeta da girartisi intorno, che sia composto e abitato alla tua maniera. Tu non sai parlare altro che d’uomini e di cani e di cose simili, delle quali ho tanta notizia, quanta di quel sole grande grande, intorno al quale odo che giri il nostro sole.
Terra. Veramente, più che io propongo, nel favellarti, di astenermi da toccare le cose proprie, meno mi vien fatto. Ma da ora innanzi ci avrò più cura. Dimmi: sei tu che ti pigli spasso a tirarmi l’acqua del mare in alto, e poi lasciarla cadere?
Luna. Può essere. Ma posto che io ti faccia cotesto o qualunque altro effetto, io non mi avveggo di fartelo: come tu similmente, per quello che io penso, non ti accorgi di molti effetti che fai qui; che debbono essere tanto maggiori de’ miei, quanto tu mi vinci di grandezza e di forza.
Terra. Di cotesti effetti veramente io non so altro se non che di tanto in tanto io levo a te la luce del sole, e a me la tua; come ancora, che io ti fo gran lume nelle tue notti, che in parte lo veggo alcune volte. Ma io mi dimenticava una cosa che importa più d’ogni altra. Io vorrei sapere se veramente, secondo che scrive l’Ariosto, tutto quello che ciascun uomo va perdendo; come a dire la gioventù, la bellezza, la sanità, le fatiche e spese che si mettono nei buoni studi per essere onorati dagli altri, nell’indirizzare i fanciulli ai buoni costumi, nel fare o promuovere le instituzioni utili; tutto sale e si raguna costà [si ammassa lì, ndr]: di modo che vi si trovano tutte le cose umane; fuori della pazzia, che non si parte dagli uomini. In caso che questo sia vero, io fo conto che tu debba essere così piena, che non ti avanzi più luogo; specialmente che, negli ultimi tempi, gli uomini hanno perduto moltissime cose (verbigrazia l’amor patrio, la virtù, la magnanimità, la rettitudine), non già solo in parte, e l’uno o l’altro di loro, come per l’addietro, ma tutti e interamente. E certo che se elle non sono costì, non credo si possano trovare in altro luogo. Però vorrei che noi facessimo insieme una convenzione, per la quale tu mi rendessi di presente, e poi di mano in mano, tutte queste cose; donde io penso che tu medesima abbi caro di essere sgomberata, massime del senno, il quale intendo che occupa costì un grandissimo spazio; ed io ti farei pagare dagli uomini tutti gli anni una buona somma di danari.
Luna. Tu ritorni agli uomini; e, con tutto che la pazzia, come affermi, non si parta da’ tuoi confini, vuoi farmi impazzire a ogni modo, e levare il giudizio a me, cercando quello di coloro; il quale io non so dove si sia, né se vada o resti in nessuna parte del mondo; so bene che qui non si trova; come non ci si trovano le altre cose che tu chiedi.
Terra. Almeno mi saprai tu dire se costì sono in uso i vizi, i misfatti, gl’infortuni, i dolori, la vecchiezza, in conclusione i mali? intendi tu questi nomi?
Luna. Oh cotesti sì che gl’intendo; e non solo i nomi, ma le cose significate, le conosco a maraviglia: perché ne sono tutta piena, in vece di quelle altre che tu credevi.
Terra. Quali prevalgono ne’ tuoi popoli, i pregi o i difetti?
Luna. I difetti di gran lunga.
Terra. Di quali hai maggior copia, di beni o di mali?
Luna. Di mali senza comparazione.
Terra. E generalmente gli abitatori tuoi sono felici o infelici?
Luna. Tanto infelici, che io non mi scambierei col più fortunato di loro.
Terra. Il medesimo è qui. Di modo che io mi maraviglio come essendomi sì diversa nelle altre cose, in questa mi sei conforme.
Luna. Anche nella figura, e nell’aggirarmi, e nell’essere illustrata dal sole io ti sono conforme; e non è maggior maraviglia quella che questa: perché il male è cosa comune a tutti i pianeti dell’universo, o almeno di questo mondo solare, come la rotondità e le altre condizioni che ho detto, né più né meno. E se tu potessi levare tanto alto la voce, che fossi udita da Urano o da Saturno, o da qualunque altro pianeta del nostro mondo; e gl’interrogassi se in loro abbia luogo l’infelicità, e se i beni prevagliano o cedano ai mali; ciascuno ti risponderebbe come ho fatto io. Dico questo per aver dimandato delle medesime cose Venere e Mercurio, ai quali pianeti di quando in quando io mi trovo più vicina di te; come anche ne ho chiesto ad alcune comete che mi sono passate dappresso: e tutti mi hanno risposto come ho detto. E penso che il sole medesimo, e ciascuna stella risponderebbero altrettanto.
Terra. Con tutto cotesto io spero bene: e oggi massimamente, gli uomini mi promettono per l’avvenire molte felicità.
Luna. Spera a tuo senno: e io ti prometto che potrai sperare in eterno.
Terra. Sai che è? questi uomini e queste bestie si mettono a romore: perché dalla parte della quale io ti favello, è notte, come tu vedi, o piuttosto non vedi; sicché tutti dormivano; e allo strepito che noi facciamo parlando, si destano con gran paura.
Luna. Ma qui da questa parte, come tu vedi, è giorno.
Terra. Ora io non voglio essere causa di spaventare la mia gente, e di rompere loro il sonno, che è il maggior bene che abbiano. Però ci riparleremo in altro tempo. Addio dunque; buon giorno.
Luna. Addio; buona notte.
Giacomo Leopardi, Tutte le poesie e tutte le prose, a cura di L. Felici ed E. Trevi, Newton – I Mammut, Roma 1997, pp. 516-519.

Publié dans:FILOSOFIA, Letteratura italiana |on 5 juillet, 2017 |Pas de commentaires »

GIACOMO LEOPARDI – DIALOGO DELLA TERRA E DELLA LUNA

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GIACOMO LEOPARDI – DIALOGO DELLA TERRA E DELLA LUNA

1824 – dalle Operette Morali

L’originale dialogo fra la Terra e la Luna composto da Leopardi si snoda entro un contesto e mediante immagini che tengono conto delle interazioni di ambito fisico-astronomico fra i due corpi celesti (attrazione Qmareale, reciproche eclissi, moti di rotazione e di rivoluzione). Come in altre opere leopardiane, il contesto dell’osservazione del cielo non è mai separato dai sentimenti di natura esistenziale che essa suscita. Al di là delle differenze di ambiente, di prospettive geometriche, di moti e di possibili abitatori, la Terra e la Luna condividono la medesima riflessione: la felicità non è facile da ottenere e nessun corpo celeste può assicurarla; gli uomini sulla terra la cercano avidamente ma si affannano in attività che non la procurano.
Terra. Cara Luna, io so che tu puoi parlare e rispondere; per essere una persona; secondo che ho inteso molte volte da’ poeti: oltre che i nostri fanciulli dicono che tu veramente hai bocca, naso e occhi, come ognuno di loro; e che lo veggono essi cogli occhi propri; che in quell’età ragionevolmente debbono essere acutissimi. Quanto a me, non dubito che tu non sappi che io sono né più né meno una persona; tanto che, quando era più giovane, feci molti figliuoli: sicché non ti maraviglierai di sentirmi parlare. Dunque, Luna mia bella, con tutto che io ti sono stata vicina per tanti secoli, che non mi ricordo il numero, io non ti ho fatto mai parola insino adesso, perché le faccende mi hanno tenuta occupata in modo, che non mi avanzava tempo da chiacchierare. Ma oggi che i miei negozi sono ridotti a poca cosa, anzi posso dire che vanno co’ loro piedi; io non so che mi fare, e scoppio di noia: però fo conto, in avvenire, di favellarti spesso, e darmi molto pensiero dei fatti tuoi; quando non abbia a essere con tua molestia.
Luna. Non dubitare di cotesto. Così la fortuna mi salvi da ogni altro incomodo, come io sono sicura che tu non me ne darai. Se ti pare di favellarmi, favellami a tuo piacere; che quantunque amica del silenzio, come credo che tu sappi, io t’ascolterò e ti risponderò volentieri, per farti servigio.
Terra. Senti tu questo suono piacevolissimo che fanno i corpi celesti coi loro moti?
Luna. A dirti il vero, io non sento nulla.
Terra. Né pur io sento nulla, fuorché lo strepito del vento che va da’ miei poli all’equatore, e dall’equatore ai poli, e non mostra saper niente di musica. Ma Pitagora dice che le sfere celesti fanno un certo suono così dolce ch’è una maraviglia; e che anche tu vi hai la tua parte, e sei l’ottava corda di questa lira universale: ma che io sono assordata dal suono stesso, e però non l’odo.
Luna. Anch’io senza fallo sono assordata; e, come ho detto, non l’odo: e non so di essere una corda.
Terra. Dunque mutiamo proposito. Dimmi: sei tu popolata veramente, come affermano e giurano mille filosofi antichi e moderni, da Orfeo sino al De la Lande? Ma io per quanto mi sforzi di allungare queste mie corna, che gli uomini chiamano monti e picchi; colla punta delle quali ti vengo mirando, a uso di lumacone; non arrivo a scoprire in te nessun abitante: se bene odo che un cotal Davide Fabricio, che vedeva meglio di Linceo, ne scoperse una volta certi, che spandevano un bucato al sole.
Luna. Delle tue corna io non so che dire. Fatto sta che io sono abitata.
Terra. Di che colore sono cotesti uomini?
Luna. Che uomini?
Terra. Quelli che tu contieni. Non dici tu d’essere abitata?
Luna. Sì, e per questo?
Terra. E per questo non saranno già tutte bestie gli abitatori tuoi.
Luna. Né bestie né uomini; che io non so che razze di creature si sieno né gli uni né l’altre. E già di parecchie cose che tu mi sei venuta accennando, in proposito, a quel che io stimo, degli uomini, io non ho compreso un’acca.
Terra. Ma che sorte di popoli sono coteste?
Luna. Moltissime e diversissime, che tu non conosci, come io non conosco le tue.
Terra. Cotesto mi riesce strano in modo, che se io non l’udissi da te medesima, io non lo crederei per nessuna cosa del mondo. Fosti tu mai conquistata da niuno de’ tuoi?
Luna. No, che io sappia. E come? e perché?
Terra. Per ambizione, per cupidigia dell’altrui, colle arti politiche, colle armi.
Luna. Io non so che voglia dire armi, ambizione, arti politiche, in somma niente di quel che tu dici.
Terra. Ma certo, se tu non conosci le armi, conosci pure la guerra: perché, poco dianzi, un fisico di quaggiù, con certi cannocchiali, che sono instrumenti fatti per vedere molto lontano, ha scoperto costì una bella fortezza, co’ suoi bastioni diritti; che è segno che le tue genti usano, se non altro, gli assedi e le battaglie murali.
Luna. Perdona, monna Terra, se io ti rispondo un poco più liberamente che forse non converrebbe a una tua suddita o fantesca, come io sono. Ma in vero che tu mi riesci peggio che vanerella a pensare che tutte le cose di qualunque parte del mondo sieno conformi alle tue; come se la natura non avesse avuto altra intenzione che di copiarti puntualmente da per tutto. Io dico di essere abitata, e tu da questo conchiudi che gli abitatori miei debbono essere uomini. Ti avverto che non sono; e tu consentendo che sieno altre creature, non dubiti che non abbiano le stesse qualità e gli stessi casi de’ tuoi popoli; e mi alleghi i cannocchiali di non so che fisico. Ma se cotesti cannocchiali non veggono meglio in altre cose, io crederò che abbiano la buona vista de’ tuoi fanciulli; che scuoprono in me gli occhi, la bocca, il naso, che io non so dove me gli abbia.
Terra. Dunque non sarà né anche vero che le tue province sono fornite di strade larghe e nette; e che tu sei coltivata; cose che dalla parte della Germania, pigliando un cannocchiale, si veggono chiaramente.
Luna. Se io sono coltivata, io non me ne accorgo, e le mie strade io non le veggo
Terra. Cara Luna, tu hai a sapere che io sono di grossa pasta e di cervello tondo; e non è maraviglia che gli uomini m’ingannino facilmente. Ma io ti so dire che se i tuoi non si curano di conquistarti, tu non fosti però sempre senza pericolo: perché in diversi tempi, molte persone di quaggiù si posero in animo di conquistarti esse; e a quest’effetto fecero molte preparazioni. Se non che, salite in luoghi altissimi, e levandosi sulle punte de’ piedi, e stendendo le braccia, non ti poterono arrivare. Oltre a questo, già da non pochi anni, io veggo spiare minutamente ogni tuo sito, ricavare le carte de’ tuoi paesi, misurare le altezze di cotesti monti, de’ quali sappiamo anche i nomi. Queste cose, per la buona volontà ch’io ti porto, mi è paruto bene di avvisartele, acciò che tu non manchi di provvederti per ogni caso. Ora, venendo ad altro, come sei molestata da’ cani che ti abbaiano contro? Che pensi di quelli che ti mostrano altrui nel pozzo? Sei tu femmina o maschio? perché anticamente ne fu varia opinione. È vero o no che gli Arcadi vennero al mondo prima di te? che le tue donne, o altrimenti che io le debba chiamare, sono ovipare; e che uno delle loro uova cadde quaggiù non so quando? che tu sei traforata a guisa dei paternostri, come crede un fisico moderno?che sei fatta, come affermano alcuni Inglesi, di cacio fresco? che Maometto un giorno, o una notte che fosse, ti spartì per mezzo, come un cocomero; e che un buon tocco del tuo corpo gli sdrucciolò dentro alla manica? Come stai volentieri in cima dei minareti? Che ti pare della festa del bairam?
Luna. Va pure avanti; che mentre seguiti così, non ho cagione di risponderti, e di mancare al silenzio mio solito. Se hai caro d’intrattenerti in ciance, e non trovi altre materie che queste; in cambio di voltarti a me, che non ti posso intendere, sarà meglio che ti facci fabbricare dagli uomini un altro pianeta da girartisi intorno, che sia composto e abitato alla tua maniera. Tu non sai parlare altro che d’uomini e di cani e di cose simili, delle quali ho tanta notizia, quanta di quel sole grande grande, intorno al quale odo che giri il nostro sole.
Terra. Veramente, più che io propongo, nel favellarti, di astenermi da toccare le cose proprie, meno mi vien fatto. Ma da ora innanzi ci avrò più cura. Dimmi: sei tu che ti pigli spasso a tirarmi l’acqua del mare in alto, e poi lasciarla cadere?
Luna. Può essere. Ma posto che io ti faccia cotesto o qualunque altro effetto, io non mi avveggo di fartelo: come tu similmente, per quello che io penso, non ti accorgi di molti effetti che fai qui; che debbono essere tanto maggiori de’ miei, quanto tu mi vinci di grandezza e di forza.
Terra. Di cotesti effetti veramente io non so altro se non che di tanto in tanto io levo a te la luce del sole, e a me la tua; come ancora, che io ti fo gran lume nelle tue notti, che in parte lo veggo alcune volte. Ma io mi dimenticava una cosa che importa più d’ogni altra. Io vorrei sapere se veramente, secondo che scrive l’Ariosto, tutto quello che ciascun uomo va perdendo; come a dire la gioventù, la bellezza, la sanità, le fatiche e spese che si mettono nei buoni studi per essere onorati dagli altri, nell’indirizzare i fanciulli ai buoni costumi, nel fare o promuovere le instituzioni utili; tutto sale e si raguna costà [si ammassa lì, ndr]: di modo che vi si trovano tutte le cose umane; fuori della pazzia, che non si parte dagli uomini. In caso che questo sia vero, io fo conto che tu debba essere così piena, che non ti avanzi più luogo; specialmente che, negli ultimi tempi, gli uomini hanno perduto moltissime cose (verbigrazia l’amor patrio, la virtù, la magnanimità, la rettitudine), non già solo in parte, e l’uno o l’altro di loro, come per l’addietro, ma tutti e interamente. E certo che se elle non sono costì, non credo si possano trovare in altro luogo. Però vorrei che noi facessimo insieme una convenzione, per la quale tu mi rendessi di presente, e poi di mano in mano, tutte queste cose; donde io penso che tu medesima abbi caro di essere sgomberata, massime del senno, il quale intendo che occupa costì un grandissimo spazio; ed io ti farei pagare dagli uomini tutti gli anni una buona somma di danari.
Luna. Tu ritorni agli uomini; e, con tutto che la pazzia, come affermi, non si parta da’ tuoi confini, vuoi farmi impazzire a ogni modo, e levare il giudizio a me, cercando quello di coloro; il quale io non so dove si sia, né se vada o resti in nessuna parte del mondo; so bene che qui non si trova; come non ci si trovano le altre cose che tu chiedi.
Terra. Almeno mi saprai tu dire se costì sono in uso i vizi, i misfatti, gl’infortuni, i dolori, la vecchiezza, in conclusione i mali? intendi tu questi nomi?
Luna. Oh cotesti sì che gl’intendo; e non solo i nomi, ma le cose significate, le conosco a maraviglia: perché ne sono tutta piena, in vece di quelle altre che tu credevi.
Terra. Quali prevalgono ne’ tuoi popoli, i pregi o i difetti?
Luna. I difetti di gran lunga.
Terra. Di quali hai maggior copia, di beni o di mali?
Luna. Di mali senza comparazione.
Terra. E generalmente gli abitatori tuoi sono felici o infelici?
Luna. Tanto infelici, che io non mi scambierei col più fortunato di loro.
Terra. Il medesimo è qui. Di modo che io mi maraviglio come essendomi sì diversa nelle altre cose, in questa mi sei conforme.
Luna. Anche nella figura, e nell’aggirarmi, e nell’essere illustrata dal sole io ti sono conforme; e non è maggior maraviglia quella che questa: perché il male è cosa comune a tutti i pianeti dell’universo, o almeno di questo mondo solare, come la rotondità e le altre condizioni che ho detto, né più né meno. E se tu potessi levare tanto alto la voce, che fossi udita da Urano o da Saturno, o da qualunque altro pianeta del nostro mondo; e gl’interrogassi se in loro abbia luogo l’infelicità, e se i beni prevagliano o cedano ai mali; ciascuno ti risponderebbe come ho fatto io. Dico questo per aver dimandato delle medesime cose Venere e Mercurio, ai quali pianeti di quando in quando io mi trovo più vicina di te; come anche ne ho chiesto ad alcune comete che mi sono passate dappresso: e tutti mi hanno risposto come ho detto. E penso che il sole medesimo, e ciascuna stella risponderebbero altrettanto.
Terra. Con tutto cotesto io spero bene: e oggi massimamente, gli uomini mi promettono per l’avvenire molte felicità.
Luna. Spera a tuo senno: e io ti prometto che potrai sperare in eterno.
Terra. Sai che è? questi uomini e queste bestie si mettono a romore: perché dalla parte della quale io ti favello, è notte, come tu vedi, o piuttosto non vedi; sicché tutti dormivano; e allo strepito che noi facciamo parlando, si destano con gran paura.
Luna. Ma qui da questa parte, come tu vedi, è giorno.
Terra. Ora io non voglio essere causa di spaventare la mia gente, e di rompere loro il sonno, che è il maggior bene che abbiano. Però ci riparleremo in altro tempo. Addio dunque; buon giorno.
Luna. Addio; buona notte.
Giacomo Leopardi, Tutte le poesie e tutte le prose, a cura di L. Felici ed E. Trevi, Newton – I Mammut, Roma 1997, pp. 516-519.

Publié dans:Letteratura italiana |on 9 mai, 2016 |Pas de commentaires »

L’INQUIETUDINE NE « I PROMESSI SPOSI » E IL PERSONAGGIO DI DON RODRIGO

 http://notedipastoralegiovanile.it/index.php?option=com_content&view=article&id=8631%3Alinquietudine-ne-qi-promessi-sposiq-e-il-personaggio-di-don-rodrigo&catid=173%3Aquestioni-letterarie&Itemid=298

L’INQUIETUDINE NE « I PROMESSI SPOSI » E IL PERSONAGGIO DI DON RODRIGO

Romano Luperini

L’inquietudine di Manzoni

Per molto tempo l’immagine di un Manzoni serenamente composto e armoniosamente classico ha impedito di coglierne la modernità. Questa interpretazione rassicurante, d’altronde coerente con lo spirito tradizionalista della cultura italiana, è stata abbandonata solo dalla critica più recente; e basti qui ricordare, a scopo esemplare, solo i nomi di Raimondi o di Calvino Sta emergendo insomma l’immagine di un Manzoni diverso, assai più problematico, assai più inquieto di quanto un tempo si sospettasse. Personaggi come Gertrude o l’innominato, così complessi e tormentati, affondano radici robuste nella cultura e nella psicologia dell’autore. Non sarà certo un caso se Manzoni, parlando di Pascal nelleOsservazioni sulla morale cattolica, dichiari di ammirare nei suoi Pensieri «lo sguardo turbato e confuso della contemplazione dell’abisso umano». Anche quello di Manzoni è «uno sguardo turbato» volto a contemplare l’«abisso umano» di questi grandi personaggi. Persino don Rodrigo, troppo spesso dipinto semplicemente come un «briccone dozzinale» o, addirittura, «un bestione» (Russo), conosce turbamenti e sfumature che gli fanno assumere alla fine una dimensione tragica. Nel caso di don Rodrigo e soprattutto dell’innominato, inoltre, gioca un ruolo di spicco non solo l’interesse psicologico e morale per gli abissi del cuore umano, ma anche quello culturale e politico per la figura del tiranno. D’altronde la sfera psicologica ed etica e quella culturale e politica sono sempre strettamente connesse nell’immaginario manzoniano, come mostrano anche le riflessioni sulle grandi personalità e sul problema del potere che costellano la sua opera: da Adelchi, al Conte di Carmagnola al Napoleone del Cinque maggio sino alla figura di Riccardo II nella Lettre à Monsieur Chauvet o al padre di Gertrude nei Promessi Sposi. In tutti questi casi il personaggio dell’uomo dotato di un grande potere o addirittura del despota ha una sua grandiosa cupezza che esclude messaggi semplificatori e unidirezionali.

L’inquietudine di don Rodrigo Rispetto a figure come queste don Rodrigo rischia senza dubbio di apparire un mediocre, un «tirannello» di paese. Su questo punto Manzoni è esplicito. Alla fine del cap. XIX infatti si legge:  “Don Rodrigo voleva bensì fare il tiranno, ma non il tiranno salvatico: la professione era per lui un mezzo, non uno scopo: voleva dimorar liberamente in città, godere i comodi, gli spassi, gli onori della vita civile.″ La contrapposizione rispetto all’innominato, autentico tiranno perché «salvatico», è evidente. D’altronde, nella Lettre à Monsieur Chauvet, Manzoni annota che in un’opera d’arte l’apparizione del male non va associata al sublime ma al mediocre. E tuttavia don Rodrigo non è amorale, cinico e spensierato come il conte Attilio, né organicamente malvagio e coerentemente immorale come Egidio. Pur nella sua rozzezza, è figura più complessa e turbata. Non manca in lui il tarlo di un senso di colpa per quanto sempre rimosso, di un oscuro timore acuito dal confronto con i ritratti degli antenati, dal sentimento di inferiorità o di impotenza, o addirittura di  castrazione come farebbe pensare il frequente ricorso alla spada come simbolo di un potere sadico-fallico e di una possibilità di risarcimento a esso connessa. Per questo, subito dopo il colloquiotempestoso non meno che perturbante con fra Cristiforo, l’arma viene da lui cercata e indossata per recarsi al “pubblico ridotto” – una casa da gioco o, più verosimilmente, stante il contesto psicologico, di malaffare – . L’ansia prodotta dal senso di colpa è avvertita da don Rodrigo come frustrazione di un bisogno di virilità e di potenza che dovrebbe escludere pentimenti e debolezze. Si tratta di un procedimento psicologico assai meno sfumato ma nella sostanza non molto diverso da quello dell’innominato nella notte della crisi esistenziale e religiosa quando il rimorso per l’ultimo crimine e la compassione per le lacrime di una donnicciuola vengono da lui inizialmente concepiti come una defaillance della propria virilità. L’incubo spaventoso provocato dalla febbre della peste – certo, uno dei più grandi sogni della letteratura italiana prima di Freud – è la traccia di un lavorìo dell’inconscio che al lettore moderno è impossibile sottovalutare. Anche don Rodrigo, dunque, è un tiranno inquieto? L’aggettivo non campare nei Promessi sposi, ma in Fermo e Lucia sì. All’inizio del cap. IX del quarto tomo don Rodrigo, ormai fuori di sé per la febbre, spia nel lazzaretto il ricongiungimento di Fermo, Lucia e fra Cristoforo. Vi si legge:  “Dal volto traspariva un misto di furore e di paura, e in tutta la persona una attitudine di curiosità e di sospetto, uno stare inquieto, una disposizione a levarsi, non si sarebbe saputo se per fuggire, o per inseguire”. È uno spunto bellissimo, uno dei non molti che fanno rimpiangere la redazione iniziale. È come se qui, nella infermità delirante della malattia giunta alla sua fase terminale, in questo spiare geloso e minaccioso ma anche implorante una solidarietà da cui si sente escluso, si rivelasse finalmente la verità di don Rodrigo, il lato incerto e inquieto del suo carattere, timoroso e aggressivo, egualmente disposto a fuggire e a inseguire, in una crisi di sicurezza e di identità che la stesura definitiva conferma ma in parte anche rimpiccolisce. __________________

NOTA Questo testo è stato concepito originariamente come relazione introduttiva al Congresso degli italianisti tedeschi, all’Università di Marburg, in Germania, tenuta il 29 febbraio 2008.

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DANTE PELLEGRINO DELL’ETERNO

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DANTE PELLEGRINO DELL’ETERNO

Pietro Millefiorini

Nella storia della religiosità medievale un posto di rilievo spetta al fervore con cui i cristiani intraprendevano i pellegrinaggi, fervore sotteso da un’intensa spiritualità penitenziale. Dai primi secoli, quando le mete erano rappresentate dalle tombe dei martiri, le schiere dei pellegrini via via si infoltirono: da tutta l’Europa si dirigevano ai «luoghi santi», anche se lontani, quali Gerusalemme, San Giacomo di Compostela, nonché Roma, che progressivamente s’impose come meta privilegiata, tanto che si coniò il termine romerie per il viaggio che «i pellegrini di tutte le nazioni del mondo, detti perciò Romei o Romipetae, compivano alla volta di Roma» [1]. Tale tendenza fu suggellata dal primo Giubileo del 1300 [2]. Il lungo e faticoso cammino verso la «città santa» (Gerusalemme, Roma) fu sentito anche come «figura» della stessa vita del cristiano e della Chiesa tutta, eterna pellegrina sulla terra verso la Gerusalemme celeste di cui parlano importanti scritti neotestamentari (cfr Gal 4,26; Eb 12,22; Ap 3,12; 21,2); e il motivo ricorre frequentemente nella liturgia.

«Exul inmeritus» La spiritualità del pellegrino è stata vissuta con intensità straordinaria da Dante Alighieri all’epoca del primo Giubileo: nella sua personalità i motivi di fede, affermati con un vigore che difficilmente trova paragoni, si fondono e costituiscono una cosa sola con le tormentate vicende del suo esilio dalla piccola patria terrena, con la passione politica che è al tempo stesso morale e mistica, con l’amore umano che è insieme tensione verso la beatitudine ultraterrena, con la poesia che lo esalta e lo macera: ‘l poema sacro/ al quale ha posto mano e cielo e terra, / sì che m’ha fatto per molti anni macro (Paradiso XXV, 1-3). Già prima dell’esilio Dante appare impressionato dal «peregrinare»: ne abbiamo accenni nella Vita Nuova, significativi anche perché sembrano una digressione rispetto allo sviluppo della narrazione [3]. Ma con l’esilio la vita di Dante ha la sua svolta essenziale: conseguenza inevitabile ne è il doloroso «peregrinare» lungo una strada di umiliazioni e di vergogne insopportabili specie per una tempra della sua fierezza: si tenga presente la citatissima pagina, così accorata, di Convivio I, III, 3-5. Proprio questa esperienza segna con un’impronta indelebile e decisiva la personalità e l’opera dantesca: «Senza l’esilio la Commedia non sarebbe stata possibile: questo poema oltremondano che ha come suo centro passionale Firenze» [4]. Superflua la citazione dei tanti passi delle opere in cui vibra la passione per la patria crudele: parole e versi che sono restati nel cuore di tutti. La coscienza dell’uomo e del cristiano non si limita a considerare l’esilio come esperienza terribile sì, ma soltanto biografica e psicologica, bensì glielo fa vivere con lucida consapevolezza dei suoi valori morali: l’essilio che m’è dato, onor mi tegno (Rime CIV, 76). Exul inmeritus diviene il suo titolo preferito, come la sua impresa e il suo blasone (Epistole, iscrizione della III, V, VI, VII). Nella profezia di Cacciaguida, Dante fa sentire il conflitto che lacera il suo cuore, dove si fronteggiano l’uomo e l’eroe: all’uomo pesano tanto le parole «gravi» precedentemente ascoltate sul suo futuro, l’eroe è «tetragono ai colpi di ventura»; l’uomo vorrebbe pur pensare alla tranquillità degli ultimi anni di vita, l’eroe non ammette esitazioni e compromessi (tutta tua vision fa manifesta). La missione dell’esule, veggente e pellegrino dei mondi ultraterreni, sarà dolorosissima, ma ciò non fa d’onor poco argomento (Paradiso XVII, passim). Le parole dell’antenato che aveva offerto la vita come «martirio» (Paradiso XV, 148) persuadono sempre più il poeta «ad affrontare l’esilio non come pietra d’inciampo, ma come occasione privilegiata per il realizzarsi del disegno divino» [5], anche se misteriosamente terribile. Qui è la tragedia di Dante: E se il mondo sapesse il cor ch’ elli ebbe / mendicando sua vita a frusto a frusto, dice di un altro «giusto», anch’egli «persona… peregrina», esaltato nel canto solenne dell’aquila imperiale (Paradiso VI, 127-142). Ma l’immagine poetica di Romeo di Villeneuve è velo troppo trasparente perché dietro ad esso sia possibile non riconoscere i lineamenti tesi del poeta stesso.

La patria sospirata: quale? La virile accettazione dell’esilio in nome di princìpi morali inderogabili non gli consente di piegarsi alla possibilità offertagli di un ritorno in patria a condizioni che egli giudica non compatibili con quei princìpi. Se gli si aprisse una strada per Firenze non offensiva della sua coscienza, illam non lentis passibus acceptabo; quod si per nullam talem Florentia introitur, nunquam Florentiam introibo [6]. Ma questa sofferta rinuncia schiude nuove vie, itinerari interiori che si aprono su spazi sconfinati: Nonne solis astrorumque specula ubique conspiciam? nonne dulcissimas veritates potero speculari ubique sub celo? [7]. Ecco Dante pellegrino del cielo. Il fascino della volta stellata, delle «cose belle» si confonde per lui con il fascino irresistibile del divino: Chiamavi il cielo e ‘ntorno vi si gira / mostrandovi le sue bellezze etterne (Purgatorio XIV, 148-149). Le delusioni umane, personali, politiche, morali (il «mondo che mal vive»: Purgatorio XXXII, 102) pesano sempre più sull’uomo stanco, cui però infondono nuovo, insospettato vigore il sospiro verso una patria che non delude e l’ansia del divino che diventano il Leitmotiv della sua biografia artistica e mistica. Veramente, come afferma il Momigliano, riferendosi forse a parole del De vulgari eloquentia [8], «Dante esule è cittadino del mondo» [9]? Forse con maggiore aderenza alla realtà dantesca si può pensare che egli fosse pellegrino in tutto il mondo, attesa la sua definizione di «peregrino» nella Vita Nuova nonché la precisazione che mette in bocca alla senese Sapia: esiste un’unica città di cui tutti sono cittadini, mentre sulla terra ogni persona è «peregrina» (Purgatorio XIII, 94-96) [10]. Una delle ultime pagine del Convivio sembra profetica della parabola spirituale del suo autore: «Ne l’ultima etade, cioè nel senio», l’anima, «già essendo a Dio renduta e astrattasi dalle mondane cose e cogitazioni [...], attende lo fine di questa vita con molto desiderio e uscir le pare de l’albergo e ritornare ne la propria mansione, uscir le pare di cammino e tornare in cittade, uscir le pare di mare e tornare a porto». Anzi, all’arrivo nella vera patria si potrà finalmente godere di quella soddisfazione che era stata il sogno infranto del poeta: il ritorno con onore in patria. «E sì come a colui che viene di lungo cammino, anzi ch’entri ne la porta de la sua cittade, li si fanno incontro li cittadini di quella, così a la nobile anima si fanno incontro, e deono fare, quelli cittadini de la etterna vita» (Convivio IV, XVIII, 2-7). La pace contemplativa di questa pagina si trasforma via via in sospiro e tensione verso un’altra pace, non più fragile e illusoria. Neanche il quadro idilliaco di «Fiorenza dentro da la cerchia antica» che «si stava in pace, sobria e pudica» e il pensiero nostalgico volto a così riposato, così bello / viver di cittadini, a così fida / cittadinanza, a così dolce ostello, dove la campana scandiva il tempo diviso tra sana laboriosità e lode di Dío, vale ad acquietare le ansie segrete del cuore consapevole che anche un bel sogno appartiene al «mondo fallace», per «disvilupparsi» dal quale non c’è che puntare a «questa pace» (Paradiso XV, 97-148), cioè del cielo: ‘n la sua volontade è nostra pace (Paradiso III, 85) dichiarano con fermezza gli spiriti beati. In terra tale pace può essere in qualche modo pregustata soltanto nella contemplazione, come accadde a san Bernardo che in questo mondo, / contemplando, gustò di quella pace (Paradiso XXXI, 110-111). La continua polemica supera i limiti della contrapposizione tra moralità del passato e corruzione del presente perché «il termine supremo dell’antitesi è [...] fra la terra tutta e il cielo, fra il disordine del « mondo fallace » e la « pace » del cielo» [11].

Unità o dicotomia? A questo punto è ineludibile un problema, fin troppo noto, che, ereditato dall’Ottocento, e in particolare dal De Sanctis, ha visto dibattiti serrati e appassionati per molti decenni del sec. XX: materia di critica letteraria, ma dalle molteplici e non marginali ripercussioni sulla comprensione non solo di Dante poeta ma anche di Dante uomo e pellegrino dell’eterno. Tale problema è se la Commedia sia espressione organica, di salda unità vitale, di Dante uomo, cristiano, scienziato, pellegrino, linguista, poeta oppure consti di due parti artificialmente giustapposte, l’una frutto di una pesante cultura medievale antipoetica e l’altra prodotto genuino e spontaneo di una possente e incoercibile fantasia creatrice di poesia. De Sanctis da una parte sottolinea vivacemente che, nel poema, terra e oltremondo «son due mondi onnipresenti, in reciprocanza d’azione, [...] in perpetuo ritorno l’uno nell’altro» [12]; dall’altra con non minore enfasi vuole dimostrare che la cultura dei tempi del poeta, la quale attraversa tutta l’opera, è incompatibile con la poesia: la religione infatti «scomunicava l’arte, ab-bruciava le immagini, avvezzava gli spiriti a staccarsi dal reale». Peggio ancora la filosofia. Così il sommo poeta, che intendeva la «figura» soltanto come bella veste del vero, come «puro abbigliamento esteriore» del «figurato», cioè dell’allegoria, a solo scopo didascalico, ha fatto sì poesia, ma solo a sprazzi, malgré lui: «Così è. Dante è stato illogico, ha fatto altra cosa che non intendeva». «La sua natura poetica, tirata per forza nelle astrattezze teologiche e scolastiche, ricalcitra e popola il suo cervello di fantasmi». E, rivolto al poeta, il critico così lo loda: «Come il peccatore, piantate li il figurato, e correte appresso alla figura, e la fate così impolpata, così corpulenta, che è un velo denso e fitto, al di là del quale non si vede nulla». Pertanto alla domanda: «Qual è il vero Dante?» non si può rispondere se non che è quello la cui grandezza consiste nella poesia, sulla quale peraltro il suo mondo etico-religioso, per quanto fosse «per lui una cosa così seria», «lascia delle grandi ombre». Ma allora le sue aspirazioni mistiche si riducono a un inevitabile adeguarsi al «vezzo dei tempi» [13]? Ovviamente nel Paradiso si aggravano le riserve e il fastidio del critico. Certo, Dante compie prodigi «per rendere artistico il paradiso» attraverso immagini e paragoni, ma ci troviamo di fronte «all’ultima dissoluzione della forma» [14]. «Non di rado vedi non il poeta, ma il dottore che esce dall’università di Parigi, pieno il capo di tesi e di sillogismi» [15]. Anche B. Croce, nella sua famosa La poesia di Dante, pubblicata nel sesto centenario della morte del poeta, pur contrario alla critica romantica di cui il De Sanctis è il massimo esponente, riprende sostanzialmente la negazione dell’unità poetica sostenuta dall’Irpino, ma proiettata nel quadro teoretico della propria estetica, sulla cui base egli «esclude dall’area poetica tutta la parte che si può comprendere sotto la qualifica di « escatologia teologica », alla quale egli dà il nome di « struttura »», attribuendole «la qualifica, che a molti è sembrata irriverente, di « romanzo teologico » o « etico-politico-teologico »» [16]. Non mancano certo, osserva il filosofo-critico, episodi di altissima poesia, ma «ciascuno di quegli episodi sta per sé ed è una lirica a sé», perché la struttura può dare soltanto «connessioni estrinseche alla poesia», rispetto alla quale essa rappresenta meno che la cornice rispetto al quadro: «Il rapporto con la poesia è semplicemente quello che passa tra un romanzo teologico, ossia una didascalia, e la lirica che lo varia e interrompe di continuo» [17]. Se il Croce ha trovato una folta schiera di seguaci assai zelanti (in Italia), ha assistito pure a una «revisione» della sua «tesi» «che si venne operando nella stessa critica estetico-idealistica» con «tendenza alla riabilitazione estetica della cantica del Paradiso e al superamento di antiche posizioni vichiano-romantico-desanctisiane che il Croce aveva finito col ribadire» [18]. Così il Russo, che pur gravitava nell’area crociana: «E se il Croce… ci chiedesse se anche noi dunque crediamo all’unità poetica della Commedia, noi naturalmente diremmo di sì, perché la struttura per noi è nient’altro che lo stesso mondo storico dell’artista in cui la sua poesia si riconosce e si attua» [19]. E il Flora, anch’egli vicino al Croce: «La figura e il figurato non sono due cose, come ha creduto anche il De Sanctis: sono tutt’uno: nella figura è presente, e lo intona di sé, anche il figurato, anche l’allegoria» [20].

Unità poetica e personalità di Dante Il dibattito sull’unità poetica non è quaestio elegans riservata agli addetti ai lavori, ma tocca il cuore stesso della vita e dell’opera di Dante, perché la negazione di quell’unità non solo impoverisce la poesia (il dramma di coscienza che la sottende si ridurrebbe a un moraleggiare estraneo al nucleo più intimo della sua ispirazione), ma intacca la serietà della stessa persona, la quale non vivrebbe in profondità le sue assillanti problematiche e il suo strenuo protendersi verso il vero in che si queta ogne intelletto (Paradiso XXVIII, 108), verso il «bene» che soltanto in Dio «tutto s’accoglie», è «perfetto», mentre al di fuori di lui è sempre «defettivo» (Paradiso XXXIII, 103-105): il poeta si placherebbe invece in forme estetiche a sé stanti che in realtà distolgono dalla luce di Dio, per lui così necessaria che volgersi da lei per altro aspetto / è impossibile che mai si consenta (ivi, 100-102). Perciò tanti critici hanno reagito con convinzione a quella sorta di vivisezione del poema ridotto, sul piano artistico, a un’antologia più o meno scarna di liriche private del potente affiato umano-politico-etico-mistico da cui scaturisce l’opera intera. Una discriminazione e distinzione «tra struttura dottrinaria e poesia, come fra non poesia e poesia [...] non è attuabile, perché il carattere qualificante, il miracolo vorremmo dire, della poesia dantesca, consiste proprio nel fatto che l’uno e l’altro conoscere si traducono in linguaggio poetico» [21]. «Nella Commedia immaginazione e realtà son diventate una cosa sola filosofia teologia e scienza non s’accampano per sé, ma diventano un momento della totale visione poetica, il segno della serietà e profondità della mente da cui ha preso lo slancio il volo mirabile della fantasia» [22]. E un poeta del Novecento, T. S. Eliot, acuto lettore di Dante, ha sostenuto che proprio gli ultimi canti del Paradiso contro i quali più si appuntano gli strali della critica desanctisiana e crociana, costituiscono «il più alto vertice che la poesia abbia mai raggiunto o che forse mai raggiungerà» [23]. Per Giovanni Getto è importante il tentativo di «storicizzare quel tema teologico che crediamo costituisca il nucleo dell’ispirazione dell’intera cantica», la cui poesia è al tempo stesso «epos della vita interiore», «lirica dell’adorazione», «ebbrezza e pace dell’anima elevata verso le cime vertiginose», tutta percorsa dal motivo esaltante del filios Dei fieri [24]. Umberto Eco afferma senza mezzi termini: «Il Paradiso è la più bella delle tre cantiche della Commedia»; e insiste sulla «poesia dell’intelligenza» propria soprattutto della terza cantica, perché «il lettore moderno [...] sa che la poesia può essere anche passione metafisica» dopo aver letto, tra gli altri, John Donne, Eliot, Valéry, Borges [25].

Interpretazione figurale Nel sec. XX è stato proposto un criterio di interpretazione del poema – a cui la critica attuale fa frequente riferimento – desunto da un’antichissima tradizione esegetica della Bibbia. Tanti eventi dell’Antico Testamento, oltre a possedere in sé una loro realtà storica (non sono semplici simboli o allegorie), sono al tempo stesso «tipi», «figure» di eventi del Nuovo Testamento nei quali trovano tutta la pienezza della loro realtà. Così la liberazione degli ebrei dall’Egitto, fatto storico, trova il suo ultimo compimento e realizzazione nella liberazione dell’umanità dal peccato ad opera di Cristo, secondo l’esempio portato da Dante stesso [26]. Anzi, tutto l’Antico Testamento si può considerare «figura» del Nuovo [27]. Così «l’interpretazione figurale crea tra due fatti, che appartengono entrambi alla storia, un nesso in cui uno dei due non significa soltanto se stesso ma significa anche l’altro, mentre quest’altro comprende e adempie il primo» [28]: il primo è umbra futurorum (adombramento di realtà future: cfr Col 2,17), il secondo è figura impleta (adempimento completo della realtà storica del primo fatto, anch’esso storico). Analogamente nella Commedia il mondo e i personaggi terreni, storici non sono semplici allegorie (astrazioni concettuali, simboliche senza consistenza reale) di qualche valore o disvalore che s’intende illustrare (virtù, vizi, ideali, passioni…), ma conservano «il grado più intenso del loro essere individuale terreno-storico» [29] proiettato nell’eterno. Per esempio Beatrice non è aerea e intellettualistica allegoria della fede o della teologia, ma donna reale, quella che Dante ha incontrato nella sua giovinezza (anzi nel poema è assai più umana che nell’operetta giovanile) pienamente realizzata nella trascendenza metastorica dell’aldilà, dove adempie nella maniera più completa (figura impleta) la funzione stilnovistica della donna, cioè di colei che dona beatitudine guidando verso Dio; Virgilio non è una pallida ombra, allegoria della ragione o della filosofia, ma uomo vero che sospira (Inferno I, 129), è «tutto smorto» (Inferno IV, 14), è «turbato» (Purgatorio III, 45) poiché nell’aldilà, come sulla terra, può orientare altri verso la perfezione terrena senza che egli possa attingere quella paradisiaca. Il primo personaggio da interpretare figuralmente è, sempre secondo Auerbach, Dante stesso, uomo concretissimo, con passioni, aspirazioni, ideali vissuti e sofferti su questa terra trasportati nell’oltremondo dove, nuovo Enea e nuovo Paolo, è investito di una missione «in pro del mondo che mal vive» (Purgatorio XXXII, 103): ed è da ricordare che il poeta vive come realissima esperienza il suo viaggio nei regni ultraterreni. Tale interpretazione non esclude peraltro che in vari luoghi del poema appaiano anche allegorie [30]. Qui interessa sottolineare che la piena storicità di personaggi e avvenimenti toglie, per così dire, il terreno sotto ai piedi alle dicotomie «figura-figurato», «struttura-poesia».

«L’ardor del desiderio» La resistenza a riconoscere nel poema, e soprattutto nel Paradiso un «epos» della vita interiore e una «lirica dell’adorazione» sembra, per non pochi, trarre origine dal fatto che la fede viene concepita come assenso puramente intellettualistico a verità imposte dal di fuori e non come atto di intelligenza e di amore che scaturisce dalla coscienza affascinata dalla luce di Dio. Emblematica di tale mentalità può essere la valutazione, assai limitativa, del Fubini (e di altri) del valore poetico della preghiera di san Bernardo a Maria nell’ultimo canto del Paradiso, che non potrebbe reggere il confronto con altri passi di Dante stesso, come ad esempio con il solo verso e mezzo Il nome del bel fior chi() sempre invoco / e mane e sera (Paradiso XXIII, 88-89), sufficiente a dare «un’intimità d’affetto che qui (nella preghiera di san Bernardo) non sentiamo» [31]: certo, incantevoli quelle parole con la loro musicalità, dolcezza, delicatezza, però non toccano le radici stesse della fede che fa vibrare il poeta nella «melodica contemplazione di uno stupendo miracolo» [32], quello dell’Incarnazione, realizzato in una povera fanciulla, nel quale antitesi e ossimori non sono artifici retorici ma realtà, centro e anima di tutto il cristianesimo. Invece quel bellissimo verso e mezzo è adatto a entrare in un’antologia di liriche che ignori totalmente ciò che Maria rappresenti per la vita e per la speranza del poeta, la sua parte essenziale, affettiva e mistica, nell’appassionato itinerarium mentis in Deum dantesco (Inferno II, 94-99: ma non solo). «L’ardor del desiderio» (Paradiso XXXIII, 48) di arrivare a Dio, che divampa nel Paradiso ed è coronato nell’ultimo canto, percorre e sottende il poéma intero e ne è l’anima segreta: dall’Inferno, dove tanta è la sofferenza di chi ha «perduto» Dio-verità che è «il ben de l’intelletto» (III, 18) (mentre soltanto di Dio è la luce che dà gaudio ineffabile, Paradiso XXX, 40-42: di conseguenza il baratro è afflitto da «tenebre eterne», III, 87, da «aura nera», V, 51, ed è «luogo d’ogne luce muto», V, 28); al Purgatorio, dove gli spiriti sospirano di vedere Dio «che del disio di sé veder n’accora» (V, 57), «lacrimando a colui che sé ne presti» (XIII, 108); a tutto il Paradiso, dove l’ansia del pellegrino che non trova pace si fa come palpabile fin dal I canto. Rimossi infatti, nell’arduo peregrinare attraverso Inferno e Purgatorio, gli ostacoli che impediscono di sollevarsi a Dio, meta ultima dell’uomo, questi corre e vola verso di lui più veloce di un fulmine: folgore […1/ non corse come tu ch’ad esso riedi (I, 92-93). Insaziabile è il desiderio di conoscenza e verità, nelle quali «sta la nostra felicitade» (Convivio I, I, 1), verità naturali e rivelate: già mai non si sazia / nostro intelletto, se ‘l ver non lo illustra / di fuor dal qual nessun vero si spazia (Paradiso IV, 124126); ed è questo ardore che costituisce, per l’uomo e per il cristiano, un impulso interiore, dinamico e irresistibile, a salire, di altezza in altezza, sempre più in alto, verso la vetta: Nasce per quello, a guisa di rampollo, / a piè del vero il dubbio; ed è natura / cb’al sommo pinge noi di collo in collo (ivi, 130-132). La mente sintetica di Dante rielabora e rivive personalmente l’aspirazione all’unità propria della cultura filosofico-teologica del suo tempo: quella ordinatio ad unum che abbraccia la frastagliatissima molteplicità dello scibile, del reale e del possibile in una visione unitaria e organica che conferisce razionalità al tutto e alle parti disposte secondo una gerarchia di valori al cui vertice è Dio, causa prima e fine ultimo. Nell’armonia dell’universo il poeta legge il rapporto sostanziale tra unità e molteplicità (Paradiso XXXIII, 85-87): la legge fondamentale di tutto quanto esiste è così per lui l’ordine, un ordine dinamico in cui ogni creatura si muove sicura «per lo gran mar de l’essere» verso il proprio porto (Paradiso I, 103-142) rappresentato alla fin fine da Dio-Amore, semplicità e ricchezza infinita. «Rappresentare quell’ordine nella perfezione della sua attuazione era la necessità imprescindibile della sua arte». In tal modo «risalire sempre dall’aspetto particolare alla suprema causa generatrice. E così avere sempre dinanzi Dio, meta ultima del viaggio, trascendenza infinita, ma attivo sempre nello spirito a esaltare l’uomo, sublimarlo sempre di più» [33]. E della fede, che gli consente di spaziare ben al di là dell’orizzonte solo razionale, Dante va fiero: chi può non conoscere il nome di Dio s’elli ha la fede mia? (Paradiso XXV, 75: cfr l’esame sulla fede da parte di san Pietro nel c. XXIV, che con il suo «ritmo sicuro, vittorioso, incalzante» è un «inno alla fede» «dissimulato sotto la forma di un esame») [34]. Ma la fede è fondamento di speranza (Paradiso XXIV, 64), che dice desiderio pieno di fiducia: Beatrice può assicurare sant’Jacopo che la Chiesa militante alcun figliuolo / non ha con più speranza (Paradiso XXV, 52-53). Nel figgere lo sguardo in Dio l’uomo-cristiano-poeta raggiunge il culmine beatificante della sua diuturna e appassionata tensione interiore: l’ardor del desiderio in me finii (Paradiso =CHI, 48).

Ulisse e Dante Il perenne pellegrino ha creato con sobrietà di mezzi una figura di efficacia straordinaria che immortala la grandezza dell’uomo: Ulisse. Abbandonato il mito omerico del ritorno in patria (ma non certo il motivo dell’intensità degli affetti più cari, rievocati in una magistrale terzina: cfr Inferno XXVI, 94-96), prende spunto da alcuni passi dei classici (Ovidio, Cicerone, Seneca…) e forse da qualche leggenda a noi non pervenuta per dar vita all’epopea splendida dell’eroe che tutto sacrifica, perfino la vita, per «l’ardore» di divenir del mondo esperto / e de li vizi umani e del valore (ivi, 97-99) e sfida insieme ai pochi e vecchi compagni rimastigli, resi da lui con una «orazion picciola» baldi e audaci come giovani temerari, l’immensità sconfinata del mare ignoto. In nome di che cosa trascina altri al «folle volo»? In nome della coscienza del valore e della dignità dell’uomo che, a differenza dei «bruti», ha il dovere di «seguir virtute e conoscenza» (ivi, 118-120): per essere pienamente uomini è necessario essere eroi. Questa la morale di Ulisse-Dante. Ulisse però fallisce tragicamente: perché? quel naufragio seppellisce le più nobili aspirazioni umane? Dante ha tentato un’impresa ancora più «folle», unica al mondo (L’acqua ch’io prendo già mai non si corse: Paradiso II, 7): oltrepassare non solo le Colonne d’Ercole ma i confini del mondo e penetrare nell’aldilà e nell’eterno. Eppure ha vinto. Perché? Perché poteva fare appello a una risorsa misteriosa sconosciuta a Ulisse: la grazia, che non soltanto non annulla ma esalta e potenzia forze e grandezza dell’uomo [35] in maniera indicibile: «Trasumanar significar per verba / non si poria» (Paradiso I, 70-71). La sete natural che mai non sazia / se non con l’acqua onde la femminetta / samaritana domandò la grazia (Purgatorio XXI, 1-3): il protendersi inesausto di Ulisse, di Dante e di ogni uomo che sia veramente tale verso qualcosa di sempre più alto e più bello non può trovare appagamento pieno se non nell’Infinito e nell’Etemo [36]. «Immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l’universo infinito, e sentire che l’animo e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che siffatto universo; [...] pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà, che si vegga della natura umana» [37]: tale sete può essere estinta unicamente con l’«acqua viva» offerta da Cristo non soltanto alla Samaritana incontrata presso il pozzo di Giacobbe, ma all’umanità che solo allora «non avrà mai più sete» quando attingerà a una «sorgente che zampilla per la vita eterna» (Gv 4,10-15). Il tormentato viaggio terrestre e celeste di Dante e dell’umanità è un pellegrinare, ma non senza meta, meta che non si potrà raggiungere pienamente se non colà dove gioir s’insempra (Paradiso X, 148).

NOTE SUL SITO

LA CONVERSIONE DELL’INNOMINATO SPIEGA QUELLA DI MANZONI, DI GIOVANNI FIGHERA

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LA CONVERSIONE DELL’INNOMINATO SPIEGA QUELLA DI MANZONI, DI GIOVANNI FIGHERA

Scritto da Redazione de Gliscritti: 06 /04 /2014 -

Tag usati: alessandro_manzoni, giovanni_fighera, promessi_sposi Riprendiamo dal blog di Giovanni Fighera, La ragione del cuore, un articolo sui Promessi sposi di Alessandro Manzoni (è il quattordicesimo articolo sui Promessi sposi – rimandiamo agli altri del suo blog per ulteriori approfondimenti). Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Il Centro culturale Gli scritti (6/4/2014)

Non è un ragionamento, ma un incontro che decide dell’esistenza: non un discorso o una morale, ma un affetto e un abbraccio! Manzoni nei Promessi sposi ci descrive la conversione dell’Innominato, a metà del romanzo, in posizione centrale, a testimonianza dell’importanza dell’episodio. Fallito il matrimonio a sorpresa, come abbiamo visto, Lucia e Renzo fuggono da Pescarenico: Lucia trova rifugio in un convento di Monza nella convinzione di trovare quella protezione di cui altrove non potrebbe godere; Renzo si trasferisce a Milano dove ingenuamente si trova coinvolto nei tumulti popolari scaturiti dalla carestia. Don Rodrigo medita il rapimento di Lucia, ma, una volta scoperto il suo nascondiglio pressola Monaca di Monza, comprende che l’unica possibilità per riuscire nell’impresa è ricorrere al sostegno dell’Innominato. Questi è un personaggio realmente esistito. La Marchesa Margherita Provana Di Collegno, che conosceva bene Manzoni, scrive sul suo diario: «Sentii da Manzoni che l’Innominato è un Visconti, ed è personaggio verissimo». L’identificazione più attendibile dell’Innominato sarebbe con Francesco Bernardino Visconti, feudatario di Brignano Gera d’Adda. Il fatto sorprendente è che Manzoni è un discendente di Bernardino da parte di madre. L’autore de I promessi sposi è, quindi, parente dell’Innominato. Un amico molto stretto di Alessandro Manzoni come Hermes Visconti afferma che lo scrittore, raccontando la conversione dell’Innominato, ha voluto svelare anche il segreto della sua. In sintesi questa è la vita di Francesco Bernardino Visconti. Nato nel 1579 inprovincia di Bergamo, a soli diciassette anni inizia la sua attività criminale insieme con la sua banda, commette numerosi delitti. Contro di lui vengono emesse più grida. Fugge nel cantone dei Grigioni fino a quando ritornerà in Italia stabilendosi nel castello di Chiuso. La conversione avviene durante la visita pastorale di Federigo Borromeo nel lecchese. L’ultima notizia storica dell’Innominato risale al 1647 quando Francesco Bernardino lascia tutta la sua eredità all’oratorio di S. Maria delle Grazie a Bagnolo Cremasco. Una volta ancora, come nel caso della Monaca di Monza, Manzoni cambia considerevolmente la data della vicenda (anticipandola) per trasformare l’Innominato in un protagonista del romanzo. Il vero poetico, potremmo dire, trionfa sul vero storico in due fondamentali deroghe della storia. Nel Fermo e Lucia l’Innominato viene designato con il titolo di Conte del Sagrato in riferimento ad un omicidio avvenuto sul sagrato di una chiesa. Ne I promessi sposi Manzoni sceglie un nome che conferisce al personaggio un’aura di eroicità e di grandezza. L’autore ci descrive con acume psicologico la situazione esistenziale in cui si trova l’Innominato quando Don Rodrigo si reca da lui  per chiedere il rapimento di Lucia. Il ribaldo assume su di sé l’impegno senza neppure aver dato all’interlocutore il tempo di spiegare. È un’abitudine al male che lo induce a dire subito sì, ma non appena Don Rodrigo, che neppure conosce, se ne va, inizia a percepire una «cert’uggia», come un fastidio fisico sempre più crescente, come un peso allo stomaco che sempre più si fa sentire, quando non si è digerito eppure si continua a mangiare. Infatti, all’inizio, l’Innominato nei primi tempi che perpetrava  i suoi delitti sentiva  una sorta di rimorso che cercava di cacciare e che, poi, scomparve. Il cuore, finché non è ancora ottenebrato, oscurato e corrotto funge da criterio  di giudizio con cui paragoniamo quanto ci accade e anche, quando ne siamo inconsapevoli, ci dice se quanto facciamo è buono per noi: la cartina di tornasole è, infatti, la letizia, che scaturisce da una corrispondenza tra quanto accade e quanto desidera autenticamente il nostro cuore. Ora, dopo tanti anni di delitti e omicidi, non si riprende la coscienza dell’Innominato ormai annichilita, il suo non è un rimorso di coscienza, ma un peso fisico, come l’evidenza concreta, oggettiva delle sue azioni, che gli stanno tutte davanti e «sono lui», ovvero lo seguono anche se lui ne è inconsapevole. Da tempo, però, l’Innominato iniziava a sentire anche il limite ontologico dell’uomo, la vecchiaia e la morte: quella stessa morte che una volta, quando era giovane, destava in lui sentimenti di lotta e sollecitava ancor più il suo coraggio, ora, invece, gli appare come qualcosa che lo riguarda, lui, singolarmente, e che deve essere affrontata non in campo aperto, ma nel buio della sua camera, come un «giudizio individuale», «una ragione indipendente dall’esempio». Di fronte alla morte si percepisce solo e ancor più solo, perché lui si sente per delitti e sopraffazioni molto più avanti di tutti gli altri. Inoltre, quel Dio che l’Innominato non ha mai negato o affermato, perché lui ha sempre vissuto come se non esistesse, ora gli sembra che gli gridi dentro di sé «Io sono, però», espressione che riecheggia l’ebraico «Iahvé». Una voce gli sembra, infatti, dire: «Fingi e vivi come se io non esistessi, io comunque ci sono e prima o poi con me dovrai fare i conti». Ebbene, in mezzo a questa crisi, giunge al castello dell’Innominato quella Lucia che il collega di ribalderie Egidio, l’amante della Monaca di Monza, ha facilmente fatto rapire. Quella ragazza debole e apparentemente senz’armi appare all’Innominato non certo indifesa. La fede non l’abbandona in questo momento difficile. Di fronte al suo carceriere esclama: «In nome di Dio…», ponendo così un dito nella piaga dell’Innominato che risponde: «Dio, Dio, … sempre Dio: coloro che non possono difendersi da sé, che non hanno la forza, sempre han questo Dio da mettere in campo, come se gli avessero parlato. Cosa pretendete con codesta vostra parola. Di farmi…?». Allora Lucia pronuncia quella frase che salverà l’Innominato: «Oh Signore! pretendere! Cosa posso pretendere io meschina, se non che lei mi usi misericordia? Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia!». Anche una semplice frase, un istante possono servire per la nostra salvezza o la salvezza altrui: è il concetto di merito cristiano, per cui non c’è istante che, se offerto a Dio, non possa valere per la salvezza di sé e del mondo. Qui, sarà ben presto evidente che poche parole pronunciate con fede e per fede si stamperanno nella mente sconvolta del ribaldo e nella notte che sta per sopraggiungere lo tratterranno da un folle gesto.

UNA CONVERSIONE È SEMPRE UNA NUOVA NASCITA – ALESSANDRO MANZONI *

http://www.atma-o-jibon.org/italiano6/letture_patristiche_d.htm#LA DOLCEZZA VERSO NOI STESSI

UNA CONVERSIONE È SEMPRE UNA NUOVA NASCITA – ALESSANDRO MANZONI *

Alessandro Manzoni, dopo un breve periodo di sbandamento interiore, si convertì a 25 anni. Conversione già preparata da una ricerca profonda della verità. Da allora in poi la religione cristiana improntò costantemente la sua vita e la sua opera. Suo capolavoro è il romanzo «I promessi sposi». Questo libro, tra i più grandi della prosa italiana, dai personaggi plastici, che scaturiscono da una acuta analisi psicologica, è tutto penetrato da una profonda concezione cristiana della vita.

Appena introdotto l’Innominato, Federico gli andò incontro, con un volto premuroso e sereno, e con le braccia aperte, come a persona desiderata… I due stettero alquanto senza parlare e diversamente sospesi. L’Innominato, che era stato come portato lì per forza da un determinato disegno, d stava anche come per forza, straziato da due passioni opposte, quel desiderio e quella speranza confusa di trovare un refrigerio al tormento interno, e dall’altra parte una stizza, ‘una vergogna di venir lì come un pentito, come un sottomesso, come un miserabile, a confessarsi in colpa, a implorare un uomo: e non trovava parole, né quasi ne cercava. Però, alzando gli occhi in viso a quell’uomo, si sentiva sempre più penetrare da un sentimento di venerazione imperioso insieme e soave, che, aumentando la fiducia, mitigava il dispetto, e senza prender l’orgoglio di fronte, l’abbatteva e, dirò così, gli imponeva silenzio. La presenza di Federico era infatti di quelle che annunziano una superiorità e la fanno amare… Tenne anche lui, qualche momento, fisso nell’aspetto dell’Innominato il suo sguardo penetrante ed esercitato da lungo tempo a ritrarre dai sembianti i pensieri; e, sotto a quel fosco e a quel turbato, parendogli di scoprire sempre più qualcosa di conforme alla speranza da lui concepita al primo annunzio di una tal visita, tutto animato, «Oh! – disse – Che preziosa visita è questa!… Voi avete una buona nuova da darmi… ». «Una buona nuova, io? Ho l’inferno nel cuore; e vi darò una buona nuova? Ditemi voi, se lo sapete, qual’è questa buona nuova che aspettate da un par mio». «Che Dio v’ha toccato il cuore, e vuoi farvi suo», rispose pacatamente il cardinale. «Dio! Dio! Dio! Se io vedessi! Se io sentissi! Dov’è queste Dio?». «Voi me lo domandate? voi? E chi più di voi l’ha vicino? Non ve lo sentite in cuore che v’opprime, che vi agita, che non vi lascia stare e nelle stesso tempo vi attira, vi fa presentire una speranza di quiete, di consolazione, d’una consolazione che sarà piena, immensa, subito che voi lo riconosciate, lo confessiate, l’imploriate?». «O certo! Ho qui qualche cosa che mi opprime, che mi rode! Ma Dio! Se c’è queste Dio, se è quello che dicono, cosa volete che faccia di me?». Queste parole furono dette con un accento disperato; ma Federico, con un tono solenne, come di placida ispirazione, rispese: «Cosa può fare Dio di voi? Cosa vuol farne? Un segno della sua potenza e della sua bontà: vuol cavare da voi una gloria che nessun altro gli potrebbe dare… quando voi stesso sorgerete a condannare la vostra vita, ad accusare voi stesso, allora! allora Dio sarà glorificato! E voi domandate cosa Dio possa fare di voi?.. cosa possa fare di codesta volontà impetuosa, di codesta imperturbata costanza, quando l’abbia animata, infiammata d’amore, di speranza, di pentimento?.. Cosa può Dio fare di voi? E perdonarvi? e farvi salvo? e compiere in voi l’opera della redenzione? Non son cose magnifiche e degne di lui? Oh pensate! se io miserabile qual sono, mi struggo ora tanto della vostra salute… Oh pensate come vi ami, come vi veglia quello che mi comanda e mi ispira un amore per voi che mi divora!». A misura che queste parole uscivano dal suo labbro, il volto, lo sguardo, ogni moto ne ispirava il senso. La faccia del suo ascoltatore, da stravolta e convulsa, si fece da principio attonita e intenta; poi si compose a una commozione più profonda e meno angosciosa; i suoi occhi, che dall’infanzia più non conoscevano le lacrime, si gonfiarono; quando le parole furono cessate, si coprì il viso con le mani, e diede in un dirotto pianto che fu come l’ultima e più chiara risposta.

* I promessi sposi – U. Hoepli editore – Milano 1906 – pp. 326-329.

Publié dans:CONVERSIONE LA), Letteratura italiana |on 19 octobre, 2015 |Pas de commentaires »

LA FEDE E LA PROVVIDENZA NEI « PROMESSI SPOSI »

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LA FEDE E LA PROVVIDENZA NEI « PROMESSI SPOSI »

« Il Regno dei cieli si può paragonare al lievito, che una donna ha preso e impastato con tre misure di farina perchè tutta si fermenti ». (Mt 13, 33). Questa breve parabola aiuta a comprendere il ruolo della Provvidenza all’interno del romanzo, una Provvidenza che può essere considerata un « personaggio » fondamentale, presente in quasi ogni pagina, fedele compagna dei vari personaggi e delle vicende narrate.
« La c’è, la Provvidenza », viva, palpitante, eppure discreta e silenziosa: si affaccia nei discorsi della gente, nelle loro esclamazioni: « … Lui sa quel che fa… lasciamo fare a Quel di lassù… Dio ci aiuterà… « ; si affaccia nei pensieri di Lucia, costretta ad abbandonare la sua casa: « … Chi dava a voi tanta giocondità è per tutto; e non turba mai la gioia de’ suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande… « ; si affaccia in ogni evento della storia, che sembra solo un nodo di dolore e di tragedia senza senso, retta più dal caso, che da un disegno d’amore preciso, e che invece si rivela come linguaggio segreto della Provvidenza stessa.
La storia nei « Promessi sposi » è un succedersi di eventi l’uno più triste dell’altro: un matrimonio che va a monte per i capricci di un signorotto, la carestia, la calata dei Lanzichenecchi, la peste… è una storia tetra, che dal male passa al peggio; è una storia di tribolazioni, di affanni, di angoscia, una storia piena di morte, di lutto, di pianto.
Eppure, in tutto questo nero, si aprono spiragli di luce; la gente, incredibilmente, continua a sperare, ad avere fede, a vivere gli eventi con dignità e serenità, senza mai cedere alla disperazione, sorretta da un’incrollabile fiducia in Dio; è la fede degli umili, delle persone semplici, timorate di Dio, convinte che « Lui sa quel che fa ». Sono persone « piccole » nella fede, nel senso che, con la fiducia disarmante che solo i bambini possono avere, si affidano tranquillamente al volere di Dio; ma proprio in questa fiducia da bambini sta la grandezza della loro fede. Non sono nè superbi, nè arroganti; non vogliono a tutti i costi tentare di dare un senso a quanto sta accadendo, o peggio ancora, contestare Dio per quanto succede; non pretendono di comprendere un mistero che, con tutta la sua grandezza, sovrasta la ragione umana. Non sono come Giobbe, che parla, critica, contesta, per sentirsi rispondere: « … Chi è costui che vuole offuscare il consiglio con parole insipienti? … Io t’interrogherò, e tu mi istruirai. Dov’eri tu quand’io ponevo le fondamenta della terra? … « (Gb 38, 2. 3b-4).
Niente di tutto questo: solo la consapevolezza che Dio « … sa quel che fa… « . Certo, la storia è catastrofica, ma la Provvidenza aiuta a dare un senso radicalmente diverso ai fatti: le avversità diventano prove che verificano la forza della fede dei personaggi e permettono di renderla più salda. Anzi, le prove diventano motivo di lode e di ringraziamento a Dio: « … Ringraziate il cielo che v’ha condotti a questo stato, non per mezzo dell’allegrezze turbolente e passeggere, ma co’ travagli e tra le miserie, per disporvi ad un’allegrezza raccolta e tranquilla… « , dice fra Cristoforo a Renzo e Lucia nel lazzaretto una volta ritrovatisi. Se letta nell’ottica della fede, la storia, anche se apocalittica, anche se dolorosa, acquista un senso, perchè purifica ed eleva l’animo. I protagonisti del romanzo hanno il grande dono della fiducia, dell’attesa, della pazienza di non volere capire e vedere chiaro immediatamente in tutto. Il loro atteggiamento può essere commentato dalle seguenti parole di S. Teresa di Lisieux: « Che importa, Signore, se l’orizzonte è oscuro? Pregarti per domani non posso. Proteggimi, coprimi della tua ombra solo per oggi ». Si riconosce, pur fra mille incertezze e titubanze, che esiste una finalità intrinseca alla storia, immanente ad essa, eppure trascendente; la fede in Dio rimane l’unico conforto e la sola roccaforte contro la violenza, il dolore, il non senso. La fede è il lievito che fa fermentare tutta la pasta e la trasforma, dandole un volto, un significato, una speranza.

Publié dans:fede e ragione, Letteratura italiana |on 12 novembre, 2014 |Pas de commentaires »

UNGARETTI E LA RICERCA DI DIO – ATTRAVERSO LA PORTA DEL DUBBIO

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UNGARETTI E LA RICERCA DI DIO

ATTRAVERSO LA PORTA DEL DUBBIO

Pubblichiamo alcuni stralci dal primo capitolo del libro Interrogare la fede. Le domande di chi crede oggi (Torino, Lindau, 2011 pagine 99, euro 12).

di LUCIO COCO
Il poeta Ungaretti è un uomo ferito (cfr. Pietà in: Giuseppe Ungaretti, Vita di un uomo. Tutte le poesie, Mondadori, Milano, 1972, p. 168) che chiede a Dio di chinarsi sulla sua e nostra debolezza e di mostrarci una traccia: « Dio, guarda la nostra debolezza. / / Vorremmo una certezza ». Ma può registrare solo il vuoto, « il gran vuoto della sua anima, la sua consapevolezza d’essere stato abbandonato a sé, la tremenda sua solitudine » (Giuseppe Ungaretti, Vita di un uomo. Saggi e interventi, Mondadori, Milano, 1974, p. 200), e riconoscere in questa vertigine del sentimento dell’assenza il terrore del vuoto e « l’orrore di un mondo privo di Dio ». Egli sente, ed è un sentire che è anche testimonianza, che Dio è divenuta una parola impronunciabile oggi: « Dio, coloro che t’implorano / Non ti conoscono più che di nome » (Pietà, p. 168). La sua immagine si è frammentata sotto la furia iconoclasta del secolo e si è ritirata in una zona grigia e oscura che confina con il sogno: « E tu non saresti che un sogno, Dio? » (Pietà, p. 170).
È profondo il solco lasciato da queste domande irrisolte: « Ma Dio cos’è? / / E la creatura / atterrita / sbarra gli occhi » (Risvegli, in: Vita di un uomo. Tutte le poesie, p. 36), che consegnano l’uomo a una percezione abissale e confusa di sé: « In questo oscuro / (…) // Mi vedo abbandonato nell’infinito » (Un’altra notte, in: Vita di un uomo. Tutte le poesie, p. 72), e affidano il mondo a una dimensione enigmatica e obliqua.
Sotto la lente di un osservatore « sbigottito di non sapere » si consuma il dramma non solo conoscitivo ma anche teologico ed esistenziale dell’uomo moderno perché « dove la distruzione di Dio è compiuta, dove non è più dibattuto il problema divino, con che cosa [la mente] colmerà il vuoto lasciato in essa e che la potenza dei secoli e degli istinti mantiene spalancato? » (Vita di un uomo. Saggi e interventi, p. 230). Ma forse è anche necessario che sia così, perché possiamo imparare a conoscere e a chiamare Dio con altri nomi, che pure sono i suoi nomi, e a trovarlo con altri modi e in altre circostanze, per certi versi inusuali, come l’interrogazione, il dubbio, la domanda che non trova risposta: « La speranza d’un mucchio d’ombra / E null’altro la nostra sorte? » (Pietà, p. 170).
Il Dio di questo secolo è qui, su questo discrimine di senso e non-senso, che vuole essere cercato e trovato. Diversamente si correrebbe il rischio di coltivare una vana spiritualità che non può soddisfare le menti problematiche oppure incerte della modernità. Trovare Dio dove la scena è ormai distrutta e muta: questo è il compito che Dio dà al poeta e a noi.
Come una cifra segreta risalta nel paesaggio sconsacrato la nudità dell’anima del poeta: « Ma ben sola e nuda / senza miraggio / porto la mia anima » (Peso, in: Vita di un uomo. Tutte le poesie, p. 34) e il suo essere solo (cfr. Pietà, p. 168).
Dio ora vuole essere interrogato dalla solitudine dell’uomo, dal suo lamento che non trova senso. Troppe cose ricordano all’uomo la sua precarietà, il suo destino che non riuscirà mai a ricomporre la sua vita in un disegno chiaro. Egli vuole che si arrivi a Lui attraverso questo passaggio dell’anima stretta che dubita e medita.
Dio resta « l’eterno tormento degli uomini, sia che s’ingegnino a crearlo sia a distruggerlo » (Vita d’un uomo. Saggi e interventi, p. 230) perciò la sua dimostrazione deve essere cercata pur nell’impossibilità che ha l’uomo di dimostrarne l’esistenza. È vero.
C’è troppo dolore intorno, troppo caos, troppo sangue innocente perché si possa dire « Credo »: « Nel cuore dell’uomo non c’è, come sempre, che notte, non ci sono, come sempre, che crolli » (Vita d’un uomo. Saggi e interventi, p. 782). E anche Cristo si unisce a questo silenzio. Anch’egli partecipa di questo distacco, di questa separazione, della diastasi della divinità dal mondo. Lo scenario devastato della seconda guerra lo rivela in maniera evidente e mette ancor di più in luce la solitudine dell’uomo. Come la domanda su Dio anche la domanda su Cristo sembra non trovare risposta. E se al colmo della crisi solo nel negativo della bestemmia, che viene letta come una preghiera rovesciata, è possibile farsi un’idea di Dio: « E per pensarti, Eterno, / Non ha che le bestemmie ». (Pietà, p. 171), analogamente al poeta giunge a risultare « blasfemo » – « Ora che osano dire / le mie blasfeme labbra » – anche il quesito che chiede al Figlio di Dio il perché di tanto scempio al mondo: « Cristo pensoso palpito, / Perché la Tua bontà / S’è tanto allontanata? » (Mio fiume anche tu, p. 228).
Ma per quanto fragile possa essere l’uomo, « per quanto impotente nel fondo della sua notte elementare » (Vita d’un uomo. Saggi e interventi, p. 525), il semplice dubbio che « la sua vita non è pura sordità, che qualche cosa c’è da fare su questa terra » assume quasi il significato di una prova di Dio. L’uomo si è trasformato in una domanda; l’uomo della modernità non può più dare risposte. Eppure tutto ancora deve compiersi nell’orizzonte di un qualcosa (« un punto, una formula ») che « esiste e dà alla vita il suo senso, il suo oriente » (Vita d’un uomo. Saggi e interventi, p. 525). La difficoltà ad affermare Dio e la facilità a negarlo sono ancora sua regione e suo territorio, provincia di Dio nella quale abitano gli uomini di oggi.
Il suo volto odierno è così, un volto incerto, che non dà certezze. Eppure anche la sua non risposta alla domanda che è l’uomo, ne connota l’essenza e introduce l’uomo nella dimensione della fede, quella più ineffabile e sfumata, quella dove il sì e il no quasi non si distinguono.
È così infatti la fede dell’uomo: una domanda continua, ininterrotta che confina sempre con il silenzio, che strappa al silenzio qualcosa, ma poi si richiude in se stessa. L’esperienza religiosa di Ungaretti è strettamente legata a questa intuizione: « Chiuso fra cose mortali / / (Anche il cielo stellato finirà) / / perché bramo Dio? » (Dannazione, in: Vita d’un uomo. Tutte le poesie, p. 35).
La domanda dell’uomo può bastare perché possa recuperare il senso della trascendenza e farsi un’immagine .dell’Assoluto, se mai ne sia possibile una in questo secolo e se non sia stato sempre così e sempre la stessa è la distanza tra l’uomo e l’Infinito. « L’essere umano, lo voglia o no, è nella sua responsabilità legato al segreto universale dell’essere, a Dio ».

(L’Osservatore Romano 21-22 febbraio 2011)

GIOVANNI PASCOLI – « E GESÙ RIVEDEVA, OLTRE IL GIORDANO… »

http://www.moscati.it/Italiano/Pascoli_MG.html

GIOVANNI PASCOLI

« E GESÙ RIVEDEVA, OLTRE IL GIORDANO… »

COMMENTO DI MONICA GAUDIOSI

E Gesù rivedeva, oltre il Giordano,
campagne sotto il mietitor rimorte:
il suo giorno non molto era lontano.

E stettero le donne in sulle porte
delle case, dicendo: Ave, Profeta!
Egli pensava al giorno di sua morte.

Egli si assise all’ombra d’una meta
di grano, e disse: Se non è chi celi
sotterra il seme, non sarà chi mieta.

Egli parlava di granai ne’ Cieli:
e voi, fanciulli, intorno a lui correste
con nelle teste brune aridi steli.

Egli stringeva al seno quelle teste
brune; e Cefa parlò: Se costì siedi,temo per l’inconsutile tua veste.

Egli abbracciava i suoi piccoli eredi:
– Il figlio – Giuda bisbigliò veloce –
d’un ladro, o Rabbi, t’è costì tra’ piedi:

Barabba ha nome il padre suo, che in croce
morirà. – Ma il Profeta, alzando gli occhi,
– No –, mormorò con l’ombra nella voce;

e prese il bimbo sopra i suoi ginocchi.
———————————

Una trama invisibile sottende le nostre vite, non frutto del caso ma di un’intelligenza suprema che crea, conserva e guida come la trama che sottende questa poco nota poesia di Giovanni Pascoli intitolata Gesù. Una trama di amore « passionale » che spinge Gesù ad andare incontro alla morte di croce, anche accettando di sottomettersi alla sorte di un pregiudicato.
Affiora il simbolismo di Pascoli attraverso scene campestri dall’aspetto mosso a causa della mietitura, scene quotidiane di fanciulli che giocano e di donne che siedono sulle porte salutandolo come « Profeta ».
Noi, provenienti da studi scolastici che ormai non comprendono questa composizione, d’altra parte poco conosciuta, siamo colti da meraviglia nell’apprendere come la sensibilità poetica di Pascoli sapesse creare versi così profondi su Gesù che, davvero profetico e « rivoluzionario » va consapevole incontro alla sua missione prendendo un bimbo sopra i suoi ginocchi, il figlio di quel Barabba che la folla sceglierà condannando Gesù alla croce.
Pascoli ci mostra Gesù già consapevole del giorno della passione che avanza repentinamente e che gli sarà riservato. Un Gesù che trasfigura i ricordi del Giordano, acque da lui santificate con la sua immersione, mentre riceve il battesimo di Giovanni. Lontano quel giorno in cui lo Spirito Santo rivelava la sua vera identità di Figlio di Dio… lontano dal momento presente che vede campi già « vissuti » dopo il lavoro della mietitura.
Valorizzando scene strappate alla quotidianità le donne vedendo passare Gesù, lo salutano dalle loro case riconoscendolo come Profeta, ma la sua mente va già al giorno del suo sacrificio… La morte incalza e si fa più vicina… e Gesù pensa a quel giorno in cui disconosciuto Profeta sarà.
Ma se il chicco di grano non muore sottoterra non porta frutto, così sarà per lui, se non andrà incontro alla morte invano sarà vissuto. Il pensiero e le parole di Gesù, sebbene umane, portano con sé sempre il riflesso del suo essere Divino, della sua libera accettazione della volontà del Padre: è lui il seme, è il Cielo il campo che contiene il raccolto abbondante della sua passione e noi siamo i frutti del Suo seminare.
Amato e ricercato da quei fanciulli dalle brune teste che vengono dai campi portando resti di steli aridi, mietuti, fra i capelli, egli li abbraccia disdegnando le premurose e quanto mai umane raccomandazioni e preoccupazioni di coloro che aveva scelto capi e portatori del suo messaggio. L’uno temendo per l’inconsutile veste, cioè per la sua preziosa tunica, l’altro avvertendolo, con un senso morale ristretto e troppo umano, che uno dei bambini che egli accarezza è figlio di un criminale, di Barabba. Ma Gesù pensa piuttosto a quanto ha sempre costituito il cuore del suo messaggio: l’Amore, che come l’universo abbraccia il mondo, esortando tutti a « rinascere » per divenire « eredi » del Regno del Cielo: « chi si fa piccolo come un bambino avrà parte all’eredità del Cielo ».
È in accordo con la sua missione che, infine, Gesù abbraccia proprio il figlio di colui che sa essere di Barabba, quel malfattore e ladro a cui verrà preferito dalla folla, mentre gli si riserverà in cambio il supplizio della croce!
Nelle nostre orecchie come un eco di quella voce che Gesù già sa di dover udire… di urla provenienti dalle folle in rissa: chi volete, Barabba o Gesù? L’innocente o il malfattore? La sorte per Barabba è certa, la croce lo attende, ma Gesù profetizza: « No »… e con voce sommessa prende il bimbo, figlio di quell’uomo, sui suoi ginocchi.
La poesia si chiude con questa immagine del bambino che Gesù accarezza, quasi a farci pensare che tutto in Lui si conclude con la più grande sottomissione, con il più grande abbandono alla volontà del Padre, facendosi uno con l’Amore del Padre che, attraverso il Figlio, stringe al suo seno tutti coloro che, facendosi « piccoli », sono da Lui ammaestrati e condotti a rinascere a nuova vita, ad essere « veraci » testimoni della sua morte e risurrezione.

Publié dans:Letteratura italiana |on 31 mars, 2014 |Pas de commentaires »

L’INFINITO OLTRE LA SIEPE (…Giacomo Leopardi)

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L’INFINITO OLTRE LA SIEPE

15 SETTEMBRE 2013

Mi risuona alla mente, come canto del cuore, “L’infinito” che Leopardi compone nel settembre del 1819. In questo delicato idillio il poeta dipinge, con contenuta dolcezza, il puro ritmo dell’immensità percepito e accolto da un animo illeso che contempla lo scorrere e il mutare di un mondo infinito.

Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
E questa siepe, che da tanta parte
Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo; ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei. Così tra questa
Immensità s’annega il pensier mio:
E il naufragar m’è dolce in questo mare.

Oltre la siepe c’è l’infinito nella sua misteriosa immensità. Oltre l’orizzonte vive l’universo nella sua imperscrutabile varietà. Siepe e orizzonte delimitano lo sguardo umano. Fissare il cielo, amplificare l’orizzonte, aprirsi all’infinito, tuffarsi nell’immenso: ecco il segreto dell’uomo che vuole realizzare se stesso vivendo nello spazio del tempo proiettato oltre la siepe, aldilà dell’orizzonte. La vera grandezza dell’uomo è collegata alla sua innata capacità di aprirsi all’infinità degli spazi cosmici e lasciarsene catturare.
Come gli alberi, che con le radici succhiano la linfa dal cuore della terra e con i rami protesi verso l’alto bevono il sole dal cielo, così l’uomo che cammina sulla terra spazia con lo sguardo della sua intelligenza oltre i vasti orizzonti del cosmo e del mistero. Arroccarsi nel proprio “piccolo mondo antico”, ma più che “antico”, “vecchio”, lì dove si trovano le inconsistenti sicurezze di una realtà che non è o non è più, fa vivere in un’apparente e fragile stabilità. Ciò può essere comodo, ma non costruttivo di una storia in perpetua evoluzione.
All’uomo spesso manca la capacità di quest’ampio sguardo che si proietta sull’eterno infinito ed è per questo che egli non si rende conto che la creazione è “bella e buona” proprio perché è infinitamente varia negli orizzonti, nelle prospettive, nei colori, nei sapori, negli odori, nei suoni e in tutte quelle straordinarie espressioni che la rendono sinfonicamente affascinante e armoniosamente variegata, nonostante la siepe e l’orizzonte.
La figura di Leopardi è la più alta testimonianza della crisi religiosa dell’uomo moderno. Le sue opere sono l’espressione poetica più raffinata di questa crisi fatta di solitudine e di aspirazione a una felicità che pare non trovi sbocco alcuno. Proprio all’interno di questa crisi, acutamente percepita e mai superata, la poesia di Leopardi s’illumina di una sua particolare religiosità. Certo non è la profonda e robusta fede cristiana del Manzoni, ma, in quel dolce naufragare nell’infinito, ritengo che il poeta superi l’infinita vanità del tutto. E il rifiuto della fede, che per lui è protesta contro la falsa immagine di Dio, diventa provocazione allo stesso Dio affinché si riveli e parli. Il Dio del poeta, identificato all’inizio della sua esperienza religiosa con la “diva Natura”, col trascorrere degli anni si trasformò in una sorta di potere malvagio che vuole l’infelicità dell’uomo condannandolo alla morte. Questo suo sofferto “credo” nasce dall’ambiente familiare che respira, dagli studi e dalle letture che assimila, dal contatto con una sorta di fede cristiana che per lui è senza vita e senza forza. Leopardi aspira a un’esperienza religiosa più pura e più vera. Con la sua poesia raffigura quell’uomo moderno che lotta contro Dio e, allo stesso tempo, non può fare a meno di Lui. Al poeta, evidentemente, manca il vero volto di Dio rivelatosi in Cristo.
Nel canto idilliaco L’Infinito, Leopardi trascrive, con sobria dolcezza e interiore energia, i ritmi dell’immensità attraverso il vento che stormisce tra le piante, che percuote e risuona come eco di fremiti infiniti, che dà l’idea dello scorrere del tempo nella quiete dello spazio dove avvengono le vicende degli uomini e del cosmo.
Prima d’immergersi nel pensiero dell’infinito, Leopardi volge lo sguardo sull’idea corporea dello spazio per coglierne il musicale di un’armonia senza fine che sgorga dagli sguardi del suo cuore di poeta. Se la siepe gli impedisce la visione della curva estrema del cielo, sedendo e mirando il suo pensiero lo proietta aldilà di quella stessa siepe fino a intravedere, ammirato, interminati spazi, sovrumani silenzi e profondissima quiete.
Visione e ascolto si armonizzano così nello scorrere del tempo: la visione è lo spazio infinito, l’ascolto è il suono del silenzio celeste e arcano. Spazio e silenzio immergono il poeta in quella pace intima che quasi lo spaura: gli manca, infatti, il salto di fede dall’infinito cosmico all’Eterno Infinito. E mentre paragona l’infinito dello spazio con quello del tempo, interviene la musica dello stormire del vento tra le fronde che increspa la quiete della sua immaginazione e lo richiama alla realtà. Il silenzio infinito e il canto del vento gli evocano il mistero dell’eterno, il tempo trascorso che non è più e il suono vivo del tempo presente.
Leopardi non annega in una vuota immensità, ma, immergendosi nell’infinito, dà a esso un volto e un suono che trae dal suo animo che guarda mirando, interminati spazi… e sovrumani silenzi. Il pensiero che vaga diventa così un divino sognare, quasi dolce naufragare nel vasto mare dell’infinito lì dove raggiunge la sovrumana profondissima quiete.
Per l’uomo di fede, oltre la siepe che il guardo esclude di quell’orizzonte che a sua volta lo delimita, c’è sempre l’Eterno Infinito come suprema Bellezza, ineffabile Armonia e sommo Amore.
L’uomo è stato creato per l’Infinito. Non è un oggetto sulla terra, non è un frammento del cosmo caduto per caso. L’uomo è persona, è soggetto autocosciente, dotato di volontà libera e responsabile, è persona redenta da Cristo, con duplice vocazione: temporale ed eterna. L’umanesimo integrale dona alla persona immanenza e trascendenza: l’interiorità caratterizza l’aspetto immanente, la proiezione verso Dio e verso i fratelli, quello trascendente. Così, tra spazio e tempo, con lo sguardo immerso nell’infinito creaturale e nell’Infinito trascendente, germoglia il canto nuovo della teandrica avventura della vita. 

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