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OMELIA – VII DOMENICA DEL T.O. – Lectio Divina : Mt 5,38-48

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23  FEBBRAIO 2014 | 7A DOMENICA A – T. ORDINARIO | OMELIA DI APPROFONDIMENTO

Lectio Divina : Mt 5,38-48

Pochi passaggi evangelici, presentano con tanta chiarezza le radicali esigenze che Gesù propose ai suoi discepoli come questa finale di Mt 5. Il testo raccoglie uno dei più insoliti insegnamenti di Gesù, uno dei suoi precetti meno pratici o, per meglio dire, uno dei meno praticati: l’amore al prossimo completamente gratuito e senza limiti. Gratuito ed illimitato deve essere un amore che si dà a colui che non se lo è meritato, che ci ha oltraggiati, che ancora ci è nemico. E se l’esigenza è inaudita, la ricompensa non può essere più alta: il discepolo che ama chi non lo ami somiglia a Dio; imitando la perfezione del Padre suo che sta nei cieli, si comporta come conviene al figlio di un Dio che è perfetto nel suo amore.

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: 38 « Avete inteso che fu detto: « Occhio per occhio e dente per dente ». Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu pórgigli anche l’altra, e a chi vuole portarti in tribunale e toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. E se uno ti costringerà ad accompagnarlo per un miglio, tu con lui fanne due. Da’ a chi ti chiede, e a chi desidera da te un prestito non voltare le spalle. 43 Avete inteso che fu detto: « Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico ». 44 Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. 46 Infatti, se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? 47 E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? 48 Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste ». 1. LEGGERE : capire quello che dice il testo facendo attenzione a come lo dice Non bisognerebbe dimenticare che il testo è parte di un discorso più ampio. Gesù ha riaffermato la validità della legge (Mt 5,17-18) mostrando, con esempi, come deve essere compiuta, alla lettera, cioè, leggendo e compiendo quello che vuole Dio (Mt 5,21-48) in realtà. Gesù si presenta, dunque, come esegeta non della legge bensì dell’originaria volontà del Legislatore; spiega la legge meglio che gli scribi, perché conosce molto bene, Dio. Nel nostro testo, Gesù prende posizione di fronte alla legge del taglione e spiega in forma inaudita il precetto dell’amore al prossimo; continua formulando il suo pensiero in forma antitetica ed estrae conseguenze appena concepibili. La legge del taglione, per quanto inumana ci sembri oggi, rappresentava una grande conquista giuridica: obbligava a che il risarcimento fosse identico all’offesa. Gesù non pensa la stessa cosa: non basta non passare nella logica della vendetta; ricorrere alla violenza, per logico che sembri, priva di ragione il discepolo di Gesù; bisogna prima cedere nei propri diritti che cercare di ristabilirli con violenza. La ‘giustizia’ che Gesù chiede non è quella che desidera il nostro cuore, né fa possibile la giusta convivenza tra i popoli. Con che diritto ci si può chiedere di non far fronte all’offesa, ma presentare l’altra guancia a chi ci maltratta, o evitare la causa concedendo più di quanto ci si stia chiedendo? Che Gesù esige la cosa impossibile rimane ancora più evidente nel precetto dell’amore al nemico. Non si tenta già di amare il fratello o il prossimo; bisogna fare del nemico un prossimo amato, se si desidera meritare il riconoscimento di figlio da parte di Dio. Restituire il saluto o amare chi ci ama, non è niente più della normalità, ma non è degno del cristiano: rimanere in ciò lo farebbe più un pagano ed il Dio di Gesù conterebbe su un figlio di meno. Chi desidera una cosa straordinaria, essere figlio del suo Dio, dovrà agire in modo non ordinario: amando il suo nemico. Non si può chiedere di più; neanche Gesù attende meno dai suoi. 2 – MEDITARE : Applicare quello che dice il testo alla vita Nel discorso della montagna Gesù proclamò qualcosa di tanto straordinario, che il regno di Dio era prossimo: Dio andava ad impadronirsi del mondo e del cuori degli uomini che l’aspettavano. Per la stessa cosa, e solo per quel motivo, esigette da quanti gli credettero ed anelavano il regno di Dio, un comportamento straordinario: il Dio perfetto si aspetta lavorando alla propria perfezione. Il Dio di Gesù vuole che i suoi fedeli vivano il suo modo di essere; non chiede di meno. Vive secondo la sua volontà chi vive dominato dal suo modo di amare le persone: si è suo suddito avendolo come modello e meta del proprio comportamento. Chi desidera essere riconosciuto come figlio deve essere copia fedele e degna del Padre. E lo si riesce, se, come Lui, si ama senza misura, tutti, e gratuitamente. Gesù afferma che l’amore deve essere sempre estremo, senza limiti né eccezioni: i suoi discepoli, se vogliono essere figli del Padre suo, non restituiscono il male ricevuto né escludono colui il quale lo fa. Se ci è possibile, tale amore cambierebbe le nostre vite ed il nostro mondo; perché, se guardiamo bene, neanche tra noi, discepoli di Gesù, un simile amore è realtà. La legge del taglione già dirige le nostre relazioni umane, perché anche se non lo permettono le leggi civili, comanda ancora – eccome – i nostri cuori. Continuiamo a considerare che al delitto deve corrispondere una punizione, che l’offesa deve essere riparata con una pena non minore; e quando questo non succede, quando chi la fa non la paga e chi ci ha offesi esce indenne, nasce l’odio nel cuore, la ‘sete di giustizia.’ Possiamo odiare sempre quello che non possiamo punire; questa è la nostra rivincita; l’odio al nemico ci dà una certa soddisfazione, ristabilisce l’equilibrio rotto dall’offesa. Benché cristiani, viviamo in una società che ha fatto della vendetta giustizia e della rappresaglia misurata il fondamento delle relazioni interpersonali. E ci siamo abituati a confondere la giustizia che fa la nostra società ben organizzata con l’amore che ci dobbiamo come cristiani. Siccome non riusciamo a stare all’altezza del volere di Dio, siccome non sappiamo amare come Lui ci ama, ci scusiamo avendo nemici e sentendoci offesi: credendoci meno amati, facciamo a meno di amare; accusando coloro che ci offendono, ci liberiamo di doverli perdonare. I nemici ci servono così per giustificarci davanti a Dio per la nostra incapacità di essere come Lui; ci liberano, crediamo, della fatica di ‘imitare Dio’ che fa sorgere il suo sole sui buoni e sui cattivi. Gesù, col suo vangelo, smonta le nostre scuse e ci condanna: chi non ama il prossimo, per antipatico che egli sia o – perfino – benché gli abbia provato già la sua inimicizia, non può illudersi di assomigliare al suo Dio. Solo un amore che è dato persino al nemico, – il nostro nemico non è chi ci fa del male né chi ci odia, bensì colui il quale non possiamo amare o perdonare e dimenticare l’offesa -, è quello che compie il mandato di Gesù ai suoi discepoli. Gesù – non lo dimentichiamo – non domandò ai suoi se erano disposti ad amare senza vendetta né ricompensa, senza distinzione. Non tenne in conto le nostre ‘ragioni’ né ci lasciò la libertà per compierle o no: chi non lo imita, non sarà considerato né suo discepolo né figlio del suo Dio. Ci diede, quello sì, una buona ragione: solo chi ama tanto somiglia un po’ a Dio. L’amore al prossimo, amico o nemico, compagno o persecutore, ripete il comportamento di Dio, che non spera che siamo già buoni per volerci bene né smette di amare quelli che non gliene vogliono. È filiale l’affetto che riflette l’amore paterno. È divino l’amore che non è amor proprio. E’ egoista, quando si limita ad amare chi si ama già o da chi si viene amati. L’amor proprio nega Dio che è un Padre che ama, e nega il prossimo che ha diritto di sperare di essere amato, almeno da quanti si dicono seguaci di Gesù. Amare senza esigere prima di essere amato, creando lì il bene dove c’è stato negato, rifiutandosi di rispondere con violenza anche di fronte la sofferenza, accondiscendendo chi esige più del dovuto, rispettando chi non ci ha rispettati, amando il nemico, non è che sia difficile – quando è stato facile amare l’amico o l’amato? -, è che, se non impossibile del tutto, è almeno, molto raro tra noi. Non in vano la liturgia ci fa chiedere a Dio, prima di ascoltare la sua Parola, che la meditazione assidua della sua dottrina ci faciliti a compiere quanto gli compiace; senza l’aiuto di Dio, un aiuto tanto straordinario come il suo precetto, ci sarà impossibile imitarlo. Ma non è meno certo che, se non lo imitiamo, ci sarà impossibile averlo vicino alla nostra vita: viviamo lamentandoci che Dio ci ha lasciato, che non ci vuole oramai bene come prima o, almeno, non ce lo mostra con tanta evidenza; ci dovremmo, piuttosto, domandare se non abbiamo abbandonato Dio in un angolo della nostra vita, se non abbiamo smesso di compiere la sua volontà come pane quotidiano, se non abbiamo smesso di mostrarci davanti al mondo, davanti ad amici e nemici, come quei discepoli di Gesù che tanto amano il suo Dio che amano anche gli uomini come Lui, senza distinzione né limite, ma gratuitamente. Impegnarsi per fare un mondo meno violento e fare il nostro cuore meno egoista è la forma di farsi, passo a passo, figli di Dio e discepoli di Gesù. Ed il fatto che la nostra società sia ogni giorno meno solidale e più ricca, più libera e meno fraterna, più ugualitaria e più inumana, fa tanto più necessario, quanto meno ordinario è oggi, l’amore cristiano: come è possibile che siamo, noi credenti, i cittadini che normalmente chiediamo maggiore giustizia che più insistiamo nel rigore della punizione e che meno siamo disposti al perdono e a dimenticare? Perché non incominciare noi a perdonare chi ci offende, se ancora non possiamo amare quello che ci odia? Se i cristiani in questa società continuano a comportarsi come fino ad ora, varrà la pena continuare ad essere tali, senza niente nuovo, di difficile, di straordinario da offrire?; troverà Dio dei figli in questa terra che fanno del suo amare tutto il compito della loro vita? È probabile che tutti noi l’abbiamo già tentato qualche volta; ed è quasi sicuro che non l’abbiamo ottenuto del tutto: essere buoni con chi non lo è stato con noi è, lo sappiamo per esperienza, molto penoso, se non impossibile. L’esigenza di Gesù ci obbliga a riconoscere la nostra incapacità e, di conseguenza, ci dà un nuovo motivo per pregare. Preghiamo Dio che pianti nel nostro cuore il suo volere, la sua capacità di perdonare: che ci faccia suoi figli, affinché riusciamo ad essere fratelli di tutti; che ci doni la capacità di amare che Lui stesso esige dai suoi. Chiediamogli che ci faccia suoi, dandoci il suo amore, in primo luogo, come vissuto gioioso e, dopo, come compito possibile.

JUAN JOSE BARTOLOME sdb

LA «LECTIO DIVINA»

http://www.biblico.it/doc-vari/swetnam_lec_div.html

LA «LECTIO DIVINA»

DI JAMES SWETNAM, S.J. (DIC 1999)

La Lectio Divina è un modo di leggere la Scrittura che risale ai primi tempi del Cristianesimo.  È un modo di rispondere a Dio per persone che nutrono una salda fede nella Sua iniziativa nel contattarle.  Le parola di Dio giunge al cattolico per mezzo della Scrittura interpretata nella Tradizione della Chiesa Cattolica.  Per i cattolici contemporanei in molti luoghi è difficile rispondere a questa parola di Dio.  Ciò è dovuto a varie ragioni; una delle principali è il consumismo del divertimento fomentato dai «mass media», una forza sempre più imperante nel mondo contemporaneo.  Solo un impegno risoluto può rendere capaci i cattolici in molte parti del mondo di uscire vittoriosi di fronte ad un avversario talmente potente che ci tenta costantamente al divertimento e niente di più.  La vita non è un’occasione di divertirsi e niente di più.  E’ l’occasione di sentire Dio e di fare la Sua volontà.  Ogni cattolico ha la responsabilità di rendere accessibile ai confratelli cattolici e agli altri fratelli, cristiani e non cristiani, la testimonianza della ricerca di Dio.  Dio ha parlato.  Tocca a noi ascoltare.  Nessun cattolico può rendere accessibile la parola di Dio se la sua vita non è una continua ricerca di rispondere personalmente a questa parola. La Lectio Divina è un modo di leggere la Scrittura che comporta vari aspetti, che non vanno considerati come fasi nettamente separabili, ma punti di vista di un singolo atto che è insieme semplice e complesso:  semplice, perché fondamentalmente è un tentativo di rispondere alla Parola di Dio con tutto il nostro cuore; complesso, perché fondamentalmente è un tentativo di rispondere alla Parola di Dio con tutto il nostro cuore.  Nell’atto concreto della Lectio Divina questi aspetti possono essere distinti l’uno dall’altro, ma non separati.  In quanto distinti, possono costituire il punto focale dove porre l’attenzione.  In tal senso, per esempio, l’aspetto #1 è il momento in cui l’attenzione viene concentrata nello studio accurato della Bibbia, per scoprire il significato del testo nella sua situazione originaria.  Nella pratica degli studi biblici tale studio spesso appare come una cosa separata dalla Lectio Divina.  Ma se qualcuno sta veramente cercando di ascoltare la Parola di Dio leggendo la Scrittura, tutti gli aspetti seguenti devono essere presenti, almeno implicitamente e potenzialmente.      Lectio Divina viene sempre sottintesa come ordinata, implicitamente o esplicitamente, alla Sacra Liturgia. Lectio.  Questo aspetto consiste in una ripetuta lettura di un passo della Scrittura al fine di comprendere il significato che l’autore originario intendeva comunicare ai suoi lettori o ascoltatori.  Leggi più volte.  Nella Lectio cerchiamo di capire il brano nel suo contesto originale storico, geografico, culturale.  Qual era lo scopo religioso che il suo autore aveva in mente?  Quando scrisse?  Dove?  In quali circostanze?  Come è stato ricevuto questo messaggio dai destinatari originari?  Per questo aspetto della Lectio i commentari possono essere di grande aiuto, anche se non sono sempre abbastanza attenti all’elemento religioso di un testo.  Cruciale per la Lectio è questo elemento religioso.  Esso trascende infatti le circoscritte condizioni originarie nelle quali il testo ha visto la luce ed ha perciò una validità universale e durevole.  La rilettura continuata può aiutarci a comprendere questo elemento religioso.  Inoltre, tale rilettura ci può aiutare a collocare questo elemento nel contesto di tutta la Bibbia.  In che modo lo Spirito, che è l’autore ultimo di questo brano, vuole che esso si accordi con il resto che Meditatio.  Questo aspetto consiste in una riflessione sullo scopo ultimo del testo — l’elemento religioso originario dell’autore umano e divino — che trascende le limitazioni temporali e spaziali della situazione originale del testo. La Meditatio cerca di conoscere ciò che il testo dice a me oggi.  Per essere sicuro che quanto io penso che il testo sta dicendo a me oggi sia davvero quanto il testo dice e non ciò che io dico, devo assicurarmi che quanto è rilevante per l’oggi sia connesso con il significato originario (che si deduce dall’aspetto #1, la Lectio).  Primo:  il significato originale; secondo:  la rilevanza di quel significato per l’oggi.  Qual è la rilevanze per l’oggi dell’elemento religioso che l’autore, umano e divino, esprime nel testo?  In che modo vengo provocato da questo elemento religioso che viene comunicato attraverso il testo?  I destinatari si sono sentiti provocati dal testo; la provocazione che ricevo io dovrebbe essere come quella che ricevettero loro, anche se le circostanze della provocazione provata da me sono notevolmente diverse dalle loro. Oratio.  Questo aspetto consiste nella preghiera che viene dalla Meditatio.  È una spontanea reazione del cuore in risposta al testo.  È una richiesta di aiuto divino per riconoscere e per rispondere alle provocazioni che vedo nell’elemento originario comunicato attraverso le parole del testo.  In questo modo l’Oratio può includere le richieste per una grande varietà di virtù.  Lo Spirito ispirò il testo proprio avendo in mente queste richieste.  Perciò lo Spirito è anche pronto a rispondere a tale richieste. Contemplatio.  Questo aspetto consiste nell’adorazione, nella lode e nel silenzio davanti a Dio che sta comunicando con me.  È un tentativo di stare davanti ad Dio onnipotente tenendo esposto il nostro cuore.  «Cuore» qui va inteso in senso semitico, cioè il centro del nostro essere, quel punto in cui la nostra memoria, l’intelletto, la volontà, gli affetti si incontrano e dove «io» sono davvero «io».  La vera contemplazione rivelerà sempre più me a me stesso in quanto rivela Dio sempre più a me stesso.  La vera contemplazione mi aiuterà a vedere chi sono realmente, ciò che sono destinato ad essere secondo il punto di vista di Dio.  Il centro privilegiato della contemplazione cristiana è Cristo, poiché è attraverso di lui che andiamo a Dio:  conoscendo Cristo, conosco Dio e conosco me stesso.  La Contemplatio conferisce a tutto il processo di lettura di un testo l’aspetto del dilettarsi nel comprendere.  Nella misura in cui funziona, libera il processo dal pericolo dell’imporre su un testo una intepretazione ristretta, egoistica, un’interpretazione che è lontana dai perenni scopi di Dio che vuole rivelarsi nella sua Parola per gli uomini sempre e ovunque. Consolatio.  Questo aspetto consiste nella gioia di pregare che viene da un «gusto» di Dio e delle «cose» di Dio.  È un prodotto della Spirito Santo, anche se, naturalmente, lo Spirito Santo non è vincolato alla Lectio Divina dove questo consolazione spesso viene trovata.  Dalla consolazione scaturiscono le scelte coraggiose come quelle della povertà, castità, obbedienza, fede, perdono.  La Consolatio crea «l’atmosfera» giusta per queste scelte.   Se questa «atmosfera» cessa, cessa anche la plausibilità di scelte cristiane radicali, e il cuore si volgerà cercare da un’altra parte la sua gioia. Discretio.  Questo aspetto consiste nell’abilità di discernere il pensiero di Dio come viene espresso nella sua parola, specialmente come viene espresso nel suo Verbo, cioè, in Cristo.  Venendo in contatto con la parola di Dio e con il Verbo di Dio noi riceviamo un istinto per le scelte che sono proprie al cristiano, che sono proprie a me stesso come Dio vuole che io sia.  Il mio cuore deve essere dominato dal cuore di Cristo, dalle intenzioni di Cristo, dalle scelte di Cristo.  E questo non solo per la mia vita personale, ma anche per la mia vita quale membro del Corpo di Cristo che è la Chiesa.  Fondamentalmente è quel discernimento che distingue tra i vari «spiriti» che sollecitano la mia attenzione e la mia fedeltà. Deliberatio.  Questo aspetto consiste nella scelta concreta di un’azione da compiere.  È qui che si collocano le scelte implicate nell’elezione di una particolare vocazione, o nel portare avanti una particolare vocazione.  Dio comunica con me in quanto individuale, ed io gli rispondo in base a questa comunicazione individuale.  Se questa comunicazione è interrotta, la mia scelta di vocazione o il mio portare avanti mia vocazione è in pericolo di essere distrutto, poiché prevarranno altre comunicazioni, in base alle quali il mio cuore farà altre deliberazioni, altre scelte.  Ovviamente, in quanto individuo io appartengo a diversi gruppi, innanzitutto la Chiesa, e la mia vocazione di individuo viene capita nel contesto di tali gruppi, innanzitutto la Chiesa.  Ma la responsabilità è sempre la mia personale. Actio.  Questo aspetto consiste nel mettere in pratica il frutto di tutti gli altri aspetti descritti sopra.  Se mi impegno nella Lectio Divina non è per ricevere la forza di mettere in pratica ciò che io ho deciso, ma per capire meglio ciò che devo rispondere alla parola di Dio attraverso la Scrittura, e come, cooperando con Dio nel dar forma al mio cuore, posso farlo.  L’agire segue l’essere.  La Lectio Divina cerca di dar forma al mio agire dando prima forma al mio essere. L’Actio riguarda soprattutto la scelta della vocazione e il modo di portare avanti la mia vocazione.  Naturalmente devo sempre tenere presente che una vocazione non è una cosa privata tra me e Dio.  È una scelta personale che ha conseguenze sociali, in quanto coinvolge sempre il Corpo di Cristo.

 Pontificio Istituto Biblico – 2011

Publié dans:LECTIO |on 18 février, 2014 |Pas de commentaires »

1 DICEMBRE 2013 | 1A DOMENICA DI AVVENTO A

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1 DICEMBRE 2013  | 1A DOMENICA DI AVVENTO A  |  PROPOSTA DI LECTIO DIVINA

LECTIO DIVINA SU: MT 24,37-44

(vedete spesso che metto gli stessi nomi, o, almeno la stessa provenienza per le Omelie, io ne leggo molte prima di scegliere e queste sembrano, a mio parere, quelle che offrono sia una preparazione alla messa sia una meditazione omiletica di grande livello, a me piacciono insomma!)

ll tempo di Avvento apre l’Anno Cristiano: con non poco sforzo la Chiesa cerca di concentrarci nella contemplazione, tranquilla ma senza interruzioni, del mistero della nostra salvezza. Facendo memoria di lei, la nostra fede si riaffermerà con più forza; quanto più contempliamo l’amore che Dio ci ha donato, tanto più si rafforzerà la nostra speranza, tanto più nostalgia sentiamo di quell’amore che tante volte ignoriamo o perdiamo per colpa nostra, tanto più riusciamo a sentirci meglio amati da Dio, nella misura con la quale gli permettiamo che Lui ci ami di più, giorno per giorno. Convinti come erano i primi cristiani della venuta del Signore, si preoccupavano molto di conoscere il momento del suo arrivo per prepararvisi. Matteo non risponde alle aspettative dei suoi lettori: ripete la sua fede che verrà il Signore, e l’inutilità di dedicarsi ad indovinare la sua venuta, perché verrà inaspettatamente. Egli ricorda il comportamento spensierato degli uomini prima del diluvio ed immagina l’atteggiamento previdente di chi teme la venuta di un ladro. Per chi sa che il suo Signore sta in cammino, non gli rimane altro che mettersi ad aspettarlo: veglia e senso della propria responsabilità sono i modi di vivere oggi la speranza cristiana; sono la forma di attendere, che il Signore che sta per venire, desidera trovare nei suoi fedeli. Così li ha avvertiti già due mila anni fa.

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: – « Come furono i giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo. Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti: così sarà anche la venuta del Figlio dell’uomo. Allora due uomini saranno nel campo: uno verrà portato via e l’altro lasciato. Due donne macineranno alla mola: una verrà portata via e l’altra lasciata. Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. Perciò anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo ».

 1. LEGGERE: capire quello che dice il testo facendo attenzione a come lo dice Il passo evangelico è parte dell’ultimo discorso di Gesù nel vangelo di Matteo; tratta della venuta del figlio dell’uomo, evento, che anche se sperato, si pensa imminente. Dopo avere confermato la sua venuta in una prima parte (Mt 24,1-35), Gesù parla ora della necessaria preparazione (Mt 24,36-51): un evento tanto decisivo esige diligenza: non si può pensare che sta per arrivare il Signore senza mettersi a vegliare; che l’ora del suo arrivo sia incerta, non la rende ipotetica; se il Signore sta già in cammino, bisogna aspettarlo senza indugio. Nei tempi di incertezza non si dovrebbe avere altra occupazione che vegliare continuamente. Gesù rafforza la sua esortazione con due altre similitudini: uno, tratto dalla storia biblica; l’altro, dall’esperienza di vita. In entrambi i casi, Gesù motiva i suoi discepoli a ‘leggere’ la vita, passata o presente, per comprendere l’attuazione del piano di Dio ed i suoi ‘tempi.’ Quello che è successo nei giorni di Noè è esemplare: dato che nessuno aspettava un diluvio, tutti continuavano indaffarati la propria vita; in ciò non facevano niente di male; facevano quello che di solito facevano sempre: mangiavano, bevevano, si sposavano…; pensavano che non sarebbe accaduto niente di straordinario, ma morirono. Non facevano quello che li avrebbe salvati: entrare nell’arca; non si fecero un’arca, perché non pensavano a un diluvio. Non si prepararono per quello che non speravano…: ‘venne il diluvio e travolse tutti’. Normalmente succede che quando un ladro irrompe in una casa, il padrone di casa non se lo aspetta affatto; il fatto inaspettato della sua irruzione, la sorpresa che causa, sono il suo miglior alleato. Se l’avesse saputo, il proprietario si sarebbe difeso meglio, lo avrebbe aspettato vegliando, avrebbe ostacolato che forzasse l’entrata. Il diluvio è una calamità naturale; viene senza avvisare, che succeda non è una decisione presa liberamente da qualcuno. È una disgrazia inevitabile. Non così l’arrivo del ladro che normalmente sceglie di agire quando non è aspettato. La venuta del Figlio dell’uomo assomiglia ad entrambe le sventure: sarà tanto inevitabile come una calamità naturale, tanto abile e ben scelta, come un appuntamento. Non c’è altra possibile risposta che vegliare e prepararsi.

 2. MEDITARE: applicare alla vita quello che dice il testo! Benché l’abbiamo dimenticato o non lo vogliamo capire, il cristiano vive aspettando il ritorno del suo Signore che deve venire a giudicare i vivi e i morti. Credere nel Signore Risuscitato è crederlo in cammino verso di noi. Senza alcun dubbio, uno dei sintomi più evidenti della perdita di fede, quasi impercettibile, ma in continuo progresso in cui viviamo noi credenti, è la scarsa nostalgia che sentiamo per Cristo, la debole nostalgia che alimentiamo di lui, la perdita dell’entusiasmo davanti alla certezza del suo ritorno. E pensare che i primi cristiani incominciarono a credere in Cristo, quando cominciarono ad aspettare la sua venuta gloriosa! Ciò significa che non è possibile, non è nemmeno pensabile, un’autentica vita di fede che non viva, si nutra e si esprime come speranza. Non vi è niente di estraneo che, per non aspettare niente nuovo, niente di meglio del nostro Dio, perdiamo Dio nel nostro mondo e nel nostro cuore. Più ancora, Dio sta perdendo credibilità davanti ai nostri occhi; e si nota, a volte in modo palese, perché ormai non l’aspettiamo, perché ci dedichiamo con leggerezza a vivere ‘a fondo’ la vita che perirà; niente, quello che ci sembra è che non bisogna sperare in un Dio che non si rende presente quando è necessario. Si pensa che merita poco rispetto un Dio che non ci obbliga a cercarlo; poco varrebbe se non ci obbligasse a sentire la sua mancanza, a desiderarlo, ad aspettarlo: sarebbe indegno della nostra fede, se non ci costringesse a vivere speranzosi perché un giorno deve ritornare. I credenti oggi, come i contemporanei di Noè, continuiamo ad occuparci, a bere, mangiare, sposarci… Solo perché ci preoccupa il nostro futuro lo programmiamo in anticipo e ci illudiamo di tenerlo sotto controllo; viviamo il presente per sopravvivere nel futuro. Col pianificare oggi quello che di noi sarà domani, crediamo di essere al riparo delle sorprese. Siamo tanto preoccupati per le cose importanti che dobbiamo risolvere oggi che non speriamo che ci possa accadere domani qualcosa di migliore; abbiamo sempre qualcosa da fare oggi che non abbiamo né tempo né voglia di metterci a pensare a ciò che ci manca, Dio. Sono molte le cose che ci tolgono il sonno, e non è quasi mai Dio, né la sua mancanza, il motivo delle nostre insonnie. Non pensiamo, come il padrone di casa che non la custodiva, che il ladro può venire a saccheggiarla in qualsiasi momento. Perché, e qui risiede l’importanza dell’avvertimento di Gesù, né i contemporanei di Noè che vivevano la loro vita, né il signore che non previde l’assalto della sua casa facevano niente di strano; non pensavano, questo sì, che stava loro per succedere qualcosa di brutto e non facevano la cosa più necessaria; solo perché non erano preparati, non speravano che succedesse loro una disgrazia e vivevano spensierati: quella fu la loro disgrazia. Non ci occupiamo di cose straordinarie, né arriviamo a fare cose molto brutte: viviamo semplicemente la giornata, senza sentire Dio come il nostro migliore futuro. Occupati nelle nostre preoccupazioni giornaliere, Dio sta smettendo di preoccuparci. Dovendo occuparci di un mucchio di cose, ci sembra più che logico che trascuriamo Dio. Rinchiusi, come siamo, nei nostri problemi, stiamo seppellendo la nostra speranza e disinteressandoci della nostra salvezza. Non c’è scusa per chi, come discepoli di Gesù che siamo noi, sa che egli verrà un giorno; che egli sta già in cammino verso di noi. Lasciare, dunque, che le preoccupazioni giornaliere soffochino la nostra necessità di Dio, negare a Dio un posto – il posto di onore – tra le nostre migliori speranze, ci porta irrimediabilmente a perdere la fede nella vita e in Dio. Che triste spettacolo stiamo dando noi cristiani nella nostra società, contandoci – come gruppo e come individui – tra i meno impegnati a fare migliore il nostro mondo, e a diventare migliori in questo mondo! Quando verrà il nostro Signore, ci troverà ancora svegli, vivi, attivi, vigilanti?, ci troverà preparati per il suo arrivo? Dobbiamo testimoniare al mondo di oggi la nostra speranza. È vero: la speranza cristiana non si appoggia su ciò che vediamo né in ciò che ci offrono gli altri, essa riposa solo nella promessa del Signore: egli verrà un giorno, e chi lo sa, trova la forza di aspettarlo tutti i giorni. Lì dove manca Dio, lì dovremmo stare noi che lo speriamo, senza soppiantarlo ma solamente rappresentandolo. Lì dove c’è lo scoraggiamento, lì abbiamo un compito da svolgere. Chi vive aspettando il suo Dio non ha motivi per disperare: chi non lo trova nel suo mondo dà maggior forza alla sua speranza. Non sapere con certezza quando egli verrà, lo mantiene in continua attesa del suo Signore. Il mondo di oggi ha bisogno di testimoni di Dio, che mantengano viva la speranza di trovarlo un giorno e che vigilino giorno e notte fino a che lo trovino… Il Signore si lascerà trovare da coloro che sono occupati mentre l’aspettano: come stiamo vivendo questo tempo di attesa?

JUAN JOSE BARTOLOME sdb,

3 NOVEMBRE 2013 | 31A DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO C: LECTIO DIVINA SU: LC 19,1-10

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3 NOVEMBRE 2013  | 31A DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO C  |  PROPOSTA DI LECTIO DIVINA

LECTIO DIVINA SU: LC 19,1-10

Frequentemente, durante il suo ministero pubblico, si poteva vedere Gesù, accompagnato da persone di dubbia reputazione. Era tanto normale che frequentasse cattive compagnie che questo metteva a disagio i suoi discepoli, perplessi dinanzi a simile comportamento, e dava motivi per una dura critica da parte dei suoi avversari, che non potevano capire che un uomo buono potesse convivere con dei malviventi. E se era già abbastanza imbarazzante che Gesù si lasciasse accompagnare da persone non molto buone, risultava ancora peggio che le cercasse appositamente. Oggi il vangelo ci ricorda questo comportamento scioccante di Gesù, che entra in una importante città e sceglie come ospite un noto peccatore. Faremmo male a considerare questo episodio come un semplice aneddoto storico, come se narrasse solo l’incontro casuale di Gesù con un capo dei pubblicani. In realtà, per quanti desideriamo incontrarci un giorno con Gesù, e trovare in lui la nostra salvezza, il racconto ci offre un grande avvertimento e ci parla, nello stesso tempo, di una grande opportunità. E di come approfittarne.

In quel tempo, 1Gesù entrò a Gerico, e attraversava la città.
2Un uomo di nome Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco, 3cercava di distinguere chi era Gesù, ma le persone glielo impedivano perché era piccolo di statura. 4Corse più avanti e salì su un sicomoro per vederlo, perché doveva passare da lì.
5 Gesù, arrivato in quel luogo, alzò gli occhi e disse: « Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua ».
6 Scese, lo seguì e lo accolse con gioia. 7Al veder questo, tutti mormoravano, dicendo: « È andato ospite di un peccatore ».
8 Ma Zaccheo, in piedi, disse al Signore: « Guarda, la metà dei miei beni, Signore, la do ai poveri; e se ho approfittato di qualcuno, restituisco quattro volte tanto ».
9 Gesù gli rispose: – « Oggi la salvezza è entrata in questa casa; anche costui è un figlio di Abramo.
10 Perché il Figlio dell’uomo è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto ».
 1. LEGGERE: capire quello che dice il testo facendo attenzione a come lo dice

Avvicinandosi a Gerusalemme (Lc 19,28) e vicino già alla morte, destino finale del suo camminare, Gesù passa da Gerico, suscitando aspettative tra i suoi abitanti. Luca si sofferma a narrare su uno di loro, personaggio importante, anche se non molto popolare tra i suoi concittadini. Prima narra, non senza ironia, l’interesse e l’ingegno che spingono Zaccheo per poter vedere Gesù; essendo piccolo di statura e poco stimato, non era facile trovare un buon posto; e non disdegna il ridicolo di salire su un albero, perché è « da lì che deve passare » Gesù (Lc 19,4). A Gesù non passa inosservata tanta curiosità; « alzando gli occhi » vede Zaccheo e, fermatosi, si fa invitare da lui (Lc 19,5). Zaccheo aveva fatto di tutto per veder passare Gesù e…fu Gesù che lo vide arrampicato sul fico! Zaccheo cercava di scorgere chi era Gesù e Gesù lo scorse facendosi suo ospite. Durante tutto l’episodio, il protagonista non è Zaccheo, ma Gesù: è Gesù che passa per Gerico e che sceglie dove farsi ospitare. E’ lui che alza gli occhi e vede chi tanto si era sforzato di vederlo; e sarà Gesù che alla fine giustifica la sua decisione di alloggiare nella casa di Zaccheo: la sua presenza porta con sé la salvezza a questa casa. Per questo, malgrado le mormorazioni, è venuto lì.
Benché alla fine del racconto, Luca sveli così il proposito ultimo di Gesù nel suo passaggio per Gerico (Lc 19,10: cercare e salvare ciò che era perduto), non si deve far passare inosservato questo particolare: affinché Gesù scelga di essere nostro ospite, bisogna mettersi lì dove passerà. Il Gesù incontrato è quello che prima è stato cercato con ansia. Chi ha Gesù in casa, ha il cuore pieno di gioia. Zaccheo, capo degli esattori delle tasse in una città importante è un uomo molto conosciuto e poco apprezzato. La decisione di Gesù di essere suo ospite non è compresa da « tutti »: non è facile comprendere che un illustre visitatore scelga un riconosciuto peccatore come anfitrione. Però né Gesù né Zaccheo, sembrano preoccuparsi del malessere dei cittadini; o non gliene importa. Oltre la gioia di averlo in casa, Zaccheo sente che deve dare una gioia ai poveri e a coloro che lui aveva maltrattato. Il dono della metà dei beni e la restituzione, quadruplicata, di ciò che aveva rubato è, contante e suonante, la misura della sua conversione (Lc 19,8). L’inattesa e inspiegabile presenza di Gesù in casa di Zaccheo gli riempì innanzitutto il cuore di gioia e poi di generosità verso i derelitti. Gesù, se ospite cercato, porta con sé la salvezza. E la salvezza che lui porta, oltre a beneficiare colui che la riceve, si estende ai più bisognosi. In realtà per questo, solo per questo, solo per chi lo voleva vedere, è passato per Gerico ed è entrato in casa di Zaccheo.

 2. MEDITARE: APPLICARE ALLA VITA QUELLO CHE DICE IL TESTO!
Non è la prima volta che Gesù non evita « le cattive compagnie », quando si tratta di avvicinare il Regno di Dio al cuore dell »uomo (Lc 5,27-32; 15,1-3). Questa volta Gesù si comporta in modo diverso: all’entrata di un paese, si fa invitare da una persona di cattiva reputazione; non è che non evita i cattivi, è che li cerca e vuole stare con loro. Malgrado lo scandalo che provoca, onora con la sua presenza la casa di un peccatore pubblico: Gesù non vuole scontri inutili con i buoni, vuole fare il bene a chi non è buono del tutto. Curioso questo Gesù che per fare il bene a un cattivo sopporta l’incomprensione di tutti e la maldicenza dei buoni! Osa provocare tutto il paese facendosi ospite nella casa del principale esattore delle tasse. Doveva avere una ragione molto buona per fare una scelta tanto discussa. E’ molto probabile che chi si sente già buono quando si avvicina a Gesù, non riesca ad averlo mai come ospite in casa. Zaccheo era capo di pubblicani, un esattore di tasse di un certo rango. Logicamente la sua professione non era molto popolare; ancor più, era considerata peccaminosa perché ingiusta. I pubblicani erano soliti arricchirsi con il denaro che esigevano agli altri. Ed è che il sistema di riscossione di quel tempo era tanto semplice come ingiusto: il re incaricava per la riscossione delle tasse un uomo ricco; così gli restava assicurata l’entrata di una certa quantità annuale; questo, a sua volta, affidava ad altri la concessione ricevuta per un prezzo maggiore di quello che doveva consegnare. La catena di intermediari si moltiplicava, moltiplicandosi anche i guadagni e l’ingiustizia: alla fine, il popolo pagava più del dovuto e doveva subire giornalmente l’affronto di vedere che la loro povertà alimentava la crescente ricchezza dei pubblicani. Se così stavano le cose, non c’era nulla di più logico che, quando hanno visto l’entrata di Gesù a Gerico, mormorassero per l’ardire di Gesù nel forzare l’invito del capo dei pubblicani della città. Se almeno fosse partita da Zaccheo l’iniziativa…, ma risultava inconcepibile che Gesù scegliesse, per ospitarsi, la casa di un uomo tanto disprezzato, non già per la sua ricchezza quanto per il modo in cui l’aveva accumulata. Senza negar loro la ragione che hanno, con la sua risposta Gesù dà ragione del suo comportamento: lui si deve dare a chi ne sente il bisogno, è venuto a cercare chi è smarrito, a salvare chi si sente perduto. E’ ovvio che Zaccheo non era un santo. Perfino lui lo sapeva. Proprio per questo Gesù ha preferito la sua casa e la sua ospitalità; la sua presenza gli permette di avere un’opportunità, la sua convivenza gli avvicinerà il Regno. E Zaccheo, che sapeva bene che l’origine delle sue ricchezze era l’origine della sua ingiustizia, approfittò di una visita di Gesù nella sua casa, una casuale visita che lui stesso non aveva previsto, per rinunciare alla metà dei suoi beni e restituire con gli interessi a coloro che aveva defraudato; avendo Gesù con sé, in casa, seppe mettere a disposizione dei poveri e di quanti aveva ingannato, i suoi beni, pur di stare bene con Dio. Per non avendo sprecato l’occasione che un invito di Gesù gli offriva, ricevendolo nella sua casa e ponendo a sua disposizione quanto possedeva, Zaccheo tornò ad essere il figlio di Abramo che Dio aveva creato e amato. Non lo intimorirono le maldicenze dei suoi paesani, gli bastò sentire il desiderio di Gesù di alloggiarsi a casa sua; gli importò di più il desiderio di Gesù che l’opinione dei suoi avversari. Ciò che era iniziata come semplice curiosità dinanzi a ciò che era sconosciuto, finì con la determinazione di saldare il suo debito di giustizia. Solo chi lo ha accolto di cuore, è uscito dal suo peccato. Coloro che, invece, si credevano sufficientemente buoni per poter criticare il comportamento di Gesù, dovettero sorprendersi nell’udirlo dire che, in Gerico, solo Zaccheo aveva ottenuto la salvezza di Dio. E il fatto è che, -qui risiede l’avvertimento che Gesù ci fa-, chi si crede buono solo perché può, anche se ha tutte le ragioni, disprezzare quanti non sanno nascondere la loro malizia, è sempre sul punto di perdere Dio; chi non riconosce che nessuno, nemmeno lui stesso, è degno di Dio, mai si incontrerà con lui; chi crede di meritare Gesù e la sua visita, mai lo accoglierà nella sua casa. Non è solito Gesù, e il vangelo di oggi ne è una prova, incontrarsi solo con coloro che se lo meritano; Dio non alloggia tra quelli che, per quanto buoni, non sentono il bisogno di lui; chi si è abituato a Dio tanto che il suo passaggio non gli provoca curiosità, chi non fa niente di straordinario per avvicinarsi a Dio e vederlo più da vicino, non sarà il prescelto quando Dio verrà; quanti sono sicuri dell’invito di Dio, di solito non saranno, con loro sorpresa, tra i prescelti. Perderemo Dio, non tanto perché, disgraziatamente, siamo cattivi, ma perché ci illudiamo di essere buoni. Non sarebbe male che finalmente imparassimo: perché il Signore ci visiti, non bisogna essere molto buoni, quanto piuttosto non ci si deve sentire migliori degli altri. Però se Gesù non si sofferma su quanto gli altri pensano di noi, se neanche è necessario essere previamente buoni, ce lo ha reso realmente facile. Ed è stata questa l’occasione di Zaccheo e la nostra, se ne sappiamo trarre profitto. Nessuno è troppo indegno di Dio, tranne quando si crede già degno; tutti possiamo farci l’illusione di sentire un giorno la richiesta di Gesù perché lo invitiamo ad entrare in casa; per noi non deve farsi penoso un incontro con Dio che si verificherà lì dove abitiamo, né è umiliante una conversione che inizia quando Dio è nostro ospite; lasciandosi servire non ha reso più facile il servizio che gli dobbiamo.
Non è temibile un perdono che ci viene concesso quando permettiamo che Dio alloggi insieme a noi: Gesù ci salva se ne sentiamo la nostalgia, se sentiamo che ci manca, se otteniamo che condivida la casa; quando può disporre dei nostri beni, lui sarà la ragione del nostro benessere. Come lo è stato per Zaccheo. Però Zaccheo fece qualcosa di più che accogliere Gesù in casa sua: con lui in casa, seppe privarsi di quanto possedeva, la metà dei suoi beni, e restituire ciò che secondo giustizia non gli apparteneva, il quadruplo di quanto aveva defraudato. La sua salvezza è stata autentica, perché lo salvò dai suoi mali, quei mali la cui prova evidente erano i suoi beni ingiusti. Ed è che, chi convive veramente con Gesù, anche se una sola volta, deve lasciare di convivere con tutto ciò che lo separa da lui. Non meritò la visita Zaccheo, però dovette pagare un prezzo per essa; non glielo ha imposto Gesù, lo scoprì avendolo vicino.
Non si sa se ammirare più il bisogno di salvezza di Zaccheo o il bisogno di Gesù di salvare. Però perché Abramo recuperi un figlio e Dio salvi un focolare, è necessario accogliere Gesù nella propria casa, in famiglia. E non tanto perché abbiamo bisogno di essere salvati (Zaccheo voleva solo conoscere da lontano Gesù, e nemmeno incontrarlo personalmente), quanto perché a Gesù lo spinge, lo motiva e lo « commuove », la nostra salvezza. Sentiamo oggi il suo invito ad ospitarlo in casa e la nostra casa conoscerà la salvezza. Anche se non bisognerà dimenticare che lo ospitò non chi volle, né chi era migliore, ma chi è stato scelto…, perché aveva bisogno di essere salvato. Questo è il « prezzo » che pagò, per primo, Zaccheo: sapersi indegno di avere Gesù tra i suoi. La ricompensa è stata la gioia che ha inondato il suo cuore e la salvezza della quale si è riempita la sua casa. Però non solo… La vicinanza di Gesù portò Zaccheo a scoprire l’ingiustizia con la quale aveva accumulato la sua fortuna. Gesù non gli parlò di questo; lo scoprì Zaccheo quando ebbe Gesù in casa. La vicinanza di Gesù fece sì che Zaccheo ricordasse il suo peccato e si avvicinasse al bisogno dei poveri. Ci priviamo di Gesù tutte le volte in cui non siamo disposti ad ammettere i nostri peccati o/e a ricordarci dei poveri. Abbiamo bisogno di Gesù per essere vicini a coloro che hanno bisogno di noi. Così si realizza l’autentica salvezza. Prima che Gesù Proclami la sua salvezza, Zaccheo ha riconosciuto il suo peccato e ha proclamato la sua volontà di distribuire i suoi beni.
Non perdiamo oggi l’opportunità che un giorno ebbe Zaccheo, il capo dei pubblicani di Gerico: invitiamo Gesù a rimanere con noi, ad entrare nelle nostre case; Gesù non impose a Zaccheo di convertirsi per essere ospite in casa sua; però facendosi ospite la rese possibile. In ogni peccatore confesso Gesù trova una ragione per venirci incontro; non è il peccato ciò che lo allontana da noi, ma la negazione dello stesso. Non sono stati i buoni a ricevere in casa Gesù, perché si credevano degni; sono stati i buoni che hanno perduto Gesù quando si sono scandalizzati del suo comportamento. Benché la sua vita lasciasse a desiderare, Zaccheo non lasciò che Gesù passasse alla larga. Con lui è arrivata la conversione e il Regno. Non è stata gratis la visita: Zaccheo pagò un alto prezzo, però se lo impose lui stesso. I buoni perdono Gesù, per credersi buoni; i cattivi perdono i loro beni, quando riconoscono il loro peccato. Però Dio, e il Regno, si è avvicinato solo a chi Gesù aveva visitato. Perché impegnarci a sentirci buoni o a passare per tali, anche oggi, anche noi, se questo ci produce il non avere Gesù in casa e perdere l’occasione di fare il bene ai più bisognosi?

JUAN JOSE BARTOLOME sdb,

20 OTTOBRE 2013 | 29A DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO C – LC LC 18,1-8

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20 OTTOBRE 2013  | 29A DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO C  |  PROPOSTA DI LECTIO DIVINA

LECTIO DIVINA SU: LC LC 18,1-8

Bisogna riconoscerlo: non ci risulta facile pregare. Nella nostra formazione cristiana quello che maggiormente abbiamo imparato è stata una serie di preghiere a memoria, che ripetiamo con frequenza, ma con le quali non possiamo metterci in autentica comunicazione con Dio. Sappiamo molte orazioni, ma ci costa molto pregare. Ci mancano non solo le parole, ma anche i sentimenti, con cui ci rivolgiamo a Dio. Ma non pensiamo che sia un buon motivo che ci porta a coltivare una preghiera frequente. E qualche scusa ci sembra sufficiente ed anche una buona ragione per lasciare la preghiera: poche volte pensiamo che Dio ascolti le nostre necessità e non ci sentiamo obbligati a ripresentargliele. Se la nostra supplica risulta inefficace, ed è inutile continuare perdendo tempo e illusioni, merita la pena di continuare a chiedere se troviamo fondate speranze di essere ascoltati. Questa obiezione tanto logica è comune tra i discepoli di Gesù. Oggi il Vangelo ci ha ricordato che Gesù dovette animare i suoi discepoli a pregare di più e a pregare sempre. Ci sembra che noi discepoli di Gesù, tanto ieri come oggi, ci distinguano per il nostro entusiasmo alla preghiera?

In quel tempo, 1Gesù, per spiegare ai suoi discepoli come dovevano pregare sempre, senza stancarsi, disse loro questa parabola:
2″C’era in una città un giudice, che non temeva Dio e non si preoccupava degli uomini. 3Nella stessa città c’era anche una vedova, che andava a dirgli: ‘Fammi giustizia contro il mio avversario’. 4Per un po’ di tempo si rifiutò, ma poi disse: « Anche se non temo Dio e non ho a cuore gli uomini, 5siccome questa vedova mi infastidisce, gli farò giustizia, perché non venga ad importunarmi più »".
6 E il Signore disse:
« Guardate quello che dice il giudice disonesto; e Dio, 7non farà giustizia ai suoi eletti che gridano a lui giorno e notte?, certo, 8vi dico che gli farà giustizia senza indugio. Ma quando il Figlio dell’uomo verrà, troverà la fede sulla terra »?
 1. LEGGERE: capire quello che dice il testo facendo attenzione a come lo dice

Il testo evangelico è, alla base, una parabola e la sua applicazione. Però Luca l’ha introdotto con una precisa indicazione: con questa parabola Gesù insegnava ai suoi discepoli (Lc 18,1). Siamo in un atto di magistero indicato per coloro che lo seguono. Quello che dice Gesù è una lezione ristretta ad alcuni a lui intimi. Il contenuto di questi insegnamenti non era quello di dover pregare, ma il modo di pregare senza smettere.
Gesù racconta la parabola del giudice ingiusto -quale contraddizione!- per insegnare ai suoi discepoli, non a pregare (che già lo ‘sapevano’, perché egli aveva insegnato loro a pregare: Lc 11,1-13), ma come saper pregare sempre, senza mai disaffezionarsi. Questo è, o almeno, quello che annota Luca. E con questo ci sta dando la chiave per interpretare la parabola.
Ma non lo fa del tutto bene. Perché nella narrazione della parabola mette un’applicazione finale che va oltre ad una mera applicazione della preghiera continua (Lc 18,6-7). Appaiono due elementi nuovi e sorprendenti, se si guardano bene, nel commentario conclusivo di Gesù. Primo: Dio fa giustizia a chi lo prega, ascoltandoli. Soccorrere i suoi eletti è un atto di giustizia divina. Secondo, l’orante che persiste nella sua preghiera, fa, più di una petizione, un vero atto di fede. Pregare molto, pregare sempre è credere.
Nell’ultimo commento Gesù sottolinea una nota di grande avvertenza, tanto seria come insperata (Lc 18,8). Ci sorprende, in effetti, che lo stesso Gesù si domanda -perché non è molto sicuro- se incontrerà sulla terra questa fede, fatta di continua preghiera, il giorno del suo ritorno… In realtà la risposta affermativa la possono dare solamente i discepoli che pregano sempre, senza stancarsi; ma Gesù quando si domandava ciò, non li teneva tutti con se.

 2. MEDITARE: applicare alla vita quello che dice il testo!
Per inculcare la preghiera permanente nei suoi discepoli Gesù narra la parabola dell’ingiusto giudice e della vedova impertinente. Già aveva insegnato loro a pregare. Adesso insegna che pregare non deve essere un’occupazione occasionale, ma un esercizio continuo….e gioioso.
Qui non chiede al discepolo che sappia già pregare, ma che non finisca di farlo -in seguito- quando saprà pregare. Gesù chiede ai suoi discepoli di non perdersi d’animo quando pregano: non vuole vedere in loro disincanto. Mentre stanno parlando con Dio gli insegna come pregarlo. Dobbiamo domandarci come mai la nostra preghiera non riempie di alito e di incanto la nostra vita. Cosa ci manca? -o meglio- cosa sta impedendo alla nostra preghiera di trasformarsi in un tempo felice e in un’esperienza insuperabile. Perché se preghiamo lo facciamo con poco ardore?
L’esempio della vedova impertinente ci parla, in primo luogo, che per chiedere senza tregua bisogna sentire fino in fondo un bisogno. Se un giudice ingiusto è capace di fare giustizia, contro il suo costume: come non aiuterà il buon Dio a chi lo prega senza interruzione?, si domanda Gesù, convinto che Dio non si farà attendere da coloro che perseverano nella loro preghiera.
Bisogna soffrire di totale impotenza, come la vedova, per importunare chi non è degno di fiducia. La vedova insiste nella sua richiesta, non perché meriti fiducia un giudice che non teme Dio e che non gli importa degli uomini, ma perché non ha altra difesa. Non bisogna essere giusti per fare giustizia. Continuando a chiedere si può ottenere da un ingiusto giudice quello che non si potrebbe neppure sognare. Pur di liberarsi dal continuo fastidio e d una possibile aggressione, il giudice concede protezione ha chi ha tanto insistito. E perché la vedova non si annoiò nel chiedere giustizia e nel vedersi ascoltata, il giudice dovette alla fine dargliela.
Può essere che qui si radica in noi la ragione di una scarsa vita di preghiera: o per una poca necessità di aiuto o ci crediamo, di diritto, di essere sempre ascoltati, solamente perché lo abbiamo chiesto una volta. Se conoscessimo meglio la nostra povertà, non avremmo tanta vergogna a chiedere tanto, a importunare, a ‘infastidire’ Dio. Dura poco la nostra preghiera, perché è scarsa la conoscenza che abbiamo della nostra debolezza.
Gesù sembra indicarci così una delle ragioni più frequenti per la quale le nostre preghiere sono inutili sforzi per catturare l’attenzione di Dio: non insistiamo abbastanza, non perseveriamo come dovremmo. Ci disilludiamo di un Dio che pur conoscendoli, desidera che ripetiamo i nostri bisogni; non sopportiamo bene che Dio ritardi la sua risposta quando non possiamo rimanere in silenzio sui nostri desideri. Desideriamo che subito, appena lo abbiamo chiesto, Dio ci conceda ciò che chiediamo. Per il fatto di aver fatto sapere i nostri bisogni, ci crediamo con diritto di essere ascoltati. Nel comportamento della vedova impertinente e del giudice ingiusto, Gesù ci ha segnalato un metodo buono e una buona ragione per conseguire una vita di costante preghiera.
Solamente perché insistette, la vedova venne ascoltata. Non le importò sapere che al giudice non le importava niente: ella conosceva i suoi bisogni e questo le bastò per importunarlo con insistenza; supposto che non poteva da sola liberarsi del suo stato, fece sapere al giudice che non si sarebbe liberato di lei fino a quando non l’avrebbe ascoltava; non perché ella confidava in lui, ma perché non era in grado di risolvere da sola i suoi bisogni: aveva bisogno di un giudice. Accorse a lui senza importarle che non era sufficientemente buono; le doleva di più il suo malessere presente che la mala condotta del suo protettore; e non smise di molestarlo finché non le rese, andando contro al suo costume, giustizia.
Il metodo della vedova Gesù lo desiderava veder realizzato nella vita dei suoi discepoli; però mancava loro la necessità di impotenza che sentiva la donna per insistere dove non veniva ascoltata; il discepolo di Gesù, come la vedova, dovrà essere tanto cosciente della sua indigenza per ricevere la benevolenza di Dio. Basterà essere tanto cosciente della propria impotenza per importunare Dio, per non cessare di molestarlo giorno e notte, per fermarsi solamente quando Dio lo renderà soddisfatto, fino a quando Lui romperà il suo silenzio. Chi non insiste nella sua preghiera, ci avverte Gesù, è perché non conosce molto bene la gravità della sua situazione, o crede che può liberarsi di lei da solo e facilmente. Chi confida solamente in se stesso per liberarsi della sua indigenza, sta scavalcando Dio. E tale è il rischio che ci acceca, se non perseveriamo nella preghiera.
Gesù non teme di confrontare l’ingiusto giudice con Dio che sempre è giusto. Davanti a un Dio che sembra non ascoltare la nostra preghiera non è bene smettere di pregare. Il silenzio rassegnato non è il miglior modo di richiamare all’attenzione (e di chiamargli l’attenzione): Dio non si libererà di noi, finché noi non ci liberiamo delle nostre necessità; se non smettiamo di pregare finché Lui non ci soddisfi. Se continuiamo a parlargli finché non ci ascolta, saremo buoni oratori, perché preghiamo senza arrenderci. Cos’è quello che ci manca e che fece, come sopra, la vedova: impertinenza o necessità, il coraggio di osare oppure l’impotenza? Perché non animarsi e chiedere senza tregua se Dio -alla fine- finirà per farci giustizia ascoltandoci?
Per Gesù e per qualche uditore della parabola, Dio è più giusto che l’ingiusto giudice. Anche la preghiera ininterrotta termina con la resistenza di Dio a intervenire; pregare ad alta voce, se si deve, porta, alla fine, ad essere ascoltati. Colui che chiede continuamente, convince ad avere giustizia senza ritardo. Il migliore consiglio che Gesù poteva dare era quello della preghiera continuata. Una vita di preghiera senza arrendevolezze provoca in Dio la necessità di fare giustizia. Chi lo avrebbe pensato?
Gesù ci esorta a non arrenderci dinanzi all’apparente disinteresse di Dio davanti ai nostri problemi. Davanti a un Dio che sembra non ascoltare la nostra preghiera, non è meglio arrendersi. Facendo silenzio gli daremo motivo di pensare che possiamo arrangiarci senza il suo aiuto. Se ci sembra che Dio non ci ascolti, non lo riguadagneremo nuovamente con la nostra rassegnazione e il silenzio. Se noi grideremo giorno e notte che ci liberi dei nostri bisogni, otterremo di essere alla fine ascoltati. Dio esce dal suo silenzio, se noi entriamo in lui; non può per lungo tempo ignorare la nostra supplica se è continua e speranzosa. A forza di perseveranza, colui che prega guadagnerà il favore di Dio e le sue attenzioni.
Ma perché Dio faccia con noi quello che fece il giudice con la vedova che aveva bisogno, esige da noi, che ci sentiamo ‘suoi eletti’, la consapevolezza del nostro bisogno di Lui, disposti a invocarlo giorno e notte. Non può essere solo la necessità, come fu il caso della vedova, quello che porterà i discepoli di Gesù a pregare Dio; chi prega Dio non chiede solo giustizia, chiede a Dio non perché ha bisogno, ma perché si sa suo eletto, perché conosce il suo amore di predilezione, perché non può sbagliare. E se il fedele passa un giorno senza essere ascoltato, passerà la notte gridandogli, affinché Dio gli ‘faccia giustizia senza tardare’.
Non è strano che Gesù termina la parabola domandandosi se quando tornerà incontrerà tra i suoi tanta fede; sono molti i buoni discepoli di Gesù che non sostengono un lieve ritardo di Dio, un ritardo della sua attenzione, un silenzio un poco più lungo del solito; sono molti quelli che non sanno pregare senza disperare, solo perché non ottengono immediatamente quello che chiedono. La convinzione che Dio è interessato a noi deve essere maggiore dell’interesse che noi portiamo a Lui. Se perdiamo la fiducia in Dio solo perché non da risposta senza farci attendere, abbiamo perso la fede in lui e la sicurezza di contare un giorno sulle sue attenzioni.
La vita di preghiera che provoca scoraggiamento nella vita cristiana può sorgere dalla necessità e impotenza in cui viviamo, però non nasce sicuramente dalla consapevolezza di sapersi eletti. Colui che si sente amato può gridare a Dio, giorno e notte, senza mancargli di rispetto. Solamente quando ci decidiamo a importunare Dio, solo allora avremo imparato a lasciare che risolva i nostri problemi. Questo modo di pregare che non teme di importunare Dio è il modo di credere che Gesù vorrebbe incontrare al suo ritorno. Incontreremo in noi questa fede che non dispera, anche se non ha ottenuto giustizia subito o se ritarda ad arrivare? Il Signore quando ritornerà ci troverà gioiosi e impegnati a gridare a Dio giorno e notte?

JUAN JOSE BARTOLOME sdb,

OMELIA 29 SETTEMBRE 2013 – 26A DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO C – SU: LC 16,19-31

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29 SETTEMBRE 2013  | 26A DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO C  |  PROPOSTA DI LECTIO DIVINA

LECTIO DIVINA SU: LC 16,19-31

Comprendere quanto Gesù vuole dirci con la parabola non risulta difficile. Fino a quando visse, il ricco nuotò nell’abbondanza; ebbe di tutto, tranne che compassione verso il povero che digiunava alla sua porta. Dopo la morte, non poté né alleviare la sua disgrazia né evitare che la sua famiglia camminasse, senza saperlo, verso un’identica fine. Carico di beni, il ricco non poté salvarsi, né salvare i suoi.
Una volta morto il povero, che nessuno aveva soccorso in vita, godé per sempre della consolazione di Dio. La morte di ambedue cambiò radicalmente e definitivamente, la loro sorte: chi prima non si privava di nulla non trovò dopo neppure una goccia d’acqua per rinfrescarsi; colui che aveva solo il desiderio di saziarsi con quello che altri sprecavano, ottenne come soddisfazione la compagnia di Dio.
Se l’abbondanza di beni causò la perdizione del ricco, il povero non dovette fare altro che lottare per sopravvivere senza disperare di Dio. Il ricco non aveva bisogno né del povero, né di Dio, per vivere bene; al povero gli mancò di tutto, dei beni ed un prossimo compassionevole, ma ebbe sempre Dio dalla sua parte quantunque non lo sapeva.

In quel tempo, Gesù disse ai farisei:
19 « C’era un uomo ricco, che vestiva di porpora e di lino e banchettava sontuosamente ogni giorno. 20Un mendicante, di nome Lazzaro, giaceva alla sua porta, coperto di piaghe, 21 che desiderava nutrirsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco. Anche i cani venivano a leccare le sue piaghe. 22 Ora avvenne che il povero morì e gli angeli lo portarono nel seno di Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. 23 Essendo all’inferno, in mezzo ai tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro nel suo seno, 24 e gridò: « Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e bagnarmi la lingua, perché soffro tormenti in queste fiamme ». 25 Ma Abramo rispose: ‘Figlio, ricordati che hai ricevuto i tuoi beni in vita, e Lazzaro, a sua volta, i mali: ora lui è consolato, mentre tu sei tormentato. 26E anche tra noi e voi vi è un grande abisso, perché non si riesca ad attraversare, anche se si vuole, né da qui a voi, né da lì a noi’. 27 Il ricco rispose: « Ti prego, dunque, padre, di mandarlo a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli, 28 affinché dia la sua testimonianza, e così evitare che vengano anch’essi in questo luogo di tormento ». 29Ma Abramo rispose: « Hanno Mosè e i Profeti, che ascoltino loro ». 30 Il ricco riprese a dire: « No, padre Abramo, ma se qualcuno dai morti andrà da loro, si pentiranno ». 31 Rispose Abramo: « Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se qualcuno risorge dai morti ».

 1. LEGGERE: CAPIRE QUELLO CHE DICE IL TESTO FACENDO ATTENZIONE A COME LO DICE
Luca considera destinatari dell’insegnamento di Gesù i farisei, i quali ha definito poco prima « amanti » del denaro, (Lc 16,14). Non si può passar sopra al dettaglio, se si vuole interpretare correttamente Gesù. Si rivolge solo a chi ama più i suoi beni che il suo prossimo. I diretti destinatari della severa avvertenza non sono un gruppo di fedeli ebrei, bensì tutti coloro che vivono attaccati ai loro beni.
La parabola che si può vedere come un’illustrazione paradigmatica di quando disse già Gesù nella pianura, (Lc 6,20 -21.24-25), contiene una dura condanna della ricchezza, non per la sua provenienza illecita che qui non si menziona, bensì per la sua malefica conseguenza: il suo potere di rendere insensibile il cuore dell’uomo e chiuderlo alla necessità del prossimo. Ma è, inoltre, buona notizia, perché svela dove Dio ha messo le sue preferenze ed il suo cuore. Il Dio di Gesù non è neutrale, si è schierato a beneficio dell’indigente e del sottovalutato, benché lo mostri non sempre in forma immediata o evidente.
La narrazione presenta i personaggi (Lc 16,19.20). Il ricco ha molti beni, ma non ha nome, non ha viso; può essere chiunque. Il povero è identificato dal suo nome, (Lazzaro: Dio aiuta), prima ancora che si menzionino i suoi mali e la sua fame. Il ricco si dava a banchetti giornalieri; il povero era carne per i cani. Non si può dire con altre parole l’abisso che li separava. La morte di ambedue farà che questo abisso, prima non affrancato, diventi ora insormontabile, definitivo. Ma con fortuna invertita.
Il ricco che non aveva fatto niente ‘di male’, solo vivere dei suoi beni, andò all’inferno. Il povero, del quale non si racconta niente ‘di buono’, solo di essere povero di tutto, è introdotto nel ‘seno di Abramo.’ Benché sembri un fine logico dentro l’insegnamento di Gesù, non smette di essere sorprendente in una cultura, come quella biblica, dove i beni sono buoni, perché provengono dal buon Dio. Ma, insegna Gesù, c’è qualcosa più pregiato dei propri beni, vedere, il prossimo che ha bisogno di essi. È in dialogo con Abramo quando il ricco ‘imparerà’ la lezione. E gli uditori di Gesù, riceveranno un pesante avvertimento. Lazzaro, il povero che non fu soccorso in vita non può aiutare nessuno, né i morti, né i vivi che continuano a godere della vita. Nessuno può aiutare chi non si fa aiutare dalla legge di Dio, Mosè e dai profeti. È Dio, la sua volontà espressa, quella che deve aprire il cuore del ricco alla necessità del suo prossimo. Per il ricco c’è solo un ‘miracolo’ che possa salvarlo, la presenza del povero al suo fianco. Chi rimane insensibile alla necessità del suo prossimo si sta coltivando la sua propria condanna.
Terribile istruzione: chi non fu compassionevole in vita non riceverà compassione dopo la sua morte. Chi ama i suoi beni più che il suo prossimo, non avrà chi lo soccorrerà. Quello sarà, per sempre, il suo ‘inferno.’

 2. MEDITARE: APPLICARE ALLA VITA QUELLO CHE DICE IL TESTO!
Con questa parabola che gli è propria, Luca ha voluto presentare, in forma particolarmente drammatica, senza concessioni né moine, il pericolo che corre il credente ricco: non è che uno possa, un giorno, perdere quanto ha, è che i suoi averi possono farlo perdere per sempre. Quanto facile risulta per un povero, fidarsi di Dio! E di chi se no? Quanto costa ad un ricco mettere la sua fiducia in Dio: metti la tua sicurezza in noi, gli dicono i suoi beni! C’è qualcosa, dunque, di molto ‘brutto’ nei ‘beni’; essi hanno una capacità molto forte di perversione. Il loro piacere allontana il povero dal proprio cuore e ci pone in contrasto con Dio. L’unico bene in cui il povero conta è Dio. Il ricco, per il quale un povero non conta niente, smette di contare per Dio.
È evidente che Gesù, raccontando simile storia, prendeva una posizione sorprendentemente critica rispetto all’abbondanza di beni in vita. Perché niente di brutto aveva fatto il ricco, al massimo spendere i suoi beni senza considerazione né pietà verso il prossimo che soffriva al suo fianco. E niente fece di buono il povero, se non quello di starsene per terra mendicando un aiuto che non arrivò mai.
Dobbiamo riconoscere che, benché chiaro, l’insegnamento di Gesù non ci aggrada: contraddice non già solo la moda, i valori, della nostra società, bensì, soprattutto, la nostra stessa vita e le opzioni che prende il nostro cuore quotidianamente. Pochi giudizi di Gesù ci risultano tanto irrealizzabili nel mondo in cui viviamo, tanto lontani dalla nostra realtà, come il suo giudizio sulla ricchezza. Nei nostri giorni non c’è chi consideri i beni materiali come un grave pericolo o lo sperpero come un’autentica ingiustizia. I nostri ricchi possono fare quello che vogliono del loro denaro; ciò che ci dispiace è che lo consumino senza di noi. E noi, quelli che diciamo di seguire Gesù, facciamo qualcosa di più per avere maggiori beni, godere di migliori condizioni di vita, poter pagarci i nostri capricci, spendere il nostro denaro come ci pare? Come qualunque altro, invidiamo quanti hanno più di noi, sognando il giorno in cui arriveremo ad essere ricchi ed identifichiamo la fortuna con una somma importante di denaro. Non ci mancano ragioni; perché i beni materiali sono quei beni che ci sono necessari per vivere. Benché sappiamo che il denaro non basta per fare felice una vita, la sua mancanza è già un motivo di infelicità.
Gesù non condanna la ricchezza, non la considera cattiva per sé stessa. Ma con la sua parabola ci fa notare la sua pericolosità: quello che ha molto, per il fatto di avere di più, normalmente non è più sensibile davanti a chi ha meno, normalmente non sente responsabilità di fronte a lui. Crede di potere disporre del suo denaro solo perché gli appartiene, senza che gli importi il fatto che altri non abbiano di che cosa vivere. Avere di più, godere meglio, spendere rapidamente, è per molti oggi il fine della loro vita; Gesù ci fa notare che quello può essere anche il fine: la cosa brutta non era il fatto che il ricco possedesse molto, ma che non mettesse qualcosa a disposizione del povero. Sprecò i suoi beni, e la sua vita per sempre, non perché spendesse molto, bensì perché non si consumò un po’ a beneficio di chi era nella necessità. La cosa brutta dei beni non è averli, né desiderarli. La cosa brutta sta nel fatto che chi più ha, meno dà. Gesù ci avvisa con calma: la nostra fortuna finale non dipende da quello che abbiamo potuto accumulare in vita bensì da quanto abbiamo voluto condividere. Sopravvivremo non per quanto avremo speso in vita, bensì per quello che abbiamo voluto mettere a disposizione degli altri.
Tutto quello che ebbe il ricco non gli valse per salvarsi. Poté comprarsi di tutto in vita, meno che un posto vicino a Dio dopo la sua morte. E chi più aveva fu chi perse di più, non già la vita ed alcuni beni, perse tutta la vita e Dio. I beni che abbiamo, il benessere che godiamo, il denaro che sprechiamo possono farci star bene senza l’unico Dio e l’autentica buona vita, ma non godere della sua intimità per sempre. A tanto rischiamo quando ci attacchiamo ai beni che periscono con noi: dimentichiamo che l’unico bene che sopravvivrà è quello che facciamo agli altri; il bene che facciamo a noi stessi morrà con noi; il bene che non facciamo a chi è nella necessità ci condannerà. Non inganniamoci mettendo come scusa che, in fin dei conti, noi non siamo tanto ricchi come il signore della parabola. Benché non possediamo tanto per banchettare splendidamente ogni giorno, basta che ci sia qualcuno vicino a noi che abbia maggiori necessità e mangi meno. Comparato con quanto volessimo avere, saremo sempre poveri; in paragone con chi dispone meno di noi, siamo, in realtà, benestanti. Non rimanere al passo di chi ha bisogno, non aiutare chi ha bisogno, ci fa ricchi ed egoisti, benché possediamo poco. Dio ci ha dato i beni per fare il bene e, così, farci migliori, non più ricchi. Quello che siamo riusciti ad accumulare nella vita c’è stato concesso affinché rispondiamo alle nostre necessità e a quelle del nostro prossimo.
Gesù non demonizza la ricchezza in sé stessa. Sottolinea l’insensibilità che produce nell’anima di chi la possiede: chi non vide con pietà l’indigenza altrui diventa sordo alla parola di Dio ed i suoi profeti, e non darà credito alle sue opere più stupende. Neanche il miracolo più portentoso è capace di cambiare il cuore immutabile davanti alla povertà del fratello: chi non ha ascoltato la voce dell’indigente non obbedirà alla legge di Dio né ascolterà la sua voce, benché la senta. Per sentire Dio bisogna ascoltare il povero. La sua esistenza miserabile è il solo « miracolo » che può operare la nostra conversione. Abbiamo poveri a sufficienza intorno a noi, affinché possiamo convertirci alla povertà. Dio ci ha dato tanti prossimi che hanno bisogno di noi, dei nostri beni, perché Egli vuole essere nostro unico Bene. In ogni povero che convive tra noi, Dio ci ha dato un motivo, e l’occasione, per la nostra conversione.
Nella parabola Gesù, inoltre, ci fa un secondo avvertimento. Chi non vede con pietà l’indigenza altrui non sentirà la parola di Dio né darà credito alle sue opere più stupende. Sarebbe stato inutile che un ricco tornasse alla vita, non per salvare se stesso, ma semplicemente per avvisare la sua famiglia. Chi è insensibile davanti ad un mendicante che ha vicino a sé, diventa sordo alla voce stessa di Dio ed annichilisce anche la sua capacità di vedere prodigi. I miracoli sono insufficienti, Dio stesso è superfluo per chi non si intenerisce davanti allo stato di necessità del suo prossimo. Il portento più stupendo o la stessa legge di Dio non possono cambiare il cuore un uomo che ama più i beni che il suo prossimo che preferisce sprecare il suo denaro invece di soccorrere il bisognoso. Risulta commovente vedere come i beni che possediamo finiscono per possederci, occupano il nostro tempo e sequestrano i nostri migliori sentimenti, prendono in ostaggio il nostro cuore. E la cosa brutta non è che Gesù ce lo faccia notare; la cosa peggiore è che siamo spesso tutti spettatori, e vittime, di quella tentazione di optare per i nostri beni contro il nostro prossimo.
Se prendiamo sul serio la parabola di Gesù, ci accorgeremo che ha anche un messaggio promettente. Finché c’è qualcuno vicino a noi da soccorrere, non stiamo salvando noi stessi, ma neanche siamo persi per sempre. Finché esiste vicino a noi qualcuno con maggiori necessità di noi, abbiamo ancora la speranza di guadagnare Dio per sempre. Il povero da curare è la nostra assicurazione sulla vita eterna! Nessuno è completamente perso – né salvo! -, se ha qualcuno a cui badare. Nessuno di noi ha così pochi beni da non avere possibilità di aiutare con quello che ha: che Dio sia il nostro futuro Bene dipenderà sempre dal fatto che mettiamo i nostri beni al servizio di chi ha più bisogno di essi. Serviamoci di quanto Dio ci diede in vita per averlo come Dio per sempre.
Più che stupirsi per l’inappellabile condanna del ricco e la salvezza senza troppo sforzo del povero, bisogna sorprendersi – lì sta il ‘cuore’ di questo vangelo – del Dio che si rivela in entrambe le attuazioni: un Dio che concede, e per sempre, la compagnia di Abramo a chi visse tra i cani; un Dio che esce in difesa solo di chi non ha avuto nulla, neanche compassione del suo prossimo; un Dio che non sopporta che non si tratti bene chi non ottenne beni. Badare al povero non è, dunque, compito opzionale per un credente. Dio ci ha dato i poveri perché vuole essere Lui, un giorno e per sempre, la nostra ricchezza.

JUAN JOSE BARTOLOME sdb,

8 SETTEMBRE 2013 – 23A DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO C – LECTIO DIVINA SU: LC 14, 25-33

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 8 SETTEMBRE 2013  | 23A DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO C  |  PROPOSTA DI LECTIO DIVINA

LECTIO DIVINA SU: LC 14, 25-33

Dopo aver trascorso del tempo predicando in Galilea, Gesù aveva raccolto un certo successo. Circondato costantemente da un gruppo di discepoli, veniva cercato da persone che volevano sentirlo parlare di Dio ed essere curate dai propri mali. Ad un certo punto, sulla strada per Gerusalemme, Gesù volle approfittare del fatto che una grande moltitudine lo seguiva per avvertire i suoi discepoli più vicini, del prezzo che devono pagare quelli che lo seguono. In questo modo indicava a tutti, alla gente così come ai suoi discepoli, che, per cercarlo, non basta avere bisogno di lui e che, per seguirlo, non è sufficiente rallegrarsi di poter trarre qualche profitto. Piuttosto al contrario, le conseguenze della sequela sono estremamente gravose. Anticipandole, Gesù ha voluto che i suoi discepoli si prendessero del tempo prima di decidere se proseguire con lui. E questo perché non voleva, né vuole, essere seguito da incoscienti che non sanno dove vanno né a cosa sono chiamati se proseguono il cammino dietro di lui. A Gesù non interessava che i suoi discepoli fossero molti, ma che si rendessero responsabili delle conseguenze sì. E che fossero liberi di seguirlo.

In quel tempo, 25 una folla numerosa andava con lui; Egli si voltò e disse loro:
26 « Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo.
27 Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo.
28 Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? 29 Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, 30 dicendo: « Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro ». 31 Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila?32 Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere pace.
33 Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo.

 1. LEGGERE: capire quello che dice il testo facendo attenzione a come lo dice
Deve attirare la nostra attenzione il fatto che un giorno Gesù abbia indirizzato un’istruzione tanto dura, estremamente esigente, sulla sequela a quanti, discepoli o meno, condividevano il cammino con lui. Gli bastò sentirsi accompagnato da una moltitudine, per metterla in guardia sulle condizioni che deve accettare chiunque desideri essere un suo discepolo. La gente che camminava con lui lo stava già seguendo. Gesù, a quanto pare, non si accontentava di essere semplicemente accompagnato. Voleva più grandi, inaudite, rinunce. E lo disse loro in faccia, « voltandosi » verso di loro.
Sono tre le condizioni che pone alla gente e lo fa in forma lapidaria, senza girarci attorno e senza eufemismi. Inoltre, ed è significativo, tutte e tre sono formulate in negativo: non può essere discepolo chi non lo preferisce a chiunque altro (Lc 14,26), chi non porta la propria croce (Lc 14,27), chi non rinuncia a tutto ciò che possiede (Lc 14,33). Chi non fosse capace di adempiere a tutte e tre, non può nemmeno sognarsi di seguirlo, per quanto, di fatto, già lo stia seguendo.
Unicamente la prima richiesta di Gesù, la più elaborata e innaturale, è una condizionale. Nessun dovere, per sacrosanto che sia, deve essere più vincolante della scelta di essergli compagno: seguirlo rende secondario amare genitori, fratelli e, perfino, se stessi. Bisogna notare che il primato d’amore che Gesù merita non è a priori né a posteriori, ma simultaneo: non bisogna smettere di amare la famiglia per poi accompagnare Gesù; né bisogna seguire Gesù per riuscire, dopo, ad amarlo più che i propri cari. Mentre lo accompagna il cuore del discepolo non può mantenere allo stesso livello altri affetti, tanto naturali e sacri come l’amore per la famiglia e per se stessi.
La seconda e la terza richiesta di Gesù sono brevi, entrambe in negativo: può seguirlo chi può caricarsi della sua croce e rinunciare ai propri beni. Due dettagli non insignificanti non devono passare inosservati, perché portano qualche novità. La croce che bisogna portare è la propria, ma bisogna portarla dietro di lui: non è una croce qualsiasi, è la croce che porta chi lo segue, la croce che si ottiene per seguirlo. La rinuncia ai beni non è generica, né è un proposito per il futuro: i beni sono quelli che si possiedono, i propri, senza escluderne nessuno. La rinuncia è totale.
Davanti a una simile pretesa Gesù invita, con una doppia similitudine (il costruttore di una torre, il re in guerra), a fermarsi a pensare se vale la pena intraprendere un cammino che può risolversi male o senza una conclusione. Quanto più elevato è il prezzo da pagare, tanta più prudenza richiede fare l’affare. Gesù non vuole discepoli entusiasti ma poco lucidi.

 2. MEDITARE: applicare alla vita quello che dice il testo!
Molti fra coloro che accompagnavano Gesù a Gerusalemme non potevano sospettare cosa lo aspettava. Gesù fa una pausa durante il cammino per avvertirli: da adesso in avanti, non deve accompagnarlo chi vuole, e nemmeno chi è stato chiamato da lui, ma solo coloro che sono disposti a pagare il prezzo dovuto. Non smette di sorprendere che questo lo dica a una moltitudine che già lo sta seguendo e non a pochi, i suoi discepoli più vicini. Quando radicalizza le sue pretese, amplia l’uditorio; essendo la sua richiesta tanto drastica, la rende opzionale. D’ora in avanti lo seguiranno solo coloro che saranno così liberi da poter rinunciare al meglio di ciò che hanno, tutta la loro famiglia e i loro beni, tutti. Bisogna ringraziare Gesù di non essersi imposto nell’imporre delle condizioni così sovraumane, di averci lasciato liberi quando ci chiede di liberarci da tutto ciò che abbiamo di più caro. Gesù ha reso « opzionale » la sequela, quando ha annunciato quanto sarebbe venuta a costare. Gesù ha esteso a tutti la possibilità di seguirlo, quando ha posto le condizioni per farlo. Chi non è capace di rinunciare al massimo (tutta la famiglia e tutto quello che si possiede), non può seguire il suo Signore.
E Gesù, anticipando ciò che sarebbe stato loro richiesto, ha voluto che coloro che lo seguivano si prendessero del tempo prima di decidere di continuare il cammino con lui; e questo perché non desiderava, né desidera, essere seguito da incoscienti che non sanno dove vanno né a cosa sono chiamati se continuano il cammino dietro di lui; a Gesù non importava che fossero molti i suoi discepoli, ma che si rendessero responsabili delle conseguenze sì.
Quello che Gesù chiede a chi desidera seguirlo, detto senza eufemismi, è una barbarità. Per quanto possiamo abbassare il radicalismo delle sue parole, non è accettabile che, per arrivare ad essere suoi meri discepoli, ci chieda – e come condizione a priori! – che amiamo i nostri cari meno di lui. Nemmeno Dio, nel decalogo, aveva osato tanto; è vero che Dio ci comandò di amarlo in primo luogo e sopra tutte le cose, ma ci obbligò anche ad amare i nostri genitori e il prossimo come noi stessi. Aspettandosi che si preferisca lui a chiunque altro, Gesù pretende dai suoi discepoli molto di più di quanto un maestro è solito – e può – chiedere; esigendo un amore tanto esclusivo quanto escludente, condanna chi vuole seguirlo a non perseguire altri affetti per degni e necessari che siano.
Che l’amore paterno o filiale, l’amore dei fratelli e quello degli sposi debba cedere davanti all’amore che si deve a lui come maestro è una pretesa inaudita, anche se fosse possibile. Non è, certamente, un requisito normale, né facile da adempire. Per quanto sia vero che Gesù non impone di rinunciare a qualsiasi affetto, è insolito che esiga da coloro che lo seguono di essere amato da loro più dei loro cari; non si accontenta di essere una in più fra le persone stimate dai suoi, deve essere il primo e il principale fra queste. Il discepolo non può nemmeno amare se stesso più del suo Signore: la stessa vita del discepolo non vale tanto quanto l’amore per il suo maestro. E che si tratti di una condizione opzionale, rende più libera la decisione di seguirlo, ma non facilita minimamente la sequela.
Se restasse qualche dubbio, per tagliare alla radice qualsiasi scusa, aggiunge in seguito che non è degno di seguirlo chi non lo segua caricandosi della sua croce. Che seguire chi, sulla strada per Gerusalemme, cammina verso la sua croce, impone di seguirlo con la propria, lo aveva già ripetuto ai suoi varie volte (Lc 9,22-23.44). Non solo Gesù si aspetta dai suoi discepoli che gli siano fedeli quando arriverà il momento della sofferenza; chiede anche che percorrano questo cammino ciascuno con la propria croce. Non basta, perciò, che la croce di Gesù non ci provochi scandalo e diserzione; più precisamente, sarà suo compagno solo chi prende la propria croce. Seguire colui che sta per essere crocifisso richiede di portare la propria croce. Gesù non pretende dai suoi che lo seguano fino al Calvario, fino a che camminano con lui sopportando le loro croci. Chi segue qualcuno che sta per essere crocifisso non può uscirne indenne: sbarazzandosi del dolore che dà la croce non si cammina dietro Gesù.
Per quanto possa sembrarci dura, la pretesa continua ad essere logica: il discepolo non è più del suo maestro; il cristiano non può uscirne meglio di Cristo; la vita del discepolo deve seguire la via percorsa dal suo Signore. Chi prova repulsione per la croce e la rifiuta, chi non è disposto ad accettarla e non si carica del suo peso, può anche essere una bellissima persona, ma non arriverà ad essere un buon discepolo. Non è la croce di Cristo quella che bisogna portare: quella – piccola, come un giochino – la portiamo già tutti, senza che ci pesi; bisogna caricarsi della propria, quella che ci provoca tanto dolore perché è solo nostra. Gesù ha ridotto il suo magistero all’assunzione della croce; chi si carica di questo peso è suo discepolo.
Le condizioni sono così radicali che lo stesso Gesù invita chi pensa di seguirlo a prendersi del tempo e a pensarci senza fretta. Per questo aggiunge due brevi parabole che insistono sulla necessità di misurare le proprie forze prima di prendere la decisione di seguirlo. Proprio perché vuole una decisione cosciente da chi lo segue, non vuole che lo si segua alla cieca, bisogna valutare se si hanno sufficienti energie per essere all’altezza della pretesa. Non si può dire che Gesù non ci abbia avvisato. Bisogna prenderlo sul serio quando ci esorta a prenderci del tempo per pensare e verificare se realmente abbiamo la capacità sufficiente – come quella del costruttore – e le forze disponibili – come quelle del re. Nel cammino di discepolato Gesù ha stabilito due tappe: la prima, quella del « seguimi » iniziale, e la seconda, quella del « se qualcuno vuole seguirmi ». Fino alla prima tappa basterebbero l’attrazione personale e la curiosità che suscita la sua persona; nella seconda restano solo coloro che rimarranno senza niente pur di non perderlo. Dove mi trovo io? Continuo ad essere affascinato da Gesù per quello che dice e quello che fa? O seguo Gesù perché ho già lasciato quello che avevo? Posso dire che seguirlo mi sta costando qualcosa, che sto rinunciando a qualcuno per poter restare con lui? Saprò quanto per me è « prezioso » seguire Gesù quando saprò qual è il prezzo che devo pagare per seguirlo.
Non basta dunque la buona volontà, per tanta che se en abbia. Bisogna che siano sufficienti i mezzi e le forze. Gesù non vuole ingannare quanti lo seguono con false promesse né nascondendo loro la verità: desidera che i suoi discepoli, prima di decidere, conoscano le conseguenze e si assumano i rischi. Proprio perché pretenderà troppo da coloro che lo seguono, li vuole coscienti e liberi. È una delicatezza da parte sua, di cui dovremmo ringraziare, accogliendo il suo invito a pensarci con calma. Gesù non vuole discepoli che assomiglino all’uomo che ha cominciato a edificare senza avere la certezza che finirà l’opera; per non aver valutato prima se disponeva di tutto il necessario, rimase con la casa a metà; tutto ciò che ottenne fu apparire ridicolo agli occhi dei suoi conoscenti. Più grave il caso del re che condusse una guerra senza nemmeno immaginare che il suo avversario poteva arrivare meglio preparato alla battaglia; ne uscì sconfitto non perché non avesse forze sufficienti ma perché non aveva previsto che i suoi antagonisti ne avrebbero avute altrettante; perse il regno per non essere stato prudente e non aver sfruttato i mezzi che aveva. Gesù vorrebbe risparmiare ai suoi la vergogna che verrebbe loro lasciando le cose a metà e il disastro di non vincere la battaglia decisiva. Per questo ci avvisa che non sarà facile seguirlo; per questo vuole sapere se abbiamo tutto quello che serve per finire quello che iniziamo, quando ci lanciamo dietro di lui. Invece di accontentarsi che lo seguiamo, ci chiede se potremo seguirlo o, meglio ancora, insiste perché noi ce lo chiediamo.
Con i suoi avvertimenti ci lascia intendere che è cosciente di quanto estreme sono le sue pretese; prima che noi le proviamo sulla nostra pelle, ci permette di conoscerle e vedere se siamo in grado di accettarle. Gesù non vuole vedersi circondato da gente con molte illusioni e scarsa responsabilità, che sia stata entusiasmata dalle sue promesse senza avere accettato le sue condizioni; né vuole essere seguito da persone che, dopo, si sentano ingannate, per essersi impegnate con lui senza conoscere i costi della sequela. La sequela di Gesù è una questione importante e deve essere affrontata con serietà; quello che ci chiede non è poco e non è comodo, e Gesù ci ha dato un po’ di tempo per riflettere prima di accettarlo.
E davvero c’è bisogno di pensarci. Prima di chiederci di valutare se ne siamo capaci, aveva già chiesto ai suoi discepoli che non amassero nessuno più di lui: nessuna delle persone a noi più care deve essere più importante di lui. Dopo averci dato del tempo per riflettere, esige che non possediamo altro bene all’infuori di lui: l’alienazione da tutti i beni può sembrarci impossibile, ma è condizione ineludibile per la sequela. Così come non sopporta che condividiamo il nostro cuore con le persone amate, non permette che teniamo in considerazione cose buone che lo sono davvero ma che non fanno di lui il nostro maggior bene. Possiamo capire allora l’impegno affinché non prendiamo alla leggera la scelta della sequela, perché non sono leggere le sue imposizioni: dal discepolo Gesù si aspetta che non ami nessuno quanto lui, si aspetta di essere considerato il primo dei nostri affetti e il maggiore dei nostri beni. Alto prezzo per essere un semplice discepolo! Proprio per questo faremmo bene a pensarci un po’ di più.
Accompagnare Gesù impone la rinuncia ai beni più grandi di questa vita. Gesù non vuole essere spartito con altre passioni per quanto siano buone e naturali. Lui è il meglio – meglio della migliore fra le famiglie, più grande dei beni più grandi – che i suoi discepoli devono possedere. Solo chi è capace di rinunciare, sa che ama; e chi ama, rinuncia senza soffrire nel lasciare ciò che è buono, perché ottiene così qualcosa – qualcuno – di migliore. Con che capacità di rinuncia vivo la mia vita cristiana? Cristo è per me la ragione sufficiente per porre al secondo posto ciò che di buono ho nella mia vita?
Non si può negare che le condizioni che pone Gesù, quando rende opzionale la sequela, siano quasi inumane. Superata la sorpresa, il discepolo sa contare sul suo maestro come unico bene e viatico, se per lui non contano niente le altre cose e le altre persone. Bisognerà pensarci due volte, prima di dichiararsi disposti a seguirlo a tutti i costi. Ma non c’è dubbio che varrà la pena – e la croce – avere Gesù come compagno e guida nella vita. A chi lo segue Gesù chiede più amore di quello che si sente per la propria famiglia, più attaccamento di quello che si ha verso ciò che è buono e bello. Non chiede che odiamo coloro che amiamo e che non possediamo i beni che ci sono dati; solo – solo? – che non amiamo nessuno più di lui e non diamo per buono nulla che non sia lui.

JUAN JOSE BARTOLOME sdb,

1 SETTEMBRE 2013 – 22A DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO C – LECTIO DIVINA SU: LC 14,1.7-14

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1 SETTEMBRE 2013  | 22A DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO C  |  PROPOSTA DI LECTIO DIVINA

LECTIO DIVINA SU: LC 14,1.7-14

Sempre in cammino verso gli uomini, senza una casa propria in cui riposarsi, Gesù era solito andare ovunque lo invitassero. Era ospite di persone influenti così come di noti peccatori; non negava a nessuno la sua compagnia nè la parola di Dio. Oggi il passo del Vangelo ci ricorda una di queste occasioni; un sabato un importante fariseo l’aveva invitato a mangiare. La sua presenza in casa di un fariseo importante creò un certo scompiglio fra i presenti che non smettevano di osservarlo. Ben presto egli si accorse di come gli invitati cercavano i migliori posti liberi: tutti pensavano di essere degni di grande distinzione. Un comportamento così sconsiderato lo spinse ad impartire loro una lezione. In realtà Gesù non pretendeva insegnare loro la buona educazione, non era suo compito fare da maestro di buoni costumi. Voleva invece, mostrare loro l’inadeguatezza di un comportamento che cerca il proprio onore prima di quello di Dio e del rispetto del prossimo. E aggiunse anche un ammonimento: non si devono fare favori spinti dalla segreta illusione di essere ricompensati.

1 Un Sabato, Gesù entrò nella casa di uno dei capi dei farisei per mangiare, ed essi lo osservavano.
7 Notando che gli ospiti sceglievano i primi posti, propose loro questa parabola:
8 « Quando sei invitato ad un matrimonio, non sederti nel posto principale, non capiti che sia invitato un altro più importante di te; 9allora verrà chi ha invitato te e l’altro e ti dirà: ‘cedi il posto a lui. « Poi, umiliato, andrai a occupare l’ultimo posto. 10 Al contrario, quando ti invitano, vai a sederti nell’ultimo posto, in modo che quando arriva colui che ti ha invitato, ti dica, ‘Amico, vai più avanti ». Così sarai onorato di fronte a tutti i commensali. 11 Poiché chi si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato « .
12 E disse a colui che lo aveva invitato:
« Quando offri un pranzo o una cena, non chiamare i tuoi amici, né i tuoi fratelli, né i tuoi parenti, né i ricchi tuoi vicini, perché corrispondono invitandoti, e così sarai ripagato.
13 Quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; 14 sarai beato, perché non possono ripagarti; sarai pagato alla risurrezione dei giusti ».
 1. LEGGERE: capire quello che dice il testo facendo attenzione a come lo dice

Per la quinta volta Luca presenta Gesù ospite di una famiglia: il primo fu un pubblicano (Lc 5,29), poi un fariseo (Lc 7,36), dopo Marta e Maria (Lc 10,38) e un altro fariseo (Lc 11, 37; adesso uno dei farisei più in vista. L’ambiente familiare e il mangiare insieme sono « cattedra » di un Gesù vicino agli uomini, che se lo meritino o no. Richiama l’attenzione che si lasci invitare più dai farisei che dagli amici o dai discepoli. In questa scena il narratore fornisce una motivazione: sebbene l’invito fosse a mangiare, la vera intenzione era insidiarlo. Gesù non si trova tra amici ma non si spaventa nè li evita. Si mostra loro come è, maestro di vita.
Ed è un semplice dettaglio che ha osservato (Lc 14,7), un episodio di vita, che forse era diventato irrilevante per molti dalle tante volte in cui era stato ripetuto, ciò che gli dà il via per una lezione inaspettata, o meglio due. Gesù argomenta con la vita per correggere un comportamento che si ripete abitualmente. Anche se Luca presenta le parole d Gesù come una parabola, esse sono in realtà una doppia educazione di tipo sapienziale. La prima parte è rivolta a tutti gli invitati; la seconda solo a colui che li ha invitati.
Agli invitati si indica come comportarsi nella scelta dei posti (Lc 14,8-11). A chi invita come deve scegliere le persone (Lc 14,12-14). In entrambe si va contro a ciò che è visto some normale e sembra logico. Il primo insegnamento sembra una semplice lezione di cortesia, con una certa dose di calcolo e furbizia. Però la conclusione eleva il racconto a principio di vita: cercare la propria gloria è la via per rimanere senza di essa (Ez 21,31). Più esigente e inconsueta è la lezione che dà a chi invita: è un incredibile, e poco ragionevole, richiamo alla generosità e al disinteresse. Chi invita deve scegliere chi è povero, socialmente insignificante e insolvente. Chi fa il bene deve rinunciare ad aspettarselo. Coloro che danno senza speranza di essere ricompensati oggi possono sperare nella propria ricompensa nell’ultimo giorno.

 2. MEDITARE: APPLICARE ALLA VITA QUELLO CHE DICE IL TESTO!
Gesù insegnava sempre. La maggior parte delle volte sceglieva lui i suoi uditori, altre volte lo cercavano per ascoltarlo, e, come ricorda oggi il Vangelo, non sempre con buone intenzioni. Anche quando non era ben visto o preso in giro Gesù predicava il Vangelo. Chi porta il Vangelo e Dio nel cuore non spreca nessuna occasione per parlare del proprio « tesoro ». Non ha bisogno di stare fra i suoi, ben visto, per essere quello che è stato chiamato ad essere e fare quello per cui è stato inviato. Non c’è bisogno oggi di evangelizzatori che come Gesù, parlino di Dio dove non si parla di Lui? Dio merita di esere annunciato anche dove il suo rappresentante non è ospite gradito.
E per trovare temi attraverso cui parlare di Dio a gente non ben disposta, non importa conoscere o fare analisi della situazione; basterà osservare come ci si comporta. Nel comportamento dell’ascoltatore del Vangelo, l’evangelista perspicace scopre ciò che deve annunciare come salvezza, così che, a chi manca Dio, lascia intravedere il vuoto e la solitudine in cui vive. Non sarà che non fissiamo molto il nostro sguardo sul nostro mondo, che non lo osserviamo da vicino e così non ci è amico e per questo ci mancano motivi per parlare di Dio? La nostra negligenza e noncuranza personale sta impedendo agli altri di sentirsi contemplati da Dio e amati da Lui.
Ebbene, invitato a pranzo, Gesù osserva il comportamento degli invitati e da quello prende spunto per il suo insegnamento; non pretende di tenere una lezione di galateo, ma ricavare lo spunto per esporre le norme che devono essere alla base delle relazioni fra gli uomini. Qualcosa di così semplice, e spesso ricorrente, come il desiderio evidente di occupare i primi posti ad un banchetto offrì a Gesù l’occasione per evangelizzare. Non ebbe bsogno di motivi migliori. A chi ha voglia di evangelizzare non mancheranno mai le occasioni. L’invitato non deve considerarsi degno dell’invito, visto che non deve essere mai reso; nemmeno deve cercare posti che non gli siano stati assegnati perchè non si è meritato l’ospitalità ricevuta; l’invito è un dono immeritato, nessun salario è dovuto. Colui che invita non deve calcolare se il suo invito sarà un giorno ricambiato dai suoi ospiti; l’invito dev’essere un’offerta gratuita, non un investimento a lunga scadenza; invitando chi non può pagare sarà Dio incaricato a risarcirlo. In entrambe i casi, il comportamento di Dio, che invita tutti – e senza che nessuno lo meriti – e che in più invita senza speranza che possano ricompensarlo è la ragione del comportamento elogiato da Gesù: secondo lui gli uomini devono imitare il comportamento di Dio nelle cose ordinarie della vita.
Bisogna ammirare il valore di Gesù che si mette ad insegnare a chi non glielo aveva chiesto. Anche se l’occasione non era la più propizia, attorniato com’era di persone che non smettevano di osservarlo, davanti ad una scena così triste, reagisce sicuro di se stesso e mostra la stoltezza di chi pensa solo ad accumulare onori che ha bisogno di sottrarre al proprio prossimo. Noi, fossimo stati invitati, probabilmente avremmo fatto finta di non vedere o provato a giustificare un simile comportamento sempre che non fossimo incappati nello stesso modo di fare. Se Gesù non lascia passare l’accaduto è perchè vede in esso qualcosa di più serio che non una semplice corsa per ottenere privilegi a qualunque costo. E l’avvertimento che fa loro, va molto al di là di ciò che ha osservato: coloro che si credono più degni possono smarrire Dio. Fare il bene a chi lo può contraccambiare non è un buon affare, infatti, ci fa perdere il banchetto nel regno.
La parabola, sebbene sembri alludere a ciò che sta vivendo Gesù in casa dei suoi ospiti, in realtà si riferisce alla relazione del credente con Dio. Potrebbe sembrare che Gesù dia utili consigli agli invitati e ai padroni di casa; in realtà sta parlando di Dio e del suo volere. Il comportamento di Dio che invita tutti, senza che lo meritino e che in più invita senza speranza che possano ricompensarlo, è la ragione del comportamento elogiato da Gesù. Secondo lui gli uomini devono imitare il comportamento di Dio nella loro vita quotidiana. Come il figlio imita il padre, così il credente deve conoscere e imitare le scelte di Dio. Il fatto osservato serve quindi come scusa per correggere la tentazione di credersi migliori, più degni, solo perchè ci sono altri peggiori, meno onorati. Non conviene che davanti a Dio i buoni si distinguano per ambire posti migliori di quelli che hanno ricevuto. Essere stati invitati e già un onore sufficiente; avere Dio come padrone di casa basta già per vivere soddisfatti. Che Dio abbia pensato a ciascuno, dandogli un posto alla sua festa, deve bastare per placare il nostro bisogno di gloria e potere. Davanti a Dio noi siamo buoni per il posto che occupiamo non per il bene che facciamo o che meritiamo; è Dio che ci fa buoni invitandoci a godere della sua compagnia e della sua mensa. Desiderare altri beni significa rendere male ciò che è già concesso: cercare posti migliori significa considerare come non buoni quelli che Dio ci ha assegnato.
Chi non merita l’ospitalità che riceve non deve cercare posti che non gli siano stati assegnati. L’invito è un dono immeritato, non un compenso dovuto. Quando riceviamo un dono e lo consideriamo dovuto, perdiamo l’occasione di sentirci grati e di rispondere riconoscenti. Cercarsi il posto nella vita che uno pensa di meritare significa vivere senza riconoscere la grazia di essere invitati. Convivere con altri richiede vivere con umiltà, accettando ciò che uno è, conformarsi al posto che gli spetta, riservando i restanti per gli altri. La chiesa oggi, le nostre comunità sempre, hanno bisogno di cristiani che si accontentino di occupare quello che si offre loro senza desiderare ciò che è destinato ad altri. Senza umiltà non è possibile sperimentare la gratuità e il vivere in comune. Essere umile significa accettare di buon grado ciò che Dio, attraverso la vita, pensa di darci; desiderare qualcosa di più ci rende infelici oggi, e domani rimarremo umiliati.
Non accontentarsi di ciò che Dio ha disposto per noi sarebbe inoltre fargli un affronto; come l’invitato sconsiderato che non si stanca fino a che non migliora la propria posizione, lascia così ai posti peggiori colui che l’ha invitato; trattiamo Dio così quando non contenti dell’invito che ci offre continuiamo a cercare privilegi, forse più invitanti perchè onorevoli ma che Dio non pensò adeguati abbastanza per concederli a noi. Il rischio che corrono coloro che si credono buoni, è pensare che Dio non è stato abbastanza buono con loro o che meritano di più; finiranno, come già li ha avvertiti Gesù, per cadere nel ridicolo di vedersi privati di quanto hanno usurpato. Quello che il credente riceve da Dio è già buono e abbondante; ambire ad onorificenze maggiori, posti migliori, maggiore dignità significa cercare di fare un torto a Dio e a coloro che condividono con noi i loro doni e la loro copagnia.
Chi si riconosce amato da Dio è libero dalla vanagloria e dall’invidia. Chi sa che Dio lo stima, non ha bisogno di trionfi e riconoscimenti per sentirsi stimato sopra tutti e apprezzato senza merito; potrà rinunciare alla ricerca di onori che dovrebbe ottenere negandoli al suo prossimo e non gli comporterà fatica sopportare che altri ricevano onori che lui non ha. Al credente, per non ambire a privilegi maggiori e fortune migliori, basta essere sicuro dell’amore che Dio ha per lui. Probabilmente l’insoddisfazione con cui viviamo la nostra vita cristiana, il logorio che ci causa vivere con persone che ottengono di più o vivono meglio nascono dalla scarsa consapevolezza che abbiamo dell’amore che Dio ci offre. Se avessimo fede in lui, ci avanzerebbe tutto ciò che non è Lui e che a Lui conduce.
In casa del fariseo Gesù non limita il suo insegnamento ad alcuni invitati noncuranti; senza ricorrere a parabole, affinchè sia più chiara la sua posizione, avverte il padrone di casa del pericolo di invitare coloro che possono ricambiare. Contro ogni logica, e in contraddizione con quello che siamo soliti fare, Gesù pensa che l’invito debba essere un’offerta gratuita, non un investimento a lungo termine; invitando chi non può pagare, Dio si prende la responsabilità di ricompensare; colui che dà a chi non può restituire, ha in Dio l’incaricato di farlo. Non sembra essere una norma di comportamento ragionevole regalare a chi, oltre a non meritarlo, non è oggettivamente in condizioni da poter ricambiare il favore; fare il bene a chi non potrà essere buono con noi è uno spreco senza senso. Non è questo ciò che pensa Gesù: la gratitudine più assoluta deve regnare nelle relazioni fra le persone che attendono il regno di Dio. La certezza che sta per arrivare li libera dal desiderio di avere riconoscimenti: il bene fatto intenzionalmente sapendo che non si ricava niente per questo, il dono che si fa libero da interessi e senza necessità di restituzione, fa bene a chi lo fa e lo fa bene. E promette Gesù, il bene ben fatto, un giorno avrà ricompensa, nel giorno della risurrezione dei giusti. Il Dio buono è incapace di dimenticare chi ha fatto il bene per il bene, gratuitamente.
La logica di Gesù non può essere più evidente, ma le esigenze che ne derivano sono del tutto inconsuete. È normale che chi è stato invitato una volta si senta obbligato ad invitare a sua volta; lo facciamo tutti; non farlo sarebbe cattiva educazione quando non ingratitudine. A nessuno di noi invece passerebbe per la testa invitare sconosciuti, o peggio mendicanti malati e disabili; questo è precisamente ciò che Gesù vuole far capire ai suoi ospiti: se inviti chi poi ricambierà di tasca propria, il debito della sua bontà non perdura, la sua generosità è già stata ricompensata; solo quando non ci può essere restituito il bene compiuto ingrandiamo il tesoro nel regno dei cieli. Gesù vuole che chi fa il bene sappia a chi lo fa; i poveri, che non hanno nulla, gli invalidi che non posso disporre di quello che hanno devono essere preferiti ai familiari e agli amici da cui si spera sempre uguale trattamento e stessa generosità.
Una simile norma di comportamento, messa in pratica con rigore, metterebbe in pericolo la vita sociale e la pace familiare: qualcosa che Gesù certamente non promuove. Non vuole riempire di sconosciuti e di bisognosi le nostre case nei momenti di maggiore intimità o nei loro giorni migliori. Però questo non significa che le sue parole non siano una regola di vita cristiana. Quello che vuole vedere nei suoi ospiti è ciò che vuole trovare nei suoi discepoli: generosità senza calcoli e altruismo disinteressato. Fare il bene non può diventare un investimento a breve termine; la bontà non si elargisce perchè produca benefici sicuri; cercare riconoscimento e ricompense perchè si è stati buoni significherebbe perdere la possibilità di conoscere la bontà di Dio. Chi è buono perchè lo riconoscano o perchè lo paghino perde la ricompensa che Dio ha preparato per i buoni.
Fare il bene senza rendere debitori coloro a cui lo facciamo è ciò che Gesù si aspetta dai suoi. Il cristiano non calcola il bene che fa in funzione dei beni che potrà aspettarsi; investire in bontà per lui è sempre a fondo perduto. E affinchè non ci siano nè tentazione di contare su una ricompensa, per minima che sia, dovremo essere buoni con chi non può esserlo con noi, non perchè sono cattivi ma perchè non hanno niente di buono. Non assomiglia a Gesù la bontà che non sia gratuita, i beni che non rinunciano ad essere divisi. E non lo sarà nemmeno per noi; visto che solo il bene che rinuncia ad essere ricambiato è il bene che un giorno ci farà meritare Dio e i suoi beni per sempre. Non soddisfatto di chiederci di accontentarci di ciò che abbiamo ricevuto, Gesù esige da noi che diamo senza aspettarci un riconoscimento. Chi ha detto che essere discepoli di Gesù è un passatempo facile?

JUAN JOSE BARTOLOME sdb

Publié dans:LECTIO |on 30 août, 2013 |Pas de commentaires »

25 AGOSTO 2013 | 21A DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO C – (OMELIA) LECTIO DIVINA SU: LC 13,22-30

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 25 AGOSTO 2013  | 21A DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO C  |  PROPOSTA DI LECTIO DIVINA

LECTIO DIVINA SU: LC 13,22-30

Non credo che oggi domanderemmo a Gesù, di confrontarci con lui, sul numero di coloro che si salvano, come fece quello sconosciuto che lo incontrò verso Gerusalemme. Bisogna riconoscere che oggi la salvezza non è un tema che interessa, nemmeno ai cristiani. E non si capiscono bene le cause di questa situazione. Chissà, impegnati come siamo nel liberarci dei piccoli problemi che la vita quotidiana ci propone, probabilmente abbiamo perso di vista che, benché riusciamo a risolverli tutti, ci manca l’affrontare il più decisivo, l’unico che merita tutta la nostra attenzione, perché da esso dipende la nostra felicità per sempre. Potrebbe anche essere che, credendoci già buoni, solo per non essere notoriamente cattivi, che diamo per scontata la ricompensa dovuta ai nostri sforzi. È già una prova sufficiente vivere questa vita senza contare, con l’altra.
Non è raro che alcuni, certamente con la migliore intenzione, pensino di non doversi preoccupare troppo del nostro destino finale, dato che Dio è sufficientemente buono per scusarci quando noi non riusciamo ad esserlo. Non sono pochi quelli che oggi, per motivi diversi, danno per scontata la loro salvezza, perché, semplicemente, se la meritano…; almeno lo credono.

In quel tempo, 22Gesù, in viaggio verso Gerusalemme, passava per città e villaggi, insegnando.
23 Un tale gli chiese « Signore, sono pochi quelli che si salvano »?
Gesù gli disse:
24 « Sforzatevi di entrare per la porta stretta. Io vi dico che molti cercheranno di entrare ma non potranno.
25 Quando il padrone di casa si alza e chiude la porta, rimarrete fuori dalla porta a chiamare, dicendo: « Signore, aprici! » Ma egli vi dirà: « Io non so chi siate ». 26 Allora direte: ‘Abbiamo mangiato e bevuto con te, e tu hai insegnato nelle nostre piazze ». 27 Ma egli risponderà: « Io non so chi voi siate lontano da me, maledetti ». 28 E sarà pianto e stridore di denti quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio, e voi vi vedrete, scacciati. 29E Verranno da oriente e da occidente, da nord e sud, e siederanno a mensa nel regno di Dio.
30 Badate: gli ultimi saranno primi, e i primi saranno ultimi ».
 1. LEGGERE: capire quello che dice il testo facendo attenzione a come lo dice

In cammino verso Gerusalemme, insegnando in ogni luogo in cui passa, Gesù è interpellato da un uditore anonimo: su quanti siano, se non sono molti, quelli che si salvano, (Lc 13,23). Luca approfitta di questo scenario, un Gesù di passaggio, un Gesù che insegna sempre, una domanda profondamente ‘religiosa’ per unire tre sentenze di Gesù sull’entrata nel regno (Lc 13,24.25-29.30). Bisogna notare che alla questione più teorica della salvezza risponde con un’immagine più accessibile della « porta stretta » e del « sedersi a tavola. »
A chi s’interessa al numero dei salvati risponde esortandolo a preoccuparsi della propria salvezza (Lc 13,23). Non è tanto facile come si potrebbe pensare. Decisivo non è se sono molti o pochi quelli che si salveranno, bensì se uno sta nel numero dei salvati. La propria salvezza non è un tema da discutere, bensì compito da affrontare. E bisognerà tenere in conto, avverte Gesù, che non la ottiene solo chi ci prova.
Spiegandosi meglio, Gesù ricorre ad una parabola nella quale partecipano coloro che lo ascoltano (Lc 13,25 -29). A chi la da per sicura, dato il grado di intimità raggiuto con Gesù, ricorda loro che la salvezza non dipende da quello che essi si credono, bensì da quello che vuole Dio. Convivere oggi con Cristo non avalla un futuro in sua compagnia. Per chi in realtà vuole entrare, ‘rimanere fuori’, è una possibilità da considerare.
Perché non entra chi lo desidera, ma chi è riconosciuto ed accolto dal suo Signore. Finché dipende da « Un altro », la nostra salvezza non è assicurata. E la cosa peggiore, la cosa più spiacevole è che altri più lontani, meno privilegiati, entreranno per primi.
Che gli ultimi precedano i primi deve essere un forte avvertimento a quanti si sentono troppo in regola con Dio (Lc 13,30). Chi è più lontano oggi dalla meta, ha migliori probabilità di arrivare a destinazione, serve a poco basarsi su un principio. Nessuno può essere sicuro del trionfo, se neanche i più vicini a lui devono illudersi di ottenerlo. Gesù non rende facili le cose ai buoni. E nessuno è troppo buono per, automaticamente, meritarsi il buono di Dio.

 2. MEDITARE: applicare alla vita quello che dice il testo!
Al tempo di Gesù la gente era certamente meno colta, meno fortunata. Viveva meno ed in condizioni peggiori di oggi. Per questo, probabilmente, percepivano poco il valore di questa vita e si informavano molto sull’altra. Poiché erano convinti che essi non potevano liberarsi da soli dei propri mali, erano più preoccupati di una salvezza definitiva che solo Dio poteva dar loro.
Siccome avevano poco da perdere in questa vita, li inquietava più potere perdersi anche nell’altra; riuscivano a vivere senza tante cose che noi abbiamo, ma non rinunciavano a vivere per sempre senza Dio.
Probabilmente, oggi non sono molti coloro che si preoccupano per la salvezza di tutti. Neanche gli autentici credenti danno per certo quel dono che non sarà mai meritato. Ci farebbe bene domandarci, più spesso e con maggior serietà, se saremo un giorno tra i salvati; vivremmo, senza dubbio, meglio la fragile vita che abbiamo.
Per quel motivo, richiama l’attenzione che Gesù non rispondesse ad una domanda ‘teologica’ tanto importante: dato che solo Dio salva, salverà molti o pochi? Più importante ancora che soddisfare la curiosità del suo interlocutore gli sembrò, senza dubbio, avvisarlo sul pericolo che correva chi non si sforzava: decisivo non è sapere il numero di coloro che si salveranno bensì se io sarò tra essi.
Con la sua risposta, invece di risolvere i dubbi, Gesù volle accrescere l’ansietà nel suo interlocutore al quale, curiosamente, importava più il numero dai salvati che la propria salvezza. Benché Gesù gli avesse garantito che la maggioranza si sarebbe salvata, ancora non gli ha assicurato la sua salvezza. Non bisogna fare della propria salvezza, una questione accademica, un argomento su cui discutere ed intrattenersi. La salvezza, almeno per Gesù, era un compito di tutta la vita. Se ha detto chiaramente qualcosa è che la propria salvezza, oltre che incerta, è estremamente difficile.
Sono i requisiti non la rendono facile: la porta è stretta, si richiede sforzo e, soprattutto, non dipende dalla voglia di entrare, bensì di essere accolti dal Signore. Se la via di accesso non è tanto transitabile come sarebbe desiderabile, se né l’impegno né il lavoro personale sono sufficienti, « entrare nel regno » sarà sempre grazia concessa, non merito guadagnato. Se non dipende dal mio desiderio né dal mio sforzo essere riconosciuto ed accolto finalmente da Dio, tutto quello che faccio con Lui e per Lui non me lo merita: Egli sarà sempre per me sorpresa e dono, mai salario meritato.
Se né l’essere stati suoi discepoli, essendo stati da lui istruiti mentre si conviveva con lui, mi assicura di non « rimanere fuori », senza lui, per sempre, perché non mi domando se sarò salvato? Perché do per certo quello che non dipende da me ed è solo grazia? Che cosa potrò fare oggi per meritare una grazia che non è sicura nemmeno per coloro che ascoltarono Gesù e si sedettero a tavola con lui?
Per approfondire ciò, Gesù ricorre al linguaggio simbolico; non trova migliore modo per parlare di Dio e dell’altra vita. Chi desidera entrare in qualche posto, deve sforzarsi molto di più, quanto meno ampio sia l’accesso. Gesù non dice che la porta che conduce a Dio sia stretta; invita, piuttosto, a scegliere l’accesso meno ampio per arrivare a lui.
In realtà è un modo strano di incoraggiare chi lo ascolta! Ma, almeno, non c’inganna con false promesse. Quello che più desideriamo ha una via di accesso angusta, rende difficoltosa la strada; arrivati alla meta, tanto più la godremo quanto meno comodo sia stato il raggiungerla.
Sembra che Dio voglia che lo apprezziamo prima di darcela per sempre, rendendoci laborioso l’incontro con Lui; è come se Dio volesse farci meritare la pena che soffriamo seguendolo. In realtà, quello che Dio vuole è alleviare il dispiacere che sentiamo ogni volta che lo cerchiamo: essendoci Lui dietro la porta, ci preoccupa se è stretta? Più ancora, se realmente vogliamo essere sicuri che ci sta aspettando dopo questa vita, non fuggiamo le difficoltà di questa vita. Lo disse Gesù: se non tentate di entrare per la porta stretta, non sarete capaci di entrare. La selezione è nelle nostre mani.
Con la parabola del padrone che non riconosce chi chiama da fuori, ricorda a quanti danno per scontato la benevolenza divina che non dovrebbero farsi troppe illusioni: non per il fatto di essere buono, Dio è ignorante. Quelli che rimasero fuori quando il signore della casa chiuse la porta non gli erano estranei, furono considerati estranei; erano stati amici e compagni, ma non arrivarono ad essere suoi ospiti; mangiarono e vissero vicino al loro amico, ma non li ha ammessi nella sua casa. E non è che facessero cose brutte; l’unica cosa che non fecero è essere vicino a lui nel momento in cui chiudeva la sua casa.
A chi riuscì ad entrare non importò che la porta fosse stretta, purché rimanesse ancora aperta; chi rimase fuori della casa dell’amico – e del suo cuore -, non si lamentò che la cosa stretta era la porta, bensì che era già chiusa. La cosa unica che sa dire il signore della casa è che non riconosce come amico chi è rimasto fuori della sua casa. La lezione è tanto evidente che nemmeno Gesù la commenta. Non ci fa nessun bene illuderci che le buone relazioni con Dio ci assicurino trovarci un giorno con Lui e avere come nostra casa il cielo. Convivere oggi con Gesù non garantisce un futuro in sua compagnia. Dare per sicura l’amicizia con Dio è il modo migliore per incominciare a perderla. Chi era intimo col suo signore come con un amico, vedrà che altri sono preferiti; un’amicizia che può perdersi, è un’amicizia preziosa; è meglio non abbandonare una casa alla quale è possibile non ritornare. Se è possibile che Dio non ci riconosca per sempre, solo perché lo abbiamo lasciato per un momento, dobbiamo stare vicino a Lui in tutti i momenti della nostra vita. Qualunque sacrificio varrà la pena, se vale la vita eterna nella sua casa.
Ed affinché non rimanesse ombra di dubbio, Gesù conclude la sua esortazione con un avvertimento tanto insolito come ingiusto. Gli ultimi saranno primi, quelli sottovalutati i migliori, gli sconosciuti, intimi nel regno di Dio. Coloro che sono più lontani dalla meta hanno migliori probabilità di arrivare alla destinazione, a poco serve stare ben saldi su un principio; nessuno può essere sicuro del trionfo, se neanche i più vicini a lui possono credere che l’otterranno. Gesù non rende le cose facili ai buoni. E nessuno è troppo buono per, automaticamente, meritare Dio. In fondo è di questo che si tratta. Non piacque sicuramente ai suoi uditori che Gesù facesse loro notare che, altri, venuti da lontano, si sarebbero seduti insieme ai patriarchi e ai profeti di Israele nel banchetto del regno. Per gli uditori dell’evangelista, questo grave avvertimento di Gesù era una triste, ed innegabile, realtà: erano stati accolti nel regno quelli che meno se lo aspettavano.
E coloro che pensavano di averne diritto, con tutta una storia di salvezza alle spalle, furono lasciati fuori. Per noi oggi, ‘cristiani di vecchia data’, la sentenza di Gesù è, contemporaneamente, grave avvertenza e semplice constatazione: non ci salveremo perché vogliamo, bensì perché qualcuno lo vuole; è grazia del Signore, bisognerà vivere sentendosi premiati ed avvicinandoci a Lui. Se non basta la convivenza come discepolo né l’intimità di commensale per ‘guadagnarselo’, il nostro sforzo non potrà conoscere limite né la speranza di ottenerla. Finché non ci lasceranno entrare per la porta stretta, non saremo in salvo. Abbiamo creduto che, per credere nella bontà di Dio non è necessario essere buoni noi; ci siamo illusi che Dio farà anche la parte che ci corrisponde, quando l’abbiamo lasciata incompiuta; ci stiamo perdonando le nostre mancanze prima che Dio lo faccia ed evitiamo di riconoscerlo. La salvezza, e Dio, ci aspettano dietro una porta angusta, in una situazione che opprime, dopo una disgrazia inaspettata. Cercare Dio tra le cose facili e passeggere suppone un errore senza speranza. Gesù prevenne i suoi uditori ebrei e, apparentemente, non ebbe molto successo. Con una sentenza finale, tanto proverbiale quanto enigmatica, Gesù risolve il problema. Non si tratta di sentirsi primo o ultimo, perché da tutti e due i gruppi usciranno i salvati. Si tratta, assicura Gesù, che non esiste preferenza né posto privilegiato: quello che è tra i primi, non è sicuro di entrare; quello che è tra gli ultimi, potrà essere ricevuto. Non è quello che siamo noi, né dove ci troviamo, quello che assicura la nostra salvezza, bensì quello che Dio vuole essere per noi e dove Egli ci vuole trovare. Vivere oggi nella sua grazia è la migliore maniera, la più utile, per ingraziarcelo per sempre e perché ci lasci entrare nel suo regno e cenare alla sua mensa.
Gesù ci ha avvisato oggi. Avrà più fortuna ora che allora il suo avviso? Sarebbe meglio fosse così. È troppo quello che ci giochiamo pensando che l’indubbia bontà di Dio non ci obbliga ad essere migliori. Un Dio che si può perdere tanto facilmente, è un Dio che bisogna curare meglio, è un Dio al quale bisogna badare di più. Non ha senso rimanere fuori, e per sempre, dalla sua presenza, per non essere stati sempre vicino a Lui; sarebbe un deplorevole errore, tanto deplorevole da deplorarlo per tutta un’eternità, coloro che, essendo stati tanto tempo i primi, arrivino ad essere ultimi nel regno di Dio. Dipende da noi.

JUAN JOSE BARTOLOME sdb,

23 giugno 2013 | 12a Domenica del Tempo Ordinario C : LECTIO DIVINA SU: LC 9,18-24

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23 giugno 2013  | 12a Domenica del Tempo Ordinario C  |  Proposta di Lectio Divina

LECTIO DIVINA SU: LC 9,18-24

E’ abituale in Luca fare precedere da tempi di preghiera i momenti decisivi del ministero di Gesù. Questa volta Gesù chiede ai suoi discepoli qualcosa riguardo la sua identità, obbligandoli a prendere posizione in pubblico; contrasta questo improvviso interesse di Gesù per l’opinione pubblica con l’abituale disinteresse per ciò che possono pensare gli altri: vuole che i suoi si sentano interpellati da Lui doppiamente, perché è colui che chiede e perché chiede loro sulla sua persona.
Ottenuta una risposta, in parte soddisfacente, lui può presentarsi come vuole essere compreso. E dopo la confessione di Pietro, annuncia loro che deve morire per essere colui che loro dicono che sia; i discepoli non pensavano che questo potesse accadere; corrono sempre il rischio di immaginare il loro Signore come meglio a loro conviene, come sembra loro più logico. Chi ha voglia di seguirlo deve sapere che non ne uscirà incolume: lo aspetta una croce. La scena annunzia il cammino che pensa di percorrere Gesù e indica, con più chiarezza, cosa deve percorrere il discepolo che desidera essere fedele: deve condividere la preghiera e l’intimità con Gesù per conoscerlo veramente; però dovrà accettare la croce, quella di Gesù e la propria, per giungere alla sicurezza di averlo conosciuto personalmente

18 Una volta che Gesù pregava da solo, in presenza dei suoi discepoli, disse loro:
« Chi dice la gente che io sia? »
19 GlI risposero
« Alcuni Giovanni il Battista, altri Elia, altri dicono che è in vita uno degli antichi profeti ».
20 Ed Egli disse loro: « E voi, chi dite che io sia? »
Pietro rispose e disse: – « Il Cristo di Dio ».
21 E proibì di non dirlo a nessuno. 22 E aggiunse:
« Il Figlio dell’uomo deve soffrire molto, essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, e venire ucciso e risuscitare il terzo giorno ».
23 E, rivolgendosi a tutti, disse:
« Chi vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. 24 Perché chi vorrà salvare la propria vita la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà ».
 1. LEGGERE: capire quello che dice il testo facendo attenzione a come lo dice

Prima di prendere la decisione di andare a Gerusalemme, « una volta giunto il tempo della sua partenza da questo mondo » (Lc 9,51), Gesù si dedicò in modo più intenso a preparare i suoi discepoli (Lc 9, 1-50): una prima e riuscita missione dei dodici (Lc 9, 1-6) aveva suscitato perplessità in Erode (Lc 9, 7 -9) e un enorme desiderio nella folla di seguire Gesù (Lc 9, 10) che appofittò dell’occasione per alimentarli con la sua parola (Lc 9,11) e con un pane miracolosamente moltiplicato (Lc 9, 12-17). Da solo con i suoi discepoli, Gesù li sottomette ad un interrogatorio: vuole sapere cosa si dice di Lui (Lc 9,18) e che cosa pensano loro (Lc 9,20): La sua permanenza in Galilea sta giungendo alla fine; l’esame ai suoi più intimi ha per obiettivo quello di prendere coscienza del risultato della sua missione. E’ ovvia la trascendenza che Luca dà all’episodio per il modo in cui lo inizia: Gesù era in preghiera, accompagnato dai suoi discepoli, quando li interrrogò. A differenza di Marco e Matteo che ambientano le domande di Gesù a Cesarea di Filippo (Mc 8,27; Mt 16, 13), Luca li contestualizza in un momento di solitudine e di preghiera.
Il terzo evangelista è solito legare i momenti critici del ministero di Gesù con un tempo di preghiera (Lc 3,21; 5,16; 6,12; 9,18,28-29; 11,2; 22,41.44-45; 23,46). Non è indifferente che Gesù « interroghi » i suoi discepoli mentre parlava con Dio: chiedere non è stata una semplice curiosità di conoscere cosa si pensava su di lui, ma un atto di pietà nei confronti di Dio. L’esame si è ridotto a due domande: ciò che pensava la gente (Lc 9,18) e ciò che dicevano i discepoli su di lui (Lc 9,20).
L’ordine delle domande non è casuale. I discepoli devono « sapere » ciò che si racconta sul maestro. E ciò che dicono trasmette bene la confusione che la maniera di agire di Gesù aveva seminato tra il popolo: grandi aspettative, però non sicure del tutto. Il popolo vedeva Gesù a partire dalle figure conosciute del loro presente o del passato del popolo (Lc 9,19). Solo Pietro, rispondendo a nome degli altri, confessò la novità: vide Gesù secondo Dio, come suo Messia (Lc 9,20).
Sorprende la proibizione conclusiva di testimoniare l’autentica fede proclamata per la prima volta da un discepolo se viene trascurato, quanto Gesù dice in seguito.
Pietro indovinò nel confessare che Gesù era il Messia, però non sapeva ancora come lo sarebbe stato. E pertanto, doveva « tacere » per ora la sua fede. Perché la nostra fede su Gesù sia autentica bisogna accettare il progetto che Dio ha su di lui. Chi non pensa come Dio – che il Messia deve soffrire – non può confessare Gesù come Messia (Lc 9,22).
E questo non è tutto! Luca annota che l’ultimo avvertimento Gesù lo diede a tutti quelli che lo ascoltavano non soltanto ai suoi seguaci (Lc 9, 23-24). E qui fa, per la prima volta, facoltativa la sequela (se qualcuno vuole…) perché farà le sue condizioni quasi inassumibili (rinneghi se stesso e prenda la sua croce).
La croce, dalla quale non si salva né il Messia di Dio, né i suoi seguaci, non è di libera scelta: è la garanzia che Maestro e discepoli appartengono a Dio.

 2. MEDITARE: applicare alla vita quello che dice il testo!
I discepoli furono, sicuramente, i primi nel sorprendersi di fronte alla doppia domanda che Gesù aveva appena fatto. Avevano camminato con Lui percorrendo tuta la Galilea, assistendo ai suoi miracoli, ascoltando i suoi discorsi, condividendo il suo lavoro e il suo riposo. Dovevano per forza conoscerlo bene; tanto tempo di convivenza li aveva fatto familiarizzare con Lui e, certamente, si erano fatti una idea sulla sua persona e le sue intenzioni; non invano lo seguivano ovunque e avevano lasciato per Lui ogni cosa di quanto possedevano. Erano loro che si erano interessati di Gesù, che lo interrogavano sulle sue idee e sulla sua dottrina; non pensavano che un giorno Gesù si potesse interessare di sapere l’opinione che circolava tra la gente sulla sua persona ne, ancora meno, che gli interessasse conoscere l’opinione dei suoi discepoli.
Già è curioso che Gesù domandasse ai discepoli che cosa la gente pensava di Lui. Loro che lo accompagnavano in qualunque posto, avevano la stessa possibilità di Gesù di sapere cosa la gente pensava.
Qualche ragione dovette averla Gesù per fare loro questa domanda: chi è suo discepolo deve interessarsi di quanto pensa la gente attorno a Lui del suo Signore; il cristiano non può andare per la sua vita sapendo molto bene chi è e senza interessarsi di che cosa pensano gli altri di Cristo. L’interesse personale di Gesù, il saperlo Inviato di Dio, dovrebbe portarci a chiederci se anche gli altri condividono la nostra conoscenza e l’amore che abbiamo verso di Lui; chi è entusiasmato del suo maestro, è il suo migliore propagandista; chi è discepolo buono desidera che il mondo diventi discepolo.
Forse il nostro disinteresse nel sapere se gli altri condividono le nostre idee su Gesù e il nostro impegno con Lui, non è altro che effetto del poco apprezzamento che abbiamo di Lui e della nostra poca conoscenza: se non ci siamo fatti una opinione su Gesù, logicamente non ci interesserà molto che l’abbiano gli altri; se non lo amiamo veramente, non ci farà soffrire l’indifferenza che regna attorno a noi. Per suscitare interesse bisogna essere interessati.
Se vogliamo sentirci discepoli di Gesù oggi, dovremmo sentire la sua domanda. Non dimentichiamo che Gesù non chiese l’opinione a chi l’aveva, alla gente, ma a chi aveva al suo fianco, ai discepoli. Con questo dava loro una lezione magistrale, che continua ad essere attuale per noi. Interessarsi di Lui senza interessarsi di ciò che su di Lui pensano gli altri non è degno di discepoli: finché ci interessiamo di ciò che gli altri dicono di Cristo, continueremo ad interessarci di Lui, della sua persona e la sua dottrina; è l’indifferenza del discepolo la causa del perché il maestro è messo a tacere nel nostro mondo. Se il nostro modo di vivere, più che le nostre parole, riescono a mettere in discussione i modi e le mode con le quali vivono i nostri contemporanei e fanno loro porre domande su chi ci fa vivere in questo modo, Cristo Gesù, torneremmo ad essere i discepoli che il maestro vuole accanto a se.
Però non basta conoscere l’opinione della gente: i discepoli storici di Gesù dovettero un giorno rispondere personalmente davanti a Lui. E un giorno, prima o poi, forse lo abbiamo già fatto qualche volta e sicuramente lo dovremo fare altre volte, dovremo rispondere anche noi alla domanda: E voi chi dite che io sia? Chi sono io per voi? Questa domanda, e non la convivenza di molti giorni, è quella che se risponderemo come fece Pietro, ci legittimerà come discepoli autentici di Gesù. Ogni cristiano che è stato chiamato da Gesù, deve dire a se stesso, dirlo al mondo, dirlo a Lui chi è Cristo Gesù, se gli importa quanto lo ama, quanto gli manca. Senza rispondere a questa domanda tanto personale, tanto impegnativa, il discepolo di Gesù non si conferma come tale, ieri come oggi.
Però una simile domanda non è una prova, ma una grande opportunità. Poiché in essa il discepolo apprezza che il suo maestro lo prende sul serio, lo consideri. Il cristiano che si vede richiesta la sua opinione dallo stesso Dio, riconosce che Dio lo prende in considerazione: se la nostra opinione, la nostra posizione personale, interessa il nostro Dio, abbiamo ragione di essere contenti che contiamo qualcosa per Lui.
Però questo lo sa chi si sa interpellato, chi sa che Dio vuole che prenda una posizione, che si definisca: il discepolo di Gesù sa di contare tanto davanti al suo Signore perché questo ha tenuto in considerazione la sua opinione e gliel’ha chiesta.
Definirci dinanzi al mondo come cristiani, dire a noi stessi e agli altri chi è per noi Cristo Gesù, è un modo di sentirci tenuti in considerazione, non dimenticati da Dio.
Non è casuale che quanto più non diamo testimonianza pubblica di Gesù nella nostra società, tanto più ci sentiamo abbandonati da Lui; dichiararci a suo favore ci farà conoscere che Dio si è dichiarato a favore nostro; la sicurezza della fede in Dio si mantiene dando fede della nostra opzione per Lui.
Nell’interessarsi della nostra opinione, si sta interessando di noi. Il discepolo che oggi sa che deve dare testimonianza di Gesù non può sentirsi abbandonato da Dio: chi è interessato della nostra opinione è interessato di noi. Questo dovrebbe rendere meno doloroso il nostro dovere di testimoniarlo pubblicamente. Gesù ha chiesto a quelli che lo hanno accompagnato che si manifestassero, che gli dichiarassero ciò che sentivano su di Lui.
E solo questi discepoli, che danno ragione della loro fede, che sanno rispondere di essa, che riconoscono di essere stati interpellati dallo stesso Dio, tenuti in considerazione da lui, conosceranno il mistero più profondo: la necessità che il nostro Signore muoia sulla croce.
A chi è stato in grado di rispondergli personalmente gli si è svelato il segreto più personale: l’offerta fino alla morte è il destino di Gesù e lo sarà di chi lo segue.
Questa è la testimonianza che dovranno dare i discepoli: non basta sapere chi è Gesù, conoscere quello che ha fatto per noi; dovrà seguirlo, sopportando lo stesso cammino e lo stesso peso; perdere la vita per Lui significa guadagnarla per sempre.
Non basta, quindi, esprimere un parere su Gesù, per quanto personale sia, per quanto pubblicamente si faccia; se non gli si da anche la propria vita, a niente valgono le parole.
Chi si è interessato di sapere che cosa pensavamo di Lui, ha voluto dirci quanto si voleva interessare Lui di noi. Gesù continua a chiedere ai suoi discepoli che si pronunzino su di Lui davanti agli altri, e chi lo fa, saprà, come Pietro, che il suo Maestro si è impegnato a non avere una buona opinione di lui, ma a dare la vita per lui. Evitando la testimonianza oggi stiamo evitando che Gesù si dichiari a nostro favore: ci siamo giocato tanto per così poco! Il Dio che ci chiede di testimoniare in suo favore, ci ha dato la sua vita. Questa è stata la sua testimonianza a nostro favore: così ci ha dimostrato che ci ama.

JUAN JOSE BARTOLOME sdb,

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