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IL VANGELO DELLA PACE NELLE SCRITTURE EBRAICO-CRISTIANE – GIUSEPPE BARBAGLIO

http://www.giuseppebarbaglio.it/articoli/finesettimana13.pdf

IL VANGELO DELLA PACE NELLE SCRITTURE EBRAICO-CRISTIANE

SINTESI DELLA RELAZIONE DI GIUSEPPE BARBAGLIO

Verbania Pallanza, 17 gennaio 2004

L’espressione « vangelo della pace » si trova in Paolo nella lettera agli Efesini: è la lieta notizia della pace, annunciata e realizzata da Dio stesso.La parola pace ha molti significati, sia nel mondo biblico che in quello greco-romano. Può anzitutto indicare una condizione in cui il popolo si trova, negativamente la condizione in cui non c’è guerra, positivamente la condizione di benessere, soprattutto materiale. Può avere un significato collettivo, indicando rapporti buoni tra i popoli e tra i gruppi. Nella tradizione biblica è presente la concezione della pace come rapporti buoni tra l’umanità e Dio
e della pace come salvezza. Meno presente è la concezione di pace come serenità d’animo, o come rapporti interpersonali buoni.
ubi desertum faciunt pacem appellant
L’anelito alla pace emerge anche nel mondo greco romano. Nel 9 a.C. Augusto, sconfitti i nemici, inaugura un’era di pace e fa costruire l’Ara pacis, l’altare alla dea della pace. Era una svolta per una città, Roma, la cui divinità principale era Marte, il dio della guerra. Nel frattempo, Tacito, molto critico nei confronti della politica imperiale afferma con ironia che i romani fanno deserto della terra e la chiamano pace (ubi desertum faciunt pacem appellant).
pace e sicurezza
Stupefacente la modernità di alcuni testi scritturistici antichi. Paolo, nel più antico scritto neotestamentario, chiama figli della luce i membri della piccola comunità di Tessalonica che vivevano in un contesto molto ostile, mentre sostiene che per la stragrande maggioranza, che si illude di vivere nella pace e nella sicurezza, sarà la rovina: Quando dicono pace e sicurezza allora all’improvviso verrà su di loro la rovina…
la pace nella bibbia ebraica
Verranno presi in esami alcuni testi profetici.
Geremia
È un profeta dalla parola molto libera, osteggiato dal potere politico, ma anche da altri profeti, suoi avversari, che dicevano pace: dicono pace, pace, ma pace non è (8,11). Pace è utilizzato in senso negativo, come legittimazione di una situazione esistente ingiusta. O si cambia o non ci sarà pace, dice il profeta. In un altro brano Geremia afferma che Dio coltiva pensieri di pace (29,11).
Isaia
In Isaia 52,7 appare la categoria del vangelo della pace, del lieto annuncio da parte del profeta dell’esilio (l’attuale libro di Isaia è composto di almeno tre distinti testi di diversi autori): Come sono belli i passi dell’evangelista, del lieto annunciatore, che proclama la pace. In Isaia 9,1-5, nel libro dell’Emmanuele che contiene gli oracoli del grande Isaia, si presenta l’ideologia regale del principe di pace. Dio dona la pace attraverso l’azione umana del principe, che instaura una pace senza fine, fondata sulla giustizia. La giustizia del re è una giustizia molto particolare, diversa da quella dei tribunali, ed è volta a rendere giustizia a chi giustizia non ha, a prendere le difese dei deboli. L’anelito alla giustizia è il grande portato di Israele all’umanità.Questa azione giusta del re è ampiamente descritta al capitolo 11: giudicherà con giustizia i poveri e emetterà sentenze giuste a favore dei miseri del paese. Questa pace fondata sulla giustizia si estende a tutto il cosmo, a tutto il mondo creato: il lupo dimorerà presso l’agnello / e la tigre si accovaccerà accanto al capretto / il vitello e il leone
pascoleranno insieme / e un bambino piccolo li condurrà…Sulla stessa linea è il testo di Isaia 2,1-5, in cui si sogna il grande pellegrinaggio dei popoli a Gerusalemme. La pace diventa pace universale.
Zaccaria
Un testo famoso di Zaccaria, utilizzato anche da Matteo per illustrare Gesù messia pacifico, indica il re che entra a Gerusalemme cavalcando un asino. È la cavalcatura utilizzata in occasioni di pace. la pace nel nuovo testamento Nelle lettere di Paolo il saluto è: « grazia e pace », cioè vi auguro il dono della pace.
Romani 5,1: pace come salvezza « …abbiamo pace nei confronti di Dio… » Paolo dopo aver detto che la lieta notizia è che Dio accoglie in modo indiscriminato tutti sulla base della fede, afferma che, sempre come dono di grazia, abbiamo un buon rapporto con Dio.
Romani 5,11: pace come riconciliazione
Paolo usa il termine riconciliazione in senso religioso: Dio ci ha riconciliato.Dio non ha bisogno di essere riconciliato, al contrario di quanto sosteneva la religione romana tutta intenta a placare la ira Deum (l’ira degli dei) con riti e preghiere. C’era una concezione minacciosa del divino, che appare anche nella tradizione ebraica recente, come nel libro dei Maccabei. Paolo dice che è Dio a vincere la nostra distanza da lui.
Giovanni e Luca: pace come dono
Il Pace a voi del Cristo risorto nel vangelo di Giovanni, come il pace in terra agli uomini che sono oggetto della benevolenza divina di Luca (2,14) indicano la pace come dono di Dio. Dio ha donato la pace agli uomini sulla terra.
Matteo: la pace interpersonale
La beatitudine in Matteo 5,9: beati i creatori di pace, saranno chiamati figli di Dio. Nel rabbinismo, a cui Matteo è vicino, emerge il significato di pace interpersonale, di pace come riconciliazione tra persone. Anche in Matteo 5,23: Se ti avviene di presentare il tuo dono all’altare e ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia là il tuo dono davanti all’altare e va prima a riconciliarti…La comunione con Dio, espressa nel culto che si celebra, non avviene se due persone non sono in
comunione tra loro.
Efesini 2: nella croce crollano i muri di separazione
È una lettera della scuola di Paolo, in cui si afferma che la chiesa universale è il luogo dove gli opposti si sono riconciliati. Nel mondo di allora c’erano molte divisioni. I greci distinguevano le persone tra greci e barbari (quelli che non parlavano greco). I romani tra romani, greci e tutti i barbari. Anche nel mondo ebraico c’era una grande divisione di tipo religioso dell’umanità: gli incirconcisi (la maggioranza, 70 milioni di persone) e i circoncisi (la consistente minoranza di ebrei, 6 milioni di persone). Queste due parti si disprezzavano cordialmente (anche Gesù parla di « cagnolini » riferendosi alla Cananea). I non ebrei disprezzavano gli ebrei, accusati di ogni tipo di nefandezze (uccisioni rituali…) …Ma ora in Cristo Gesù voi che un tempo eravate lontani siete diventati vicini mediante la morte violenta di Cristo. Egli infatti è la pace. Lui che ha fatto le due parti le ha ridotte ad unità. Ha sbriciolato questa parete che sta in mezzo e che separa. Cioè l’inimicizia l’ha distrutta mediante la sua carne, ha reso inoperante la legge mosaica dei comandamenti che si esprime nei precetti.
Gesù toglie le radici del conflitto, cioè la legge mosaica. La legge mosaica era il segno della separatezza: privilegio per chi la possedeva e handicap per gli altri. Paolo dice che gli ebrei possono tenersi la legge, ma questa non può essere il motivo della identità del credente. Le diversità non sono annullate, ma sono depotenziate. Le diversità (essere circoncisi o incirconcisi) non sono più elemento separatore. Il muro è abbattuto. Egli è venuto ad annunciare, a dare la lieta notizia della pace, a voi che eravate lontani e pace a voi che eravate i vicini, perché mediante lui noi abbiamo questa entratura in un solo Spirito presso l’unico Padre. La legge non è più la carta di identità dell’uomo. Dietro questo testo c’è la teologia di Paolo, cioè la grazia incondizionata di Dio verso gli uni e verso gli altri e la giustificazione sulla base della sola fede, senza la legge. Giudei e non giudei sono su di un piede di parità nei confronti del vangelo della pace, del vangelo della riconciliazione.
Mentre la comunità di Gerusalemme, capitanata da Giacomo, il fratello di Gesù, era aperta al mondo pagano, a patto che si giudaizzasse, accettando la circoncisione, e mentre la comunità di Antriochia era composta anche da gentili a cui si chiedeva di osservare i precetti della legge, Paolo proclama la libertà dalla legge, non solo nella pratica ma anche attraverso una giustificazione, una riflessione.
i muri di separazione oggi
Anche oggi occorre saper far risuonare l’antica lieta notizia del vangelo di pace individuando quali sono i muri di separazione di cui annunciare l’abbattimento. Oggi la grande divisione non è più tra circoncisi e incirconcisi, ma tra nord e sud del mondo. La lieta notizia per i deprivati, per gli esclusi, per i lontani di oggi ha come punto di riferimento remoto il Cristo in croce che viene a chiamare su di un piede di parità alla salvezza, e come punto di riferimento prossimo Paolo che ha annunciato e operato l’abbattimento del muro di separazione tra irconcisi e incirconcisi. A noi spetta il compito di individuare il muro di separazione di oggi e di annunciarne anche fattivamente l’abbattimento, proclamando così la lieta notizia, il vangelo della pace

Publié dans:DOCENTI - STUDI, LA PACE |on 29 octobre, 2014 |Pas de commentaires »

PAPA FRANCESCO: VEGLIA DI PREGHIERA PER LA PACE – (7.9.13)

http://w2.vatican.va/content/francesco/it/homilies/2013/documents/papa-francesco_20130907_veglia-pace.html

VEGLIA DI PREGHIERA PER LA PACE – «Dio vide che era cosa buona»

PAROLE DEL SANTO PADRE FRANCESCO

Sagrato della Basilica Vaticana

Sabato, 7 settembre 2013

«Dio vide che era cosa buona» (Gen 1,12.18.21.25). Il racconto biblico dell’inizio della storia del mondo e dell’umanità ci parla di Dio che guarda alla creazione, quasi la contempla, e ripete: è cosa buona. Questo, carissimi fratelli e sorelle, ci fa entrare nel cuore di Dio e, proprio dall’intimo di Dio, riceviamo il suo messaggio.

Possiamo chiederci: che significato ha questo messaggio? Che cosa dice questo messaggio a me, a te, a tutti noi?

1. Ci dice semplicemente che questo nostro mondo nel cuore e nella mente di Dio è la “casa dell’armonia e della pace” ed è il luogo in cui tutti possono trovare il proprio posto e sentirsi “a casa”, perché è “cosa buona”. Tutto il creato forma un insieme armonioso, buono, ma soprattutto gli umani, fatti ad immagine e somiglianza di Dio, sono un’unica famiglia, in cui le relazioni sono segnate da una fraternità reale non solo proclamata a parole: l’altro e l’altra sono il fratello e la sorella da amare, e la relazione con Dio che è amore, fedeltà, bontà, si riflette su tutte le relazioni tra gli esseri umani e porta armonia all’intera creazione. Il mondo di Dio è un mondo in cui ognuno si sente responsabile dell’altro, del bene dell’altro. Questa sera, nella riflessione, nel digiuno, nella preghiera, ognuno di noi, tutti pensiamo nel profondo di noi stessi: non è forse questo il mondo che io desidero? Non è forse questo il mondo che tutti portiamo nel cuore? Il mondo che vogliamo non è forse un mondo di armonia e di pace, in noi stessi, nei rapporti con gli altri, nelle famiglie, nelle città, nelle e tra le nazioni? E la vera libertà nella scelta delle strade da percorrere in questo mondo non è forse solo quella orientata al bene di tutti e guidata dall’amore?
2. Ma domandiamoci adesso: è questo il mondo in cui viviamo? Il creato conserva la sua bellezza che ci riempie di stupore, rimane un’opera buona. Ma ci sono anche “la violenza, la divisione, lo scontro, la guerra”. Questo avviene quando l’uomo, vertice della creazione, lascia di guardare l’orizzonte della bellezza e della bontà e si chiude nel proprio egoismo.
Quando l’uomo pensa solo a se stesso, ai propri interessi e si pone al centro, quando si lascia affascinare dagli idoli del dominio e del potere, quando si mette al posto di Dio, allora guasta tutte le relazioni, rovina tutto; e apre la porta alla violenza, all’indifferenza, al conflitto. Esattamente questo è ciò che vuole farci capire il brano della Genesi in cui si narra il peccato dell’essere umano: l’uomo entra in conflitto con se stesso, si accorge di essere nudo e si nasconde perché ha paura (Gen 3,10), ha paura dello sguardo di Dio; accusa la donna, colei che è carne della sua carne (v. 12); rompe l’armonia con il creato, arriva ad alzare la mano contro il fratello per ucciderlo. Possiamo dire che dall’armonia si passa alla “disarmonia”? Possiamo dire questo: che dall’armonia si passa alla “disarmonia”? No, non esiste la “disarmonia”: o c’è armonia o si cade nel caos, dove è violenza, contesa, scontro, paura…
Proprio in questo caos è quando Dio chiede alla coscienza dell’uomo: «Dov’è Abele tuo fratello?». E Caino risponde: «Non lo so. Sono forse io il custode di mio fratello?» (Gen 4,9). Anche a noi è rivolta questa domanda e anche a noi farà bene chiederci: Sono forse io il custode di mio fratello? Sì, tu sei custode di tuo fratello! Essere persona umana significa essere custodi gli uni degli altri! E invece, quando si rompe l’armonia, succede una metamorfosi: il fratello da custodire e da amare diventa l’avversario da combattere, da sopprimere. Quanta violenza viene da quel momento, quanti conflitti, quante guerre hanno segnato la nostra storia! Basta vedere la sofferenza di tanti fratelli e sorelle. Non si tratta di qualcosa di congiunturale, ma questa è la verità: in ogni violenza e in ogni guerra noi facciamo rinascere Caino. Noi tutti! E anche oggi continuiamo questa storia di scontro tra i fratelli, anche oggi alziamo la mano contro chi è nostro fratello. Anche oggi ci lasciamo guidare dagli idoli, dall’egoismo, dai nostri interessi; e questo atteggiamento va avanti: abbiamo perfezionato le nostre armi, la nostra coscienza si è addormentata, abbiamo reso più sottili le nostre ragioni per giustificarci. Come se fosse una cosa normale, continuiamo a seminare distruzione, dolore, morte! La violenza, la guerra portano solo morte, parlano di morte! La violenza e la guerra hanno il linguaggio della morte!
Dopo il caos del Diluvio, ha smesso di piovere, si vede l’arcobaleno e la colomba porta un ramo di ulivo. Penso anche oggi a quell’ulivo che i rappresentanti delle diverse religioni abbiamo piantato a Buenos Aires, in Plaza de Mayo, nel 2000, chiedendo che non ci sia più il caos, chiedendo che non ci sia più guerra, chiedendo pace.
3. E a questo punto mi domando: E’ possibile percorrere la strada della pace? Possiamo uscire da questa spirale di dolore e di morte? Possiamo imparare di nuovo a camminare e percorrere le vie della pace? Invocando l’aiuto di Dio, sotto lo sguardo materno della Salus populi romani, Regina della pace, voglio rispondere: Sì, è possibile per tutti! Questa sera vorrei che da ogni parte della terra noi gridassimo: Sì, è possibile per tutti! Anzi vorrei che ognuno di noi, dal più piccolo al più grande, fino a coloro che sono chiamati a governare le Nazioni, rispondesse: Sì, lo vogliamo! La mia fede cristiana mi spinge a guardare alla Croce. Come vorrei che per un momento tutti gli uomini e le donne di buona volontà guardassero alla Croce! Lì si può leggere la risposta di Dio: lì, alla violenza non si è risposto con violenza, alla morte non si è risposto con il linguaggio della morte. Nel silenzio della Croce tace il fragore delle armi e parla il linguaggio della riconciliazione, del perdono, del dialogo, della pace. Vorrei chiedere al Signore, questa sera, che noi cristiani e i fratelli delle altre Religioni, ogni uomo e donna di buona volontà gridasse con forza: la violenza e la guerra non è mai la via della pace! Ognuno si animi a guardare nel profondo della propria coscienza e ascolti quella parola che dice: esci dai tuoi interessi che atrofizzano il cuore, supera l’indifferenza verso l’altro che rende insensibile il cuore, vinci le tue ragioni di morte e apriti al dialogo, alla riconciliazione: guarda al dolore del tuo fratello – penso ai bambini: soltanto a quelli… – guarda al dolore del tuo fratello, e non aggiungere altro dolore, ferma la tua mano, ricostruisci l’armonia che si è spezzata; e questo non con lo scontro, ma con l’incontro! Finisca il rumore delle armi! La guerra segna sempre il fallimento della pace, è sempre una sconfitta per l’umanità. Risuonino ancora una volta le parole di Paolo VI: «Non più gli uni contro gli altri, non più, mai!… non più la guerra, non più la guerra!» (Discorso alle Nazioni Unite, 4 ottobre 1965: AAS 57 [1965], 881). «La pace si afferma solo con la pace, quella non disgiunta dai doveri della giustizia, ma alimentata dal sacrificio proprio, dalla clemenza, dalla misericordia, dalla carità» (Messaggio per Giornata Mondiale della pace 1976: AAS 67 [1975], 671). Fratelli e sorelle, perdono, dialogo, riconciliazione sono le parole della pace: nell’amata Nazione siriana, nel Medio Oriente, in tutto il mondo! Preghiamo, questa sera, per la riconciliazione e per la pace, lavoriamo per la riconciliazione e per la pace, e diventiamo tutti, in ogni ambiente, uomini e donne di riconciliazione e di pace. Così sia.

 

Publié dans:LA PACE, PAPA FRANCESCO |on 3 septembre, 2014 |Pas de commentaires »

PER UNA TEOLOGIA DELLA PACE

http://www.finesettimana.org/pmwiki/index.php?n=Db.Sintesi?num=36

PER UNA TEOLOGIA DELLA PACE

sintesi della relazione di Armido Rizzi

Verbania Pallanza, 10-11 gennaio 1987

Oggi siamo sempre più consapevoli della necessità e dell’urgenza di una cultura della pace, non perché la violenza si sia manifestata solo oggi ma perché la violenza ha raggiunto un eccesso tale da non poter più essere giustificata. La violenza sia della natura (catastrofi, inondazioni, carestie) sia quella prodotta dagli uomini ha sempre accompagnato la storia dell’umanità, ma sempre lo spirito umano è riuscito a darle almeno un senso parziale, in qualche modo a giustificarla. Oggi si sono verificati due avvenimenti in cui la violenza ha raggiunto una tale dimensione da non poter più essere giustificabile, anche parzialmente.
Da una parte Hiroshima ci ha reso coscienti della possibilità della distruzione dell’intera umanità (il troppo quantitativo); dall’altra Auschwitz ci ha mostrato la violenza fine a se stessa, la violenza senza giustificazioni (il troppo qualitativo), la volontà pura di negazione dell’altro.
La novità essenziale: la distruzione non scaturisce dal puro gioco di forze o dall’istinto belluino, ma dalla volontà umana. È la soggettività violenta.
il cuore violento e le radici della violenza umana

Il racconto biblico di Adamo, del giardino di Eden e della colpa originaria narra che l’uomo è nel mondo buono di Dio di cui può disporre (albero della vita) a condizione di accettare l’ordine di valori (albero della conoscenza del bene e del male), che Dio ha già inscritto nel mondo stesso. In questo testo viene narrato non il peccato accaduto una volta, ma l’essenza stessa del peccato. Nel testo ci sono due formule (la scienza del bene e del male e l’essere come Dio) che hanno reso possibili due letture.
Nella prima lettura l’uomo viene tentato a mangiare il frutto dell’albero proibito, cioè a porre un atto in cui afferma sé come creatore di un nuovo ordine di valori: bene e male non sono già posti nelle cose e in me stesso, ma sono quelli che io produco disegnando e realizzando i miei progetti. L’uomo rifiuta di accettare che ci sia un orizzonte di bene e male con cui confrontarsi e da cui lasciarsi misurare, ma diventa egli stesso misura di tutto, creatore di valori. L’uomo può ad esempio disattendere all’imperativo del « non uccidere » e uccidere per affermare i propri progetti.
Questa prima lettura dell’essenza del peccato originale, pur valida, è insoddisfacente, perché non presenta una vera appropriazione della scienza del bene e del male, ma solo una rimozione, un disattendere.
Una seconda lettura esprime l’essenza del peccato originale nell’essere come Dio, proprio nell’appropriazione del principio del bene e del male. L’istanza di bene e di male non solo viene disattesa, ma viene assorbita dentro la volontà di potenza dell’uomo, dentro tutto ciò che l’uomo può desiderare e progettare. Il principio etico non viene cancellato o disatteso, ma diventa un momento, una componente della propria volontà di potenza. L’uomo non dice: non devo, ma posso; ma dice: posso ed è giusto che faccia così.
Non solo faccio così (prima lettura), ma è giusto che faccia così, perché ne ho il diritto. Non solo il potere fare una cosa ma il diritto di poterla fare. È il soggetto di diritto.
Il mio volere e potere viene a identificarsi con ciò che è giusto, è davvero l’appropriarsi della conoscenza del bene e del male, è il « sarete come Dio ».
L’esperienza fondamentale del Dio della bibbia è quella del Dio giusto, la cui parola in quanto tale è bene, è giustizia, è verità. L’essenza del peccato è appropriarsi di questo Dio, è ingabbiarlo dentro di me, per cui sono io che decido quando è giusto e quando è ingiusto.
Per lo più la violenza umana è sorretta, legittimata, giustificata dalla consapevolezza che è bene, giusto comportarsi in un certo modo. È il significato della favola del lupo e dell’agnello. Il lupo-uomo deve trovare una giustificazione per fare violenza e mangiare l’agnello. Non si limita a rendere lecito il suo atto, lo rende obbligatorio, un dovere a cui non può sottrarsi, un’offesa da lavare, un onore da riscattare.
Lo sguardo del Dio giusto lo posso disattendere, senza cancellarlo. Il peccato originale è invece il far proprio lo sguardo di Dio. Lo sguardo che mi dice di non uccidere, di non ferire, di non intorbidare l’acqua, lo faccio diventare mio e lo rivolgo all’altro accusandolo di avere intorbidato l’acqua. Qui si costituisce la violenza propriamente umana, la violenza etica: il principio etico di trascendenza su di me diventa principio etico della mia trascendenza sugli altri, per cui di fronte agli altri e alle cose io sono soggetto di diritto. Gli altri diventano strumenti disponibili per i miei progetti, o, se non accettano di essere strumenti, nemici da abbattere. E quando non riesco ad esercitare effettivamente questo mio sapermi soggetto di diritto, mi ripiego nel vittimismo percependo il mondo come persecutore.
Inoltre la gloria di Dio è il povero che vive. Il bisogno del povero, fragile, impotente, viene avvolto e sorretto dallo sguardo di Dio che ci dice che non ci appartiene e che ne siamo responsabili.
Ora appropriarsi del bene e del male significa non solo espropriare Dio alla fonte, ma anche l’altro, ogni uomo in quanto povero. L’altro diventa un dato (occasione o ostacolo) dentro i miei progetti.
Vivo l’altro come strumento o come nemico.
Certamente anch’io, in quanto povero ed essere bisognoso, ho i miei diritti, « miei » in quanto anche in me è presente lo sguardo di Dio. Non è mio diritto come genitivo possessivo, ma è il diritto che mi avvolge.
Abitualmente la favola del lupo e dell’agnello ha vigenza generale. Difficilmente uno opera per il proprio vantaggio confessando a sé e agli altri che lo fa per il proprio vantaggio.
L’uomo moderno si è costituito sempre di più trasformando i diritti dell’uomo in diritti individuali, in « i miei diritti ». Questo vale anche a livello delle nazioni: la guerra giusta è sempre quella che faccio io, difendendo il mio diritto dall’ingiusto aggressore.
Il gesto con cui Adamo si appropria della conoscenza del bene e del male è l’inizio della storia che noi conosciamo, una storia attraversata dalla duplice inimicizia, l’uomo che si fa nemico di Dio nell’atto in cui si fa nemico dell’altro uomo.
La buona notizia, l’evangelo è che Dio riconcilia l’uomo a sé e riconcilia gli uomini tra loro. Dio rovescia il rovesciamento che l’uomo ha fatto del proprio essere.
Gesù, pace di Dio con l’uomo e pace tra gli uomini

Il NT è la narrazione di quello che Dio ha fatto in Gesù per riconciliare l’uomo a sé e per ricostituire l’uomo nella sua capacità di essere con gli altri.
In Gesù Dio riconcilia l’umanità a sé
Innanzitutto Gesù è un essere paradossale in cui si uniscono i poli estremi della santità e del peccato. È insieme – risulta questo aspetto dalle lettere di Paolo – l’innocente, il santo, colui che non conosce il peccato ed è colui che è coinvolto come nessun altro nella vicenda di peccato dell’umanità.
Ma non c’è simultaneità tra le due facce, ma una si alimenta dell’altra: Gesù è santo proprio perché condivide radicalmente la condizione umana, nella sua adesione radicale alla volontà di Dio. Mentre un certo monachesimo ha inteso la santità come fuga mundi, come una presa di distanza dal partecipare a un mondo di peccato, come progressivo distacco dal mondo per avvicinarsi a Dio, Gesù aderisce a Dio sprofondandosi, in obbedienza, nell’esistenza del mondo. Si siede a tavola con i peccatori e muore in croce, esprimendo così la massima adesione alla storia umana peccatrice e la massima distanza da Dio. Proprio nell’essere maledetto, nello sperimentare l’abbandono di Dio vive la massima adesione al Padre che gli chiede di fare così.
La resurrezione non è l’ultimo gradino di una salita, ma è un ribaltamento: il maledetto diventa il benedetto.
La ragione della scelta di Gesù è stata forse quella di rovesciare il soggetto di diritto, il soggetto padronale, l’uomo che si è appropriato del divino per autoaffemarsi riducendo tutto a strumento da usare o a ostacolo da abbattere. Gesù, in solidarietà con il mondo perduto, dice di sì a quello che il Padre gli chiede, restituendo al Padre la divinità. Come dice Paolo, Gesù è l’anti-Adamo.
La scelta di Gesù di essere radicalmente obbediente alla volontà del Padre ci dice che ciò che si realizza attraverso di lui è il disegno di Dio sull’umanità. Dire che l’identità di Gesù è l’obbedienza radicale al Padre è dire in modo più evangelico il dogma di Calcedonia che Gesù è Dio, che Gesù è la mano tesa di Dio verso l’uomo perduto. La storia di Gesù è la storia di Dio sul mondo.
Perché Dio per riconciliare a sé l’umanità non è ricorso ad un gesto di liberalità, ma ha richiesto la fedeltà che ha comportato la croce? Forse una riposta la troviamo nell’analogia con l’esperienza del rapporto tra perdono e pentimento. Il pentimento è espressione del disagio per il male fatto all’altro, ma, a differenza del rimorso, è anche offerta di riconciliazione, è già un rispondere alla offerta di perdono, un volere risarcire il male fatto recuperando il tempo perduto.
Il perdono è causa del pentimento, non l’effetto. Il pentimento è cogliere l’offerta di perdono per ricostituire interamente l’amicizia.
Il rapporto tra perdono e pentimento sul piano individuale mostra quello che è avvenuto sul piano universale nella storia di Gesù. Dio dona il perdono e Gesù è in seno all’umanità la coscienza penitente. Gesù è il grande penitente che prende su di sé il peccato del mondo, la maledizione, la croce perché è convinto che è giusto.
L’umanità che il Padre ha riconciliato a sé in Gesù riceve ora da Dio, individualmente, il suo spirito, cioè la capacità di vivere come Gesù, non come soggetti di diritto, padroni del mondo, ma come obbedienza a Dio e al diritto del povero e quindi come solidarietà e giustizia.
L’amore di Dio si è manifestato in questo, nell’aver amato l’uomo quando l’uomo era suo nemico. In Gesù è avvenuto il riavvicinamento dell’umanità a Dio, in modo tale che, qualunque cosa l’uomo faccia, l’ultima parola non sarà il no dell’uomo, ma il sì di Dio. Dio dona all’uomo un cuore di carne (Ezechiele), che Paolo chiama spirito: lo spirito è la soggettività di Dio che diventa soggettività dell’uomo, capacità di vivere la storia secondo la vocazione originaria.
« beati i costruttori di pace »: evangelo e cultura di pace

Tratti essenziali di un soggetto di pace.
L’essere soggetti di pace non deriva ultimamente da fattori psichici, sociali, istintuali. Nell’ottica biblica l’uomo è libertà in quanto responsabilità. L’uomo non è, ma è chiamato a farsi di fronte alla scelta tra bene e male, tra vita e morte, tra essere per o essere contro, tra promuovere e uccidere. Credere in Gesù Cristo vuol dire credere che la storia umana è tenuta sempre aperta dal sì di Dio, dallo spirito di Dio, aperta verso la possibilità di un mondo di pace. Credere in Gesù Cristo è credere nell’uomo, non per le sue risorse psichiche o culturali ma per la presenza dello spirito del risorto che riapre continuamente la storia.
Secondariamente il dono dello spirito, il cuore nuovo donatoci da Dio, non è una realtà già tutta compiuta. La nostra appartenenza di base è la storia peccatrice (qui è il senso del battesimo). Il cuore nuovo è un dono iniziale e insieme un compito, è il dono di un compito, è la conversione continua. Le strutture sociali (e questo è il compito di una cultura di pace) possono essere in sintonia con il cuore nuovo, ma non lo possono produrre. Il cuore nuovo, costruttore di pace, è sempre un atto di libertà
Terzo. Il gesto fondatore del cuore costruttore di pace è un cuore che consente di lasciarsi pacificare dentro di sé, di accettare di spogliarsi del cuore padronale, del soggetto di diritti. Nel cuore padronale c’è la violenza originaria di chi già in cuor suo ha costituito l’altro come nemico e quindi come legittimamente aggredibile. Dobbiamo abbattere dentro di noi il gesto fondatore dell’altro come nemico. Può darsi che effettivamente l’altro sia nemico, ma ciò di cui dobbiamo spogliarci è il cuore padronale che non tiene conto di ciò che realmente l’altro è. Occorre rifarci uno sguardo capace di vedere le cose come sono.
Quarto. Il superamento del cuore padronale e del cuore vittimista che arma la mano è quanto c’è di più arduo. Non si fa pace senza far penitenza. La croce fondamentale che dobbiamo portare sulle spalle è la rinuncia all’inflazionamento dell’io, riaprendo la strada dall’io all’altro.
Quinto. Anche la non violenza va posta sotto il segno della responsabilità. Io sono chiamato a costruire positivamente la pace e per questo devo evitare il ricorso a strumenti violenti. Però devo farmi carico (Bonhoeffer) del male che c’è nel mondo arrivando a condividerlo anche nella forma della violenza, nel senso che la non violenza diventa la minor violenza possibile. Il cuore padronale fa violenza senza problemi, il cuore pacificato con la consapevolezza di essere partecipe del peccato del mondo.
Sesto. Una cultura della pace integra il cuore pacificato. Dal centro della libertà buona si dilata la cultura della pace, dal primo cerchio dei rapporti interpersonali, al secondo dei rapporti sociali (con il superamento dello spirito corporativo), al terzo cerchio della politica sia statuale che internazionale. Ad ogni livello la cultura della pace ha problematiche specifiche.
Settimo. La chiesa muove verso Gerusalemme, visione di pace. Compito della chiesa è quello di dire a tutti che il loro fine ultimo è quello di essere momenti della universale fraternità, che la volontà di pace di Dio nella storia è il fine ultimo della storia stessa.

Publié dans:LA PACE, Papa Giovanni Paolo II, Teologia |on 23 octobre, 2013 |Pas de commentaires »

IL PANE E LA BIBBIA: IL PANE È LA PACE

http://www.toscanaoggi.it/Cultura-Societa/Il-pane-e-la-Bibbia-il-pane-e-la-pace

IL PANE E LA BIBBIA: IL PANE È LA PACE

Nell’ambito del Festival del Pane di Prato, domenica 9 giugno, alle ore 10,30, nella Sala rossa del Palazzo vescovile, Elena Giannarelli (docente di Letteratura cristiana antica all’Università di Firenze) terrà una conferenza su «Il pane nella Bibbia»: «’Presto, prendi la farina e impastala’. Dall’Antico al Nuovo Testamento, dalla focaccia al pane». All’incontro, organizzato da Toscana Oggi, parteciperà anche Pasquale Mauro, del Forno del Ponte (nella zona di San Giusto a Prato) che da qualche anno propone il « Pan biblico » di cui farà omaggio ai partecipanti. Ecco un’anticipazione dei temi che verranno trattati nell’incontro.

I grandi poeti e gli storici dell’antichità classica hanno spesso sottolineato l’importanza del pane, alimento la cui presenza si perde davvero nella notte dei tempi, come l’archeologia ha poi confermato. Nei miti dei greci e dei latini, addirittura gli dei avrebbero insegnato agli uomini come fabbricarlo: per gli Elleni Demetra, madre della terra feconda e delle messi, ne era alle origini; secondo i Romani ci vollero addirittura due abitanti dell’Olimpo per inventarlo: Cerere, divinità del frumento e Pan che insegnò a cuocerlo. Il pane si chiama panis in latino e quindi pane da noi, pain in francese e pan in spagnolo proprio per la sua origine legata al dio di questo nome. E’ una significativa paraetimologia.
In realtà, il sostantivo greco che vale pane «artos» è da mettersi in relazione con la radice «ard», «farina» in persiano e con «arta», dallo stesso significato in iraniano. La farina di cereali cotta appartiene dunque a civiltà antichissime; inoltre per il latino panis gli studiosi pensano ad una connessione con il verbo pasco, «nutrire, mantenere, alimentare».
In ebraico, lehem significa «nutrimento»: i figli di Adamo chiamavano così il pane, l’alimento per eccellenza e il più comune, indispensabile alla vita. Da spezzare, non da tagliarsi,  per il rispetto di cui doveva essere oggetto.
Nella Bibbia appare strettamente legato alla fatica del lavoro, in seguito al peccato dell’uomo:  «Mangerai il pane col sudore del tuo volto» (Genesi 3,19). Da quel momento abbondanza o penuria di questo alimento saranno segno della benedizione o del castigo di Dio: in Esodo 16, 1-36 il cammino del popolo ebraico nel deserto sarà scandito dalla pioggia di manna, il pane dal cielo, in quantità sufficiente per ciascuno: quanta ognuno ne potrà mangiare.
In Deuteronomio 8,3 si legge: «Dio ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca di Dio».
Nel suo significato concreto e simbolico, allora, il pane è un dono dall’alto, da chiedere con umiltà e da aspettare con fiducia: proprio per questo suo stretto  rapporto con Dio diventa immagine della sapienza: in Proverbi 9,5 essa invita: «Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che vi ho preparato». Nello stesso libro al cap. 17,1 si afferma: «Un tozzo di pan secco con tranquillità è meglio di una casa piena di banchetti festosi e di disordine». Il Siracide 29,28 afferma: «Indispensabili alla vita sono l’acqua, il pane, il vestito, una casa che serva da riparo».
Il tutto però non deve rimanere legato alla dimensione egoistica del singolo: in Deuteronomio 10,17-18 il Signore Dio di Israele è il «dio grande, forte, terribile, che non usa parzialità e non accetta regali, rende giustizia all’orfano e alla vedova, ama il forestiero e gli dà pane e vestito». Il viandante viene accolto e sfamato: alle querce di Mamre (Genesi 18,1-8) Abramo chiede a Sara di impastare la farina e farne focacce per i tre uomini appena arrivati.
Se il profeta Eliseo moltiplicò i pani per sfamare la gente (2Re 4,42ss), se Geremia 31,12 dipinge una dimensione escatologica caratterizzata dall’abbondanza di grano, mosto ed olio, il pane era parte integrante da sempre della liturgia ebraica. Si può richiamare Levitico 24, 5-9 , con le dodici focacce di fior di farina, a indicare le tribù di Israele, poste sulla tavola d’oro puro davanti al Signore; in Esodo 12,15-20 il pane della Pasqua, all’inizio del nuovo anno, sarà pane azzimo, in ricordo della liberazione, quando la fretta di uscire dall’Egitto aveva impedito di far fermentare la pasta.
Questo e molto altro ancora, per l’Antico Testamento. Il Nuovo fa sue molte di queste antiche idee, a cominciare dalla necessità della carità. Gesù di Nazaret moltiplica pani e pesci, per indicare agli apostoli, che volevano congedare la folla perché ognuno provvedesse a se stesso, quale fosse in realtà il loro dovere. «Date loro voi stessi da mangiare» (Matteo 14, 13-21). Non è un caso che la parola «compagno» sia etimologicamente legata alla fraterna  condivisione del pane (cum+panis). Non meraviglia quindi che al padre comune si chieda «Dacci oggi il nostro pane quotidiano» e che sia Gesù stesso ad insegnare che i figli devono attendere tutto dal padre con fiducia (Matteo 6,11). Il dovere di lavorare per mangiare è ripresa dell’antica prescrizione di Genesi; la consapevolezza che il vero nutrimento sia la parola di Dio, vero pane, è affermato dallo stesso Signore nella prima delle tentazioni. Così diventa logico, sia pure nella sua sconvolgente realtà, che Gesù stesso si faccia e si dica «pane»: come parola (Logos) e come carne del sacrificio; e il vino si faccia sangue nella eucarestia. In Giovanni 6,48-51, dopo la moltiplicazione dei pani, si legge: «Io sono il pane della vita. I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia. Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».
E l’eucarestia sarà il sacramento dell’unità dei fedeli e dell’unità della Chiesa.
Gli scrittori ecclesiastici e i Padri della Chiesa rifletteranno a lungo sul pane e sulle sue valenze. Il martire Ignazio di Antiochia scrive ai Romani perché non facciano niente per evitargli il martirio: «Lasciate che io sia pasto per le belve, per mezzo delle quali mi è possibile raggiungere Dio. Sono il frumento di Dio e macinato dai denti delle fiere per diventare pane puro di Cristo» (Lettera ai Romani 4,1-2).
Il grande Agostino, dal canto suo, fa suoi tutti i significati del pane fin qui emersi. Nel De civitate Dei 17,4,4 lo identifica nella Scrittura, primo nutrimento dell’uomo. Fa tuttavia anche un passo ulteriore e in un Sermone (357,2) del maggio 411 istituisce un parallelismo fra la pace e il pane. «Basta che tu ami la pace ed essa istantaneamente è con te. La pace è un bene del cuore e si comunica agli amici, ma non come il pane. Se vuoi distribuire il pane, quanto più numerosi sono quelli per cui lo spezzi, tanto meno te ne resta da dare. La pace invece è simile al pane del miracolo, che cresceva nelle mani dei discepoli mentre lo spezzavano e lo distribuivano».

L’attualità della Bibbia e dei Padri non finirà mai di stupirci.

Elena Giannarelli

Publié dans:LA PACE |on 9 septembre, 2013 |Pas de commentaires »

QUAL È LA “PACE SULLA TERRA” DELL’INNO ANGELICO?

http://tradizione.oodegr.com/tradizione_index/commentilit/paceepifanios.htm

QUAL È LA “PACE SULLA TERRA” DELL’INNO ANGELICO?

Pochissimi passi della sacra Scrittura sono stati così malintesi quanto il passo di Lc 2, 14. Si tratta dell’Inno cantato dagli Angeli durante la magnifica notte in cui avvenne la nascita nella carne del Dio Verbo senza inizio, il Signore nostro Gesù Cristo. Tale errata interpretazione da parte di molti ortodossi, non è evidentemente volontaria e intenzionale (soltanto gli eretici interpretano male volontariamente) ma è dovuta all’ignoranza del senso generale della sacra Scrittura. A causa di quest’ignoranza, ogni anno nel giorno di Natale, vengono sentite delle prediche o si leggono delle pubblicazioni di vari maestri del Vangelo della nostra Madre Chiesa, da parte di chierici e laici, in cui ci si lamenta perché le guerre non hanno ancora fine e le armi non sono state abolite mentre la pace dell’Inno Angelico non ha ancora prevalso sulla terra. Si nota che queste interpretazioni vengono persino formulate nelle Encicliche Ecclesiastiche ufficiali, nonché nelle suppliche a Dio, perché Egli consenta finalmente il prevalere della pace sulla terra, la pace di quest’Inno Angelico “il quale per circa duemila anni continua ad essere una realtà lontana, una semplice speranza, unicamente un semplice sogno, una semplice e ansiosa aspettativa”.
Invece questi benedetti ignorano che la pace dell’Inno Angelico è già una realtà ed è prevalsa sulla terra sin dall’incarnazione stessa del Signore. È sbagliato ed è frutto di malinteso interpretare questa pace come qualcosa di esteriore, come una situazione di amicizia tra gli uomini, di una persona verso l’altra, di un popolo verso l’altro, come della cessazione delle guerre e delle battaglie. L’Evangelo non ha mai promesso una tale pace. La pace dell’Evangelo è interna, è una situazione di serenità che regna nell’anima dell’uomo credente, dell’uomo che ha un legame di amicizia e comunione con Dio. Si tratta della pace tra l’uomo e Dio e non tra gli uomini. È l’abolizione del “divisorio, della barriera” che divideva terra e Cielo, uomo e Dio, è la fine della ribellione, la fine della rivoluzione della creatura verso il Creatore. È questa la pace che il Figlio di Dio ha portato venendo al mondo. E da allora ogni persona che crede in Gesù Cristo Incarnato, Crocifisso e Risorto, ha ormai per amico Dio, si trova in una comunione filiale con Lui. Non è più un ribelle, un apostata, non è più nemico di Dio; si è “riconciliato” ed è ritornato ad essere amico con Lui attraverso l’eterno Mediatore, il Signore Gesù Cristo. La situazione di ribellione e di ostilità dovuta alla disobbedienza di Adamo appartiene ormai al passato e, per l’uomo credente, risulta un semplice ricordo amaro. Dal tempo del Signore, per mezzo del Suo Sacrificio sulla Croce, l’uomo è entrato in una nuova era, in un nuovo stato, uno stato di Grazia, d’Amicizia e d’Adozione. Le promesse del Santo Vangelo si riferiscono a questa pace, non alla pace mondana esteriore. “Vi lascio la pace”, diceva il Signore agli Apostoli, “vi do la mia pace”. E per sottolineare che questa pace è di una specie diversa, aggiunge: “Io non ve la do, come il mondo la dà” (Gv 14, 27). Lo costatiamo anche in un altro punto in cui, parlando della pace esteriore, afferma di non portare tale pace. Al contrario, prevede che la fede in Lui causerà guerre tra gli uomini. Gli increduli perseguiteranno i credenti di Gesù e così le guerre non solo non diminuiranno ma aumenteranno, poiché a quelle già presenti si aggiungerà anche quella contro la nuova fede. “Non crediate”, dice, “che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada. Sono venuto, infatti, a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera”. Prima d’essere volontariamente condotto al Golgota per bere l’orribile calice della morte, consegnò agli Apostoli la pace interiore, che non è influenzata da migliaia di tristezze e persecuzioni. Malgrado tutto, essa rimase in loro proprio perché interiore: “Vi ho detto queste cose perché abbiate pace in me. Voi avrete tribolazione nel mondo, ma abbiate fiducia; io ho vinto il mondo” (Gv 16, 33). Donava la pace ai Suoi Apostoli, pur sapendo che sarebbero toccate loro morti dolorose, mentre diceva chiaramente che li mandava “come pecore in mezzo ai lupi” (Mt 10, 16). Può essere mai possibile che avesse concesso loro una pace esteriore? Indubbiamente no!
Pure il divino Paolo è predicatore e apostolo di questa pace interiore verso Dio. “Giustificati dunque per la fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo”, scrive ai Romani (5, 1). Scrivendo agli Efesini, dice che nostro Signore Gesù Cristo è “la nostra pace”, è colui che ha “riconciliato con Dio” gli uomini attraverso la croce; è venuto, quindi, ad “annunziare pace… perché per mezzo di lui abbiamo accesso… al Padre” (Ef 2, 14-18).
In conclusione: la pace dell’Inno Angelico è la pace che l’uomo ha nei confronti di Dio, non una pace esteriore. Questa pace è, infatti, prevalsa “sulla terra”, nel momento in cui la terra si è riconciliata con il cielo attraverso l’umiliazione di nostro Signore Gesù Cristo che lo condusse fino alla Croce.
È evidentemente inutile aggiungere che l’uomo in “pace verso Dio” è pure pacifico nei confronti di coloro che lo circondano. Egli ama tutti e non odia nessuno. Solo lui è in grado di dire: “ero pacifico con quelli che odiavano la pace”[1] (Sl 119, 7). Egli ama e benefica anche i suoi stessi nemici. La pace interiore è il presupposto della pace esteriore. Invece, la pace esteriore non è soltanto irraggiungibile ma risulta impensabile senza quella interiore. La tragedia della nostra epoca consiste proprio in questo: Mentre essa ha dichiarato guerra contro Dio chiede, pure ansiosamente, la pace tra gli uomini. Mentre non ha alcuna cura per la pace interiore, cerca clamorosamente quella esteriore. Sradica l’albero e attende i frutti, demolisce la casa e cerca il conforto, si allontana dal sole e vuole la luce!…
La pace, “questa cosa e questo nome dolce”, è sempre stata “sospirata da tutti gli uomini” (Est 3, 12a). Eppure nessuna epoca ne ha avuto tanto desiderio, tanta sete, quanto la nostra. Riuscirà a raggiungerla, mentre tutte le altre epoche hanno miserabilmente fallito? Cioè, ce la farà a edificare la pace senza Dio? Abolirà gli orribili armamenti odierni? Riuscirà a rendere le guerre un lontano ricordo storico? Con l’aiuto di chi? Della scienza? Della tecnologia? Dell’umanesimo? Della filosofia? Dei sistemi politici, economici e sociali? Eppure, dal fondo di lontani secoli si sente lo sconvolgente avviso, chiaro e categorico, il cui valore e verità confermano – ahimè! – l’amarissima esperienza, di circa tremila anni attraversati: “Se siete disposti ad ubbidire, mangerete i frutti della terra. Ma se vi ostinate e vi ribellate, sarete divorati dalla spada; poiché la bocca del Signore ha parlato” (Is 1, 19-20). Se la “spada” sarà quella solita, quella tradizionale o di altro genere, di nuova costruzione, prodotta dalle industrie dell’energia nucleare, questo ha poca importanza…

“Signore, tu stabilirai la pace per noi, perché Tu compi per noi ogni nostra opera; Signore Dio nostro, edificaci…”[2] (Is 26, 12-13).

Archimandrita Epifanios Theodoropoulos

Traduzione a cura di  Tradizione Cristiana

Publié dans:Inni, LA PACE |on 7 septembre, 2013 |Pas de commentaires »

Mons. Pelvi: “la pace esige il lavoro più eroico”

dal sito:

http://www.zenit.org/article-25284?l=italian

Mons. Pelvi: “la pace esige il lavoro più eroico”

Durante la Messa in suffragio del caporalmaggiore Luca Sanna

ROMA, venerdì, 21 gennaio 2011 (ZENIT.org).- “La pace esige il lavoro più eroico”. E’ quanto ha detto questo venerdì mons. Vincenzo Pelvi, Ordinario militare per l’Italia, in occasione della messa a Roma in suffragio del caporalmaggiore Luca Sanna, il militare di 33 anni ucciso in Afghanistan il 18 gennaio scorso. 
Avvolto in una grande bandiera tricolore e trasportato dai commilitoni il feretro di Luca Sanna ha fatto ingresso nella Basilica di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri per i funerali, accolto da un lungo applauso e dal picchetto d’onore.
Numerose le personalità presenti alla cerimonia, tra cui il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, i ministri Giulio Tremonti e Maurizio Sacconi, il Sindaco di Roma Gianni Alemanno, il Presidente della Regione Lazio Renata Polverini.
L’attacco costato la vita all’alpino (sono finora 36 i militari e gli agenti italiani uccisi in Afghanistan) e in cui un suo commilitone è rimasto ferito in modo grave si è verificato nell’avamposto di Bala Murghab nella provincia di Badghis. L’attentatore vestiva la divisa dell’esercito afghano.
“Il nostro Luca in Afghanistan intendeva essere una presenza amica – ha detto mons. Pelvi –, desiderosa di favorire uno scambio di doni tra persone semplici, umiliate e minacciate in un conflitto in cui nessuno chiede il loro parere, salvo imporre loro di soffrire e pagarne le atroci conseguenze”.
“Luca aveva compreso che non si vince solo con le armi e non si vince importando determinati modelli culturali e politici. Era un alpino sempre sorridente che sentiva compiersi misteriosamente in se stesso quell’invito appassionato: volere e fare del bene”.
“La sua morte violenta potrebbe portare a concludere che s’illudeva – ha affermato poi –. Ma egli una simile fine l’aveva messa nel conto, perché uomo a cui il coraggio non mancava; un soldato che affrontava giorno dopo giorno il rischio della vita, lasciandosi invadere dalla benevolenza per i popoli martoriati”.
“Nessuno dei nostri militari vuole fare l’eroe. Tutti vogliono tornare a casa dalle loro famiglie e dai loro amici. Ma tutti non esistano a porre a rischio il proprio futuro, sapendo che possono dare la vita o rimanere segnati. Questo è il vero eroismo quotidiano della famiglia militare”.
“Certo, il nostro Luca, non poteva immaginare che chi aveva simulato una scelta simile alla sua, arruolandosi nell’esercito afgano, avrebbe potuto tradirlo, colpendolo a morte, frantumando il suo desiderio di amicizia tra i popoli. A Luca non è stata rubata la vita, perché egli l’aveva già donata”.
“E anche noi non ci faremo rubare la speranza – ha sottolineato mons. Pelvi –, non ci strapperanno l’amore per i più deboli e la fiducia nel popolo afghano, nonostante questa ennesima ferita. E’ l’Amore che genera la speranza, che ci è stata consegnata dall’Innocente tradito”.
“Il coraggio di Luca – ha continuato – ha la sua radice nell’unione con Gesù Cristo, nella forza che viene da lui, in maniera tanto misteriosa quanto vera e concreta. Di un coraggio analogo ha bisogno ciascuno di noi, se vuole affrontare il cammino della vita; un coraggio non per colpire e uccidere, ma per accogliere e costruire la comprensione, il dialogo e la pace là dove troppo spesso regnano l’intolleranza, il disprezzo e l’odio”.
“Chi è più caritatevole del soldato che giura di morire per il bene dell’altro? L’amore per l’uomo debole e bisognoso ha chiamato Luca in un deserto. Terra inutile da coltivare perché sterile di futuro? Ma Luca amava quella terra e aspettava l’aurora di un nuovo giorno, anche se non conosceva i tempi del germoglio”.
“Bisogna avere sensibilità e dedizione per l’umanità che soffre fisicamente, socialmente, moralmente – ha osservato l’Ordinario militare per l’Italia –. Sogniamo, forse, quando parliamo di civiltà della pace? No, non sogniamo. Gli ideali, se autentici, se umani, non sono sogni: sono doveri”.
Mons. Pelvi ha quindi avvertito che “il dovere di costruire la pace non deve essere confuso con una specie d’inerzia quietistica che è indifferente all’ingiustizia, accetta ogni tipo di disordine, scende a compromessi con l’errore e con il male e cede a ogni pressione per mantenere ‘la pace a qualsiasi prezzo’”.
“Il cristiano sa bene, o dovrebbe sapere bene, che la pace non è possibile in termini simili. La pace esige il lavoro più eroico e il sacrificio più difficile – ha infine concluso –. Esige un eroismo più grande della violenza. Esige una maggiore fedeltà alla verità e una purezza di coscienza molto più perfetta”.

Publié dans:I NOSTRI MORTI, LA PACE |on 21 janvier, 2011 |Pas de commentaires »

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