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GIIUBILEO DEL 2000, ANNO 1997 – « RADICI DELL’ANTIGIUDAISMO IN AMBIENTE CRISTIANO »

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GIIUBILEO DEL 2000, ANNO 1997

« RADICI DELL’ANTIGIUDAISMO IN AMBIENTE CRISTIANO »

PERCHÉ LA FEDE CRISTIANA HA BISOGNO DEL GIUDAISMO

Card. Roger Etchegaray

Il cristianesimo ha bisogno del giudaismo? Quando ero ragazzo, una domanda del genere mi sarebbe parsa insolita, forse improponibile. Nel mio piccolo villaggio basco, non ho mai incrociato l’«ebreo errante». Una volta l’anno, la liturgia del Venerdì Santo mi faceva pregare «per gli ebrei infedeli». Quando mia madre mi conduceva nella vicina Bayonne per comprare il vestito buono, da un sarto che mi diceva essere ebreo, ero sorpreso nell’incontrare un uomo come gli altri; e fu lui stesso a confezionare la mia prima tonaca! In Seminario, sull’«insegnamento del disprezzo» prevaleva quello dell’insignificanza: l’ebreo non contava nulla, e io non ho mai avvertito alcun bisogno religioso di Ebraismo.
Ho provato il primo shock l’anno della mia ordinazione sacerdotale, esattamente 50 anni fa, quando non so come mi capitarono sotto gli occhi i «dieci punti di Seelisberg», elaborati in Svizzera da un piccolo gruppo di ebrei e cristiani. Oggi, quel testo che allora era tanto profetico e coraggioso, mi sembra abbastanza banale. Nel 1965, da esperto del Concilio Vaticano II, ammirai la dolce ostinazione dispiegata dal cardinale Bea per far votare la dichiarazione sugli ebrei Nostra Aetate. Otto anni dopo, quando ero arcivescovo di Marsiglia, grande città portuale in cui convivevano pacificamente 80 mila ebrei e 80 mila musulmani, fui, insieme ad altri tre vescovi francesi, cofirmatario di uno dei più aperti orientamenti sulle relazioni con gli ebrei offerto, non senza ripensamenti, da un episcopato. Ma fu soprattutto all’interno del Comitato internazionale di collegamento fra Chiesa cattolica ed Ebraismo mondiale che imparai fino a che punto il dialogo fosse difficile da una parte e dall’altra per via di una profonda asimmetria fra i protagonisti.
Questo preambolo mi consente di entrare senza indugi nel vivo della questione con vigore e con rigore. Il cristianesimo ha bisogno del giudaismo? La risposta spontanea è sì, un sì franco e deciso, un sì che esprime un bisogno vitale e quasi viscerale. Ma, naturalmente, io non posso che rispondere a nome della mia Chiesa, «scrutando» il suo «mistero» secondo la bella espressione della Nostra Aetate, nel pieno rispetto della maniera diversa in cui l’ebraismo vede e definisce se stesso. Per me, il cristianesimo non può pensare se stesso senza l’ebraismo, non può fare a meno dell’ebraismo. Fin dall’inizio del suo pontificato (12 marzo 1979) a Magonza, Papa Giovanni Paolo II osò dichiarare: «Le nostre due comunità religiose sono legate al livello stesso della loro identità». Ricordo ancora (ero presente) le sue parole folgoranti nella grande sinagoga di Roma, il 13 aprile 1986: «La religione ebraica non ci è « estrinseca » ma, in un certo senso, è « intrinseca » alla nostra religione. Noi abbiamo dunque verso di lei dei rapporti che non abbiamo con nessun’altra religione. Voi siete i nostri fratelli preferiti e, in un certo senso, si potrebbe dire i nostri fratelli maggiori».
Queste parole, in fondo, non hanno nulla di nuovo o di audace; si ispirano all’immagine paolina della Lettera ai Romani (11,16-24) dell’ulivo buono che è Israele sul quale sono stati innestati i rami d’ulivo selvatico che sono i pagani. E san Paolo, l’antico fariseo divenuto «l’apostolo delle nazioni» dirà al pagano-cristiano: «Non menar tanto vanto; non sei tu che porti la radice, ma è la radice che porta te» (Rom. 11, 18)…è l’ebreo che ti porta. E non è forse nel Vangelo di Giovanni, che si vorrebbe intriso di antigiudaismo, che Gesù proclama solennemente alla Samaritana: «La salvezza viene dai giudei» (Gv. 4,22). Se le cose stanno veramente così, come spiegare il fatto che nel corso dei secoli tanti cristiani abbiano vissuto come se avessero dimenticato le loro radici, o peggio disprezzando il loro fratello maggiore? Comprendo bene la reazione del Rabbi Askenazi che diceva: «Non siamo neppure fratelli separati, perché non ci siamo mai incontrati». Di fatto, avvertiamo tutti la dolorosa ferita di quella che Fadiey Lovosky chiamava significativamente «la lacerazione dell’assenza».
Ma allora, per quale miracolo ebrei e cristiani si incontrano dopo duemila anni, o si mettono ad esaminare insieme i rapporti rovesciati che hanno avuto nel corso della storia? Perché c’è stato bisogno della Shoah per aprire l’era del dialogo? A dire il vero, la rottura non era forse cominciata con lo «scandalo» della croce di Cristo? Il passo ispirato di Jules Isaac presso Giovanni XXIII non è certamente estraneo all’avvio di una primavera tardiva e ancora timida. Ora cominciamo a prendere coscienza del fatto che la nostra identità cristiana è una identità ricevuta da altri, e che questo altro è il popolo eletto che esiste solo in quanto derivato da Dio. Il processo in atto va ben oltre la semplice constatazione della ebraicità carnale di Gesù ormai affermata senza difficoltà e da parte di tutti, con tutte le conseguenze culturali e cultuali nella liturgia e nella vita della Chiesa, oggi ammesse abbondantemente e senza imbarazzo da autori sia ebrei che cristiani. Giovanni Paolo II, ancora una volta, ricevendo l’11 aprile scorso la Pontificia Commissione Biblica, ha ricordato che non si può esprimere pienamente il mistero del Cristo senza ricorrere all’Antico Testamento. Fin dal secondo secolo, contro Marcione, la Chiesa dava testimonianza di questo rapporto vitale, in seguito molto oscurato se non camuffato. Da parte mia, amo ricordare che la Chiesa cattolica celebra costantemente la festa della Presentazione di Gesù al Tempio. E non finirò mai di scoprire fino a qual punto la mia preghiera, compresa la preghiera che Cristo insegnò ai suoi discepoli, il «Padre nostro», è impastata di citazioni e salmodie ebraiche. Tutto in me respira la pietà e la saggezza degli «anawim», i poveri del Signore.
Ma questo radicamento, per quanto importante, mi lascia ancora sulla soglia del problema, del vero problema contro il quale mi scontro e per il quale mi batto. Ciò che mi urta, ciò che oggi mi sconvolge, è la perseveranza del popolo ebreo nonostante tutti i pogròm, la sua sopravvivenza dopo i forni crematori. Non c’è, lì, la testimonianza invincibile di una vocazione permanente, di un significato attuale per il mondo, ma soprattutto nel seno stesso della Chiesa? Ciò è molto più che scoprire la ricchezza di un patrimonio comune; è scrutare nel disegno di Dio la missione che il popolo ebreo deve ancora e sempre compiere. Che cosa significa per me, cristiano, questo faccia a faccia permanente che è l’ebreo? Che cosa significa per la mia Chiesa questo popolo ebreo che non cessa di far risaltare il tempo dell’Antico Testamento in un tempo che io credevo esser divenuto una volta per tutte il tempo del Nuovo Testamento? Affermando, con san Paolo, che la seconda Alleanza non ha cancellato la prima, perché «i doni di Dio sono irrevocabili» (Rm. 11,29), la Chiesa arriva al punto di riconoscere all’ebraismo una funzione di salvezza dopo il Cristo? Per la mia coscienza cristiana, il confronto con questo volto ebreo che finora avevamo dissimulato se non sfigurato, con questa Sinagoga davanti alla quale avevamo chiuso gli occhi, comporta al tempo stesso un profondo mistero e una gigantesca sfida.
Parlare di «mistero» alla maniera di san Paolo (Rm. 11,25) vuol dire riconoscere che il significato ultimo della storia della salvezza ci sfugge poiché la sua chiave è in Dio, e ammettere che non tutto è svelato perché non tutto è compiuto. Certo, la Chiesa proclama chiaramente che Gesù Cristo è l’unico Salvatore del mondo; e vive in tutto il suo essere della sua morte e resurrezione. Ma la perennità d’Israele non è il segno di ciò che le manca per la completa realizzazione della sua missione? Di fronte al «già» della Chiesa, Israele è la testimonianza del «non ancora», di un tempo messianico non pienamente concluso. Il popolo ebraico e il popolo cristiano si ritrovano così in una situazione di contestazione o meglio di emulazione reciproca. Quando noi cristiani ci rallegriamo per il «già», gli ebrei ci ricordano il «non ancora», e questa tensione feconda è nel cuore dell’intera vita della Chiesa, fino a raggiungere la liturgia eucaristica, quando la Chiesa ogni volta lancia il suo grido lancinante: «Vieni, Signore Gesù». La Chiesa annuncia, prefigura già il «Regno», la città in cui Dio sarà «tutto in tutti», come dice san Paolo (1 Cor. 15,28). Ci conforta il sapere che questo Regno nascosto, questo spazio infinito di salvezza offerto a tutti, supera di molto i limiti visibili della Chiesa. La quale non è che il «Sacramento», il luogo in cui il Regno è celebrato da coloro che l’hanno già accolto.
Karl Barth diceva: «La questione decisiva non è « che cosa può essere la Sinagoga senza Gesù Cristo? », ma piuttosto « che cosa è la Chiesa se per tanto tempo si trova di fronte ad un Israele che le è estraneo? »». Detto in altro modo, per la Chiesa la perennità d’Israele non è solo un problema di relazioni esterne da sviluppare, ma un problema di relazioni interne da approfondire, un problema che tocca il proprio essere. Il sentiero sul quale ci troviamo corre lungo un crinale ancora poco esplorato dall’esegesi e dalla teologia, ma è su questa strada, mi sembra, che dobbiamo procedere, altrimenti il dialogo ebraico-cristiano resterà superficiale, limitato e pieno di riserve mentali. Questo dialogo, è stato detto, è appena uscito dall’età della pietra e non potrà proseguire se gli interlocutori da una parte e dall’altra non metteranno nel conto la contemporaneità dell’altro. Il cristianesimo è l’albero che cresce dal seme dell’ebraismo e copre tutta la terra con le sue fronde, ma il frutto dell’albero contiene di nuovo lo stesso seme. Nella Divina Commedia, Dante invita gli ebrei ad abbandonare la loro speranza: «Lasciate ogni speranza».
Franz Rosenzweig, scioccato da quel verso, commentava: «Quando l’ebreo comparirà davanti al trono celeste, gli sarà posta una sola domanda: « hai sperato nella redenzione? »». Tutte le altre domande, aggiungeva Rosenzweig, «sono per voi cristiani. Fin d’ora prepariamoci insieme, nella fedeltà, a comparire davanti al nostro Giudice». Per prepararci insieme, dobbiamo considerarci tutti eredi della Bibbia, ma io credo che per mettere bene a frutto questa eredità i cristiani hanno in modo particolare bisogno degli ebrei perché gli ebrei hanno con la Scrittura una sorta di familiarità carnale, perché al contrario di ogni dualismo che inaridisce essi sono testimoni dell’unità vivente dell’uomo interpellato da Dio, perché restano il popolo che ha distrutto gli idoli e denunciato le ideologie, antiche e moderne.
La Bibbia ebraica fa ascoltare al mondo intero la voce del Dio unico. Anche là dove non vive alcun ebreo ma la Bibbia è proclamata dalla Chiesa, l’ebreo è spiritualmente presente perché è percepito dalle nazioni che ricevono la Parola divina come appartenente al popolo per il quale il Signore si è fatto conoscere sulla terra. Se il bersaglio del neopaganesimo, radice profonda di ogni antisemitismo, è la Bibbia che svela in ogni uomo l’immagine di Dio, dobbiamo oggi più che mai testimoniare la nostra fedeltà comune alla Parola e alla Legge che strutturano ogni coscienza umana. Dobbiamo salire insieme sulla montagna santa del Sinai e lassù tenerci per mano senza batter ciglio davanti al volto di Dio, interamente occupati, come in una notte d’uragano, a ricevere l’acqua e il fuoco dal cielo per lasciarci purificare. Non dobbiamo, noi tutti, essere «grondanti della parola di Dio» come diceva Péguy al suo amico ebreo, Bernard Lazare? Non siamo tutti come quei primitivi che ricevettero il Decalogo divenendo così i veri civilizzatori dell’umanità?
Questa misteriosa differenza e questa incredibile parentela fra ebrei e cristiani ci portano insieme sulla via del pentimento, della teshuva. È l’insegnamento biblico fondamentale, comune a tutti noi. Perché, ebrei e cristiani, siamo tutti peccatori, attraversiamo la storia nel dualismo Chiesa-Sinagoga prodotto dall’indurimento degli uni e degli altri, ciascuno essendo interno all’indurimento dell’altro. E nella mia esperienza spirituale di fronte a Cristo, io cerco di misurare e di comprendere la distanza che mi separa dall’ebreo, senza mai pensare di fare dell’ebreo un «cristiano in potenza».
È vero che Gesù ci divide, che è fra di noi segno di contraddizione, pietra d’inciampo. Mi piace molto la formula sconvolgente di S. Ben Chorin: «La fede di Gesù ci unisce ma la fede in Gesù ci separa». E tuttavia oso dire – è la verità profonda di ogni paradosso – che Gesù ci unisce nel medesimo istante in cui ci divide. Perché questa lacerazione riguarda solo noi. Un buddista, un indù, non ha alcun motivo d’esser chiamato in causa da Gesù Cristo: non lo incontra mai nella sua storia. Anche un musulmano lo sfiora appena. Ma noi, ebrei e cristiani, che lo si voglia o no, prima o poi siamo costretti a chiederci davanti al mondo come assumere insieme questa lacerazione interna che c’è fra di noi, questa lacerazione che è tutta nostra e che ha provocato il primo scisma, quello che un esegeta (Claude Tesmontant) ha chiamato «il prototipo degli scismi» dentro il corpo unico della famiglia di Dio? Perché, gli uni e gli altri, siamo i soli a poter annunciare la Parola divina rivolta a tutti gli uomini, siamo anche sospesi insieme alla stessa Parola e testimoni di una stessa promessa per l’umanità intera. In questo senso, anche il futuro del movimento ecumenico fra le diverse Chiese cristiane è legato alla consapevolezza che il legame con l’ebraismo è il test della fedeltà del cristianesimo allo stesso dio. F. Lovsky, nell’ultimo capitolo del suo bel libro, parla dell’incontro ebraico-cristiano nell’intercessione. E constata che le nostre preghiere – quando pensiamo gli uni agli altri – sono le preghiere delle nostre sofferenze comuni e dei nostri risentimenti reciproci, ma deplora che non siano anche le preghiere delle nostre vocazioni complementari. Per quanto diverse siano le nostre preghiere, sono apparentate e devono diventare sorelle.
Per parte mia, non cesso di pregare in vista del giorno in cui Dio sarà «tutto in tutti»(1 Cor. 15,28), ebrei e non ebrei. Tale è la Gerusalemme celeste di cui la nostra preghiera deve affrettare la venuta, la preghiera di noi che siamo in esilio ovunque nel mondo…anche io a Roma! Oh! Gerusalemme, preferita da Dio, di te ognuno può dire: «Ecco mia madre, in te ogni uomo è nato» (Sal. 97), e le nazioni salgono verso la luce. Oh, Gerusalemme, io cammino verso di te. Oh Gerusalemme, «Città salda e compatta» dove si riuniscono tutti i figli di Abramo e in cui si concentra la preghiera per la pace (Sal. 122). Oh Gerusalemme, io cammino verso di te. Oh! Gerusalemme, le cui colline piangono di desolazione e danzano di speranza, monte Moriah e Golgota, muro del Tempio e memoriale Yad Vashem, sepolcro vuoto dove l’angelo invita a non cercare fra i morti Colui che è Vivente (Lc. 24,5). Oh! Gerusalemme, io cammino verso di te. Oh! Nuova Gerusalemme, tu che discendi dal cielo vestita come una sposa nel giorno delle nozze, tu che non hai più tempio, perché il tuo tempio «è il Signore, il Dio onnipotente e l’Agnello» (cf. Ap. 21)! Oh Gerusalemme del cielo, noi camminiamo verso di te.
Al di là di ogni forma di testimonianza personale, resto convinto che la mia fede cristiana per essere fedele a se stessa ha bisogno della fede ebraica. Lungi da ogni teologia cristianizzante del giudaismo e da ogni teologia giudaizzante del cristianesimo, ho cercato di testimoniare ciò che Martin Buber ha espresso così bene: è l’Alleanza dello stesso Dio vivente che ci fa esistere, ebrei e cristiani, e che crea una comunità oltre la rottura. «L’ebraismo e il cristianesimo – scriveva al professor Karl Thieme – sono entrambi escatologici, ma allo stesso tempo hanno un posto nel disegno di Dio. Di qui derivano le differenze che separano ebrei e cristiani e la relazione che li unisce».
Se l’altro è «un mistero e una sfida», la differenza è l’essenza stessa del nostro incontro, ed è anche la possibilità di ascolto reciproco e di mutuo arricchimento. Lungi dall’allontanarci gli uni dagli altri, non cessiamo di incrociarci attorno al Messia. Edmond Fleg ce lo insegna in Ascolta Israele:

«Ed ora entrambi siete in attesa
Tu che Egli venga e tu che Egli ritorni;
Ma a Lui domandate la stessa pace
E le vostre mani, che Egli venga o che Egli ritorni,
a Lui tendete nello stesso amore! E dunque cosa importa?
Dall’una e dall’altra riva
Fate che Egli arrivi
Fate che Egli arrivi!»

Fate che Egli arrivi? Lo stesso Edmond Fleg, in un altro libro (Gesù raccontato dall’ebreo errante), stimola tutti, ebrei e cristiani: «Perché il Messia arrivi, grida con me: felici coloro che getteranno via le armi, perché partoriranno il Messia».

Publié dans:ANTIGIUDAISMO, GIUBILEO 2000 DOCUMENTI |on 27 septembre, 2015 |Pas de commentaires »

GESÙ CRISTO: QUELL’INSAZIABILE SETE DI VERITÀ E DI BELLEZZA George Weigel

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L’ANNO DI CRISTO: TESTIMONIANZE E IMMAGINI (GIUBILEO DEL 2000)

GESÙ CRISTO: QUELL’INSAZIABILE SETE DI VERITÀ E DI BELLEZZA

George Weigel

Se Gesù Cristo è la risposta all’interrogativo insito in ogni vita umana – come Giovanni Paolo II ha così eloquentemente insegnato – allora qual è l’interrogativo che pone la mia vita e per il quale Gesù Cristo costituisce la risposta? La grande questione della mia vita – la grande questione di ogni vita – è la questione della salvezza. Siamo nati con una insaziabile sete di verità, di bontà e di bellezza. Ma dal momento in cui varchiamo le soglie dell’età adulta impariamo, spesso a nostre spese, che quella sete non può essere soddisfatta da questo mondo. E tuttavia la sete persiste. Amiamo e tuttavia aneliamo ad un amore totale. Comprendiamo e tuttavia vorremmo capire più a fondo. Di fronte alla bellezza restiamo sgomenti, ma ogni bellezza terrena svanisce. Pecchiamo, ci pentiamo, sperimentiamo il perdono: eppure vorremmo vivere una nuova vita, purificata dalla colpa. Tutto questo significa che cerchiamo la redenzione, una redenzione che ci trasformi al punto di diventare davvero « uomini nuovi ».
Gesù Cristo è per me, innanzitutto e al di sopra di tutto, il mio salvatore: il redentore del mondo, il redentore dell’uomo. Nella conversione a Cristo veramente nasciamo a nuova vita. Quando fui battezzato in Cristo il 29 aprile 1951, mi fu offerto il dono della salvezza: non per merito mio, ma per mezzo della vera grazia di Dio. E la grazia è un dono incessante. Nell’Eucarestia, nel Sacramento della Riconciliazione, nella vita sacramentale del matrimonio, sono costantemente conformato a Cristo che mi invita alla comunione con la SS. Trinità, nella quale solo troverò la pienezza di verità, bontà e bellezza – la redenzione – cui anelo.
La mia esperienza di Gesù Cristo vivo è stata, ed è, mediata per me attraverso la cultura: all’inizio, quando ero bambino, dalla cultura della famiglia, attraverso l’esempio dei miei genitori. Più tardi arrivai a conoscere meglio Cristo attraverso la cultura della parrocchia, della scuola e delle organizzazioni ecclesiali. Successivamente la mia conoscenza di Cristo fu approfondita con lo studio della teologia. Ma queste « mediazioni » culturali del Cristo vivente devono sempre condurre ad un incontro personale con il Signore – a quella che i nostri fratelli protestanti definiscono « l’esperienza personale di Gesù Cristo ». Questo incontro personale avviene nella preghiera, nei sacramenti, nelle tante e sorprendenti, talvolta inquietanti, spoglie in cui il Signore si presenta a me nel mondo degli uomini. In qualunque momento e ovunque lo incontri, tuttavia, è la Persona di Gesù Cristo che mi viene incontro in risposta a quell’interrogativo che è la mia vita.
Il Signore definisce se stesso via d’accesso; ciò significa per me che Gesù Cristo è il portale della Chiesa, suo corpo mistico. Configurarsi a Cristo nel Battesimo, nella Cresima e nella SS: Eucarestia non è un privilegio di pochi: è l’autentica incorporazione nella comunità, la comunione dei santi. « Assumere » Gesù Cristo equivale dunque ad « assumere » la Chiesa stessa.
La mia relazione personale con Gesù Cristo, il redentore, implica dunque un impegno nei confronti della sua Chiesa. È questa la mia prima comunità, fedele e vincolante. In primo luogo sono un cittadino, un intellettuale ed anche un marito e un padre, sono un membro del Corpo di Cristo e qui risiede il locus più profondo del mio vincolo. Ma proprio perché incorporarsi a Cristo non è un privilegio privato, l’incorporazione nella comunione della sua Chiesa non è un viaggio nelle catacombe. Ed è proprio in quanto membro della Chiesa che io posso essere quel genere di marito, di padre, di cittadino, di pensatore e di scrittore che devo essere. Proprio perché esiste la Chiesa, non per se stessa ma per l’evangelizzazione del mondo, la mia appartenenza alla Chiesa non è un patrimonio da nascondere, ma un dono da elargire al servizio di coloro che il Signore ha posto al mio fianco come compagni di vita.
Tutto questo potrebbe apparire facile, ma di fatto non lo è. Assumere Gesù Cristo significa intraprendere con il Signore il cammino della Croce. Vuol dire imparare, giorno dopo giorno, che la realizzazione di sé si compie solo attraverso l’abbandono di sé. E’ imparare, andando controcorrente rispetto alla cultura contemporanea, che il dono di sé, non l’ « auto-stima », rappresenta la verità della vita. Vuol dire, in ultima analisi, apprendere che il mistero pasquale di morte e resurrezione non è semplicemente qualcosa che avvenne duemila anni fa; esso è piuttosto l’autentica dimensione della realtà così come fu creata, redenta e santificata da Dio.
La cristianità non può essere – a mio avviso – definita in modo appropriato come un sub-strato di quel fenomeno umano universale che chiamiamo « religione ». « Religione » così come la si intende nella cultura odierna (con la sua recente apertura alla « spiritualità ») è l’uomo alla ricerca di Dio. La cristianità è Dio in cerca dell’uomo. O, per definirla più correttamente con Hans von Balthasar, «La religione è il mondo in viaggio verso Dio. La Cristianità è Dio in viaggio verso il mondo, e coloro che credono in Lui che seguono la stessa direzione».
Questa verità viene a bussare prepotentemente alle nostre porte proprio a Natale. È la stessa che gli angeli annunciarono ai pastori nelle campagne sopra Betlemme: Dio, per raggiungere il mondo, si era fatto uomo così da poter entrare pienamente nel dolore del mondo per trasformarlo in gioia. È questo il viaggio che i pastori sono invitati a intraprendere: andare a trovare Dio, non nello splendore di un corteo angelico nei cieli, ma « avvolto in fasce che giaceva in una mangiatoia ».
Approssimarsi al Natale coi pastori è dunque riconoscere che Gesù Cristo è anche, e sempre, uno scandalo. Il Verbo Incarnato, per mezzo del quale tutte le cose sono state create, sottomette se stesso e la sua libertà ad un vincolo di natura umana. Tale mistero sarà più profondo, come lo scandalo di Cristo, fra Natale e la Settimana Santa: poiché il fanciullo di Betlemme diventerà un segno di contraddizione per un mondo che lo rifiuterà, lo insulterà ed infine lo ucciderà.
Ma quel mistero, quello scandalo che è Gesù Cristo non finisce con la sua morte. Poiché il figlio di Dio continua il suo viaggio verso quella parte del « mondo » dove il mondo non è mai stato: il regno dei morti che attendono la redenzione: Ed è qui che il sacrificio totale del Figlio è riscattato dal padre nella Resurrezione di Gesù che, come Cristo Risorto, manda il suo Spirito così che tutti noi possiamo condividere la vita nuova che è il frutto della sua morte salvifica. Non si tratta semplicemente di uno dei tanti esempi di religione come Gesù Cristo non è solo uno dei tanti uomini santi. Questa è la verità del mondo o la più folle fra le umane rivendicazioni.

(CENNI BIOGRAFICI – George Weigel è Docente presso l’Ethics and Public Policy Center di Washington, D.C. Fra le sue opere più signficative: The Final Revolution and the Collapse and Soul of the World: Notes on the Future of Public Catholicism. Attualmente sta lavorando ad una biografia di Giovanni Paolo II, che sarà pubblicata nell’ottobre del prossimo anno.)

IL MISTERO DEL TEMPO (GIUBILEO DEL 2000)

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(GIUBILEO DEL 2000)

LA CATECHESI DEL SANTO PADRE

IL MISTERO DEL TEMPO

Michael McDermott

Un Giubileo ha certamente a che fare con le cifre ed il tempo, ed in special modo il Grande Giubileo che coincide con la nascita di nostro Signore. Giustamente la Tertio Millennio Adveniente dedica il suo secondo capitolo ad una meditazione sul tempo. Giacchè il tempo è un mistero. In un certo senso esso rappresenta la realtà più ovvia e superficiale. Tutti lo misurano con ogni genere di orologi e programmano gli incontri in funzione di esso. Eppure, che accadrebbe se tutti gli orologi smettessero di funzionare?
Si fermerebbe il tempo? Gli orologi evidentemente non ci danno il tempo si limitano a misurarlo quale è. Aristotele definì il tempo «il numero del movimento secondo il prima e il poi». Ma la nostra epoca post-Einsteiniana ha conosciuto la relatività del tempo. Il moto può essere calcolato in misura diversa da prospettive diverse entro un universo in movimento. Non esiste un punto fisso fuori dell’universo dal quale il tempo possa essere misurato universalmente né può essere fornito uno standard oggettivo.
Cos’è dunque il tempo. Nella sua famosa meditazione nelle Confessioni Agostino decise che il tempo «è un’estensione dell’anima» a successione di stati psichici tramite la memoria e l’anticipazione. Ma questa risposta è soltanto parziale in quanto l’anima tesa a misurare è essa stessa avvolta dal tempo. La misurazione implica un inizio ed una fine. Se il tempo va oltre l’uomo, come può essere misurato? Il tempo sembra piuttosto misurare l’uomo.
Cos’è dunque il tempo? Come osservò Agostino, il passato non esiste più ed il futuro non esiste ancora. Il presente è fuggevole ed alla stregua di un punto di fuga di un paradosso Zenoniano può essere suddiviso all’infinito. Nel momento in cui lo misuriamo esso è già passato. L’espressione latina, Tempus fugit, coglie bene il paradosso, giacchè il verbo riflette al contempo presente e passato: nello stesso momento «il tempo fugge» ed «il tempo è fuggito».
Da dove proviene e dove fugge il tempo ? Poiché l’uomo non controlla né il suo inizio né la sua fine, egli non può rispondere a questa domanda. In un linguaggio più filosofico il tempo è radicato nella potenza della materia e la materia è inintellegibile all’uomo. Ragion per cui la questione del tempo riflette la questione dell’esistenza umana. Perché passa la scena di questo mondo. ( I Cor. 7,31)
Come può l’uomo gestire il tempo, un tempo che fornisce la «sostanza» della propria esistenza terrena e tuttavia minaccia la sua stessa esistenza? Le religioni naturali tentarono di legare il tempo alla ciclicità delle stagioni, immaginando questi eventi come riflessi di eventi celesti. Ma l’eterno ritorno debilita l’azione dell’uomo e svuota il tempo del suo significato. Le religioni più elevate e speculative riconoscono che la salvezza può consistere solo nella fuga dal ciclo della reincarnazione, dal tempo e da ogni limitazione verso la beatitudine di una conoscenza illimitata o verso il suo equivalente, la mancanza di conoscenza. Ma tale visione distrugge definitivamente il significato di questo mondo e di tutto ciò che accade in esso.
L’uomo è preso in una trappola: egli deve vivere bene nel mondo senza attribuire ad esso alcun significato. La rivelazione giudaico-cristiana contraddice ogni saggezza meramente umana proclamando che il tempo ha un inizio ed una fine e ciò che accade nel tempo ha un significato eterno. Dio dà al tempo un inizio ed una fine e poiché Dio è amore non vi può essere alcuna opposizione finale tra Infinito e finito, l’eternità ed il tempo, Dio e l’uomo. Dio ha creato il tempo affinché la libera creazione potesse tornare a Lui. La creazione non è avvenuta perché un Dio amorevole l’ha posta in essere, e tuttavia ciò non implica una diminuzione o limitazione di Dio giacché viene dal nulla ( ex nihilo). La creazione esiste in se stessa sebbene sia interamente riconducibile a Dio. Il Tempo quindi diventa il luogo d’incontro fra Dio e l’uomo, il luogo di libertà quando l’amore risponde all’Amore. La vera struttura della libertà implica la congiunzione tra Infinito e finito, Assoluto e relativo. Se l’uomo fosse incapace di incontrare l’Assoluto egli non avrebbe alcuna ragione ultima per qualsiasi scelta. Qualunque ragione addotta potrebbe essere relativizzata e la scelta diventerebbe arbitraria. Parimenti, neppure un immediato incontro con l’Assoluto priverebbe l’uomo della libertà di scelta. Poiché non vi sarebbe alcuna distanza, la libertà umana di scelta sarebbe sopraffatta, come nella visione beatifica dalla necessità di scegliere il Bene Supremo. Solo nella congiunzione tra Assoluto e finito la libertà umana è resa possibile. Il finito fornisce la distanza che garantisce che quella scelta non è obbligata mentre l’Assoluto motiva la scelta stessa.
In ciò si riflette l’intera struttura sacramentale del cattolicesimo per cui il Dio infinito si rende presente in una forma finita che richiede un risposta d’amore totale e dalla risposta dell’uomo dipendono la sua eterna salvezza o la sua dannazione. Questa struttura sacramentale era presente nella creazione di Adamo ed Eva che furono creati ad immagine di Dio che è Amore. Nel loro amore matrimoniale, un sacramento della creazione, Dio era presente come suo fondamento, forza e obiettivo. Il loro amore manifestava e rifletteva l’amore che è Dio. Sfortunatamente il peccato è entrato nel mondo. Quando Adamo proclamò Eva carne dalla mia carne o osso dalle mie ossa dopo il peccato non vollero assumersi la responsabilità dei loro atti, ma l’attribuirono ad altri ; e così la loro unità risultò distrutta (Gen. 2,23 ; 3,11-13). Avendo distrutto l’immagine divina dell’amore, gli uomini non sarebbero più stati capaci di trovare Dio in un mondo di peccato. Non vi sarebbe alcuna ragione per amare, né per cercare l’Assoluto. Il mondo sarebbe senza senso e l’uomo potrebbe assolutizzare il finito o disperare in tutti i sensi.
Sebbene l’uomo abbia respinto l’amore, l’Amore non ha respinto l’uomo. Già nel cacciare l’uomo dal Paradiso, notava S.Ireneo, Dio mostrò la Sua misericordia, sostituendo alle pungenti foglie di fico che ricoprivano le nudità di Adamo ed Eva indumenti di pelle. Con Abramo i ripetuti interventi divini diventarono storia pubblica poiché Egli formò un popolo particolare Suo proprio in previsione della incarnazione del proprio Figlio. Poiché Gesù è l’incarnazione dell’Amore, gli uomini dovevano possedere qualche conoscenza di ciò che era stato loro offerto come il più grande dei misteri. Il Vecchio Testamento preparò il Nuovo, istruendo gli uomini all’amore fedele di Dio e all’umano peccato, alla necessità di un Salvatore per vincere la durezza del cuore. Il Tempo è visto quindi come una preparazione a Cristo. Come ha scritto il Papa, «il Tempo è in effetti rappresentato dal fatto autentico che Dio, nella Incarnazione, si è calato nella storia umana» (TMA 9). In Gesù l’Assoluto ed il finito sono riuniti nella stessa persona in modo indissolubile. Dio offre Se stesso all’uomo, rinnovando l’immagine di Dio e facendola riflettere pienamente e sacramentalmente l’amore di Dio. Il mistero dell’amore è reso più manifesto e l’incarnazione dell’Amore consente all’uomo di incontrare Dio nel modo più chiaro possibile in un mondo di peccato. Proprio perché l’umanità di Gesù è pienamente umana essendo legata alla persona divina, il Tempo resta finito. Esso non è assolutizzato bensì salvato. E’ diventato in pienezza il luogo d’incontro delle libertà divine ed umane. Poiché l’Assoluto è penetrato nel tempo, Eschaton è giunto Il Tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino ;convertitevi e credete al Vangelo .(Mc 1,15)
Come rivelazione divina Gesù non può essere superato. Poiché non vi è nessuno più grande di Dio. Egli chiama gli uomini ad una assoluta adesione, per seguirlo anche fino alla morte. La libertà degli uomini deve essere realizzata congiungendosi personalmente a Gesù nella libertà e formando così il Suo Corpo, la Chiesa. L’obiettivo è stato raggiunto, il luogo della promessa e dell’amore realizzati.
Essa è inoltre il luogo della crescita nella pienezza, verso una più grande pienezza. Il «già» della presenza di Dio non distrugge ma potenzia il «non ancora» della risposta della libertà umana. Nella chiamata di Gesù all’apostolato che comporta il sacrificio e la relativizzazione del mondo intero (Mc 8,34-38) l’onnipotenza di Dio si è manifestata non per distruggere la libertà dell’uomo bensì per realizzarla.
L’«indicativo» dell’amore di Dio realizzato storicamente nella croce di Gesù e nella Resurrezione è il fondamento dell’«imperativo» dell’apostolato. L’amore di Dio ha fatto di tutto per liberarci dall’egoismo ma la nostra risposta dipende anche da noi. Così il Tempo conserva il suo significato per il cristiano. Non più una preparazione per Cristo, ma una vita ricolma di pienezza. E’ la sovrabbondanza dell’Amore incarnato, una buona misura, pigiata, scossa e traboccante vi sarà versata nel grembo (Lc. 6,38). Da questa sovrabbondanza scaturisce la missione cristiana, l’evangelizzazione. L’amore cristiano è naturalmente espansivo e Dio chiama tutti gli uomini ad esso. Talvolta i non credenti sono chiamati a diventare cristiani ed i cristiani sono sfidati a diventare ancor più se stessi, e ad identificarsi sempre più in Cristo, pienezza dell’Amore, pienezza del Tempo, l’Alfae l’Omega (Apoc. 1,8 ; 21,6), unendosi alla Chiesa, il suo Corpo, la pienezza di colui che si realizza interamente in tutte le cose per realizzare il disegno di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra. (Eph.1,10-23) Cristo è la misura ultima che contiene tutto il tempo e lo riporta a Dio.

Publié dans:GIUBILEO 2000 DOCUMENTI |on 18 avril, 2015 |Pas de commentaires »

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