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BENEDETTO XVI – GESÙ CRISTO « MEDIATORE E PIENEZZA DI TUTTA LA RIVELAZIONE »

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BENEDETTO XVI – GESÙ CRISTO « MEDIATORE E PIENEZZA DI TUTTA LA RIVELAZIONE »

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI

Mercoledì, 16 gennaio 2013

Cari fratelli e sorelle,

il Concilio Vaticano II, nella Costituzione sulla divina Rivelazione Dei Verbum, afferma che l’intima verità di tutta la Rivelazione di Dio risplende per noi «in Cristo, che è insieme il mediatore e la pienezza di tutta la Rivelazione» (n. 2). L’Antico Testamento ci narra come Dio, dopo la creazione, nonostante il peccato originale, nonostante l’arroganza dell’uomo di volersi mettere al posto del suo Creatore, offre di nuovo la possibilità della sua amicizia, soprattutto attraverso l’alleanza con Abramo e il cammino di un piccolo popolo, quello di Israele, che Egli sceglie non con criteri di potenza terrena, ma semplicemente per amore. E’ una scelta che rimane un mistero e rivela lo stile di Dio che chiama alcuni non per escludere altri, ma perché facciano da ponte nel condurre a Lui: elezione è sempre elezione per l’altro. Nella storia del popolo di Israele possiamo ripercorrere le tappe di un lungo cammino in cui Dio si fa conoscere, si rivela, entra nella storia con parole e con azioni. Per questa opera Egli si serve di mediatori, come Mosè, i Profeti, i Giudici, che comunicano al popolo la sua volontà, ricordano l’esigenza di fedeltà all’alleanza e tengono desta l’attesa della realizzazione piena e definitiva delle promesse divine.
Ed è proprio la realizzazione di queste promesse che abbiamo contemplato nel Santo Natale: la Rivelazione di Dio giunge al suo culmine, alla sua pienezza. In Gesù di Nazaret, Dio visita realmente il suo popolo, visita l’umanità in un modo che va oltre ogni attesa: manda il suo Figlio Unigenito; si fa uomo Dio stesso. Gesù non ci dice qualcosa di Dio, non parla semplicemente del Padre, ma è rivelazione di Dio, perché è Dio, e ci rivela così il volto di Dio. Nel Prologo del suo Vangelo, san Giovanni scrive: «Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato» (Gv 1,18).
Vorrei soffermarmi su questo “rivelare il volto di Dio”. A tale riguardo, san Giovanni, nel suo Vangelo, ci riporta un fatto significativo che abbiamo ascoltato ora. Avvicinandosi la Passione, Gesù rassicura i suoi discepoli invitandoli a non avere timore e ad avere fede; poi instaura un dialogo con loro nel quale parla di Dio Padre (cfr Gv 14,2-9). Ad un certo punto, l’apostolo Filippo chiede a Gesù: «Signore, mostraci il Padre e ci basta» (Gv 14,8). Filippo è molto pratico e concreto, dice anche quanto noi vogliamo dire: “vogliamo vedere, mostraci il Padre”, chiede di “vedere” il Padre, di vedere il suo volto. La risposta di Gesù è risposta non solo a Filippo, ma anche a noi e ci introduce nel cuore della fede cristologica; il Signore afferma: «Chi ha visto me, ha visto il Padre» (Gv 14,9). In questa espressione si racchiude sinteticamente la novità del Nuovo Testamento, quella novità che è apparsa nella grotta di Betlemme: Dio si può vedere, Dio ha manifestato il suo volto, è visibile in Gesù Cristo.
In tutto l’Antico Testamento è ben presente il tema della “ricerca del volto di Dio”, il desiderio di conoscere questo volto, il desiderio di vedere Dio come è, tanto che il termine ebraico panîm, che significa “volto”, vi ricorre ben 400 volte, e 100 di queste sono riferite a Dio: 100 volte ci si riferisce a Dio, si vuol vedere il volto di Dio. Eppure la religione ebraica proibisce del tutto le immagini, perché Dio non si può rappresentare, come invece facevano i popoli vicini con l’adorazione degli idoli; quindi, con questa proibizione di immagini, l’Antico Testamento sembra escludere totalmente il “vedere” dal culto e dalla pietà. Che cosa significa allora, per il pio israelita, tuttavia cercare il volto di Dio, nella consapevolezza che non può esserci alcuna immagine? La domanda è importante: da una parte si vuole dire che Dio non si può ridurre ad un oggetto, come un’immagine che si prende in mano, ma neppure si può mettere qualcosa al posto di Dio; dall’altra parte, però, si afferma che Dio ha un volto, cioè è un «Tu» che può entrare in relazione, che non è chiuso nel suo Cielo a guardare dall’alto l’umanità. Dio è certamente sopra ogni cosa, ma si rivolge a noi, ci ascolta, ci vede, parla, stringe alleanza, è capace di amare. La storia della salvezza è la storia di Dio con l’umanità, è la storia di questo rapporto di Dio che si rivela progressivamente all’uomo, che fa conoscere se stesso, il suo volto.
Proprio all’inizio dell’anno, il 1° gennaio, abbiamo ascoltato, nella liturgia, la bellissima preghiera di benedizione sul popolo: «Ti benedica il Signore e ti custodisca. Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia. Il Signore rivolga a te il suo volto e ti conceda pace» (Nm 6,24-26). Lo splendore del volto divino è la fonte della vita, è ciò che permette di vedere la realtà; la luce del suo volto è la guida della vita. Nell’Antico Testamento c’è una figura a cui è collegato in modo del tutto speciale il tema del “volto di Dio”; si tratta di Mosé, colui che Dio sceglie per liberare il popolo dalla schiavitù d’Egitto, donargli la Legge dell’alleanza e guidarlo alla Terra promessa. Ebbene, nel capitolo 33 del Libro dell’Esodo, si dice che Mosé aveva un rapporto stretto e confidenziale con Dio: «Il Signore parlava con Mosè faccia a faccia, come uno parla con il proprio amico» (v. 11). In forza di questa confidenza, Mosè chiede a Dio: «Mostrami la tua gloria!», e la risposta di Dio è chiara: «Farò passare davanti a te tutta la mia bontà e proclamerò il mio nome… Ma tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo… Ecco un luogo vicino a me… Tu vedrai le mie spalle, ma il mio volto non si può vedere» (vv. 18-23). Da un lato, allora, c’è il dialogo faccia a faccia come tra amici, ma dall’altro c’è l’impossibilità, in questa vita, di vedere il volto di Dio, che rimane nascosto; la visione è limitata. I Padri dicono che queste parole, “tu puoi solo vedere le mie spalle”, vogliono dire: tu puoi solo seguire Cristo e seguendo vedi dalle spalle il mistero di Dio; Dio si può seguire vedendo le sue spalle.
Qualcosa di completamente nuovo avviene, però, con l’Incarnazione. La ricerca del volto di Dio riceve una svolta inimmaginabile, perché questo volto si può ora vedere: è quello di Gesù, del Figlio di Dio che si fa uomo. In Lui trova compimento il cammino di rivelazione di Dio iniziato con la chiamata di Abramo, Lui è la pienezza di questa rivelazione perché è il Figlio di Dio, è insieme «mediatore e pienezza di tutta la Rivelazione” (Cost. dogm. Dei Verbum, 2), in Lui il contenuto della Rivelazione e il Rivelatore coincidono. Gesù ci mostra il volto di Dio e ci fa conoscere il nome di Dio. Nella Preghiera sacerdotale, nell’Ultima Cena, Egli dice al Padre: «Ho manifestato il tuo nome agli uomini… Io ho fatto conoscere loro il tuo nome» (cfr Gv 17,6.26). L’espressione “nome di Dio” significa Dio come Colui che è presente tra gli uomini. A Mosè, presso il roveto ardente, Dio aveva rivelato il suo nome, cioè si era reso invocabile, aveva dato un segno concreto del suo “esserci” tra gli uomini. Tutto questo in Gesù trova compimento e pienezza: Egli inaugura in un nuovo modo la presenza di Dio nella storia, perché chi vede Lui, vede il Padre, come dice a Filippo (cfr Gv 14,9). Il Cristianesimo – afferma san Bernardo – è la «religione della Parola di Dio»; non, però, di «una parola scritta e muta, ma del Verbo incarnato e vivente» (Hom. super missus est, IV, 11: PL 183, 86B). Nella tradizione patristica e medioevale si usa una formula particolare per esprimere questa realtà: si dice che Gesù è il Verbum abbreviatum (cfr Rm 9,28, riferito a Is 10,23), il Verbo abbreviato, la Parola breve, abbreviata e sostanziale del Padre, che ci ha detto tutto di Lui. In Gesù tutta la Parola è presente.
In Gesù anche la mediazione tra Dio e l’uomo trova la sua pienezza. Nell’Antico Testamento vi è una schiera di figure che hanno svolto questa funzione, in particolare Mosè, il liberatore, la guida, il “mediatore” dell’alleanza, come lo definisce anche il Nuovo Testamento (cfr Gal 3,19; At 7,35; Gv 1,17). Gesù, vero Dio e vero uomo, non è semplicemente uno dei mediatori tra Dio e l’uomo, ma è “il mediatore” della nuova ed eterna alleanza (cfr Eb 8,6; 9,15; 12,24); «uno solo, infatti, è Dio – dice Paolo – e uno solo il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù» (1 Tm 2,5; cfr Gal 3,19-20). In Lui noi vediamo e incontriamo il Padre; in Lui possiamo invocare Dio con il nome di “Abbà, Padre”; in Lui ci viene donata la salvezza.
Il desiderio di conoscere Dio realmente, cioè di vedere il volto di Dio è insito in ogni uomo, anche negli atei. E noi abbiamo forse inconsapevolmente questo desiderio di vedere semplicemente chi Egli è, che cosa è, chi è per noi. Ma questo desiderio si realizza seguendo Cristo, così vediamo le spalle e vediamo infine anche Dio come amico, il suo volto nel volto di Cristo. L’importante è che seguiamo Cristo non solo nel momento nel quale abbiamo bisogno e quando troviamo uno spazio nelle nostre occupazioni quotidiane, ma con la nostra vita in quanto tale. L’intera esistenza nostra deve essere orientata all’incontro con Gesù Cristo all’amore verso di Lui; e, in essa, un posto centrale lo deve avere l’amore al prossimo, quell’amore che, alla luce del Crocifisso, ci fa riconoscere il volto di Gesù nel povero, nel debole, nel sofferente. Ciò è possibile solo se il vero volto di Gesù ci è diventato familiare nell’ascolto della sua Parola, nel parlare interiormente, nell’entrare in questa Parola così che realmente lo incontriamo, e naturalmente nel Mistero dell’Eucaristia. Nel Vangelo di san Luca è significativo il brano dei due discepoli di Emmaus, che riconoscono Gesù allo spezzare il pane, ma preparati dal cammino con Lui, preparati dall’invito che hanno fatto a Lui di rimanere con loro, preparati dal dialogo che ha fatto ardere il loro cuore; così, alla fine, vedono Gesù. Anche per noi l’Eucaristia è la grande scuola in cui impariamo a vedere il volto di Dio, entriamo in rapporto intimo con Lui; e impariamo, allo stesso tempo a rivolgere lo sguardo verso il momento finale della storia, quando Egli ci sazierà con la luce del suo volto. Sulla terra noi camminiamo verso questa pienezza, nell’attesa gioiosa che si compia realmente il Regno di Dio. Grazie.

 

Publié dans:GESÙ TEMI VARI, Papa Benedetto XVI |on 12 décembre, 2017 |Pas de commentaires »

LA SAPIENZA UMANA NEI DETTI DI GESÙ – di Rinaldo Fabris

http://www.finesettimana.org/pmwiki/index.php?n=Db.Sintesi?num=113

LA SAPIENZA UMANA NEI DETTI DI GESÙ

sintesi della relazione di Rinaldo Fabris
Verbania Pallanza, 7 dicembre 1996

La modalità più comune di sapere sapienziale è la piccola sentenza ritmica, nella forma del proverbio, espressione non tanto dell’erudizione quanto dell’amore intelligente.
Gesù si colloca all’interno della tradizione popolare della sapienza. Appare estraneo alla sapienza colta, coltivata a corte o presso il tempio.
L’immagine di un Gesù profeta apocalittico arrabbiato non corrisponde a quanto i vangeli ci trasmettono. Più veritiera è quella di saggio, sapiente, maestro.

Gesù « maestro »
Marco ci presenta Gesù, dopo l’annuncio programmatico del Regno, come un maestro che insegna con autorità (Mc 1,21-22), un’autorità che non gli deriva da titoli di scuola conseguiti. Gesù è un autodidatta, un sapiente carismatico.
Gesù è un terapeuta itinerante, ex falegname, che suscita lo stupore, la meraviglia e anche la reazione stizzita dei suoi compaesani (Mc 6,2-3).
Gesù, al pari di ogni altro essere umano (una malintesa fede nella divinità di Gesù ha messo in ombra questo aspetto) compie tutto il percorso di formazione umana. Il suo sapere è legato alla sua esperienza.
La cultura di Gesù è una cultura popolare, di carattere pratico e induttivo, propria di un artigiano che lavora con le mani. Gesù mostra una grande capacità di leggere in profondità le esperienze umane.
Luca retroproietta nella vicenda storica delle origini la figura del maestro che insegna con autorità e sapienza (Lc 2,39-40; 46-47).

proverbi e sentenze sapienziali
Si trovano soprattutto nel discorso sul monte di Matteo e in quello più breve ambientato in pianura di Luca.
armonia tra interno/esterno
La trasparenza tra interno/esterno costituisce uno dei temi più affascinanti dei vangeli, con l’immagine dell’occhio e della luce o del parlare che viene dalla pienezza del cuore.
Sulla stessa linea si colloca la critica alla purità rituale, esteriore, in favore di una purità interiore, della qualità delle relazioni con gli altri e con Dio.
coerenza e sincerità
Gesù colpisce per la sua libertà e coerenza.
Critica i farisei che pretendono di guidare gli altri senza avere una luce interiore (ciechi guide di ciechi); critica chi scopre la pagliuzza nell’occhio del fratello ma non la trave nel proprio. Si tratta di sentenze che fanno riflettere.
ascoltare e mettere in pratica
Gesù invita a costruire la propria vita su un solido fondamento, come una casa costruita sulla roccia, nell’ascoltare e nel mettere in pratica le sue parole.
valutazione e uso dei beni
L’interesse per la salute, per il corpo, per l’uso dei beni è un problema sapienziale che ha a che fare con il senso del vivere.
Gesù invita a riflettere sull’investimento affettivo: sul cuore che segue il luogo del tesoro e sulla dedizione totale a qualcuno (non si possono servire due padroni).
Gesù invita non a disprezzare i beni (Mt 6,25.27-28) ma a disporli secondo una corretta gerarchia. I beni più importanti, come la salute o la vita, sono beni gratuiti. Vivendoli secondo questa prospettiva si fa esperienza religiosa, si coglie il senso del vivere: vivere con senso di gratitudine, senza crearsi inutili problemi (ad ogni giorno basta la sua pena).

enigmi sapienziali
L’enigma, una sentenza paradossale o oscura, è un invito a riflettere.
La esperienza religiosa non si identifica con un semplice stato emotivo, ma neppure col ragionamento. La tradizione sapienziale privilegia la capacità di riflettere, fa appello alla ragione, ma immergendola in un clima affettivo.
La sapienza non è la fredda filosofia o teologia, non è puro stato emotivo, ma è una riflessione partecipe della vita.
Rispondendo alle critiche rivolte ai suoi discepoli perché non digiunano, Gesù afferma che in tempo di nozze si fa festa, che il vestito nuovo non ha bisogno di toppe, che il vino giovane ha bisogno di otri nuovi. È la chiara affermazione della novità di Gesù: gioia e festa non conciliabili con vecchi modi di pensare e di agire.
Come i bambini che giocano alla festa di nozze o al funerale così è capricciosa la gente che critica Giovanni perché troppo severo e Gesù perché fa festa.
Gesù, a chi lo critica perché non si è sposato, dice che ci sono eunuchi per il regno dei cieli. Non tutti possono capirlo, ma solo coloro ai quali è concesso: la sapienza nasce dalla riflessione sulla vita, ma è anche dono di Dio, è lasciarsi illuminare da Dio che parla attraverso la vita.

similitudini sapienziali
L’esperienza religiosa deve essere vista per poter essere riconosciuta, come la lucerna deve essere messa in alto.
Occorre stare attenti al vecchio rappresentato da Erode e dai farisei (il lievito che corrompe, Mc 8,15).
L’immagine del cammello e della cruna sono usate per parlare della difficoltà di un ricco ad entrare nel regno dei cieli.

detti e similitudini del quarto vangelo
Anche nel quarto vangelo, disseminate qua e là, si trovano espressioni che mostrano il gusto di Gesù per la sentenza che fa riflettere sul senso del vivere, come quelle sul tempio ricostruito in tre giorni, sullo spirito che è come il vento (il modo libero dell’agire di Dio), sui tempi nuovi in cui addirittura chi semina fa tutt’uno con chi miete, sul chicco che deve morire per portare molto frutto, sul legame affettivo tra pastore e gregge, immagine di quello tra Gesù e i discepoli, sulla partenza e sulla morte premessa per una nuova e più profonda relazione (Gv 16,21-22).

conclusione
Gesù riflette sui fatti della vita per cogliere il senso della propria vita e missione, per fare intravedere l’agire di Dio: è un riflettere come un andare dentro le cose per coglierne il senso davanti a Dio.
Il vangelo, la buona notizia del nuovo rapporto tra Dio e gli uomini, è amore intelligente, è sapienza.

Publié dans:DOCENTI - STUDI, GESÙ TEMI VARI |on 29 juillet, 2015 |Pas de commentaires »

Il MAESTRO NELLA PATRISTICA E NELLA TRADIZIONE ECCLESIALE

http://www.stpauls.it/studi/maestro/italiano/pierini/itapie03.htm

Il MAESTRO NELLA PATRISTICA E NELLA TRADIZIONE ECCLESIALE

(in particolare nel « De Magistro » di S. Agostino e di S. Tommaso d’Aquino)

Atti del Seminario internazionale
su « Gesù, il Maestro »
(Ariccia, 14-24 ottobre 1996)

di Franco Pierini ssp

2. l’antichità pre-costantiniana (fino al 313)

2.1. Sguardo generale
L’impero romano, fin dall’epoca della sua fondazione, si presentò come vera e propria istituzione pedagogica, volta ad ottenere con i mezzi più diversi il consenso o almeno la sottomissione da parte dei sudditi (Virgilio, Eneide, 6, 851-853: «Tu regere imperio populos, romane, memento – hae tibi erunt artes – pacique imponere morem, parcere subiectis et debellare superbos»). Furono pedagogici gli arcaismi di Augusto, Claudio, Adriano, Decio, ecc.; gli atteggiamenti paternalistici o filosofici di Vespasiano e Tito, di Nerva, Antonino Pio, Marco Aurelio, Caligola, Nerone, Commodo; la politica degli imperatori Severi.
L’atmosfera culturale dell’epoca, d’altra parte, spingeva nella direzione di un pedagogismo generalizzato: nella filosofia, nella letteratura, nell’arte.(22)

Nulla di strano, perciò, se le espressioni paideia di Dio, paideia di Cristo si trovino non solo negli scritti del Nuovo Testamento (specialmente nelle lettere deuteropaoline e pastorali) ma anche già nel primo, cronologicamente parlando, degli scritti patristici, ossia nella Lettera ai Corinzi di Clemente di Roma, risalente al 96 circa, specialmente negli ultimi capitoli.(23)
Se nell’ambito del giudeo-cristianesimo Cristo Maestro si presenta soprattutto come Cristo-legge (nomos),(24) nel cristianesimo ellenistico e romano assume sempre maggiore importanza (dietro l’esempio di Filone di Alessandria) Cristo Maestro come Cristo-logos.
Cristo Maestro inteso come legge è utile nella polemica con gli ebrei; Cristo Maestro inteso come logos lo è nella polemica con i pagani. Il filosofo-apologista Giustino li usa infatti entrambi, il primo nel Dialogo di Trifone, il secondo nelle Apologie (soprattutto nella forma di logos spermatikòs). In entrambi i casi, Cristo appare come il protagonista della paideia di Dio rivolta rispettivamente agli ebrei e ai pagani.(25)
Dato che l’eresia si presenta soprattutto come gnosticismo, Ireneo di Lione, nella sua opera Contro gli eretici, è in grado di contrapporre agli eoni gnostici Cristo-logos, al dualismo tipico dello gnosticismo l’unità della paideia divina nella storia della salvezza unica per tutti, nell’unico Cristo Maestro e nell’unica Chiesa maestra.(26)
Tutti i Padri della Chiesa di quest’epoca, naturalmente, sottolineano l’esigenza della imitazione di Cristo. In un’epoca che è anche caratterizzata da persecuzioni continuamente incombenti, il martire risulta, d’altra parte, l’imitatore più perfetto del Maestro Divino.(27)
La paideia di Cristo e della Chiesa, nei primi tre secoli di storia cristiana, giunge alla più significativa espressione, però, nell’esperienza dell’ambiente alessandrino. Qui esisteva già da vari secoli il Mouseion pagano, ossia la casa delle nove muse rappresentanti dei vari settori del sapere; esisteva la Casa della ricerca (o Bet-midrash) ebraica, dove Filone aveva condotto alla perfezione l’interpretazione allegorica della Torah. In questo centro culturale di primaria importanza, era inevitabile che sorgesse più precocemente che altrove una istituzione pedagogica cristiana, e fu il famoso Didaskaleion, fondato agli inizi del secolo III.(28)
Dall’ambiente alessandrino emergono due nomi: Clemente e Origene. Sono essi i protagonisti dello sforzo più impegnativo e più vasto volto a creare una vera e propria paideia cristiana, in grado di stare all’altezza di quella ebraica e di quella pagana anche dal punto di vista culturale. (torna al sommario)

2.2. Il pedagogo e la paideia cristiani di Clemente e Origene
Clemente di Alessandria (150-215 circa), pur non avendo insegnato ufficialmente nel Didaskaleion, è considerato uno degli esponenti più caratteristici dell’ambiente culturale cristiano di Alessandria d’Egitto. Fu lui a progettare una specie di enciclopedia cristiana intorno alla figura del Maestro Divino, il Logos incarnato, Dio fatto uomo.
Seguendo lo schema didattico in voga presso le filosofie religiose dell’epoca, egli probabilmente svolse una prima parte, di tipo persuasivo e propagandistico (l’attuale opera intitolata Protrettico); una seconda parte, in cui Cristo appare come il Maestro rivolto a tutti, essoterico (Il Pedagogo); una terza parte, in cui vengono approfonditi i temi dei rapporti fra cultura e rivelazione, ragione e fede, ecc. (l’attuale opera Stromati, che forse avrebbe dovuto intitolarsi Il Didascalo), in funzione dell’insegnamento di tipo esoterico.
La teologia di Clemente è una vera e propria pedagogia cristologica. Ispirata da un sottofondo filosofico di tipo eclettico, manca ancora di sistematicità, ma, nella sua sterminata erudizione, offre una quantità di prospettive preziose sia per lo studio della tradizione cristiana antica, sia per i confronti con la cultura classica greca e romana.(29) È comunque il primo tentativo di costruire una strategia propagandistica, una cultura elementare e una conoscenza superiore (gnosi) per la comunicazione del cristianesimo a tutti i livelli e in tutte le direzioni.(30)
Origene di Alessandria (185-254) svolge in maniera ancora più vasta e sistematica la paideia cristiana messa in cantiere per la prima volta da Clemente. Mentre però costui si era limitato a costruire il processo della propria indagine intorno al centro focale costituito da Cristo maestro come protrettico, come pedagogo e come didascalo, Origene adotta la totalità della metodologia dei dotti del suo tempo, dando vita ad una paideia vasta e articolata, da lui messa in opera prima ad Alessandria (fra il 203 e il 231), poi a Cesarea di Palestina (fra il 232 e il 253).
La descrizione della paideia cristiana di Origene si trova nel Discorso a Origene, composto nel 238 dallo studente Gregorio il Taumaturgo. Come si desume da questo documento, abbiamo qui quello che è stato giustamente definito « il primo abbozzo di università cristiana ».
Il piano di studi promosso da Origene è lo stesso delle scuole superiori pagane, ispirate soprattutto dal medio platonismo di Albino, Massimo di Tiro, Numenio, dallo stoicismo di Cornuto e Cheremone, dal neopitagorismo di Filostrato, ecc. Le materie sono la logica, la fisica, l’etica e la metafisica; la metodologia prevalente l’allegorismo. Ma naturalmente lo spirito e lo scopo sono diversi: lo spirito è quello cristiano-ecclesiale, lo scopo è l’intelligenza sempre più profonda dell’insegnamento divino incarnato nella persona di Cristo Maestro e presente nella parola della Bibbia.(31)
Con le opere di Clemente e Origene si compie così una prima assimilazione complessiva sia della rivelazione cristiana, sia della cultura antica. E questo come paideia, ossia come prima espressione dell’umanesimo cristiano. (torna al sommario)

3. l’antichità post-costantiniana (313-450 circa)
3.1. Sguardo generale
Terminate le persecuzioni, riconosciuta la libertà al cristianesimo, si passa ben presto ad una trasformazione di portata epocale: l’impero romano-pagano diventa impero romano-cristiano. Le esigenze pedagogiche dello Stato rimangono le stesse: procurarsi il consenso. Ma cambiano le modalità. Nonostante i tentativi cesaropapisti di vari imperatori, che si illudono di poter strumentalizzare il cristianesimo come avevano fatto con le religioni pagane, il compito pedagogico, ossia di egemonia spirituale e culturale, passa sempre di più nelle mani della Chiesa.
Neppure il neo-platonismo, l’ultima grande filosofia religiosa del paganesimo, riesce a far tornare indietro la storia, nonostante la breve reazione anti-cristiana di Giuliano l’Apostata (361-363).
Nell’ambito del cristianesimo, d’altra parte, il venir meno della testimonianza del sangue (il martirio propriamente detto) viene compensato dalla nascita e dalla diffusione rapida e strepitosa di una nuova forma di testimonianza: quella dell’ascetismo monastico, sia nella forma eremitica, sia in quella cenobitica. L’imitazione di Cristo Maestro, che prima guardava soprattutto al martire, ora guarda soprattutto a Cristo asceta, cercando già di riprodurlo sotto ogni aspetto descritto dal Vangelo. Tutto questo è già evidente nella biografia di Antonio l’egiziano scritta da Atanasio (356 circa), ma diventa ancor più sistematico nella teorizzazione del monachesimo operata dai Padri Cappadoci, specialmente da Gregorio di Nissa (cf gli scritti Il fine cristiano, La professione cristiana, La perfezione cristiana, del 390-394 circa).
Pochi decenni prima, Ambrogio di Milano aveva sviluppato un’analoga operazione, propagandando la verginità, come imitazione di Maria, madre di Gesù.
La congiuntura favorevole suscita la seconda grande epoca di scolarizzazione cristiana, dopo quella avvenuta nei secoli II-III e culminata nel Didaskaleion di Alessandria. Ora nascono anche le scuole catechetiche di Antiochia (iniziata al principio del sec. IV ma giunta al suo acme nella seconda metà del secolo), di Edessa (fiorita nel medesimo periodo) ed altre minori, come Cesarea di Cappadocia, Milano, ecc., oltre quelle collegate con i primi grandi monasteri. E queste istituzioni scolastiche, seguendo i consigli di un Basilio di Cesarea (Ammonimento ai giovani sull’uso dei classici pagani) e di un Girolamo (in varie lettere), non respingono ma cercano di rianimare con spirito cristiano l’eredità culturale greca e romana, che ormai va sistemandosi nelle arti liberali del trivio e del quadrivio.
La scuola cristiana è rivolta, naturalmente, a educare l’uomo nuovo. Il fenomeno è evidente nella predicazione, tipicamente pedagogica, di Giovanni Crisostomo (344-407), che è anche autore della più antica esposizione di pedagogia cristiana sistematica (La vanità e l’educazione dei figli, del 380 circa), parallela, in certo senso, all’unico trattatello pedagogico giuntoci dall’antichità pagana, quello dello Pseudo Plutarco (Come educare i propri figli, risalente al II secolo d.C.), anche se ben diversa sia nella forma che nella sostanza e nello spirito.
In questa fase storica della paideia cristiana, importanza ben maggiore ebbero, tuttavia, le controversie teologiche e cristologiche con le relative definizioni conciliari (a Nicea contro l’arianesimo nel 325, a Costantinopoli contro il macedonianismo nel 381, a Efeso contro il nestorianesimo nel 431, a Calcedonia contro il monofisismo nel 451), e le contemporanee controversie sulla Chiesa (condanne del donatismo ad Arles nel 314 e a Cartagine nel 411) e sulla grazia (condanne del pelagianesimo a Cartagine e a Milevi nel 416).
Gli approfondimenti dottrinali che ne emersero diedero modo di comprendere meglio lo spessore e la fisionomia più autentica del magistero di Cristo. Prima attraverso le opere di Atanasio, Ilario, i Cappadoci, Cirillo di Alessandria, Leone I; poi soprattutto attraverso quelle di Agostino.
Ne risulta, in sostanza: Cristo, riconosciuto nella sua divinità preesistente l’incarnazione (Nicea); riconosciuto nella distinzione e completezza delle sue due nature, divina e umana, dopo l’incarnazione (Efeso e Calcedonia); riconosciuto come operante nella Chiesa attraverso il suo Spirito, terza persona della Trinità (Costantinopoli); questo Cristo è sempre garantito, nelle debite condizioni, a tutti i suoi fedeli (contro il donatismo), e non è un Maestro puramente esteriore, ma vera grazia di trasformazione radicale e di divinizzazione (contro il pelagianesimo). Insomma, Cristo Maestro non è solo il rabbì storico vissuto in Palestina con il suo insegnamento, col suo esempio, con i suoi miracoli, con la sua morte e risurrezione, ma è anche e soprattutto, nella attuale fase della storia della salvezza, il Maestro esistente e operante in tutti con la sua grazia, ossia lo Spirito di Cristo, lo Spirito Santo.(32)
Agostino, quando si accinge a scrivere il suo De Magistro nel 389, è già in grado di intuire quest’orientamento della paideia cristiana. Egli, così, nel periodo post-costantiniano, può assolvere, ad un livello assai più alto, il compito assolto nel periodo precedente da Clemente e Origene insieme. (torna al sommario)

3.2. Il « De Magistro » di Agostino di Ippona (389)
Si può affermare con sicurezza che Agostino di Ippona (354-430) scrisse quello che prima personalmente sperimentò, perché egli stesso si è preoccupato di ricordarlo, descriverlo nelle opere autobiografiche, spiegarlo e approfondirlo in ogni occasione.
Anche il De Magistro, che può sembrare a prima vista un discorso fortemente speculativo e astratto nonostante la forma di dialogo, è l’eco di esperienze vissute. Questo risulta chiaramente, se l’opera viene contestualizzata come si deve nella vita di Agostino e nel complesso delle altre opere che la precedono e la seguono.
Agostino, nato a Tagaste nel 354, subisce un forte disorientamento intellettuale e morale all’età di sedici anni. Ne esce fuori una prima volta, con una conversione alla « passione della verità » nel 373 attraverso la lettura dell’Hortensius di Cicerone. Nuovi sbandamenti morali e ideologici. Una seconda conversione, la « conversione della mente », avviene a 32 anni, nel 386, quando si accosta alla filosofia neoplatonica e riesce a scoprire che la verità tanto cercata si trova nell’interiorità dello spirito. La terza conversione, la « conversione del cuore e della volontà », segue poco dopo, quando, con animo ben diverso, torna a leggere la Bibbia e soprattutto le lettere di S. Paolo, e viene a conoscenza di alcune esperienze ascetiche e monastiche.
La maturazione decisiva, comunque, avviene nel corso del 386 e 387, prima e dopo il battesimo, ricevuto nella notte di Pasqua, 24/25 aprile, del 387. Nelle opere scritte in questo periodo, soprattutto nel De ordine (novembre-dicembre 386), è evidente il progetto agostiniano di fondare su nuove basi non solo la propria vita e quella dei propri parenti e amici ma l’intera paideia, l’intera Weltanschauung antica, sulla base del cristianesimo, di Cristo Maestro.
Il De Magistro, dialogo fra Agostino e il figlio Adeodato (che muore l’anno dopo, nel 390), anche nella forma letteraria di tipo platonico, è il manifesto del nuovo « socratismo cristiano ». Vi si parla, infatti, socraticamente, delle condizioni per la ricerca e l’attingimento della verità e delle condizioni per la comunicazione della verità. La riflessione è perciò sullo strumento essenziale per la ricerca e la comunicazione della verità, ossia il linguaggio, più in generale il segno.
Lo stoicismo aveva già insegnato a distinguere nel segno (sémeion) il significante (semàinon) e il significato (semainòmenon). In che rapporto – si chiedono Agostino e Adeodato – significante e significato stanno con le cose (oggi diremmo, i referenti), per arrivare a conoscere la verità e comunicarla?
Il De Magistro non tratta, perciò, problemi di pedagogia spicciola (come il trattatello di Giovanni Crisostomo), ma temi di pedagogia fondamentale, di teoria della conoscenza e del metodo. La pedagogia è intesa non tanto come didattica, quanto piuttosto come teoria generale dei segni (semiotica: nn. 1-18) e dei significati (semantica: nn. 19-35) e solo dopo come teoria della didattica, ossia della comunicazione (didattica o pragmatica: nn. 36-46).
La tesi di fondo è che i segni (soprattutto il linguaggio) ma anche i non segni (come le azioni e le cose stesse) sono inevitabili per cercare la verità e comunicarla, ma nello stesso tempo sono insufficienti, dato che la verità vera ognuno la intuisce nel proprio intimo, in virtù della presenza non delle idee platoniche già contemplate e ora riemergenti attraverso la memoria, ma in virtù della presenza del « Maestro interiore », la luce del Verbo, la grazia dello Spirito.
Il principio agostiniano di verità, di conoscenza, di comunicazione è, in sostanza, quello dell’intuizione. Esso viene enunciato così nell’opera De vera religione, composta pochi mesi dopo, sempre nel 389: «Non uscir fuori, torna in te stesso: è nell’uomo interiore che abita la verità. E se avrai trovato mutabile la tua natura, trascendi anche te stesso. Ma ricordati, quando ti trascendi, che trascendi un’anima che ragiona. Dirigiti, dunque, laddove viene accesa la luce stessa della ragione» (n. 39).
La nuova paideia agostiniana è perciò una didattica basata sulla semiotica, ma più ancora basata sulla teologia del Maestro interiore, ossia sulla cristologia pneumatica, sullo Spirito Santo. In Agostino, infatti, natura e soprannatura non sono mai separate.
In termini di comunicazione, per Agostino, non ci può essere rapporto fra l’io e il tu, il mittente e il destinatario, se non c’è sempre in qualche maniera anche Dio. Quindi: io – (Dio) – tu.
In termini di significazione, ossia di acquisizione della verità da comunicare, il significante e il significato esigono un costante rapporto con le cose, ossia con i referenti interni ed esterni. Ma tale rapporto non può essere garantito che dal collante della grazia divina, ossia dalla presenza dello Spirito di Cristo, del « Maestro interiore ». Perciò, per Agostino, il triangolo segnico tra significante, significato e referente deve essere necessariamente un quadrato dove sia presente anche la grazia, o meglio un circuito ermeneutico dove questi quattro elementi convivano in perfetta funzionalità e armonia.
La paideia agostiniana si perfezionerà poi con le opere sulla didattica vera e propria, come De doctrina christiana (396-397, 427) e De catechizandis rudibus (405). Ma si esprimerà anche attraverso la descrizione della paideia vissuta, sia sul piano personale (Confessionum libri, 397-401), sia sul piano storico-sociale (De Civitate Dei, 413-426).(33) (torna al sommario)

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