I LUOGHI BIBLICI FONDAMENTALI: IL DESERTO E GESÙ
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I LUOGHI BIBLICI FONDAMENTALI: IL DESERTO E GESÙ
Martino Signoretto
«Dal deserto le cose si vedono meglio,
con proporzioni più eterne»
(Carlo Carretto)
Israele si è formato come popolo di Dio nel e attraverso il deserto. Con ciò si può affermare che il deserto fa parte dell’imprinting di questo popolo[1]. I profeti non mancano di richiamare il tempo e lo spazio del deserto, per fare memoria dell’origine di una identità[2], dentro la quale è custodita una certa immagine di Dio. Il deserto fa parte anche dell’iniziazione di Gesù e comporta anche per lui un imprinting, essendo situato subito dopo il battesimo, prima della sua uscita alla vita pubblica.
A differenza del Sinai e del Neghev, Gesù frequenta un deserto diverso, più piccolo, il deserto di Giuda. A differenza dei quarant’anni del popolo, Gesù vi trascorre quaranta giorni. Cambia il nome, la collocazione geografica e il tempo, ma l’esperienza è sempre quella del deserto.
Il deserto è pure luogo di connessione tra l’Antico e il Nuovo Testamento, tra l’ultimo dei profeti, Giovanni il Battista, e Gesù, colui che inaugura il nuovo regno. Giovanni vive nel deserto di Giudea (Mt 3,1) e interpreta quella «voce che grida nel deserto», di cui parla Is 40,3. Isaia e il Battista non fanno riferimento al medesimo deserto, ma questo non fa problema per coloro che ascoltano il compimento dell’oracolo isaiano. Anzi, nei sinottici solo in Mt 3,1 si esplicita il nome del deserto, in tutte le altre citazioni sia Giovanni sia Gesù frequentano semplicemente «il deserto», riportato con l’articolo (Mt 4,1; Lc 3,2), senza nominare di quale deserto si tratti. All’autore interessa questo luogo per il suo significato.
Non manca il deserto anche nella predicazione di Gesù. Il breve inciso di Mt 24, 23-26, lascia pensare come vi erano aspettative messianiche che immaginavano che la salvezza sarebbe apparsa nel deserto. Il quarto evangelista, pur non riportando come nei sinottici l’episodio iniziale di Gesù nel deserto[3], accenna al tema in alcuni discorsi di Gesù: il serpente di bronzo in Gv 3,14; la manna in Gv 6,31.49. Il riferimento all’«acqua viva» nell’incontro con la samaritana in Gv 4 e Gv 7,38 può avere come sfondo l’episodio dell’acqua scaturita dalla roccia di Es 17.
1. Il deserto e il suo ecosistema
Due sono i grandi deserti in Israele/Palestina: a sud da Bersabea a Eilat si diparte il deserto del Negev, mentre dalla sponda ovest del Mar Morto fino al confine con la Samaria, si estende il deserto di Giuda. Si differenziano solo in ampiezza. Sono fondamentalmente rocciosi, alternano monti e colline con gli wadi, insenature torrenziali a volte alimentate da qualche rara sorgente che crea piccole oasi, ma sopratutto strade naturali, ideali anche per la pastorizia[4]. Questo comporta di trovare sempre delle piante, che crescono anche in luoghi improbabili. In alcuni casi segnalano dove l’acqua si accumula in vasche sotterranee dopo le rare ma potenti piogge invernali. Come dice Dt 11,11, la terra di Israele «beve l’acqua dalla pioggia che viene dal cielo» (cf. Sal 104,13).
Forse non riusciremmo a immaginare abbastanza come questa differenza con i grandi imperi di Egitto e Mesopotamia, alimentati dall’acqua tutto l’anno, sia alla base di una certa spiritualità biblica, una spiritualità dell’affidamento, fidarsi di colui «che fa piovere» (Mt 5,45). Il rapporto con madre terra pone sempre le prime regole della fede.
Quello del Neghev e della Giudea sono deserti popolati da animali. Ci sono animali diurni, fondamentalmente erbivori, e animali notturni, spesso predatori, cantati e contemplati con una certa precisione nel Salmo 104 (confronta Sal 104,11.17-18 e Sal 104,20-23).
L’insieme di questi fattori produce un ecosistema complesso, proprio perché l’acqua non manca del tutto. La vita in questi deserti «trionfa» sulla morte, ma in modo preferibilmente nascosto e umile.
Queste sono alcune delle indicazioni per comprendere come anche l’esperienza di questo deserto abbia influito sulla rappresentazione che Israele aveva della propria fede[5].
2. Il deserto del re Davide
Gli episodi più salienti legati al deserto sono quelli del popolo di Israele narrati in Esodo e Numeri. Anche il re Davide ha fatto l’esperienza del deserto. Il re prima di essere proclamato tale ha dovuto conoscere l’esperienza dell’«esilio» nel deserto, inseguito dal re Saul (cf. 1Sam 23,14). Una volta proclamato re di tutto Israele, non poté sfuggire a un ulteriore «esilio» nel deserto. Dopo alcuni anni di regno, uno dei suoi figli, Assalonne, usurpò il suo trono. Davide fu costretto ad andarsene, lasciando Gerusalemme per inoltrarsi nel deserto. 1Sam 15,23.30 riporta questo momento difficile:
Tutti piangevano ad alta voce, mentre tutto il popolo sfilava. Il re stava in piedi nella valle del Cedron, mentre tutto il popolo passava davanti a lui, diretto verso il deserto. […] Davide saliva l’erta degli Ulivi; saliva piangendo, a capo coperto, e procedeva scalzo. Tutto il popolo che era con lui si coprì il capo e salì piangendo continuamente (1Sam 15,23.30).
Chi è stato a Gerusalemme conosce il Cedron che separa la città dal Monte degli Ulivi, rivolto a oriente in direzione del deserto. Leggendo il testo di Samuele si può immaginare la scena: il re Davide che piange mentre lascia Gerusalemme e «ritorna» al deserto. Dopo mille anni circa, Gesù provenendo dalla strada del deserto, da Gerico, scendendo dal Monte del gli Ulivi, piangerà sulla città santa (Lc 19,41-44).
Questi e altri episodi contribuiscono ad arricchire di significati il Monte degli Ulivi, a motivo della sua collocazione geografica e biblica. Questo monte, infatti, costituisce un punto di passaggio necessario, tra il deserto e la città. La geografia del monte ha alimentato lungo i secoli una visione teologica: è il monte dei pianti[6]; un confine naturale tra la città e il deserto, ma anche il luogo escatologico di passaggio tra cielo e terra, sul quale il messia poserà i suoi piedi secondo Zac 14,4[7]; luogo significativo anche per le sue tombe; un monte molto caro a Gesù.
3. Il deserto: «luogo di passaggio» e «luogo della prova»
Il deserto è considerato un luogo di prova e tentazione (in greco la parola è la medesima, peirasmos). Così è stato per il popolo di Israele (Dt 8,1-5), così è stato per Gesù (Mt 4,1-11 e Lc 1-13). Mentre il primo ha ceduto, incrementando gli interventi di Dio per perdonarlo ed educarlo, il secondo ha superato le prove, uscendone «vincitore». Leggendo Mstteo e Luca, le prove sono tre: a) trasformare le pietre in pane; b) gettarsi dal precipizio, assicurati dagli angeli, e così dare spettacolo; c) prostrarsi a Satana per avere gloria e potere. Tali prove sono legate agli appetiti fondamentali della vita, riassumibili in tre verbi: avere (a); valere (b); potere (c). Da un punto di vista giudaico sembrano pure legate ai tre elementi presenti nella preghiera dello Shemà Israel di Dt 6,4-9: «Con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze», come anche ai tre riti di pietà, l’elemosina, il digiuno e la preghiera[8]. Secondo la prospettiva giudaica, allora, alle tre prove corrispondono tre atteggiamenti e comportamenti opposti. Gesù nel deserto, con il suo digiuno e la sua preghiera, ha dunque amato Dio con tutto il cuore, l’anima e le forze.
La tradizione ha voluto fissare un luogo per poter ricordare questo episodio. Si tratta della «Laura di Duka» presso il Monte della Quarantena, il monte che sovrasta la città di Gerico, a ricordo dei quaranta giorni di Gesù nel deserto[9]. Attualmente si vede il monastero ortodosso del 1895, ma la tradizione è antica, legata alla figura di San Caritone.
I quaranta giorni o i quarant’anni di deserto sono «luogo e momento di passaggio». Si tratta di uno spazio e un tempo per crescere, imparare dai propri errori nel caso di Israele, o verificare la bontà del «profeta», di quanto sia veramente un inviato di Dio, nel caso di Gesù.
Le tentazioni del deserto sono lì a dire una situazione permanente, un’esposizione alle prove della vita che il Figlio di Dio affronterà fino alla croce. Luca accenna in modo più esplicito questo aspetto (cf. Lc 4,13 con 19,35-37). Di fatto tutta la vita di Gesù è esposta alla tentazione, è una prova. Ad esempio, in Gv 6,15 Gesù evita che lo proclamino re. Non esiste una prova definitiva, in quanto tutta una vita è messa alla prova[10].
4. Il deserto: «luogo di ospitalità»
La versione di Marco di Gesù nel deserto è concisa, perché non riporta le tre prove:
E subito lo Spirito lo sospinse nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana. Stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano (Mc 1,12-13).
Il termine «deserto» compare due volte con l’articolo. L’evangelista annta che Gesù «stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano». Anche Matteo accenna agli angeli, alla conclusione delle tre tentazioni (Mt 4,11), ma in Marco è più esplicito il riferimento a una tradizione apocrifa che precedeva l’epoca neotestamentaria. Secondo tale tradizione Adamo e Eva vivevano in pace con gli animali, anche quelli diventati feroci, ed erano serviti dagli angeli[11] e Adamo entrò a prendere parte dell’Eden dopo quaranta giorni[12].
Il deserto è luogo e tempo di passaggio, ma Marco sembra sottolineare anche il fatto che si tratti di un luogo di vita, di compimento escatologico, dove Gesù, nuovo Adamo, compie le promesse messianiche di Isaia a riguardo del rapporto con la natura (Is 35,1-2) e gli animali (Is 11,6-8)[13].
L’Antico Testamento parla di un deserto fiorito, partendo dall’esperienza concreta tutt’oggi sperimentabile di vedere i deserti di Israele trionfare di verde e di fiori a seguito delle rare piogge torrenziali. Tale prodigio non manca di suggerire un richiamo al giardino terrestre (Is 51,3), soprattutto per un profeta come Isaia che ha nutrito di questa esperienza molti dei suoi oracoli di speranza:
Si rallegrino il deserto e la terra arida, esulti e fiorisca la steppa. Come fiore di narciso fiorisca; sì, canti con gioia e con giubilo. Le è data la gloria del Libano, lo splendore del Carmelo e di Saron. Essi vedranno la gloria del Signore, la magnificenza del nostro Dio (Is 35,1-2).
Il deserto non è richiamato per esprimere un nuovo esodo, quanto un giardino, un nuovo Eden. Isaia nei suoi oracoli include la terra arida: fa entrare nell’idea di terra promessa un deserto fiorito, ospitale, vivibile, gioioso e bello, pensato come dono. Nel rapporto tra deserto ed giardino (Eden), l’evangelista Marco sembra più di altri lasciare intendere una prospettiva futura, anticipa con un segno messianico a cosa si è destinati, a cosa puntare, dove si è diretti, senza bisogno di spostarsi. Is 11,6-8 profetizza come anche animali feroci partecipino di questa pace:
Il lupo dimorerà insieme con l’agnello; il leopardo si sdraierà accanto al capretto; il vitello e il leoncello pascoleranno insieme e un piccolo fanciullo li guiderà. La mucca e l’orsa pascoleranno insieme; i loro piccoli si sdraieranno insieme. Il leone si ciberà di paglia, come il bue. Il lattante si trastullerà sulla buca della vipera; il bambino metterà la mano nel covo del serpente velenoso (Is 11,6-8).
A ciò possiamo aggiungere anche Is 43,20 e 65,25. L’immagine diventa suggestiva di un ritorno alla dimensione primordiale, ma anche di un desiderio di pace dove non si versi più sangue (Gen 9,1-6), dove il rapporto con la natura non comporti più paura, minaccia, fatica per la sopravvivenza. Nella tradizione apocrifa, dopo la caduta si afferma esplicitamente che Adamo ed Eva erano condannati anche ad avere gli animali come nemici[14]. L’espressione «stava/era con le fiere», con l’imperfetto del verbo essere in senso continuativo, diventa l’eco di tutto mondo nuovo di relazioni guarite, rinnovate, salvate: un mondo di pace totale.
A distanza di secoli il deserto di Giuda ha ospitato centinaia di monaci. Come afferma Pia Compagnoni «il deserto di Giuda è fiorito, infatti, poiché si è popolato di migliaia di creature assetate di Dio»[15]. Caritone, Eutimio, Teodosio e Saba sono solo alcuni dei principali monaci anacoreti che dal IV al VI secolo hanno scelto di stare presso gli wadi del deserto, fondare laure, accogliere pellegrini, dedicarsi all’ascesi e alla preghiera, condividere le loro esperienze, accogliere e accompagnarli nella vita spirituale.
5. Dalla «terra promessa» alla «promessa della terra»
Questo passaggio comporta anche una rivisitazione geografica del significato della «terra promessa» (Eb 11,9), in funzione di una visione escatologica. La terra promessa non è da immaginare un luogo esclusivo ed escludente, se, da un punto di vista geografico, è profetizzata una meta dove trovano spazio anche luoghi inospitali come i deserti. Nella «promessa della terra» emerge la possibilità di ospitalità anche là dove non sembra possibile, perché si annunci una terra nuova, ospitale, cristologicamente orientata. Nella sola «terra promessa» il rischio è che i confini marchino in modo deleterio chi occupa lo spazio della salvezza e chi no[16].
L’immagine geografica favorisce l’interpretazione biblica che ha come sfondo l’Antico Testamento. Gesù è anche un «nuovo Giosuè», che completa il percorso del popolo presso le steppe di Moab, in attesa di entrare nella terra[17]. Il fiume Giordano fa da confine tra il tempo del Pentateuco, che è tempo e spazio di «attesa della terra», e i libri storici, tempo e spazio in cui si «vive sulla terra», perché si compie del tutto la promessa di Abramo (Gen 12,1-4).
Come Giosuè, anche Gesù sale dal Giordano, entra nella terra, sceglie la «Galilea delle Genti» (Is 8,22) e inizia il suo ministero con queste parole: «il regno di Dio è vicino» (Mc 1,15; Lc 4,43).
Il popolo aveva più volte conquistato e poi persa la terra. Il regno divenne un sogno. Il popolo era segnato da questa tensione, tra deserto e città, tra desertificazione e abitazione. Gesù allora interrompe questo ciclo terribile, da cui non si esce, proprio perché non è più necessario uscire definitivamente dal deserto: il deserto può fiorire.
6. Gesù e i suoi deserti
Gesù lascia l’aerea desertica della Giudea, ma il deserto stesso «viaggia» con Gesù per le strade di Galilea. L’episodio iniziale è paradigmatico anche per la sua valenza geografica. Il deserto, infatti, caratterizzerà l’operato di Gesù anche altrove.
Gesù inizia la sua vita pubblica, si fa vivo presso i villaggi di Galilea, in particolare si stabilisce a Cafarnao (Mt 4,13 e 9,1). Questa immersione nella vita pubblica non impedisce a Gesù di appartarsi, di scegliersi degli «eremi» ed è proprio il termine eremos «deserto», utilizzato con la parola topos «luogo», che ritorna spesso per segnalare il momento in cui Gesù si ritira (Mt 14,13; Mc 1,35.45; 6,31; Lc 4,42; 5,16).
Se c’è una discontinuità geografica, di fatto incontriamo una forma di continuità terminologica dietro cui leggere un legame tra l’esperienza di Gesù nel deserto di Giuda e le scelte successive di ritirarsi in «luoghi deserti». Nel suo stile itinerante, Gesù ama isolarsi a tempo opportuno, ama non farsi trovare immediatamente. Nel versetto finale del primo capitolo di Marco sembra di sentire l’eco di qualcosa che capitava al Battista quando era nel deserto:
Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma rimaneva fuori, in luoghi deserti (eremois topois); e venivano a lui da ogni parte (Mc 1,45).
È curioso pensare che Girolamo chiama solitudo[18] una sommità situata proprio nella zona di Tabgha, la zona delle sette sorgenti, la più frequentata da Gesù e ricca di riferimenti neotestamentari, nell’area di Cafarnao. È sulle montagne di questo lato del lago che Gesù amava ritirarsi (Mc 1,35; 6,46).
Anche Egeria descrive la medesima zona a nord ovest del lago e parla di «un monte alto sul quale il Signore spiegò ai discepoli le beatitudini e che è chiamato Eremus»[19]. L’altura davanti alla chiesa del Primato presso Tabga presenta una piccola grotta a pochi metri dai resti bizantini, abbandonati, memoria del luogo della proclamazione delle beatitudini, attualmente spostato sulla cima del monte, certamente più suggestivo per i turisti. Tale grotta, per quanto abbia solo qualche legame con la tradizione[20], è utile per comprendere la geografia del lago, per immaginare come Gesù si sceglieva gli eremoi topoi «luoghi deserti/solitari» (Mc 1,45), veri e propri osservatori sul mondo, appartati ma non isolati da una realtà che lo circondava e lo interrogava.
Dalle alture di Tabgha si contempla il lago: si vedevano alcuni porti, non ultimo quello di Cafarnao, sulla destra sono visibili Tiberiade e Magdala (Tarichea), i Corni di Hattin dove giungeva Wadi Hamam/Arbel, quindi una strada importante proveniente da Nazaret; di fronte, a Est, vi era la sponda pagana, dove si colloca l’episodio di Gerasa (Kursi) e primeggia la città di Sushita (Hyppos), collocata sul monte, città della Decapoli.
Il deserto dunque accompagna tutta la vita di Gesù. Egli sceglieva di ritirarsi, apprezzando una geografia della terra che permetteva di godere di spazi di solitudine fuori dai villaggi. Era quello un tempo e uno spazio privilegiato per consultarsi con il Padre celeste, uno spazio e un tempo in relazione con i villaggi e le strade, quindi con la gente.
Vi è un gioco di parole che amano fare i rabbini tra i termini ebraici dabar, «parola», e midbar, «deserto». Etimologicamente il termine affonda le sue origini nell’ugaritico, ma viene interpretato anche come nome composto mi + dabar, dove il mi- privativo permette di interpretare midbar con il significato di «assenza di parola». In effetti nel deserto la parola è assente, vige il silenzio, diventando un luogo ideale per educare alla ricerca del senso ultimo di ogni cosa, per comprendere cioè che «non di solo pane vive l’uomo» (Mt 4,4). Il popolo, allora, ha veramente bisogno di essere condotto nel deserto, così Gesù ve lo porta e lo sfama: è la condivisione dei pani che troviamo in Mc 6,31-44 (cf. Mt 14,13-23). L’espressione eremos topos, «luogo deserto/solitario» si ripete per tre volte (vv. 31, 32 e 35). In Mc 6,40 la folla è suddivisa per cinquanta e cento richiamando Es 18,21.25.
Gesù nutre della sua manna il popolo, Gesù è parola che sazia la fame e la sete del deserto. Il deserto educa il cammino, la sete e la fame, cioè al rapporto tra sete e fede, tra desiderio e fede, tra la ricerca del senso e la possibilità di trovarlo proprio là dove sembra assente. Gesù ci guarisce dalla paura del deserto ma anche dalla ricerca di un deserto per soli scopi ascetici, per una fuga dal mondo. Abitandolo, anticipa proprio nel luogo più inospitale, la definitiva ospitalità che nei cieli ci attende.
NOTE SUL SITO (sono molte)