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LE DOMANDE FILOSOFICHE SULL’ESISTENZA – BLAISE PASCAL (1662)

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L’uomo nella natura, sospeso fra due infiniti

LE DOMANDE FILOSOFICHE SULL’ESISTENZA - BLAISE PASCAL (1662)

Pensieri, nn. 84-91

In questi brani di cui vi proponiamo la lettura, Blaise Pascal presenta una riflessione sulla condizione dell’uomo in rapporto all’immensità della natura ponendogli davanti al pensiero due abissi: da una parte l’infinitamente grande, l’estremo, il termine delle cose, e dall’altra l’infinitamente piccolo, il nulla. Di fronte a questi due abissi, si provi ad immaginare la grandezza dell’universo o uno scorcio di atomo, il filosofo si chiede dunque cosa sia l’uomo nella natura, ovvero un nulla in confronto all’infinito, un tutto in confronto al nulla. Quindi, ribalta la stessa riflessione nell’ambito delle scienze e della conoscenza dei primi principi arrivando ad argomentare come la conoscenza della verità, di fronte agli abissi in cui l’uomo resta smarrito e sospeso, possa ritrovarsi in Dio.
84. Ecco dove ci portano le conoscenza naturali. Se esse non sono veritiere, non c’è affatto verità nell’uomo; e se lo sono, egli vi troverà un grande motivo di umiliazione, perché costretto ad abbassarsi in un modo o nell’altro. E, poiché non può vivere senza credere in esse, mi auguro che prima di procedere in ricerche più profonde sulla natura egli la consideri una volta con serietà e a proprio agio, esamini anche se stesso e conoscendo quale proporzione egli ha…
L’uomo contempli la natura intera nella sua alta e piena maestà; allontani il suo sguardo dagli oggetti meschini che lo circondano. Guardi quella luce splendente, collocata come una lampada eterna a illuminare l’universo; la terra gli appaia come un punto in confronto dell’immenso giro che quell’astro descrive e si stupisca che questo immenso giro è anch’esso descritto dagli astri che ruotano nel firmamento. Ma se la nostra vista si arresta lì, l’immaginazione vada oltre; essa cesserà di immaginare, prima che la natura cessi di fornirle materiale. Tutto questo mondo visibile non è che un segmento impercettibile nell’ampio seno della natura. Nessuna idea vi s’avvicina. Abbiamo un bello sforzarci di dilatare le nostre concezioni al di là degli spazi immaginabili, non partoriremo che atomi, a prezzo della realtà delle cose. È una sfera infinita il cui centro è ovunque, la circonferenza in nessun luogo. Infine, che la nostra immaginazione si perda in tale pensiero è il più grande segno sensibile dell’onnipotenza di Dio.
L’uomo, dopo essere ritornato in sé, consideri ciò che egli è in confronto di ciò che esiste; si consideri come smarrito in questo angolo appartato della natura; e da questa piccola prigione in cui è stato posto, intendo dire l’universo, impari a valutare la terra, i reami, le città e se stesso in giusta misura. Cos’è un uomo nell’infinito? Ma per presentargli un altro prodigio altrettanto meraviglioso, cerchi, tra quanto conosce, le cose più minute. Un acaro gli presenti, nella piccolezza del suo corpo, parti incomparabilmente più piccole, zampe con giunture, vene nelle zampe, sangue nelle vene, umori nel sangue, gocce negli umori, vapori nelle gocce; suddividendo ancora queste ultime cose, egli esaurisca le sue forze in queste concezioni, e l’ultimo oggetto cui possa arrivare sia per ora quello del nostro discorso; forse penserà che lì stia l’estrema piccolezza della natura. Voglio fargli vedere lì dentro un nuovo abisso. Voglio dipingergli non solamente l’universo visibile, ma quell’immensità della natura che si può concepire, nell’ambito di quello scorcio d’atomo.
Vi scorga un’infinità di universi, di cui ciascuno ha il suo firmamento, i suoi pianeti, la sua terra, nelle stesse proporzioni del mondo visibile: in questa terra animali, e alla fine acari, nei quali ritroverà ciò che i primi gli hanno presentato; e trovando ancora negli altri la stessa cosa, senza fine e senza posa, si perda in queste meraviglie, così stupefacenti nella loro piccolezza quanto le altre nella loro estensione; chi non si stupisce infatti che il nostro corpo, che poco fa non era percettibile nell’universo, impercettibile a sua volta in seno al tutto, sia ora un colosso, un mondo, o piuttosto un tutto, in confronto al nulla, a cui non si può arrivare? Chi si considererà in tal modo si sgomenterà di se stesso e, considerandosi sospeso, nella massa che la natura gli ha data, tra questi due abissi dell’infinito e del nulla, tremerà alla vista di tali meraviglie; e credo che, mutandosi la sua curiosità in ammirazione, sarà disposto più a contemplarle in silenzio che a indagarle con presunzione. Infine, che cos’e l’uomo nella natura? Un nulla in confronto con l’infinito, un tutto in confronto al nulla, qualcosa di mezzo tra il nulla e il tutto.
Infinitamente lontano dal comprendere gli estremi, il termine delle cose e il loro principio sono per lui invincibilmente, egualmente incapace di scorgere il nulla, da cui è tratto, e l’infinito in cui è inghiottito. Che farà dunque, se non percepire qualche apparenza di ciò che è mediano nelle cose, in una eterna disperazione di non conoscere né il loro principio, né la loro fine? Tutte le cose sono uscite dal nulla e portate fino all’infinito. Chi scoprirà tali meravigliosi processi? L’autore di tali meraviglie non le comprende. Nessun altro lo può fare. Non avendo contemplato questi infiniti, gli uomini si sono volti in modo temerario alla ricerca della natura, come se avessero qualche proporzione con essa. È una cosa strana che essi abbiano voluto comprendere i principi delle cose, e di là giungere a comprendere il tutto, con una presunzione o senza una capacità sconfinata, come la natura. Quando si è istruiti, si comprende che, avendo la natura impressa l’immagine sua e quella del suo artefice in tutte le cose, queste partecipano quasi tutte della sua duplice infinità. Così notiamo che tutte le scienze sono infinitamente estese nelle loro ricerche; infatti, chi dubita che la geometria, ad esempio, ha una infinità d’infinità di proposizioni da esporre?
Queste sono anche infinite nella molteplicità e nella finezza dei loro principi; infatti, chi non vede che quelli che sono proposti per ultimi non si reggono di per se stessi e che sono fondati su altri, i quali, appoggiandosi su altri ancora, non ne ammettono mai un ultimo? Ma noi trattiamo gli ultimi principi che si presentano alla ragione come si fa nelle cose materiali: dove chiamiamo punto indivisibile quello al di là del quale i nostri sensi non percepiscono più nulla, benché sia divisibile all’infinito e per sua natura. Di questi due infiniti delle scienze, quello della grandezza e più percettibile, e perciò si spiega perché è capitato a pochi di pretendere di conoscere tutte le cose. «Ho intenzione di parlare di tutto» diceva Democrito. Ma l’infinita nella piccolezza è molto meno manifesta. Qui, sono stati piuttosto i filosofi che hanno preteso di arrivarvi, ed è proprio qui che tutti si sono arenati. È questo che ha offerto l’occasione a titoli così comuni: I principi delle case, I principi della filosofia e ad altri simili altrettanto grandiosi in realtà, anche se lo sembrano in apparenza meno, di quest’altro che cava gli occhi, De omni scibili. Ci si crede naturalmente più capaci di giungere al centro delle cose che di abbracciare la loro circonferenza. L’estensione visibile del mondo ci sorpassa in modo manifesto; ma dal momento che siamo noi a sorpassare le piccole cose, ci crediamo più capaci di dominarle; e tuttavia necessita non meno capacità per arrivare al nulla che al tutto: ne necessita una infinità per l’uno e per l’altro, e mi sembra che chi avesse compreso i principi ultimi delle cose potrebbe pure pervenire a conoscere l’infinito. L’uno dipende dall’altro e l’uno conduce all’altro.
Queste estremità si toccano e si riuniscono a forza d’essersi allontanate; e si ritrovano in Dio e in Dio soltanto. Rendiamoci conto dunque delle nostre possibilità: siamo qualcosa, ma non tutto; quel che abbiamo d’essere ci sottrae la conoscenza dei primi principi che hanno origine dal nulla; e quel poco d’essere che abbiamo ci nasconde la vista dell’infinito. La nostra intelligenza occupa nell’ordine delle cose intellegibili lo stesso grado del nostro corpo nell’estensione della natura. Limitati in ogni campo, questa condizione, che occupa una posizione intermedia tra due estremi, si ritrova in tutte le nostre facoltà. I nostri sensi non percepiscono nulla di estremo; troppo rumore ci assorda, troppa luce abbaglia, troppa lontananza e troppa vicinanza impediscono la vista, troppa lunghezza e troppa brevità rendono oscuro il discorso, troppa verità ci stupisce (conosco persone che non ce la fanno a capire che sottraendo da zero quattro, resta zero); i primi principi sono troppo evidenti per noi, troppo piacere incomoda, troppe consonanze spiacciono nella musica, troppi benefici irritano, noi vogliamo avere di che ripagare a dovizia secondo il debito: beneficia eo usque latea sunt dum videntur ecsolvi posse; ubi multum antevenere, pro gratia odium redditur [I benefici che si ricevono sono graditi fintanto che si ritiene di poterli contraccambiare; se essi superano di molto questo limite, la gratitudine cede il passo all'odio].
Noi non avvertiamo né l’estremo caldo né l’estremo freddo. Le qualità eccessive ci sono avverse e non sono percepibili: non le sentiamo più, le soffriamo. Troppa giovinezza e troppa vecchiaia impacciano lo spirito, troppa e troppo poca istruzione. Infine, le cose estreme sono per noi come se non esistessero, e noi non esistiamo nei loro confronti: esse ci sfuggono, ed anche noi a loro. Ecco la nostra vera condizione: ed essa ci rende incapaci di conoscere con certezza e di ignorare in modo totale. Noi vaghiamo in uno spazio ampio, sempre incerti e sballottati, sospinti da un’estremità all’altra. Qualunque termine a cui pensiamo di legarci e di fermarci, oscilla e ci abbandona; e se lo seguiamo, sfugge alla nostra presa, ci scivola via e fugge di una eterna fuga. Nulla si ferma per noi. È la nostra condizione naturale, e tuttavia la cosa più contraria alla nostra inclinazione; noi bruciamo dal desiderio di trovare un assetto stabile e un’ultima base solida per edificarvi una torre che si innalzi all’infinito; ma ogni nostro fondamento scricchiola e la terra si apre sino agli abissi. Non cerchiamo, dunque, sicurezza né stabilità. La nostra ragione è sempre delusa dalla mutevolezza delle apparenze; nulla può fissare il finito tra i due infiniti che lo racchiudono e lo fuggono. Avendo ben capito questo, credo che ci si terrà quieti, ciascuno nello stato in cui la natura lo ha posto. Poiché questo luogo di mezzo che ci è toccato in sorte è sempre lontano dagli estremi, che cosa importa che uno abbia un po’ più di intelligenza nelle cose? Se ne ha, egli le intende un po’ più dall’alto. Non è sempre infinitamente lontano dalla meta, e la durata della vostra vita non è egualmente infima rispetto all’eternità, anche se dura dieci anni in più? Considerando questi infiniti, tutti i finiti sono uguali; e non vedo perché fermare l’immaginazione piuttosto sull’uno che non sull’altro. Il solo confrontarci al finito ci fa pena. Se l’uomo studiasse se stesso per prima cosa, capirebbe quanto sia incapace di andare oltre. Come potrebbe parte conoscere il tutto? – Forse aspirerà a conoscere almeno quelle parti con cui ha una proporzione? – Ma tutte le parti del mondo hanno un tale rapporto e un tale concatenamento l’una con l’altra che credo impossibile conoscere l’una senza l’altra e senza il tutto.
L’uomo, ad esempio, è in rapporto con tutto ciò che conosce. Ha bisogno di un luogo che lo contenga, di tempo per durare, di movimento per vivere, di elementi per essere composto, di calore e di cibo per essere nutrito, di aria per respirare; vede la luce, sente i corpi; insomma, tutto rientra in unione con lui. Occorre dunque, per conoscere l’uomo, sapere per quale motivo egli ha bisogno d’aria per vivere, e per conoscere l’aria occorre sapere perché essa ha simile rapporto con la vita dell’uomo, eccetera. La fiamma non sussiste senza l’aria; dunque, per conoscere l’una bisogna conoscere l’altra. Dunque, poiché tutte le cose sono causate e causanti, adiuvate e adiuvanti, mediate e immediate, e poiché tutte sono collegate da un legame naturale e impercettibile che lega fra loro le più lontane e le più diverse, ritengo impossibile conoscere le parti senza conoscere il tutto, altrettanto quanta conoscere il tutto senza conoscere le parti una per una. «L’eternità delle cose in se stesse o in Dio deve anch’essa far stupire la nostra breve durata. L’immobilità fissa e costante della natura, in confronto con il continuo cambiare che si svolge in noi, deve produrre lo stesso effetto». E ciò che contempla la nostra impotenza a conoscere le cose è che quelle sono semplici, mentre noi siamo composti di due nature opposte e di diverso genere, di anima e di corpo.
Infatti, è impossibile che la parte che in noi ragiona sia anche altro, oltre che spirituale; e qualora si pretendesse che noi fossimo soltanto formati di materia, ciò ci impedirebbe ancor di più di conoscere le cose, poiché non vi è nulla di più inconcepibile che affermare che la materia conosce se stessa; non ci è possibile conoscere come essa conosce. E così, se noi [siamo] semplicemente materiali, non possiamo conoscere niente del tutto, e se siamo composti di spirito e materia, non possiamo conoscere alla perfezione le cose semplici, spirituali o corporali. Da ciò deriva che quasi tutti i filosofi confondono i concetti delle cose, e parlano di cose materiali in modo spirituale e di cose spirituali in modo materiale.
Essi infatti dicono arditamente che i corpi tendono in basso, che aspirano al loro centro, che fuggono la loro distruzione, che temono il vuoto, che [hanno] inclinazioni, simpatie, antipatie: sono tutte cose che appartengono agli spiriti. E, parlando degli spiriti, li considerano come in un luogo e attribuiscono loro il muoversi da un posto a un altro, che sono cose che appartengono solo ai corpi. Invece di cogliere nella loro purezza i concetti di queste cose, li tingiamo delle nostre qualità e impregniamo [del] nostro essere composto tutte le cose semplici che contempliamo. Chi non crederebbe, vedendoci attribuire a ogni cosa spirito e corpo, che tale mescolanza ci sia moltoo comprensibile? Viceversa, è la cosa che si comprende di meno. L’uomo è a se stesso l’oggetto più prodigioso della natura; non può intendere, infatti, che cos’e il corporeo, e ancor meno che cos’è lo spirito, e meno di tutto come qualche cosa come un corpo possa essere unito a uno spirito.Sta in questa il massimo delle sue difficolta, e tuttavia è questo il suo proprio essere: Modus quo corporibus adhaerent spiritus comprehendi ab hominibus non potest, et hoc tamen homo est [Il modo in cui lo spirito è unito al corpo non può essere capito dagli uomini e ciò nonostante si tratta dell'uomo]. Infine, per completare la prova della nostra debolezza, finirò con queste due considerazioni.
85. Se si è troppo giovani, non si giudica bene; lo stesso capita se si è troppo vecchi. Se non si riflette abbastanza, se si riflette troppo, ci si incaparbisce e ci si incapriccia. Se si considera il proprio lavoro subito dopo averlo fatto, se ne è ancora tutti presi; se molto tempo dopo, non ci si immedesima più in esso. Così i quadri, visti troppo da lontano e troppo da vicino: vi è solo un punto indivisibile che sia il luogo giusto. Gli altri sono troppo vicini, troppo lontani, troppo in alto, oppure troppo in basso. Nell’arte della pittura la prospettiva sa determinare il punto giusto. Ma nella verità e nella morale, chi lo stabilirà?
86. Quando tutto si muove in modo uguale, in apparenza nulla si muove, come su una nave. Quando tutti vanno verso la sfrenatezza, sembra che nessuno vada. Chi si ferma, porta a rilevare, come un punto fisso, il lasciarsi travolgere degli altri.
87. Coloro che si trovano nella sregolatezza dicono a coloro che sono nell’ordine che sono essi ad allontanarsi dalla natura, mentre essi credono di seguirla: come quelli che si trovano su una nave credono che ad allontanarsi siano quelli che si trovano a riva. Il linguaggio è lo stesso da tutte le parti. Bisogna avere un punto fisso per giudicare. Il porto giudica quelli che sono su una nave; ma dove troveremo noi un porto nella morale?
88. Quando considero la breve durata della mia vita, assorbita nell’eternità che la precede e la segue, il piccolo spazio che riempio e che vedo, inabissato nell’infinita immensità degli spazi che ignoro e che mi ignorano, io mi spavento e mi stupisco di vedermi qui piuttosto che là, perché non vi è motivo perché qui piuttosto che là, perché ora piuttosto che allora. Chi mi ci ha messo? Per ordine e per opera di chi mi è stato destinato questo luogo e questo tempo?
89. Perché la mia conoscenza è limitata? La mia statura? La mia durata di cent’anni piuttosto che mille? Quale motivo ha avuto la natura di darmela di tale misura e di scegliere questa numero piuttosto che un altro, fra gli infiniti numeri non essendoci maggior ragione di scegliere l’uno più che l’altro, dato che nessuno attira più di un altro?
90. Quanti reami ci ignorano!
91. Il silenzio eterno di questi spazi infiniti mi spaventa.

Da Pensieri, opuscoli, lettere, a cura di A. Bausola, tr. it. di A. Bausola e R. Tapella, Rusconi, Milano 19974, Pensieri, nn. 84-91, pp. 425-437

Publié dans:FILOSOFIA |on 2 avril, 2019 |Pas de commentaires »

DIALOGO DELLA TERRA E DELLA LUNA – GIACOMO LEOPARDI

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DIALOGO DELLA TERRA E DELLA LUNA – GIACOMO LEOPARDI

Le domande filosofiche sulla vita

Giacomo Leopardi
1824
dalle Operette Morali

L’originale dialogo fra la Terra e la Luna composto da Leopardi si snoda entro un contesto e mediante immagini che tengono conto delle interazioni di ambito fisico-astronomico fra i due corpi celesti (attrazione mareale, reciproche eclissi, moti di rotazione e di rivoluzione). Come in altre opere leopardiane, il contesto dell’osservazione del cielo non è mai separato dai sentimenti di natura esistenziale che essa suscita. Al di là delle differenze di ambiente, di prospettive geometriche, di moti e di possibili abitatori, la Terra e la Luna condividono la medesima riflessione: la felicità non è facile da ottenere e nessun corpo celeste può assicurarla; gli uomini sulla terra la cercano avidamente ma si affannano in attività che non la procurano.
Terra. Cara Luna, io so che tu puoi parlare e rispondere; per essere una persona; secondo che ho inteso molte volte da’ poeti: oltre che i nostri fanciulli dicono che tu veramente hai bocca, naso e occhi, come ognuno di loro; e che lo veggono essi cogli occhi propri; che in quell’età ragionevolmente debbono essere acutissimi. Quanto a me, non dubito che tu non sappi che io sono né più né meno una persona; tanto che, quando era più giovane, feci molti figliuoli: sicché non ti maraviglierai di sentirmi parlare. Dunque, Luna mia bella, con tutto che io ti sono stata vicina per tanti secoli, che non mi ricordo il numero, io non ti ho fatto mai parola insino adesso, perché le faccende mi hanno tenuta occupata in modo, che non mi avanzava tempo da chiacchierare. Ma oggi che i miei negozi sono ridotti a poca cosa, anzi posso dire che vanno co’ loro piedi; io non so che mi fare, e scoppio di noia: però fo conto, in avvenire, di favellarti spesso, e darmi molto pensiero dei fatti tuoi; quando non abbia a essere con tua molestia.
Luna. Non dubitare di cotesto. Così la fortuna mi salvi da ogni altro incomodo, come io sono sicura che tu non me ne darai. Se ti pare di favellarmi, favellami a tuo piacere; che quantunque amica del silenzio, come credo che tu sappi, io t’ascolterò e ti risponderò volentieri, per farti servigio.
Terra. Senti tu questo suono piacevolissimo che fanno i corpi celesti coi loro moti?
Luna. A dirti il vero, io non sento nulla.
Terra. Né pur io sento nulla, fuorché lo strepito del vento che va da’ miei poli all’equatore, e dall’equatore ai poli, e non mostra saper niente di musica. Ma Pitagora dice che le sfere celesti fanno un certo suono così dolce ch’è una maraviglia; e che anche tu vi hai la tua parte, e sei l’ottava corda di questa lira universale: ma che io sono assordata dal suono stesso, e però non l’odo.
Luna. Anch’io senza fallo sono assordata; e, come ho detto, non l’odo: e non so di essere una corda.
Terra. Dunque mutiamo proposito. Dimmi: sei tu popolata veramente, come affermano e giurano mille filosofi antichi e moderni, da Orfeo sino al De la Lande? Ma io per quanto mi sforzi di allungare queste mie corna, che gli uomini chiamano monti e picchi; colla punta delle quali ti vengo mirando, a uso di lumacone; non arrivo a scoprire in te nessun abitante: se bene odo che un cotal Davide Fabricio, che vedeva meglio di Linceo, ne scoperse una volta certi, che spandevano un bucato al sole.
Luna. Delle tue corna io non so che dire. Fatto sta che io sono abitata.
Terra. Di che colore sono cotesti uomini?
Luna. Che uomini?
Terra. Quelli che tu contieni. Non dici tu d’essere abitata?
Luna. Sì, e per questo?
Terra. E per questo non saranno già tutte bestie gli abitatori tuoi.
Luna. Né bestie né uomini; che io non so che razze di creature si sieno né gli uni né l’altre. E già di parecchie cose che tu mi sei venuta accennando, in proposito, a quel che io stimo, degli uomini, io non ho compreso un’acca.
Terra. Ma che sorte di popoli sono coteste?
Luna. Moltissime e diversissime, che tu non conosci, come io non conosco le tue.
Terra. Cotesto mi riesce strano in modo, che se io non l’udissi da te medesima, io non lo crederei per nessuna cosa del mondo. Fosti tu mai conquistata da niuno de’ tuoi?
Luna. No, che io sappia. E come? e perché?
Terra. Per ambizione, per cupidigia dell’altrui, colle arti politiche, colle armi.
Luna. Io non so che voglia dire armi, ambizione, arti politiche, in somma niente di quel che tu dici.
Terra. Ma certo, se tu non conosci le armi, conosci pure la guerra: perché, poco dianzi, un fisico di quaggiù, con certi cannocchiali, che sono instrumenti fatti per vedere molto lontano, ha scoperto costì una bella fortezza, co’ suoi bastioni diritti; che è segno che le tue genti usano, se non altro, gli assedi e le battaglie murali.
Luna. Perdona, monna Terra, se io ti rispondo un poco più liberamente che forse non converrebbe a una tua suddita o fantesca, come io sono. Ma in vero che tu mi riesci peggio che vanerella a pensare che tutte le cose di qualunque parte del mondo sieno conformi alle tue; come se la natura non avesse avuto altra intenzione che di copiarti puntualmente da per tutto. Io dico di essere abitata, e tu da questo conchiudi che gli abitatori miei debbono essere uomini. Ti avverto che non sono; e tu consentendo che sieno altre creature, non dubiti che non abbiano le stesse qualità e gli stessi casi de’ tuoi popoli; e mi alleghi i cannocchiali di non so che fisico. Ma se cotesti cannocchiali non veggono meglio in altre cose, io crederò che abbiano la buona vista de’ tuoi fanciulli; che scuoprono in me gli occhi, la bocca, il naso, che io non so dove me gli abbia.
Terra. Dunque non sarà né anche vero che le tue province sono fornite di strade larghe e nette; e che tu sei coltivata; cose che dalla parte della Germania, pigliando un cannocchiale, si veggono chiaramente.
Luna. Se io sono coltivata, io non me ne accorgo, e le mie strade io non le veggo
Terra. Cara Luna, tu hai a sapere che io sono di grossa pasta e di cervello tondo; e non è maraviglia che gli uomini m’ingannino facilmente. Ma io ti so dire che se i tuoi non si curano di conquistarti, tu non fosti però sempre senza pericolo: perché in diversi tempi, molte persone di quaggiù si posero in animo di conquistarti esse; e a quest’effetto fecero molte preparazioni. Se non che, salite in luoghi altissimi, e levandosi sulle punte de’ piedi, e stendendo le braccia, non ti poterono arrivare. Oltre a questo, già da non pochi anni, io veggo spiare minutamente ogni tuo sito, ricavare le carte de’ tuoi paesi, misurare le altezze di cotesti monti, de’ quali sappiamo anche i nomi. Queste cose, per la buona volontà ch’io ti porto, mi è paruto bene di avvisartele, acciò che tu non manchi di provvederti per ogni caso. Ora, venendo ad altro, come sei molestata da’ cani che ti abbaiano contro? Che pensi di quelli che ti mostrano altrui nel pozzo? Sei tu femmina o maschio? perché anticamente ne fu varia opinione. È vero o no che gli Arcadi vennero al mondo prima di te? che le tue donne, o altrimenti che io le debba chiamare, sono ovipare; e che uno delle loro uova cadde quaggiù non so quando? che tu sei traforata a guisa dei paternostri, come crede un fisico moderno?che sei fatta, come affermano alcuni Inglesi, di cacio fresco? che Maometto un giorno, o una notte che fosse, ti spartì per mezzo, come un cocomero; e che un buon tocco del tuo corpo gli sdrucciolò dentro alla manica? Come stai volentieri in cima dei minareti? Che ti pare della festa del bairam?
Luna. Va pure avanti; che mentre seguiti così, non ho cagione di risponderti, e di mancare al silenzio mio solito. Se hai caro d’intrattenerti in ciance, e non trovi altre materie che queste; in cambio di voltarti a me, che non ti posso intendere, sarà meglio che ti facci fabbricare dagli uomini un altro pianeta da girartisi intorno, che sia composto e abitato alla tua maniera. Tu non sai parlare altro che d’uomini e di cani e di cose simili, delle quali ho tanta notizia, quanta di quel sole grande grande, intorno al quale odo che giri il nostro sole.
Terra. Veramente, più che io propongo, nel favellarti, di astenermi da toccare le cose proprie, meno mi vien fatto. Ma da ora innanzi ci avrò più cura. Dimmi: sei tu che ti pigli spasso a tirarmi l’acqua del mare in alto, e poi lasciarla cadere?
Luna. Può essere. Ma posto che io ti faccia cotesto o qualunque altro effetto, io non mi avveggo di fartelo: come tu similmente, per quello che io penso, non ti accorgi di molti effetti che fai qui; che debbono essere tanto maggiori de’ miei, quanto tu mi vinci di grandezza e di forza.
Terra. Di cotesti effetti veramente io non so altro se non che di tanto in tanto io levo a te la luce del sole, e a me la tua; come ancora, che io ti fo gran lume nelle tue notti, che in parte lo veggo alcune volte. Ma io mi dimenticava una cosa che importa più d’ogni altra. Io vorrei sapere se veramente, secondo che scrive l’Ariosto, tutto quello che ciascun uomo va perdendo; come a dire la gioventù, la bellezza, la sanità, le fatiche e spese che si mettono nei buoni studi per essere onorati dagli altri, nell’indirizzare i fanciulli ai buoni costumi, nel fare o promuovere le instituzioni utili; tutto sale e si raguna costà [si ammassa lì, ndr]: di modo che vi si trovano tutte le cose umane; fuori della pazzia, che non si parte dagli uomini. In caso che questo sia vero, io fo conto che tu debba essere così piena, che non ti avanzi più luogo; specialmente che, negli ultimi tempi, gli uomini hanno perduto moltissime cose (verbigrazia l’amor patrio, la virtù, la magnanimità, la rettitudine), non già solo in parte, e l’uno o l’altro di loro, come per l’addietro, ma tutti e interamente. E certo che se elle non sono costì, non credo si possano trovare in altro luogo. Però vorrei che noi facessimo insieme una convenzione, per la quale tu mi rendessi di presente, e poi di mano in mano, tutte queste cose; donde io penso che tu medesima abbi caro di essere sgomberata, massime del senno, il quale intendo che occupa costì un grandissimo spazio; ed io ti farei pagare dagli uomini tutti gli anni una buona somma di danari.
Luna. Tu ritorni agli uomini; e, con tutto che la pazzia, come affermi, non si parta da’ tuoi confini, vuoi farmi impazzire a ogni modo, e levare il giudizio a me, cercando quello di coloro; il quale io non so dove si sia, né se vada o resti in nessuna parte del mondo; so bene che qui non si trova; come non ci si trovano le altre cose che tu chiedi.
Terra. Almeno mi saprai tu dire se costì sono in uso i vizi, i misfatti, gl’infortuni, i dolori, la vecchiezza, in conclusione i mali? intendi tu questi nomi?
Luna. Oh cotesti sì che gl’intendo; e non solo i nomi, ma le cose significate, le conosco a maraviglia: perché ne sono tutta piena, in vece di quelle altre che tu credevi.
Terra. Quali prevalgono ne’ tuoi popoli, i pregi o i difetti?
Luna. I difetti di gran lunga.
Terra. Di quali hai maggior copia, di beni o di mali?
Luna. Di mali senza comparazione.
Terra. E generalmente gli abitatori tuoi sono felici o infelici?
Luna. Tanto infelici, che io non mi scambierei col più fortunato di loro.
Terra. Il medesimo è qui. Di modo che io mi maraviglio come essendomi sì diversa nelle altre cose, in questa mi sei conforme.
Luna. Anche nella figura, e nell’aggirarmi, e nell’essere illustrata dal sole io ti sono conforme; e non è maggior maraviglia quella che questa: perché il male è cosa comune a tutti i pianeti dell’universo, o almeno di questo mondo solare, come la rotondità e le altre condizioni che ho detto, né più né meno. E se tu potessi levare tanto alto la voce, che fossi udita da Urano o da Saturno, o da qualunque altro pianeta del nostro mondo; e gl’interrogassi se in loro abbia luogo l’infelicità, e se i beni prevagliano o cedano ai mali; ciascuno ti risponderebbe come ho fatto io. Dico questo per aver dimandato delle medesime cose Venere e Mercurio, ai quali pianeti di quando in quando io mi trovo più vicina di te; come anche ne ho chiesto ad alcune comete che mi sono passate dappresso: e tutti mi hanno risposto come ho detto. E penso che il sole medesimo, e ciascuna stella risponderebbero altrettanto.
Terra. Con tutto cotesto io spero bene: e oggi massimamente, gli uomini mi promettono per l’avvenire molte felicità.
Luna. Spera a tuo senno: e io ti prometto che potrai sperare in eterno.
Terra. Sai che è? questi uomini e queste bestie si mettono a romore: perché dalla parte della quale io ti favello, è notte, come tu vedi, o piuttosto non vedi; sicché tutti dormivano; e allo strepito che noi facciamo parlando, si destano con gran paura.
Luna. Ma qui da questa parte, come tu vedi, è giorno.
Terra. Ora io non voglio essere causa di spaventare la mia gente, e di rompere loro il sonno, che è il maggior bene che abbiano. Però ci riparleremo in altro tempo. Addio dunque; buon giorno.
Luna. Addio; buona notte.
Giacomo Leopardi, Tutte le poesie e tutte le prose, a cura di L. Felici ed E. Trevi, Newton – I Mammut, Roma 1997, pp. 516-519.

Publié dans:FILOSOFIA, Letteratura italiana |on 5 juillet, 2017 |Pas de commentaires »

LA SPERANZA TRA MISERICORDIA E GIUSTIZIA – Pietro Coda (1)

http://www.collevalenza.it/Riviste/2008/Riv0708/Riv0708_05.htm

CONGRESSO APOSTOLICO MONDIALE DELLA MISERICORDIA

LA SPERANZA TRA MISERICORDIA E GIUSTIZIA – Pietro Coda (1)

1. Vorrei riflettere con voi su di un fatto che ha delle incalcolabili conseguenze sotto il profilo personale e sotto il profilo sociale e oggi addirittura globale: i discepoli di Gesu, i cristiani, sono chiamati a diventare cin che sono per dono – il lievito e il sale della speranza per il mondo.
I discepoli di Gesu, in effetti, poggiano la loro speranza su di un fondamento che piu non pun essere distrutto: la misericordia di Dio che ha raggiunto il mondo in Gesu. Per questo, il loro impegno per la giustizia c chiamato a costruire un futuro realistico, che vale per tutti e non pun essere smentito da nessuna sconfitta: perché c garantito da Dio, da Dio in persona.
Dunque, speranza, misericordia, giustizia: l’una non si pun dare senza l’altra. E oggi il mondo, ciascuno di noi, la societr in cui viviamo, il villaggio globale di cui siamo cittadini, han bisogno proprio di questo: di speranza, di misericordia, di giustizia – di una speranza che attinge alla fonte della misericordia e lavora realisticamente per la giustizia.
2. Ma andiamo per ordine, cominciando dal primo tassello del nostro trittico: la speranza.
Se c’c un atteggiamento fondamentale dell’esistere umano che oggi difetta, questo c la speranza. Ce l’ha ricordato con accenti intensi e netti Benedetto XVI nella sua seconda enciclica, la Spe salvi: «nella speranza siamo stati salvati» (Rm 8, 24). «L’attuale crisi della fede, nel concreto – puntualizza il Papa –, c soprattutto una crisi della speranza cristiana» (n. 17).
Basta che guardiamo a fondo, con occhio lucido e amico, nel cuore dell’uomo e della donna di oggi, degli adulti, degli anziani, ma soprattutto dei giovani, basta che guardiamo agli ideali e ai progetti che reggono le proposte e i sentieri di vita e d’impegno del nostro mondo, per renderci conto di un vuoto spaventoso. Nascosto, il piu delle volte, rimosso, ricoperto da fronzoli o maschere: ma che di tanto in tanto esplode virulento e che tutti ci colpisce per la desolante indifferenza o per la tragica disperazione che mette allo scoperto. Questo vuoto ha un volto: c assenza di speranza. E come se anche essa, l’ultima a morire tra le risorse dell’uomo, avesse fatto naufragio.
Non c’c speranza, troppo spesso, tra i giovani chiamati ad affrontare con rischio e creativitr la vita che si spalanca davanti a loro.
Non c’c speranza, troppo spesso, nel combattere le tante ingiustizie che, vicine o lontane, come un cancro devastano la vita delle persone, degli ambienti sociali, dei popoli.
Non c’c speranza, troppo spesso, per il futuro del mondo: nella possibilitr, cioc, di trasformare la societr sanando le piaghe che la infettano, nella volontr di gettare ponti di riconciliazione e d’incontro tra le civiltr, nell’impegno a salvaguardare e promuovere l’habitat naturale e cosmico nel quale e col quale viviamo: fiumi, mari, ghiacci, alberi, fiori, pesci, uccelli, animali domestici e selvatici…
Se, c drammatico il vuoto di speranza che come un buco nero divora da dentro le nostre esistenze. E proprio quando le risorse della tecnologia paiono ormai potere tutto: ma senz’anima, senza orientamento, senza meta – appunto, senza speranza.
C vero che vi sono tanti, piccoli e meno piccoli segnali che testimoniano la volontr di cambiare rotta, insieme all’indignazione per la miseria, l’ingiustizia e l’oppressione e all’impegno nell’individuare vie praticabili di solidarietr, di fraternitr, di rispetto e promozione dell’uomo e della natura nel loro insondabile mistero.
Ma tutto sembra – ed c – troppo poco e troppo debole.
3. Ed c qui ed c ora – eccoci al secondo tassello – che i discepoli di Gesu, con atteggiamento di umiltr, di condivisione, di apertura verso tutti coloro nei quali sinceramente vivono la ricerca e la lotta per la veritr e la giustizia, c qui e ora che i discepoli di Gesu son chiamati a giocare una carta decisiva: la carta della speranza.
Perché la speranza non c ottimismo a poco prezzo, non c velleitr alla fine illusoria, non c utopia ideologica. La speranza cristiana – come ci ricorda Benedetto XVI – c fondata su di un fatto, su di un avvenimento, su di una persona: Gesu, il Figlio di Dio fatto uomo, che ha donato la sua vita per noi.
Che cos’c che fa il cristiano… cristiano? che cos’c che sprigiona e plasma da cima a fondo la sua vita nuova nella fede?
L’apostolo Paolo lo esprime con chiarezza cristallina: «Io vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2, 20).
C questo l’avvenimento su cui poggiano l’esistenza del cristiano, la novitr e la missione della Chiesa, il futuro del mondo: Gesu ha dato la sua vita per me, per noi, per tutti, per il mondo!
«Ora – incalza l’apostolo Paolo – a stento si trova chi sia disposto a morire per un giusto; forse ci pun essere chi ha il coraggio di morire per una persona dabbene. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo c morto per noi!» (Rom 5,7-8). Il fondamento della fede cristiana, in una parola, c l’amore di misericordia che Dio inequivocabilmente e definitivamente ha mostrato per noi in Gesu crocifisso e risorto.
«L’essere umano – spiega Benedetto XVI – ha bisogno dell’amore incondizionato» (n. 26). «Chi viene toccato dall’amore comincia a intuire che cosa propriamente sarebbe « vita ». Comincia a intuire che cosa vuol dire la parola di speranza» (n. 27).
In queste semplici parole, che traducono per noi il messaggio del vangelo, c condensato il principio vivo di una straordinaria ed incisiva visione dell’uomo, della societr, della storia.
L’uomo nasce dalla misericordia di Dio. In questa nascita che accade nella pasqua di Gesu, che si celebra nel battesimo, che c’investe e ci trasforma nell’Eucaristia, c’c il segreto del suo destino personale e sociale, terreno e definitivo. E c’c il motore della speranza che non si spegne e non delude.
«La mia vita personale e la storia nel suo insieme – sono ancora parole del Papa – sono custoditi nel potere indistruttibile dell’Amore» (n. 35).
C perché mi so accettato, accolto, sanato e ricreato nuovo, ogni volta come fosse la prima, dalla misericordia di Dio in Gesu, c per questo che posso guardare avanti con fiducia e speranza. Tutto cose acquista senso, anche la fatica, la sofferenza, gli ostacoli, le inevitabili sconfitte che punteggiano il nostro cammino.
C come se, affidandomi alla misericordia di Dio che mi raggiunge in
Gesu, io fossi messo in contatto, una volta per sempre, con una fonte inesauribile di energia vitale, fresca e corroborante: che c fiducia, amore, fortezza, gioia, perseveranza, pazienza, attesa …
Una fonte, « la » fonte inesauribile della speranza!
4. Senza la speranza non c’c futuro veramente umano. Ma senza la misericordia di Dio in Gesu per noi, non c’c vera speranza.
Ed c di qui – da questo indissolubile intreccio di speranza e misericordia – che nasce e si alimenta l’inderogabile e responsabile impegno dei discepoli di Gesu per la giustizia: «Cercate prima il Regno di Dio e la sua giustizia e tutto il resto vi sarr dato in sovrappiu» (Mt 6, 33).
Una parola soltanto vorrei spendere a proposito di questo terzo e ultimo tassello della nostra riflessione.
Come discepoli di Gesu siamo oggi chiamati a risvegliare in noi questa coscienza: la nostra speranza c sterile, c vuota, in definitiva non c speranza cristiana, se – sottolinea Benedetto XVI – non produce fatti e non cambia la vita: «La porta oscura del tempo, del futuro, c stata spalancata. Chi ha speranza vive diversamente; gli c stata donata una vita nuova» (n. 2).
La speranza cristiana – spiega il Papa – «attira dentro il presente il futuro, cose che quest’ultimo non c piu il puro « non ancora ». Il fatto che questo futuro esista, cambia il presente; il presente viene toccato dalla realtr futura, e cose le cose future si riversano in quelle presenti e le presenti in quelle future» (n. 7).
La speranza della vita che ha il sapore di cin che piu non muore, quella speranza che risplende nella vittoria di Gesu risorto sul peccato e sulla morte, c un lievito che fermenta la pasta della storia nel segno della giustizia, della pace e della fraternitr. Costi quel che costi. Anche la vita. I martiri cristiani sono martiri della speranza – e percin della giustizia.
Ma l’impegno cristiano per la giustizia, che nasce e si alimenta dalla misericordia di Dio in Gesu, ha uno stile inconfondibile: c esso stesso, prima di tutto e sempre di nuovo, esercizio della misericordia, ministero – vorrei dire – della misericordia verso i fratelli e le sorelle, verso tutti e verso ciascuno.
«Siate misericordiosi com’c misericordioso il Padre vostro» (Lc 6, 36).
C qui compendiato tutto il vangelo di Gesu, tutto lo stile della presenza e dell’azione dei suoi discepoli nella storia, uomo accanto a uomo, nella costruzione di un mondo nuovo.
Consapevoli, certo, dei limiti umani e della provvisorietr terrena di quest’impegno e dei frutti che ne vengono: ma nella speranza certa dei « cieli nuovi e della terra nuova » che gir sono realtr in Gesu risorto e in Maria con lui assunta nel seno del Padre, trasfigurati dalla luce senza tramonto dello Spirito che c Amore.
5. Mi ha sempre colpito la centralitr, nella preghiera che Gesu ha insegnato ai suoi – il Padre nostro –, di una delle petizioni che fa da cerniera tra cin che si chiede a Dio in rapporto a Dio che c Padre, e cin che si chiede a Dio in rapporto agli altri che sono fratelli: «Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori».
«Rimetti a noi i nostri debiti». Il perdono c per lo spirito cin che il pane c per il corpo. Senza misericordia che perdona lo spirito non vive, c morto, pur sembrando vivo. Il perdono nel suo ultimo principio c per-dono: c cioc gratuitr di Dio che c cor-risposta dalla gratitudine dell’uomo – e da nient’altro.
C questo il primo, l’insolvibile debito che abbiamo contratto con Dio dal momento in cui ci ha pensati, voluti, creati – per amare. Ma cin che ci suggerisce con forza semplice e realistica Gesu, c di chiedere a Dio perdono per i debiti contratti via via che la nostra esistenza si squaderna nel tempo. Occasioni perdute, grazie non corrisposte, e rifiuti, chiusura, cattiverie, ostinazioni…
Poter guardare Dio negli occhi, ogni giorno di nuovo, come fosse la prima volta, c riconoscersi davanti a Lui per cin che siamo, peccatori come il pubblicano salito al tempio, e non accampare inesistenti meriti come il fariseo (cf. Lc 18,10-14). Riconoscere che «tutto c grazia» (come scrive Bernanos) e che il Padre c «ricco di misericordia» (Ef 2,4). Senza quietismi, senza flagellazioni o piagnistei. Con realismo. Con vera umiltr.
Allora, lo sguardo di Dio ci fa rinascere nuovi e immacolati.
«Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori». Ecco uno degli sconvolgenti come di Gesu!
Egli l’aveva gir detto poco prima: «come in Cielo cose in terra».
Il come c il legame vero, l’unico, tra Cielo e terra. La vita del Cielo ha da trasferirsi in terra. La quale, terra ha da restare: non solo nel tempo presente, ma anche in quello definitivo che ancora ha da venire. Non si parlerr anche allora di « cieli nuovi e terra nuova »?
Come: la stessa legge di vita che vive in Cielo – la santificazione del nome di Dio che c Padre da parte del Figlio, quel soffio infinito di reciproco amore che c lo Spirito Santo – ha da vivere in terra nei nostri rapporti. Questa c la volontr del Padre.
Dio rimette a noi i nostri debiti come: e cioc se e in quanto noi li rimettiamo ai nostri debitori. Ma noi siamo capaci di perdonare, solo se prima ci sappiamo perdonati da Dio.
Colpisce che Gesu inviti a chiedere proprio questo al Padre. In fondo, c l’unica petizione del Padre nostro che riguardi esplicitamente i rapporti interpersonali.
Gesu non c’invita a chiedere d’esser capaci di amare, accogliere, servire: ma di … perdonare. Perché la gratuitr del perdono c l’unica che, riaccendendo la relazione spezzata dal male, fa rinascere l’altro – nel tuo cuore e nel suo cuore.
C stato detto: se amare c come generare un figlio, perdonare c come risuscitare un morto. La misericordia c l’immagine piu alta e piu vera di Dio. Ed c per noi la possibilitr donata e trafficata, in Gesu, di far nascere e crescere rapporti veri tra gli uomini. Non solo tra i singoli, ma tra i popoli e le nazioni.
La capacitr di essere misericordiosi nasce dalla capacitr – ricevuta come grazia – di guardare agli altri come ad essi guarda Dio. C questo sguardo di misericordia la radice della speranza che costruisce nel mondo la giustizia.
1 Piero Coda si laurea in Filosofia presso l’Universitr di Torino e consegue il Dottorato in Teologia presso la Pontificia Universitr Lateranense, dove inizia a insegnare nel 1985. Dal 1993 c docente di Teologia Sistematica. Collabora alla redazione di numerose riviste: Lateranum, Filosofia e Teologia e Nuova umanitr. C consultore del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso e membro della Pontificia Accademia Teologica, preside dell’Istituto universitario Sophia; Presidente dell’Associazione Teologica italiana e segretario della Pontificia Accademia di Teologia. Tra le sue numerosissime opere ne segnaliamo solo alcune: Abitando la Trinitr. Per un rinnovamento dell’ontologia, Cittr Nuova, Roma 1998; Il logos e il nulla. Trinitr, religioni, mistica, Cittr Nuova, Roma 2003; Dio che dice amore. Lezioni di teologia, Cittr Nuova, Roma 2007; Sul luogo della Trinitr. Rileggendo il «De Trinitate» di Agostino, Cittr Nuova, Roma 2008.

 

Publié dans:DOCENTI - STUDI, FILOSOFIA |on 16 mai, 2017 |Pas de commentaires »

COSA FACEVA DIO PRIMA DELLA CREAZIONE? – di Graziella Tenti

http://www.toscanaoggi.it/Rubriche/Risponde-il-teologo/Cosa-faceva-Dio-prima-della-creazione

COSA FACEVA DIO PRIMA DELLA CREAZIONE?

Il mio nipotino (ha cinque anni) mi ha posto una domanda che mi ha messo in imbarazzo. Per il momento ho preso tempo, e vi giro la domanda in modo che possiate aiutarmi a rispondere: cosa faceva Dio prima della creazione?

Graziella Tenti

Risponde padre Athos Turchi, docente di filosofia
La domanda è semplice e propria di un bimbo, ma proprio per questo a volte sono quelle più complicate, perché spiegare ciò che è semplice (ossia: non composto) è difficilissimo, perché non ha parti.
Mi verrebbe la voglia di rispondere: non faceva niente! Perché Dio non fa, è. Che faceva il sole prima di illuminare le cose intorno? Niente, faceva il sole. Così Dio faceva Dio.
Ma allora andiamo all’interno di Dio. La prospettiva cambia, perché non ha importanza la creazione, ma chi è Dio. Noi lo possiamo osservare da due angolazioni. La prima è quella della ragione. Dio è l’essere unico e assoluto, non non vi sono altri esseri, altre cose se non Lui solo, e se qualcosa può esistere si deve solo a una deliberazione di Dio stesso che la porrà in essere traendola dal nulla. Questa è la creazione. Ma attenzione. Dio non è che diventi creatore dopo che ha creato, quasi fosse un pittore che può esser detto tale solo dopo che ha dipinto qualcosa. Dio è da sempre creatore, Dio è il creatore per essenza, anche quando ancora non ha creato niente di diverso a se stesso. Perciò possiamo dire che Dio prima di creare «faceva» o è il creatore. Se la luce del sole fosse ciò che fa essere le cose, è chiaro che il sole sarebbe illuminante anche se non c’è niente ancora da illuminare. Così Dio in quanto ciò che farà esistere è una partecipazione al suo essere, il creare è lui stesso, e la creazione avviene come partecipazione al suo essere.
Dice Agostino, nelle Confessioni, Lui era più intimo a me, di me a me stesso. In questo senso Dio è da sempre Creatore, e non lo diviene. Noi veniamo creati in un certo tempo, ma lui non diventa creatore quando ci crea lo è da sempre, perché l’essere è Lui.
L’altra angolazione è quella della fede. L’indagine qui si arricchisce. Dio è Trino, la sua natura si costituisce di tre persone, Padre, Figlio e Spirito Santo, relazioni che tra loro si fondano e si differenziano. Allora possiamo dire, a prescindere dalla creazione, che Dio ha sempre fatto il Padre che genera il Figlio e dal loro reciproco amore procede lo Spirito. Il che significa che Dio è un reattore atomico (mi si permetta l’esempio) di Amore costituito dall’eterno atto del Padre di generare il Figlio e far procedere lo Spirito. Ora amare è la più grande e la massima attività di qualunque cosa. Ma mentre l’amore umano passa nell’altro in quanto altro, in Dio costituisce la sua natura di tre Persone divine. E questo è l’essere più perfetto che si possa immaginare: Dio è costituito dall’amore, l’amore è l’eterna generazione che è presente in Dio, e questo amore reciproco ed eterno è la Vita. Dio dunque vive, Dio è la vita in se stesso nella comunione delle tre Persone. Questa vita, questo amore e questo essere, Dio lo ha voluto estendere anche ad altre cose, e le ha create, e se ci pensiamo noi abbiamo preso vita non in un certo tempo, ma dall’eternità, perché siamo nel cuore di Dio, in quanto siamo nel suo progetto di vita e di quella vita noi ne partecipiamo.
Con un’immagine nostra Dio è una «famiglia», viveva in famiglia, che è la cosa più importante come vediamo quando essa è il luogo dell’amore, della gioia, del bene. Una famiglia del genere nessuno la lascerebbe, anzi una volta fuori non si vedrebbe l’ora di tornarci, perché essa è il vero e supremo luogo della vita e dell’essere.
Ecco dunque quello che Dio «faceva»: faceva il Dio, viveva, amava, generava, era generato, cose che fa tutt’ora naturalmente, anche se noi, creature, possiamo dargli qualche pensiero in più.

Publié dans:FILOSOFIA, meditazioni/racconti |on 27 mai, 2014 |Pas de commentaires »

LA SAPIENZA COME SAPORE: ALLE RADICI DI UNA SPIRITUALITÀ SAPIENZIALE

http://www.finesettimana.org/pmwiki/index.php?n=Db.Sintesi?num=114

ALLE RADICI DI UNA SPIRITUALITÀ SAPIENZIALE

SINTESI DELLA RELAZIONE DI ARMIDO RIZZI

Verbania Pallanza, 18 gennaio 1997

In una prima parte sarà presentato un itinerario fenomenologico (dai sapori alla sapienza). In un secondo momento saranno indicate alcune figure della sapienza. Più che di radici si parlerà di ambientazioni, di contestualizzazioni della sapienza.

un itinerario fenomenologico: dai sapori alla sapienza

il sapore
« Sapienza » come « sapore » viene dal latino sàpere, che corrisponde al nostro « aver sapore ». La prima accezione di sàpere è dalla parte dell’oggetto, dei sapori.
In italiano c’è un verbo che fa da ponte tra oggetto e soggetto ed è « gustare » (oltre al raffinato « assaporare »), che indica sia il sapore (il gusto) che il sentire il sapore.
Questa facilità a migrare dal soggetto all’oggetto sta ad indicare una forma di conoscenza in cui soggetto e oggetto sono profondamente uniti, una forma di conoscenza diversa da quella più comunemente intesa, quella cioè del soggetto « di fronte » all’oggetto. La prima riguarda il dato originario, il campo sorgivo del conoscere, rispetto al quale la seconda (quella che si rifà al senso del vedere) è un momento successivo.
Il gustare, l’avere buon gusto, riguarda non solo i sapori, ma tutto ciò che è bello e buono, come le tinte, i suoni, ecc.. Il gusto, nella sua accezione più generale, è il senso più soggettivo (non si può gustare a distanza, mentre si può vedere e sentire) ed è il meno strumentale, il cui valore è fine a se stesso.
Mentre la maggior parte dei sensi ha un valore strumentale, il gusto ha sempre una dimensione fruitiva, ha il massimo di carattere fruitivo. Ecco perché il gusto indica quella forma di conoscenza in cui il cuore delle cose e il cuore del soggetto sono più vicini.
il gusto del bello (la connaturalità estetica)
Il « buongustaio » non è semplicemente « chi gusta », ma chi sa valutare i gusti, chi sa riconoscere come buone, belle, valide le cose che lo sono davvero.
Si tratta qui di un sapere veritativo, in grado di dare dei giudizi di valore, non solo di fatto.
Tutto il mondo dell’estetica rientra in questo sapere veritativo. Quando dico di un qualche cosa che « è bello », intendo dire che è come deve essere, che è conforme ad un canone ideale, al tipo ideale di quella cosa. Chi ha buon gusto va oltre la superficie delle cose, per coglierne la forma, l’essenza.
Se è vero che qui abbiamo a che fare con giudizi di valore che presumono di dire ciò che è bello, buono, ecc., è anche vero che questi giudizi sono indimostrabili. Non esiste la dimostrazione scientifica del bello, del buono, del valido. Possiamo solo affidarci alla capacità di mettersi in sintonia tra soggetto e oggetto, alla quale uno può essere maggiormente predisposto e che comunque deve coltivare.
Questa disposizione di base e la successiva acclimatazione sono la connaturalità.
la sapienza
Oltre alla connaturalità estetica (che riguarda gli oggetti da contemplare) esiste anche una connaturalità operativa (che riguarda il saper fare), che, come la precedente, necessita sia di predisposizioni naturali che di apprendimento.
La sapienza è la convergenza di queste due connaturalità, è l’intelligenza insieme contemplativa e operativa, è la capacità di vedere che cosa è giusto fare.
È la prudentia dei latini, che indica non solo ciò che è bene evitare, ma che cosa è giusto fare.
« Giusto » è qui inteso non in senso strumentale, né nel senso estetico (la misura giusta), ma come il giusto della giustizia, che riguarda l’azione vista dal di dentro. È il giusto come canone dell’agire umano, che qualifica il soggetto umano come persona. La persona è vista come giusta o non giusta a seconda di ciò che fa. È la dimensione più profonda della persona ed è l’istanza ultima.
Non è la qualità dell’altro (di bellezza, di intelligenza, di giustizia) a definire l’esigenza dell’agire giusto, che mi definisce come persona giusta. Proprio il cogliere che devo comportarmi giustamente con l’altro mi fa percepire il suo valore incommensurabile, il suo carattere « sacro », il mio essere sempre in una posizione di debito.
È questo sapere indimostrabile ad indicare ciò che è la sapienza: il cogliere, al di dentro dell’esigenza di agire giustamente, il valore dell’altro in quanto colui nei confronti del quale devo agire giustamente indipendentemente da quello che ha o è.
alcune figure della sapienza

il cosmo umano
Il cosmo umano è quell’ordine globale, all’interno del quale i singoli tipi di azione e di comportamento si qualificano come giusti, proprio in quanto parti del tutto ordinato.
Se la sapienza è l’intelligenza che coglie ciò che è giusto, in questa figura lo coglie come parte di un « cosmo ordinato ».
Nelle religioni naturalistiche il cosmo umano è visto come inserito nel cosmo naturale. Le leggi del cosmo diventano le leggi della condotta umana.
Nell’ebraismo classico il cosmo umano è visto come comunità con cui Dio fa alleanza, a cui Dio dà la legge. Non è più il cosmo naturale, sdivinizzato, fonte di valore per l’agire umano.
Nel pensiero cristiano convergeranno la visione ebraica della comunità a cui Dio dà la legge e la riflessione della filosofia greca secondo cui la legge umana tende ad essere inserita nella legge cosmica. Le leggi della comunità umana acquistano un carattere ambiguo di « leggi naturali ».
Le tre sottofigure esposte si muovono all’interno del « principio-tradizione ». La sapienza, come modo giusto di guardare il mondo, è trasmessa di generazione in generazione ed è fatta risalire agli dei a Dio, come nell’ebraismo. La trasmissione, e l’origine divina, legittima ciò che viene trasmesso.
La modernità rompe con questo sapere sapienziale tramandato. « Sàpere aude! » Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza (Kant).
La fonte di legittimazione non è più la tradizione, ma la ragione adulta o il futuro, l’utopia. L’ideale del mondo giusto di domani diventa fonte di legittimazione di ciò che è giusto fare nel presente (es.: il marxismo).
Ma oggi anche il « principio-ragione » è entrato in crisi e si cerca di recuperare un sapere sapienziale
o rifacendosi alle tradizioni del passato (fondamentalismi);
o creando tradizioni nuove (New Age);
o affermando una « nuova laicità », la consapevolezza cioè che esiste, diffusa in tutta l’umanità in quanto dotata di coscienza etica, una sapienza, che può essere terreno comune tra uomini religiosi e non religiosi e che può favorire la nascita dell’uomo planetario (Balducci), consapevole insieme della propria universalità (« io sono soltanto un uomo ») e della propria parzialità (appartenenza ad una precisa tradizione e fede).
la sapienza celeste
È una figura che fa parte della tradizione cristiana cattolica. La costruzione di un mondo buono e giusto, la sapienza del cosmo umano, è vista come piattaforma per muoversi sin da ora in direzione della patria celeste (la sapienza celeste). Questa visione è rintracciabile nella teologia monastica.
cogliere i « segni dei tempi »
I segni dei tempi, il « kairòs », sono, in una prima accezione, i segni di un certo periodo storico, che bisogna cogliere per poter intervenire. Il profeta ha questo fiuto di saper cogliere dove sta andando la storia per potervi operare. I segni dei tempi sono qui visti nel loro risvolto culturale e storico.
Il fiuto dei processi storico-culturali, unito alla luce o fede a cui uno aderisce, è una forma di sapienza come capacità di leggere i segni dei tempi, che possiamo chiamare profezia.
la sapienza del tempo escatologico come sapienza dell’istante
Il « kairòs » è qui visto non in relazione ai fatti storici, ma all’istante, all’oggi continuo.
Con Gesù sono giunti i tempi ultimi, perché tutto il tempo, in ogni suo istante, è tempo di decisione come se fosse l’ultima. Ogni istante è un « kairòs » come senso che Dio ci dona e che ci sollecita ad una risposta. Ogni istante è una occasione irripetibile di diventare un po’ noi stessi, un’occasione quindi non semplicemente in base ai nostri interessi o gusti.
Nella parabola del fattore disonesto e scaltro (Lc 16,1-9), Gesù ci invita ad avere l’intelligenza (la scaltrezza) di capire che si è nel tempo escatologico, nel tempo che va sfruttato per diventare ciò che dobbiamo essere, non in base ai nostri progetti, opzioni o desideri, ma in base al progetto che Dio ha inscritto dentro di noi e per noi.
Il progetto che Dio ha su di noi è ultimativamente la disposizione ad amare, a farci amici i poveri diavoli che ci ospiteranno « nelle dimore eterne ».
L’ultima parola della sapienza evangelica è la sapienza dell’amore.

Publié dans:FILOSOFIA, Teologia |on 28 avril, 2014 |Pas de commentaires »

LE GOCCE DEL TEMPO

http://www.korazym.org/11974/le-gocce-del-tempo/ 

LE GOCCE DEL TEMPO 

1 GENNAIO 2014  

DI DON GIUSEPPE LIBERTO 

Nella scansione ritmica del tempo, ritorna puntuale il momento in cui l’anno che volge al termine si tuffa nell’immenso oceano delle memorie del passato. Mentre si toglie il vecchio calendario, torna insistente l’eterno interrogativo: “Che cos’è il tempo?”.

Anche sant’Agostino, puntando lo sguardo sul passato, sul presente e sul futuro, nella celebre pagina delle Confessioni, s’interroga: Che cos’è il tempo? Chi riuscirà a spiegarlo in modo facile e breve? Chi potrà comprenderne il concetto per poterne dire una parola? Eppure, di che cosa possiamo parlare che sia più familiare e più nota del concetto di tempo?… Se nessuno me lo domanda, lo so; se voglio spiegarlo a chi me lo chiede, allora non lo so. Tuttavia affermo con sicurezza di sapere che, se non passasse nulla, non esisterebbe il passato; se nulla divenisse, non ci sarebbe futuro; se nulla esistesse, non ci sarebbe presente (Conf. 11,14).

Prima d’intraprendere la riflessione sul tempo, il Vescovo d’Ippona si era rivolto a Dio chiedendo di aiutarlo a comprendere sia il Verbo creatore del tempo, sia il tempo stesso nel suo alveo esistenziale e così scrive: Troppo preziose sono per me le gocce del tempo. Da molto mi riarde il desiderio di meditare la tua legge, di confessarti la mia conoscenza e la mia ignoranza in proposito, le prime luci della tua illuminazione e i residui delle mie tenebre (Conf. 11,2). Agostino percepisce le “gocce del tempo” come il finito immerso nell’eterno e così armonizza, senza confondere, tempo dell’uomo ed eternità di Dio. Tutto ciò che esiste lo colloca tra un passato e un futuro, unica dimensione possibile alle realtà che esistono; ritiene, inoltre, che non sia semplice la spiegazione del tempo nella sua triplice forma di passato, presente e futuro. Il tempo passato è ormai inesistente, quello futuro non è ancora, il presente esce da un luogo occulto, perché, da futuro diviene presente, così come si ritrae in un luogo occulto, allorché da presente diviene passato (Conf. 11, 17, 22). Il tempo, per Agostino, è percezione dell’anima e può essere solo presente: E’ inesatto dire che i tempi sono tre: passato, presente e futuro. Forse sarebbe esatto dire che i tempi sono tre: presente del passato, presente del presente, presente del futuro. Queste tre specie di tempi esistono in qualche modo nell’animo e non vedo che siano altrove: il presente del passato è la memoria, il presente del presente è la visione, il presente del futuro è l’attesa (Conf. 11, 20, 26). Nella “percezione dell’anima” e nell’“estensione dello spirito” ogni tempo è presente: nella memoria, se è passato; nell’attenzione, se è presente; nell’attesa, se è futuro.  Agostino, nelle sue lunghe e articolate riflessioni, lasciandosi illuminare dalle divine Scritture, ricongiunge nell’uomo, eterno e tempo. Il tempo, in Cristo, diventa tempo di grazia e di salvezza. Il cristiano, infatti, vede nel Verbo incarnato, nelle “gocce del tempo” a lui donate, tutto ciò che esiste, vivendo, nella speranza, l’attesa del riposo del settimo giorno. Generare il tempo cristiano è l’impegno del credente che vive, tra fascino e dramma, nell’oggi della storia.

Nella Santa Scrittura, l’inizio del tempo degli uomini ha origine dal “tempo di Dio”. Dio è Arché, cioè inizio e origine “dal quale” tutto esiste; Dio è Télos, cioè meta e fine “per il quale” tutto esiste. Egli, perciò, è principio e fine, conclusione e perfezionamento d’ogni realtà creata. Presente e futuro, tempo astronomico e antropologico, hanno la loro sorgente in Dio. E’ Lui che sottrae il tempo dalla monotonia ciclica e lo ricrea sempre nuovo con i suoi interventi provvidenziali. Il tempo dell’universo e dell’uomo è “tempo di Dio” e della sua relazione paterna con l’umanità. Nel tempo, il Creatore entra in dialogo con le sue creature e con esse costruisce la storia. E’ lo stesso Dio, quindi, che orienta il tempo verso la fine misteriosa, in cui raggiungerà il suo termine e insieme la sua pienezza. La Bibbia, in questo modo, “desacralizza” il tempo e lo “santifica” superando il panteismo con la trascendenza. La chiave di lettura del tempo non è la cosmogonia, ma la storia. Il tempo, come le altre creature, è nelle mani di Dio, anzi è proprio lui a ordinarlo e a condurlo, ogni determinismo cosmico e pagano viene così superato. La Rivelazione diventa realtà storica e la storia evento di Rivelazione. Il profeta, infatti, incontra il suo Dio nei fatti storici che per lui sono “Parola di Dio” che, rivelandosi agisce e nell’agire si rivela. Il tempo non è più visto come l’opposto dell’eternità, ma, carico d’eternità è proiettato verso l’eterno.

Il tempo ha un’arché e un télos, non è circolo vizioso chiuso in se stesso, ma spirale protesa verso un fine e un compimento di pienezza escatologica. Abramo, non come Ulisse, abbandona per sempre Ur di Caldea e si mette in cammino verso la terra che Dio gli darà. All’amara e sconfortata nostalgia di Ulisse, la Santa Scrittura oppone la speranza serena nell’attesa gioiosa. Il Dio della Bibbia è sperimentato come il Dio degli eventi che vive e che salva il suo popolo senza tirarlo fuori dalla storia. Egli escogita e attua una serie di fatti che si dispiegano in determinati momenti storici chiamati kairòi, eventi con i quali Dio costruisce la storia dell’uomo in un’ininterrotta manifestazione della sua misericordia. Il tempo, allora, non sarà più kronos mitologico che divora gli uomini e la storia, ma kairòs teologico che è “sacramento” mediante il quale Dio lavora per salvare il suo popolo. Culmine e centro è l’evento Cristo, kairòs per eccellenza che, nella “pienezza dei tempi”, dà senso compiuto alla dimensione temporale, spaziale e creaturale (cf Ef 1,10). Dio crea il tempo e lo offre in dono all’uomo perché sia l’alveo prezioso per accogliere Colui che del tempo è la pienezza: Cristo Signore, punto fisso che orienta tutta storia prima e dopo di lui, è Kairòs luminoso che ricapitola passato, presente e futuro.

Al momento dell’Incarnazione, il tempo, nel suo naturale fluire, non subisce un arresto, ma entra misteriosamente nel nuovo movimento impresso dal Verbo Redentore. Da Lui è rinnovato, consacrato e reso mezzo di salvezza. L’incarnazione inaugura il tempo nuovo attraverso l’evento unico e definitivo della salvezza che è il Mistero pasquale di Passione-Morte-Risurrezione-Ascensione-Dono dello Spirito. Tutta quanta la realtà spazio-temporale è orientata progressivamente verso l’eschaton, verso la nuova creazione sulla quale il tempo si apre per raggiungere la sua pienezza.

Gli eventi del passato e l’attesa del futuro sono vissuti da Israele e dalla Chiesa nell’“Oggi” del tempo liturgico. Il tempo liturgico non è invecchiamento, ma il sempre nuovo rifiorire della giovinezza della Chiesa, Sposa immacolata e Corpo senza rughe di Cristo, Signore del tempo e della storia. Il tempo allora trova la sua scaturigine, il suo svilupparsi e il suo completarsi nel mistero di Dio incarnato: Dio si è fatto tempo – afferma sant’Ireneo – affinché noi, uomini temporali, divenissimo eterni e mostra che il temporale culmina nell’eterno fin da quaggiù.

La liturgia del tempo appare, così, come “sacramento” dell’eternità che integra il tempo cosmico nel Logos-Kronokrator, Verbo-Signore del tempo. In Lui, il “fine” ultimo della storia trova il suo adempimento, anche se non trova compimento la “fine” della storia. E’ Cristo il pieno compimento e la speranza realizzata del futuro. E’ Lui il “già” e “non ancora”. Il cosmo, la storia e l’umanità, per Cristo, con Cristo e in Cristo, sono ormai inseriti nel mistero del tempo nuovo della Chiesa. Questo tempo non è fine a se stesso, ma appartiene già agli “ultimi tempi”, anche se non ancora in modo definitivo, perché tutto è orientato verso la pienezza del compimento futuro. L’“Oggi liturgico” non sarà nostalgia del passato, ma tensione e desiderio ardente del futuro la cui gioia è anticipata nel presente. Desideri e tensione ci aiuteranno a trascendere il tempo cosmico e a vivere l’unione tra celeste e terrestre, tra invisibile e visibile, in piena comunione trasfigurante del divino nell’umano e dell’umano nel divino. La Chiesa di Cristo, comunità escatologica, celebrando quel che già possiede, è protesa verso ciò che attende. Passato, presente e futuro salvifici sono già contenuti nel Memoriale del Signore.

A che serve sapere usare il metronomo, se poi non si comprende cos’è la musica nel ritmo? A che serve possedere orologio e calendario, se poi non si è capaci di comprendere cos’è il tempo nel misterioso fluire degli anni?

Il salmo 90 è una meditazione sulla vita umana alla luce di Dio. Contemplando l’eternità di Dio, il salmista si abbassa a guardare la caducità umana che, per contrasto, punta gli occhi sull’eternità di Dio e invoca: Insegnaci a contare i nostri giorni e acquisteremo un cuore saggio (Sal 90,12). Le gocce del tempo non andranno mai perdute come lacrime nella pioggia, ma saranno perle preziose immerse nell’eterno.

Publié dans:BIBBIA, BIBBIA E SCIENZA, FILOSOFIA |on 17 février, 2014 |Pas de commentaires »

LA PROVA DI ADAMO (Soren Kierkegaard)

http://www.atma-o-jibon.org/italiano6/letture_patristiche_i.htm#LA PROVA DI ADAMO

LA PROVA DI ADAMO

Soren Kierkegaard *

Kierkegaard (1813-1855) nato a Copenaghen, fu educato con austerità nel luteranesimo. Da studente, si immerse con una specie di frenesia nella filosofia e nella teologia. Dal 1843 al 1850 pubblicò le sue opere più importanti, non prive di vigore. Secondo le sue stesse affermazioni, nei suoi libri, anche se di carattere letterario e filosofico, si prefigge uno scopo religioso, mettendo la sua abilità di scrittore a servizio della rivelazione di cui sottolinea tutte le esigenze. La sua ricerca appassionata si allontana a volte dalle grandi certezze cristiane, ma pur nella sua angoscia Kierkegaard ha potuto lasciarci una testimonianza commovente, prova questa che egli era già sensibilizzato alla angoscia dell’anima moderna. La sua influenza del resto, è sentita ancora nel nostro tempo.

Leggiamo nella Scrittura: E Dio mise alla prova Abramo e gli disse: Abramo, Abramo dove sei? Ed egli rispose Eccomi, sono qui (Gen. 22,1). Ora dimmi: tu, a cui io mi rivolgo, tu avresti fatto lo stesso? Nel veder venire da lontano verso di te la tremenda prova -imposta dalla provvidenza, non avresti forse detto alle montagne «copritemi» e alle colline «cadetemi addosso»? Oppure, avendo più coraggio, non avresti rallentato il tuo passo lungo la strada, pensando con nostalgia ai sentieri di una volta? E al sentire la chiamata, saresti rimasto zitto, oppure avresti risposto forse piano piano, quasi in un bisbiglio? Ma non fu tale la risposta di Abramo; pieno di coraggio, di gioiosa fiducia, egli rispose ad alta voce: Eccomi!
Leggiamo in seguito: Abramo si alzò di buon mattino (Gen. 22,3). Si affrettò, quasi andasse a una festa e di buon mattino si trovò nel luogo indicatogli, sul monte Moria. Non disse niente a Sara, niente a Eleazaro: chi poteva capirlo? E la prova, per la sua stessa natura, non gli aveva forse imposto l’impegno del silenzio?
Tagliò la legna, legò Isacco, accese il fuoco, afferrò il coltello (Gen. 22,9-10). Lo sappiamo: sono stati tanti i padri che, con la morte del loro figlio, hanno sentito di perdere quanto avevano di più caro al mondo; hanno visto crollare tutte le speranze riposte nell’avvenire: pure non c’è mai stato certamente un figlio della promessa nel senso in cui Isacco lo era per Abramo. Ci sono stati tanti padri che hanno perduto un figlio, ma era la mano di Dio che lo toglieva loro, era la volontà immutabile e imperscrutabile dell’Onnipotente. Non fu così per Abramo. A lui era riservata una prova molto più dura e la sorte di Isacco era sospesa al coltello che il patriarca aveva in mano. E lui stava li, uomo solo davanti alla sua unica speranza! Ma non esitò, non si mise a guardare intorno ansiosamente, non scongiurò il cielo con la preghiera. Sapeva che era Dio onnipotente a metterlo alla prova e che quello era il più grande sacrificio che potesse essergli ,chiesto. Ma sapeva anche che nessun sacrificio è troppo grande quando chi lo chiede è Dio: e afferrò il coltello…
O venerabile padre Abramo! Quando sei tornato a casa dal monte Moria, tu non hai avuto bisogno di parole che ti consolassero di una perdita. Non avevi forse ottenuto tutto, mentre Isacco rimaneva con te? E da allora il Signore non te lo prese più, anzi hai potuto sedere felice a tavola con lui nella tua tenda, così come farai in cielo per tutta l’eternità. O venerabile padre Abramo! Da quel giorno migliaia d’anni sono passati, ma tu non hai affatto bisogno che un tardo ammiratore strappi all’oblio la tua memoria: in ogni lingua si parla di te fra gli uomini, e tuttavia tu ricompensi più splendidamente di chiunque altro quelli che ti ammirano. Infatti in cielo, nel tuo seno, essi conoscono la felicità: e sul<la terra tu affascini. il loro cuore e i loro occhi con la luce della tua azione straordinaria.

* Fear and Trembling – Oxford University Press, Londra 1946 pp. 19-22.

« PERCHÉ NON POSSIAMO NON DIRCI CRISTIANI » (di padre Piero Gheddo)

dal sito:

http://www.zenit.org/article-28936?l=italian

« PERCHÉ NON POSSIAMO NON DIRCI CRISTIANI »

Le idee e i valori rivoluzionari portati dalla Bibbia e dal Vangelo all’umanità

di padre Piero Gheddo

ROMA, sabato, 10 dicembre 2011 (ZENIT.org).- Ecco un interrogativo che ricorre fra le persone colte e la stampa di paesi non cristiani: perchè il mondo moderno è nato nell’Occidente cristiano e non, ad esempio, nell’Oriente buddhista o indù o islamico oppure nel profondo dell’Africa nera? La risposta è questa: Dio ha rivelato se stesso mandando il proprio Figlio Gesù Cristo come Messia (salvatore) e l’ha fatto nascere nel popolo ebraico, che aveva lungamente preparato ad accoglierlo. Dopo la sua morte in Croce e la sua Risurrezione, Cristo ha fondato la comunità dei suoi credenti (la Chiesa) mandandola in tutto il mondo a dare la “Buona Notizia” del Vangelo, che ha rivoluzionato la storia dell’umanità. Gli Apostoli e i loro successori hanno iniziato a diffondere la Chiesa fra i popoli del Mediterraneo, a quel tempo unificati nell’Impero romano e con un ambiente filosofico-culturale adatto, in cui la verità di Cristo poteva inculturarsi meglio che altrove, grazie alla razionalità della filosofia greca, al diritto e al senso della storia dell’impero romano.
    “La religione è la chiave della storia”
    Nel 1942 il sommo filosofo italiano, l’agnostico Benedetto Croce, pubblicava il saggio intitolato “Perché non possiamo non dirci cristiani”, che un altro filosofo, Marcello Pera (già presidente del Senato italiano), così giudica[1]: “Saggio splendido, lucido, vigoroso, sereno, composto tra dolore e speranza, che si iscrive nella letteratura della crisi della civiltà europea”. E cita dal volume di Croce questi giudizi: “Il cristianesimo è stata la più grande rivoluzione che l’umanità abbia mai compiuto…. Tutte le altre rivoluzioni non sostengono il suo confronto… Le rivoluzioni che seguirono nei tempi moderni non si possono pensare senza la rivoluzione cristiana…. Il pensiero e la civiltà moderna sono cristiani, prosecuzione dell’impulso dato da Gesù e da Paolo…. “(Esiste) un legame tra il messaggio di Gesù e la vita della libertà…. Il cristianesimo sta nel fondo  del pensiero moderno e del suo ideale etico”, tanto che si può parlare di “sostanza cristiana del liberalismo”.
     Christopher Dawson afferma che « la religione è la chiave della storia »: l’emergere e l’affermarsi nel mondo d’oggi della civiltà occidentale non trova altra spiegazione (se non vogliamo cadere nel razzismo) che nella visione messianica e ottimista della storia propria dell’ebraismo e del cristianesimo ([2]). Il biblista Alessandro Sacchi scrive: “Il concetto di una storia guidata da Dio verso un fine positivo è uno dei contributi più grandi che la Bibbia ha dato al progresso umano. Infatti, solo chi ha la speranza di un futuro migliore può impegnarsi efficacemente nelle realtà terrene per cambiarle e migliorarle. E di fatto la Bibbia, riflettendo sulla creazione alla luce dell’alleanza (fra Dio e gli uomini), afferma che Dio ha dato all’uomo il potere di soggiogare la terra e di dominare su tutti gli animali (Genesi, 1, 28). E’ ammesso da tutti ormai che la mancanza di sviluppo nel terzo mondo è dovuta in gran parte proprio all’assenza di un preciso concetto di storia” ([3]).
     E poi esamina come questi valori evangelici contribuiscono allo sviluppo dei popoli e aggiunge: “Chi è vissuto in mezzo a popoli non ancora evangelizzati([4]) si è reso conto come l’assenza di certe idee e di valori tipicamente cristiani condizioni pesantemente il loro sviluppo, non solo religioso e umano, ma anche sociale e politico. Offrire ad essi in modo fraterno e disinteressato questi valori è senza dubbio il più grande servizio che si può fare loro. E’ chiaro che la diffusione di idee cristiane non può che aprire la strada a Colui che ne è stato l’ideatore, portando così ad una progressiva cristianizzazione del mondo”.
     Alioune Diop (1910-1980, che nel 1947 fondò a Parigi « Présence Africaine »[5]) scriveva negli anni sessanta[6]: « La tradizione africana ignora il concetto stesso di storia e di progresso: noi non guardiamo avanti, ma indietro: il nostro ideale non è un mondo migliore, ma il mondo degli antenati da conservare tale e quale l’abbiamo ereditato. Le nozioni di progresso, di rivoluzione, di cambiamento, sono specifiche del genio europeo. Né la Cina né il mondo nero riescono a giustificare razionalmente i cambiamenti”.
     Un missionario Comboniano in Burundi, padre Enrico Bartolucci, conferma[7]: “Gli africani, prima che la colonizzazione li tirasse fuori dal loro isolamento, non cercavano il progresso, ma l’equilibrio, il mantenimento dello status quo. Si preoccupavano non di progredire, ma di non cambiare. Non si trattava di dominare la natura, ma di rispettarla e di adattarvisi. Voler trasformare e correggere la natura all’africano sembrava un atto di arroganza contro le forze misteriose che dominano la natura stessa”.
     Padre Silvano Zoccarato, che dal 1971al 2006 ha lavorato fra i Tupurì (nord del Camerun), scrive[8]: « Il tempo in cui si muove l’africano è più una ripetizione del passato che novità del presente. Il futuro è la fedeltà al suo passato. Culturalmente il futuro non gli appartiene ed egli non riesce a fare il passo dal tempo mitico al tempo storico che comprende passato, presente e futuro ». La Parola di Dio apre agli uomini le prospettive del futuro, cioè di un cammino in avanti dell’umanità per un mondo più vivibile per l’uomo. Ma questo cammino verso il futuro è faticoso e necessita di valori e di orientamenti che Dio stesso ha dato all’uomo con la Bibbia, il Vangelo e la persona di Gesù.
     Non è facile per l’uomo d’oggi capire queste differenze culturali-religiose, ad esempio fra cultura-religione africana e cultura-religione cristiana. Ormai siamo in un mondo “globalizzato” nel quale, con i rapidissimi mezzi comunicazione dei quali disponiamo, c’è appunto una “globalizzazione” delle culture e delle mentalità. Oggi è in atto una omologazione delle culture e dei comportamenti, ma il problema di fondo per capire “sviluppo e sottosviluppo” sta nel fatto che i popoli vivono in epoche storiche diverse: noi cristiani nel 2000 dopo Cristo, i musulmani nel 1400 dopo Maometto, l’Africa nera è stata tratta fuori dalla preistoria dalla colonizzazione poco più di un secolo fa (erano senza scrittura, in un’economia di sussistenza). Erano popoli che vivevano isolati, come gli indios dell’Amazzonia, i papua della Nuova Guinea, i tribali di India, Bangladesh e Vietnam.
     Anche se oggi tutti i popoli usano la bicicletta, il telefonino, il computer, l’aereo e la televisione, non si capisce il perché di sviluppo e sottosviluppo, se non si risale alle radici storiche dei singoli popoli, che spiegano il diverso cammino storico riguardo allo sviluppo. Ecco in breve le idee e i valori rivoluzionari portati dalla Bibbia e dal Vangelo, cioè dal cristianesimo, all’umanità, che non ci sono in altre religioni e culture.
Per chiunque volesse approfondire il tema consigliamo la lettura del libro: “Meno male che Cristo c’è” (Editrice Lindau, Torino, pagg. 330).
——————————————-
[1] MarcelloPera, “Perché dobbiamo dirci cristiani – Il liberalismo, l’Europa e l’etica”, Mondadori 2008, pagg. 49-50.
[2]) C. Dawson, « Il cristianesimo e la formazione della civiltà occidentale », Rizzoli 1997, pagg. 19 segg.
[3]) Alessandro Sacchi, « La missione cristiana contributo indispensabile allo sviluppo dei popoli », in « Mondo e Missione », gennaio 1984, pagg. 56-61.
[4] Padre Alessandro Sacchi del Pime è stato missionario in India negli anni settanta e ottanta.
[5] ) Celebre rivista che diventò il maggior strumento di elaborazione e valorizzazione del pensiero africano moderno.
[6]) Citato da Ernesto Toaldo in “Fattori culturali e politici dello sviluppo” in “Primo corso studi terzo mondo”, Editrice Pime 1969, n. 6, pag. 7.
[7] ) E. Bartolucci,  in “Nigrizia”, Verona, ottobre 1969, pag. 12.
[8] ) S. Zoccarato, “Cosa per saggi, 100 proverbi dei Tupurì”, EMI 1988, pag. 89.

Publié dans:FILOSOFIA, pastorale |on 10 décembre, 2011 |Pas de commentaires »

“E SE L’AFRICA SCOMPARISSE DAL MAPPAMONDO?” (Filomeno Lopes)

dal sito:

http://www.zenit.org/article-26136?l=italian

“E SE L’AFRICA SCOMPARISSE DAL MAPPAMONDO?”

Filomeno Lopes alla tavola rotonda promossa da Harambee International Onlus

ROMA, mercoledì, 30 marzo 2011 (ZENIT.org).- “E se l’Africa scomparisse dal mappamondo? Una riflessione filosofica” è il titolo dell’ultimo libro (Armando Editore) del professor Filomeno Lopes, presentato questo lunedì a Roma nel corso del Forum Harambee sull’Africa.
L’autore, originario della Guinea Bissau, è docente di Filosofia della Comunicazione presso la Pontificia Università Urbaniana e l’Università La Sapienza di Roma.
La questione più importante, ha osservato, non è tanto ciò che gli altri possono pensare sulla scomparsa o meno del continente, quanto ciò che la stessa Africa è in grado di dire al riguardo.
“Si tratta di spostare l’interesse su un aspetto qualitativo”, ha indicato. “C’è un proverbio africano che dice: ‘Quando il tuo futuro è assai oscuro, non avere timore né vergogna di tornare indietro’”.
“Se si guarda oggi al futuro dell’Africa è veramente problematico per noi africani – ha riconosciuto Lopes –. Allora bisogna fermarsi, tornare indietro, per guardare cosa c’era prima e cosa può costituire quello spirito per un futuro meno peggiore del presente, che stiamo vivendo”.
È quindi la vittoria della storia sulla geografia: il mondo non è l’Occidente, ma l’Occidente è diventato il mondo entro il quale tutti noi siamo nati e cresciuti.
L’Africa di cui parla Filomeno Lopes è quella che nasce veramente sulla nave della schiavitù, “che si afferma come realtà pensante sul suo futuro a partire dalle Americhe, con i figli degli schiavi, con i movimenti del Panafricanesimo e di Negritude, e che rientra nel suolo ormai chiamato Africa a partire dagli anni ’60. Quindi quest’Africa non è necessariamente un luogo geografico, ma unità di passioni e capacità di pensare insieme, progettare un futuro”.
La strada proposta dall’autore nel suo libro consiste nel cercare una riflessione e creare condizioni di possibilità filosofiche per un discorso sulla filosofia della comunicazione, o meglio ancora una filosofia dell’agire comunicativo endogeno in Africa.
“L’Africa ha cominciato ad esistere a partire da un certo periodo ed è esistita come realtà di violenza – ha commentato –. Da quel periodo in poi stiamo cercando di capire come, da questa morte, possa nascere una resurrezione. Da qui tutto il tema del Rinascimento africano che, secondo me, non può prescindere dalla comunicazione”.
“E’ inutile parlare di solidarietà, quando ci stiamo uccidendo ogni giorno”, ha dichiarato Lopes. “Questo significa che di fondo la nostra capacità comunicativa è fortemente in crisi”.
Dove attingere allora per capire che se si continua così il futuro remerà contro?
Il professor Lopes parte dagli egiziani per arrivare a dialogare con tutti gli altri filosofi, dai greci fino ad Habermas. Questo ormai è il patrimonio dell’Africa, ha sottolineato: “Gli africani siamo questa realtà: dentro di noi abita un europeo, un americano, un asiatico e viceversa”.
Per ulteriori informazioni,
http://www.harambee-africa.org/.

Publié dans:FILOSOFIA |on 30 mars, 2011 |Pas de commentaires »

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