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LA SANTITÀ A PORTATA DI TUTTI – anche festa dei santi sconosciuti

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LA SANTITÀ A PORTATA DI TUTTI

Il primo novembre si celebra anche la festa dei santi sconosciuti

di padre Luigi Borriello, ocd

ROMA, martedì, 30 ottobre 2012 (ZENIT.org) – All’Angelus de 1° novembre 2007, il Papa ricordava che «la santità non è una condizione di privilegio, in realtà diventare santo è il compito di ogni cristiano, anzi di ogni uomo!».
Forse alcuni provano un certo disagio di fronte alla parola ‘santità’, anche se i cristiani sono ‘santi’ in virtù del battesimo.
Per rispondere alla vocazione universale alla santità, quindi, non occorre compiere azioni e opere straordinarie, né possedere carismi eccezionali;  è necessario innanzitutto ascoltare Gesù e poi seguirlo senza alcuna riserva.
«Se uno mi vuol servire – afferma il Maestro – mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servo. Se uno mi serve, il Padre lo onorerà» (Gv 12, 26). Chi lo ama con sincerità, come il chicco di grano sepolto nella terra, accetta di morire a sé stesso. Egli infatti sa che «chi ama la sua vita la perde, e, chi odia la sua vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna» (Gv 12, 25).
L’esperienza della Chiesa dimostra che ogni forma di santità, pur seguendo tracciati differenti, passa sempre per la via della croce, la via della rinuncia a se stesso. I Santi hanno perseverato nel loro impegno, «sono passati attraverso la grande tribolazione – si legge nell’Apocalisse – e hanno lavato le loro vesti rendendole candide col sangue dell’Agnello» (Ap 7, 14).
La santità esige uno sforzo costante, a tutti possibile perché, più che opera dell’uomo, è anzitutto dono di Dio, tre volte Santo (cf Is 6, 3). È Dio, dunque, che per primo ci ha amati e in Gesù ci ha resi suoi figli adottivi.
Nella nostra vita tutto è dono del suo amore. Pertanto, quanto più imitiamo Gesù e Gli restiamo uniti, tanto più entriamo nel mistero della santità divina. Scopriamo di essere amati da Lui in modo infinito, e questo ci spinge, a nostra volta, ad amare i fratelli. Amare implica sempre un atto di rinuncia a se stessi, il « perdere se stessi », e proprio così ci rende felici.
Le Beatitudini, che costituiscono la santità concreta dettataci dal Maestro, forniscono la fisionomia spirituale di Gesù, esprimendo il suo mistero di morte e risurrezione. Tale mistero, che è mistero della vera beatitudine, invita alla sequela di Gesù, quindi al cammino verso di essa. Nella misura in cui accogliamo la sua proposta e ci poniamo alla sua sequela – ognuno nelle sue circostanze – anche noi possiamo partecipare della sua “beatitudine”. Nel novero delle beatitudini ci siamo tutti: fra quelle nove ce n’è una proclamata e scritta per ciascuno di noi che deve indivi­duare e realizzare la propria missione nel mondo.
La santità si riceve da Cristo, come si diceva sopra, non è di produzione propria! Nell’Antico Testamento essere santi voleva dire « essere separati » da tutto ciò che è impuro; nell’accezione cristiana vuol dire piuttosto il contrario e cioè « essere uniti » a Cristo e separati dal peccato.
I santi, cioè i salvati, però, – va ricordato – non sono soltanto quelli elencati nel calendario o nell’albo dei santi. Vi sono anche i « santi sconosciuti »: quelli che hanno rischiato la vita per i fratelli, i martiri della giustizia e della libertà, o del dovere; i « santi laici », come li ha chiamati qualcuno. Senza saperlo anche le loro vesti sono state lavate nel sangue dell’Agnello, se hanno vissuto secondo coscienza e hanno avuto a cuore il bene dei fratelli.
Un’ultima considerazione va tenuta presente e spiegata: la Chiesa è santa e peccatrice. Nella professione di fede della Chiesa preghiamo: « Credo nella Chiesa una, santa, cattolica e apostolica ». Santa vuol dire che, in quello che viene da Dio, è santa, poiché è unita a Cristo, il Santo, che, con il Padre e lo Spirito, l’ha amata e si è donato per essa per santificarla. La Chiesa è il popolo santo di Dio e i suoi membri sono chiamati santi (Catechismo n. 823).
Dove esiste la pratica dell’amore, della giustizia e del bene, lì è presente la Chiesa santa, ovunque,  anche in  coloro che non udirono mai il messaggio del Vangelo, anche  lì sussiste la Chiesa santa.  Coloro che vivono così sono santi. Tutto il popolo di Dio è santo nella sua costituzione.
La santità delle persone, però, non è qualcosa al di fuori della realtà: accade giorno per giorno attraverso l’amore che è l’anima della santità. Teresa di Lisieux scriveva: «Compresi che la Chiesa aveva un corpo, composto di differenti membri… compresi che la Chiesa aveva un cuore, e che questo cuore ardeva di amore » (Autobiografia B 3v). L’amore vissuto da ogni membro, e da parte di tutti, realizzala santità. Tutti sono chiamati a vivere questa santità che non viene  offuscata dalla fragilità dei suoi membri.
Ma ritorna spontanea la domanda: «Come una Chiesa può essere santa avendo errori e difetti?» Da parte di Dio essa è santa, da parte delle persone che la compongono, c’è il cammino di santificazione. Per questo preghiamo: «Chiesa santa e peccatrice» (Preghiera Eucaristica V). Nella terra, la Chiesa è rivestita di una vera, anche se imperfetta, santità (Catechismo n. 825).
Il corpo di Cristo santo e immacolato, è composto di peccatori che camminano nella ricerca della santità.  Sapere che ci sono difetti e che si deve migliorare è una delle grandi forze della Chiesa. Se la si giudicasse perfetta non potrebbe crescere né scoprire i mali che potrebbero corromperla. E per questo è sempre pronta a purificarsi e convertirsi. Se fosse solo umana, la Chiesa sarebbe già scomparsa. Anche con i fallimenti, essa cammina, avendo bisogno di convertirsi sempre più al vangelo. 
La Chiesa è composta di peccatori e santi. Fu costituita da Cristo proprio così per essere un faro per l’umanità, pellegrina sulla terra. Attraverso i secoli ha dato e continua a donare il suo contributo per il bene delle persone, come si può osservare nelle molteplici attività in cui prende parte nel sociale, a tutti i livelli.  La più grande opera della Chiesa è stata quella di aprire al mondo i tesori della redenzione che Cristo gli ha affidato inviando gli apostoli a continuare la sua presenza e missione. Così essa  è promotrice di santità fra gli uomini. Le fragilità umane assunte dal Verbo incarnato mostrano che c’è posto per tutti nella Chiesa che accoglie tutti come ha fatto Gesù stesso.

Publié dans:feste, Santi |on 30 octobre, 2012 |Pas de commentaires »

UFFICIO DELLE CELEBRAZIONI LITURGICHE DEL SOMMO PONTEFICE – CELEBRARE IL CORPUS DOMINI

http://www.vatican.va/news_services/liturgy/2011/documents/ns_lit_doc_20110621_corpus-domini_it.html

UFFICIO DELLE CELEBRAZIONI LITURGICHE DEL SOMMO PONTEFICE

CELEBRARE IL CORPUS DOMINI

(Mons. Guido Marini, Maestro delle Celebrazioni Liturgiche Pontificie)

Primo incontro internazionale sull’adorazione eucaristica

Roma, martedì 21 giugno 2011

Quando mi è stato indicato il titolo di questo intervento, il mio ricordo è ritornato immediatamente a una celebre omelia, tenuta da Benedetto XVI, nel 2008, proprio in occasione della celebrazione della solennità del Corpus Domini a Roma.
Mi soffermerò a considerare tre grandi verità legate alla celebrazione del Corpus Domini, cercando al contempo di trarne alcune importanti conseguenze che coinvolgono soprattutto la nostra vita liturgica.

Stare davanti al Signore

Nella Chiesa antica lo “stare davanti al Signore” era espresso con il termine “statio”. Cerchiamo di capire qualche cosa di più del significato pregnante di questo termine.
Quando il cristianesimo si diffuse al di là dei confini del mondo giudaico, gli apostoli e i loro immediati successori ebbero una prioritaria preoccupazione: che in ogni città vi fosse un solo vescovo e un solo altare. Perché una tale preoccupazione? L’unicità del vescovo e dell’altare doveva dare espressione all’unità della Chiesa, al di là delle molteplici differenze, presenti in coloro che ne diventavano membri in virtù del Battesimo.
Nell’unità così espressa troviamo il senso più profondo dell’Eucaristia: ricevendo l’unico pane diventiamo un organismo vivente, l’unico corpo del Signore. Ecco perché l’apostolo Paolo poteva esclamare: “Qui non vi è Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro, Scita, schiavo, libero, ma Cristo è tutto in tutti” (Col 3, 11).
La partecipazione all’Eucaristia implicava, pertanto, che si ritrovassero insieme persone provenienti da condizioni molto diverse: l’uomo e la donna, il ricco e il povero, il nobile e lo schiavo, l’intellettuale e l’ignorante, l’asceta e il peccatore convertito da una vita dissoluta. L’accesso alla celebrazione eucaristica diventava, anche visibilmente, l’ingresso nell’unico corpo del Signore, la Chiesa.
Quando, più tardi, il numero dei cristiani iniziò a crescere non fu più possibile conservare questa forma esterna, espressiva dell’unità. A Roma vennero erette le chiese titolari; nel tempo sarebbero sorte le parrocchie. In un tale contesto rinnovato era necessario dare nuova forma espressiva all’unità visibile di un tempo. E questo avvenne con l’istituzione della “statio”. Il Papa, in qualità di vescovo di Roma, soprattutto durante il tempo quaresimale, celebrava il culto divino nelle diverse chiese titolari, dove si radunavano tutti i cristiani della città. Così, se pure in modo nuovo, si rinnovava l’esperienza di un tempo: tutti coloro che erano accomunati dalla stessa fede si ritrovavano insieme, nello stesso luogo, davanti al Signore.
Le festa del “Corpus Domini” recupera questo intendimento originario. Essa si propone, infatti, come “statio urbis”. Si “aprono le porte” delle chiese, delle parrocchie, dei gruppi nelle nostre diocesi e tutti si ritrovano insieme presso il Signore per essere una cosa sola a partire da Lui. Perché è proprio Lui, il Signore presente nella SS. Eucaristia, che ci fa un corpo solo e rende possibile che la molteplicità converga nell’unità della Chiesa.

Entrare nel noi della Chiesa
La celebrazione del “Corpus Domini”, allora, ci educa ogni volta a entrare nel “noi” della Chiesa che prega. Questo “noi” ci parla di una realtà, la Chiesa appunto, che va al di là dei singoli, delle comunità e dei gruppi. Questo “noi” ci ricorda che la Chiesa, anche quando si rende presente in una dimensione locale o particolare, è sempre universale: raggiunge tutti i tempi, tutti i luoghi e varca la soglia del tempo per lasciarsi raggiungere dall’eternità; custodisce e trasmette il mistero di Cristo, risposta ultima e definitiva alla domanda di senso presente nel cuore di ogni uomo.
Ne consegue che, celebrando il “Corpus Domini”, siamo richiamati ad alcune dimensioni tipiche e irrinunciabili della liturgia. Mi riferisco, anzitutto, alla dimensione della cattolicità, che è costitutiva della Chiesa fin dall’inizio. In quella cattolicità unità e varietà si compongono in armonia così da formare una realtà sostanzialmente unitaria, pur nella legittima diversità delle forme. E poi la dimensione della continuità storica, in virtù della quale l’auspicabile sviluppo appare quello di un organismo vivo che non rinnega il proprio passato, attraversando il presente e orientandosi al futuro. E, ancora, la dimensione della partecipazione alla liturgia del cielo, per il quale è quanto mai appropriato parlare della liturgia della Chiesa come dello spazio umano e spirituale nel quale il cielo si affaccia sulla terra. Si pensi, solo a titolo esemplificativo, al passaggio della Preghiera eucaristica I, nella quale chiediamo: “…fa’ che questa offerta, per le mani del tuo angelo santo, sia portata sull’altare del cielo…”.
E, infine, la dimensione della non arbitrarietà, che evita di consegnare alla soggettività del singolo o del gruppo ciò che invece appartiene a tutti come tesoro ricevuto, da custodire e trasmettere. La liturgia non è una sorta di intrattenimento, dove ciascuno può sentirsi in diritto di togliere e aggiungere secondo il proprio gusto e la propria più o meno felice capacità inventiva. La liturgia non è una festa nella quale si deve sempre trovare qualche cosa di nuovo per destare l’interesse dei partecipanti. La liturgia è la celebrazione del mistero di Cristo, consegnato alla Chiesa, nel quale siamo chiamati a entrare con sempre maggiore intensità, anche in virtù della provvidenziale ripetitività sempre nuova del rito.
Entrare nel “noi” della Chiesa a partire dall’Eucaristia significa anche lasciarsi trasformare nella logica di quella cattolicità che è carità, ovvero apertura del cuore, secondo la misura del Cuore di Cristo: abbraccia tutti, piega il proprio egoismo alle esigenze dell’amore vero, si dispone a dare la vita senza riserve. L’Eucaristia è la sorgente vera della carità della Chiesa e nel cuore di ognuno. Dall’Eucaristia prende forma quella quotidianità nella carità che è lo stile evangelico a cui siamo tutti chiamati.

Il canto e la lingua
Di recente il Santo Padre, nella Lettera scritta in occasione del 100° anniversario della fondazione del Pontificio Istituto di Musica Sacra, è ritornato sul tema dell’universalità del linguaggio, per ciò che attiene alla musica sacra.
La celebrazione del “Corpus Domini”, nel suo essere radice ed espressione di cattolicità, ci richiama alla universalità del canto proprio della liturgia e alla necessità di educarci ed educare in tal senso.
Così scrive Benedetto XVI: «A volte, infatti, tali elementi, che si ritrovano nella Sacrosanctum Concilium, quali, appunto, il valore del grande patrimonio ecclesiale della musica sacra o l’universalità che è caratteristica del canto gregoriano, sono stati ritenuti espressione di una concezione rispondente ad un passato da superare e da trascurare, perché limitativo della libertà e della creatività del singolo e delle comunità. Ma dobbiamo sempre chiederci nuovamente: chi è l’autentico soggetto della Liturgia? La risposta è semplice: la Chiesa. Non è il singolo o il gruppo che celebra la Liturgia, ma essa è primariamente azione di Dio attraverso la Chiesa, che ha la sua storia, la sua ricca tradizione e la sua creatività. La Liturgia, e di conseguenza la musica sacra, « vive di un corretto e costante rapporto tra sana traditio e legitima progressio », tenendo sempre ben presente che questi due concetti – che i Padri conciliari chiaramente sottolineavano – si integrano a vicenda».
L’universalità, che è tipica del canto gregoriano, è costantemente richiamata dal magistero della Chiesa, tra le note caratterizzanti l’espressione musicale che voglia a buon diritto dirsi sacra e liturgica. In questa universalità ci è dato di cogliere il rapporto vitale tra canto liturgico e mistero celebrato. Di quel mistero, che è universale perché destinato a tutti, il canto non può che essere fedele interprete ed esegesi. La musica o il canto che fossero solo espressione della soggettività, dell’emozione superficiale e passeggera, o della moda corrente sarebbero troppo poveri per avere cittadinanza nella liturgia. Nella liturgia, infatti, tutti devono rimanere in ascolto e farsi partecipi di un linguaggio universale e, di conseguenza, di una musica e un canto che aprano il cuore al mistero del Signore.
La musica e il canto, in liturgia, devono conservare un riferimento privilegiato alla Parola di Dio e a quella parola che la grande tradizione spirituale ci ha consegnato, come eco e interpretazione del mistero di Cristo. Solo così musica e canto rimangono fedeli alla loro nativa vocazione di essere vie di accesso all’avvenimento cristiano che salva la vita.
La celebrazione del “Corpus Domini”, la “statio urbis” segno dell’universalità della Chiesa raccolta attorno al mistero eucaristico, è richiamo anche a non dimenticare l’elemento di cattolicità che sempre deve farsi presente nella musica liturgica.

Camminare verso il Signore e con il Signore
Lo stare insieme davanti al Signore ha generato, fin da subito, il camminare verso il Signore e con il Signore.
Questo “camminare verso”, questo procedere diventato processione lo possiamo capire meglio se ritorniamo con la memoria all’esperienza fatta da Israele, al tempo della lunga peregrinazione attraverso il deserto. L’antico popolo di Dio ha potuto trovare una terra ed è riuscito a sopravvivere anche alla perdita della terra, perché non viveva di solo pane, ma si nutriva della parola del Signore. Quella parola era la forza che sosteneva il cammino arduo e faticoso, che rinfrancava nella desolazione e nella prova, che infondeva coraggio quando pareva venire meno ogni appiglio umano alla speranza.
L’esperienza dell’antico Israele è un segno e un riferimento permanente per la vita della Chiesa e di tutti noi. Se possiamo sostenere il peso del pellegrinaggio attraverso il tempo della storia e le sue contraddizioni, questo lo dobbiamo al fatto che camminiamo verso il Signore e che, nel cammino, Egli è con noi.
In tal modo celebrare il “Corpus Domini” significa camminare verso il Signore e con il Signore e, di conseguenza, celebrare il senso autentico della vita: questa non è un vagare senza meta nella solitudine di spazi sconfinati. La vita dell’uomo ha una direzione ben precisa. La direzione è Cristo, il Signore del tempo e della storia, il Salvatore di tutti; e mentre procediamo in quella direzione, Egli, che è la meta, è anche compagno di strada fedele, sostegno del nostro cammino. “Bone pastor, panis vere, / Iesu, nostri miserere: / tu nos pasce, nos tuere: /tu nos bona fac videre / in terra viventium”, canta la Sequenza della solennità liturgica (Buon pastore, vero pane, o Gesù, pietà di noi: nutrici e difendici, portaci ai beni eterni nella terra dei viventi).
Ciò che la comunità cristiana vive celebrando il “Corpus Domini” non lo vive solo per sé. Lo vive anche per tutti, per coloro che rimangono al di fuori della Chiesa, che la Chiesa l’hanno abbandonata o neppure l’hanno conosciuta. Il procedere pubblico dei cristiani per le vie della città dell’uomo verso il Signore e con il Signore è la testimonianza visibile di un modo nuovo di intendere la vita e la storia; un modo nuovo che ci è stato donato per grazia e che a tutti deve essere trasmesso. E’ il modo nuovo della speranza che scaturisce dalla fede in Gesù Cristo, il Dio incarnato, fattosi Eucaristia, che ci indica la strada da percorrere, accompagnando i passi del nostro andare.

L’orientamento a Cristo del cosmo e della storia
La celebrazione del “Corpus Domini” ci aiuta, pertanto, a ritrovare l’orientamento a Cristo di tutto, perché tutto è stato pensato e fatto “per mezzo di Lui e in vista di Lui” (Col 1, 16).
Le nostre personali conoscenze artistiche, insieme a recenti studi molto seri, ci ricordano che una delle caratteristiche tipiche della liturgia cristiana, fin dagli inizi, fu quella della celebrazione orientata.
Già nel termine “orientata” c’è tutto il significato del volgersi a oriente che caratterizzava la preghiera dei cristiani radunati per la celebrazione dei divini misteri. Le chiese erano rivolte a est, perché da lì sorge il sole, simbolo cosmico della venuta del Salvatore, richiamo quanto mai espressivo al vero Sole della vita, il Risorto. I cristiani, pregando, volgevano lo sguardo al sole nascente e, in tal modo, orientavano il cuore al Signore della storia, principio e fine della creazione.
Quando, nel corso del tempo, non fu più possibile, per diverse ragioni, continuare a costruire le chiese orientate a est, si supplì una tale impossibilità con il grande crocifisso dell’altare o l’abside riccamente decorata raffigurante l’immagine del Salvatore. Così, nonostante l’assenza del richiamo all’oriente mediante la struttura delle chiese, rimase ben chiaro l’orientamento della preghiera, a cui l’assemblea radunata era invitata durante la celebrazione liturgica.
Purtroppo, ai nostri tempi, corriamo il rischio di perdere l’orientamento della preghiera, con il conseguente rischio di perdere anche l’orientamento della vita e della storia. Il recupero della centralità della croce, così come il Santo Padre Benedetto XVI ci invita a fare con l’esempio della liturgia da lui presieduta, non è, dunque, un dettaglio marginale. Si tratta, in verità, di un elemento essenziale dell’atto liturgico, di un segno che riconduce lo sguardo degli occhi e del cuore al Signore, quale centro della nostra preghiera, che ripresenta davanti al cammino della nostra storia la meta vera verso la quale siamo incamminati.
Ecco il pensiero del Papa. “L’idea che sacerdote e popolo nella preghiera dovrebbero guardarsi reciprocamente è nata solo nella cristianità moderna ed è completamente estranea in quella antica. Sacerdote e popolo certamente non pregano l’uno verso l’altro, ma verso l’unico Signore. Quindi guardano nella preghiera nella stessa direzione: o verso Oriente come simbolo cosmico per il Signore che viene, o, dove questo non è possibile, verso un’immagine di Cristo nell’abside, verso una croce, o semplicemente verso il cielo, come il Signore ha fatto nella preghiera sacerdotale la sera prima della Passione (Gv 17, 1). Intanto si sta facendo strada sempre di più, fortunatamente, la proposta da me fatta alla fine del capitolo in questione della mia opera [Introduzione allo spirito della liturgia, pp.70-80]: non procedere a nuove trasformazioni, ma porre semplicemente la croce al centro dell’altare, verso la quale possano guardare insieme sacerdote e fedeli, per lasciarsi guidare in tal modo verso il Signore, che tutti insieme preghiamo” (Teologia della liturgia, pp. 7-8).
La liturgia cristiana – ed è questa una delle sue verità fondamentali – esprime, nei segni che le sono propri, il legame inscindibile tra creazione e alleanza, ordine cosmico e ordine storico di rivelazione. Così deve essere sempre.
Ecco come si è espresso, in proposito, il Santo Padre nell’omelia della Veglia pasquale di quest’anno: «Ora, ci si può chiedere: ma è veramente importante nella Veglia Pasquale parlare anche della creazione? Non si potrebbe cominciare con gli avvenimenti in cui Dio chiama l’uomo, si forma un popolo e crea la sua storia con gli uomini sulla terra? La risposta deve essere: no. Omettere la creazione significherebbe fraintendere la stessa storia di Dio con gli uomini, sminuirla, non vedere più il suo vero ordine di grandezza. Il raggio della storia che Dio ha fondato giunge fino alle origini, fino alla creazione. La nostra professione di fede inizia con le parole: “Credo in Dio, Padre onnipotente, Creatore del cielo e della terra”. Se omettiamo questo primo articolo del Credo, l’intera storia della salvezza diventa troppo ristretta e troppo piccola».
Portando in sé tutta la novità della salvezza in Cristo, il rito della Chiesa conserva e raccoglie ogni espressione di quella liturgia cosmica che ha caratterizzato la vita dei popoli alla ricerca di Dio per il tramite della creazione. Nell’Eucaristia trovano approdo di salvezza tutte le espressioni cultuali antiche. E’ quanto mai significativa, anche da questo punto di vista, la Preghiera eucaristica I o Canone romano, là dove ci si riferisce ai “doni di Abele, il giusto, il sacrificio di Abramo, nostro padre nella fede, e l’oblazione pura e santa di Melchisedech, tuo sommo sacerdote”.
In questo passaggio dell’antica preghiera della Chiesa ritroviamo un riferimento ai sacrifici antichi, al culto cosmico e legato alla creazione che ora, nella liturgia cristiana, non solo non è rinnegato, ma anzi è assunto nel nuovo ed eterno sacrificio di Cristo Salvatore.
D’altra parte, in questa stessa prospettiva, non si può che guardare ai molteplici segni e simboli cosmici dei quali la liturgia della Chiesa, insieme ai segni e ai simboli tipici dell’alleanza, fa uso al fine di dare forma al nuovo culto cristiano. Si pensi alla luce e alla notte, al vento e al fuoco, all’acqua e alla terra, all’albero e ai frutti. Si tratta di quell’universo materiale nel quale l’uomo è chiamato a rilevare le tracce di Dio. E si pensi ugualmente ai segni e ai simboli della vita sociale: lavare e ungere, spezzare il pane e condividere il calice.
Tutto, dunque, nel rito liturgico, trova il suo orientamento autentico, la sua direzione giusta, la sua verità più intima.
Come è bello, pertanto, guardare al Signore e a quei segni visibili che rendono più facile il volgersi a lui dello sguardo del cuore! Non deve destare meraviglia il fatto che una croce possa togliere una qualche visibilità nel rapporto tra celebrante e assemblea. Non è quella visibilità che primariamente conta nella preghiera. Ci si dovrebbe piuttosto meravigliare dell’assenza di segni eloquenti che garantiscano e favoriscano un tale volgersi a Cristo. Considerando che solo nel rivolgersi a Cristo è dato di aprire gli occhi sulla strada che dobbiamo percorrere e sulla verità della sua destinazione.
Così deve essere per noi, ogniqualvolta partecipiamo alla celebrazione dei divini misteri. Orientati a Cristo nella preghiera, ritroviamo la direzione della nostra esistenza, diventiamo capaci di interpretare il cosmo e la storia nella luce del Risorto, rientriamo nella quotidianità pronti a testimoniare la nuova speranza che ci è stata donata. E la solennità del “Corpus Domini” ci aiuta a ricordare esattamente questo, riportandoci alla verità essenziale della liturgia cristiana e della vita.

Inginocchiarsi alla presenza del Signore
Dal momento che il Signore stesso è presente nell’Eucaristia, che l’Eucaristia è il Signore, questa ha sempre implicato anche l’adorazione.
Sappiamo che nella sua forma solenne essa si è sviluppata nel corso del Medio Evo. Tuttavia non si trattò di un cambiamento immotivato o di un decadimento. Emerse in modo più evidente, in quel periodo storico, una verità che già era presente fin dall’antichità cristiana. Ovvero, se il Signore si dona a noi nel suo Corpo e nel suo Sangue, accoglierlo non può che significare anche inginocchiarsi, adorarlo, glorificarlo.
Si pensi, nei racconti evangelici, al gesto di Stefano (At 7, 60), Pietro (At 9, 40) e Paolo (At 20, 36) che hanno pregato in ginocchio. E vale la pena ricordare l’inno cristologico della Lettera ai Filippesi (2, 6-11) che presenta la liturgia del cosmo come un inginocchiarsi di fronte al nome di Gesù (2, 10) e vede in ciò adempiuta la profezia di Isaia (Is 45, 23) circa la signoria sul mondo del Dio d’Israele. Piegando le ginocchia davanti al Signore, la Chiesa compie la verità, rendendo omaggio a Colui che è vincitore perché ha donato se stesso fino alla morte e alla morte di croce.
Se la celebrazione del “Corpus Domini” si realizza nello stare davanti al Signore e nel camminare verso di Lui alla sua presenza, questa stessa celebrazione trova espressione quanto mai ricca di significato anche nell’atto dell’adorazione.
In tal modo la Chiesa afferma la verità delle cose e, insieme, la sua suprema libertà. Solo chi piega le ginocchia e il cuore davanti a Dio può vantare la libertà vera, quella dalle potenze del mondo, dalle schiavitù antiche e nuove del secolo presente.
Rifiutare l’adorazione al Signore si rivolge contro l’uomo, che diviene capace di ogni degradante sottomissione. Dove scompare Dio l’uomo rimane irretito nella schiavitù delle idolatrie. Adorare Gesù Cristo, vero Dio e vero Uomo, presente nell’Eucaristia, significa celebrare la vera libertà umana e, dunque, affermare la sua grande dignità. La dignità di figlio, figlio di un Dio che lo ha creato e che lo ha amato e lo ama fino al totale dono di sé.
D’altra parte l’atto dell’adorare comporta anche l’atto dell’aderire. La vera adorazione, infatti, è donare se stessi a Dio e agli uomini. L’adorazione autentica è l’amore, la conformità all’Amato, che ridona verità alla nostra vita e ricrea il nostro cuore. Non c’è vera adorazione senza generosa adesione. La Chiesa che piega le ginocchia davanti al suo Signore, piega anche il cuore alla sua volontà. E in lei tutti noi viviamo una tale esperienza spirituale: ci inginocchiamo con il corpo perché anche i nostri pensieri, sentimenti, affetti, comportamenti siano piegati al progetto di Dio. Così nell’atto dell’adorazione è presente già la figura del mondo nuovo, quello rinnovato dalla potenza dell’amore di Dio in Cristo, divenuto storia anche per il tramite della Chiesa, di tutti noi.

Il linguaggio dell’adorazione
La celebrazione del “Corpus Domini” ci introduce, pertanto, nel linguaggio orante dell’adorazione. La festa del Corpo e del Sangue del Signore ci aiuta a conservare con cura un tale linguaggio, nel contesto della celebrazione liturgica.
Mi piace, in questo contesto, ricordare un elemento fondamentale di questo linguaggio. Mi riferisco al silenzio sacro.
La liturgia, quando è ben celebrata, deve prevedere una felice alternanza di silenzio e parola, dove il silenzio anima la parola, permette alla voce di risuonare in sintonia con il cuore, mantiene ogni espressione vocale e gestuale nel giusto clima del raccoglimento.
Laddove vi fosse un predominio unilaterale della parola, non risuonerebbe l’autentico linguaggio della liturgia. Urge, pertanto, il coraggio di educare all’interiorizzazione, la disponibilità a imparare nuovamente l’arte del silenzio, di quel silenzio in cui apprendiamo l’unica Parola che può salvare dall’accumularsi delle parole vane e dei gesti vuoti e teatrali.
Il silenzio liturgico è sacro. Non è infatti una pausa tra un momento celebrativo e quello successivo. E’ piuttosto un vero momento rituale, in relazione di vitale reciprocità con la parola, la preghiera vocale, il canto, il gesto, attraverso il quale viviamo la celebrazione del mistero di Cristo.
I momenti di silenzio, che la liturgia prevede e che è necessario salvaguardare con attenzione, sono importanti in se stessi, ma aiutano anche a vivere l’intera celebrazione liturgica in un clima di raccoglimento e di preghiera, recuperando il silenzio quale elemento integrante dell’atto liturgico. Così è possibile approdare alla liturgia del silenzio, vera espressione di una preghiera adorante.
Da questo punto di vista, ci è dato di capire meglio il motivo per cui durante la preghiera eucaristica e, in specie, il canone, il popolo di Dio orante segue nel silenzio la preghiera del sacerdote celebrante. Quel silenzio non significa inoperosità o mancanza di partecipazione. Quel silenzio tende a far sì che tutti entrino nel significato di quel momento rituale che ripropone, nella realtà del sacramento, l’atto di amore con il quale Gesù si offre al Padre sulla croce per la salvezza del mondo. Quel silenzio, davvero sacro, è lo spazio liturgico nel quale dire sì, con tutta la forza del nostro essere, all’agire di Cristo, così che diventi anche il nostro agire nella quotidianità della vita.
Il silenzio liturgico, allora, è sacro perché è il luogo spirituale nel quale realizzare l’adesione di tutta la nostra vita alla vita del Signore, è lo spazio dell’“amen” prolungato del cuore che si arrende all’amore di Dio e lo abbraccia come nuovo criterio del proprio vivere. E’ proprio questo il significato stupendo dell’“amen” conclusivo della dossologia al termine della preghiera eucaristica, nella quale tutti diciamo con la voce quanto a lungo abbiamo ripetuto nel silenzio del cuore orante.

Il rapporto tra celebrazione e adorazione
La solennità del “Corpus Domini”, con la compresenza di celebrazione e adorazione, ha anche la capacità di farci vivere in sana armonia il rapporto vitale tra questi due momenti eucaristici. Nel contesto di un Convegno come questo vale forse la pena attardarsi ancora un momento sul valore dell’adorazione in rapporto alla celebrazione.
In verità, come sempre ci ricorda il magistero della Chiesa anche recente, l’atto dell’adorazione eucaristica segue la celebrazione, della quale è come un prolungamento. E, d’altra parte, l’adorazione ha la capacità di aiutare a conservare nel cuore il frutto della celebrazione, radicandolo nel cuore dell’orante.
Il mistero della salvezza, di Cristo morto e risorto per noi, che nella celebrazione eucaristica si rende sempre di nuovo attuale, nell’adorazione viene contemplato e, per così dire, assimilato, in modo che poco alla volta diventa sempre più vita della vita.
Da questo punto di vista, l’adorazione porta a compimento quanto è già implicato nella celebrazione. In effetti, ciò che ancora risulta decisivo per la liturgia è che coloro che vi partecipano preghino per condividere lo stesso sacrificio del Signore, il suo atto di adorazione, diventando una solo cosa con Lui, vero corpo di Cristo che è la Chiesa. In altre parole, ciò che è essenziale è che alla fine venga superata la differenza tra l’agire di Cristo e il nostro agire, che vi sia una progressiva armonizzazione tra la sua vita e la nostra vita, tra il suo sacrificio adorante e il nostro, così che vi sia una sola azione, ad un tempo sua e nostra. Quanto affermato da san Paolo non può che essere l’indicazione di ciò che è necessario conseguire in virtù della celebrazione liturgica: “Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me” (Gal 2, 19-20). E questo è ciò verso cui dirige la stessa adorazione eucaristica.
A ulteriore conferma di quanto affermato, ascoltiamo il Santo Padre in un passaggio dell’Esortazione Apostolica Sacramentum caritatis: “Già Agostino aveva detto: «Nessuno mangia questa carne senza prima adorarla; peccheremmo se non la adorassimo». Nell’Eucaristia, infatti, il Figlio di Dio ci viene incontro e desidera unirsi a noi; l’adorazione eucaristica non è che l’ovvio sviluppo della celebrazione eucaristica, la quale è in se stessa il più grande atto d’adorazione della Chiesa. Ricevere l’Eucaristia significa porsi in atteggiamento di adorazione verso Colui che riceviamo. Proprio così e soltanto così diventiamo una cosa sola con Lui e pregustiamo in anticipo, in qualche modo, la bellezza della liturgia celeste”. L’atto di adorazione al di fuori della santa Messa prolunga ed intensifica quanto s’è fatto nella Celebrazione liturgica stessa. Infatti, «soltanto nell’adorazione può maturare un’accoglienza profonda e vera. E proprio in questo atto personale di incontro col Signore matura poi anche la missione sociale che nell’Eucaristia è racchiusa e che vuole rompere le barriere non solo tra il Signore e noi, ma anche e soprattutto le barriere che ci separano gli uni dagli altri»” (n. 66).
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Stare, camminare, adorare. E’ in questi tre verbi, e in ciò che essi significano, la verità della celebrazione del “Corpus Domini” alla quale dobbiamo sempre tornare. Ricordando che tornare a una tale verità comporta ogni volta la riscoperta stupita e gioiosa del cuore, del centro, del tesoro della Chiesa e della sua liturgia. Per questo nella sequenza della solennità cantiamo: “Sit laus plena, sit sonora, / sit iucunda, sit decora / mentis iubilatio” (Lode piena e risonante, gioia nobile e serena sgorghi oggi dallo spirito).

Publié dans:feste, liturgia |on 8 juin, 2012 |Pas de commentaires »

22 febbraio: Cattedra di San Pietro Apostolo

http://www.santiebeati.it/dettaglio/20800

22 febbraio: Cattedra di San Pietro Apostolo

Il 22 febbraio per il calendario della Chiesa cattolica rappresenta il giorno della festa della Cattedra di San Pietro. Si tratta della ricorrenza in cui viene messa in modo particolare al centro la memoria della peculiare missione affidata da Gesù a Pietro. In realtà la storia ci ha tramandato l’esistenza di due cattedre dell’Apostolo: prima del suo viaggio e del suo martirio a Roma, la sede del magistero di Pietro fu infatti identificata in Antiochia. E la liturgia celebrava questi due momenti con due date diverse: il 18 gennaio (Roma) e il 22 febbraio (Antiochia). La riforma del calendario le ha unificate nell’unica festa di oggi. Essa – viene spiegato nel Messale Romano – « con il simbolo della cattedra pone in rilievo la missione di maestro e di pastore conferita da Cristo a Pietro, da lui costituito, nella sua persona e in quella dei successori, principio e fondamento visibile dell’unità della Chiesa ». (Avvenire)
Martirologio Romano: Festa della Cattedra di san Pietro Apostolo, al quale disse il Signore: «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa». Nel giorno in cui i Romani erano soliti fare memoria dei loro defunti, si venera la sede della nascita al cielo di quell’Apostolo, che trae gloria dalla sua vittoria sul colle Vaticano ed è chiamata a presiedere alla comunione universale della carità. 
Per ricordare due importanti tappe della missione compiuta dal principe degli apostoli, S. Pietro, e lo stabilirsi del cristianesimo prima in Antiochia, poi a Roma, il Martirologio Romano celebra il 22 febbraio la festa della cattedra di S. Pietro ad Antiochia e il 18 gennaio quella della sua cattedra a Roma. La recente riforma del calendario ha unificato le due commemorazioni al 22 febbraio, data che trova riscontro in un’antica tradizione, riferita dalla Depositio mar rum. In effetti, in questo giorno si celebrava la cattedra romana, anticipata poi nella Gallia al 18 gennaio, per evitare che la festa cadesse nel tempo di Quaresima.
In tal modo si ebbe un doppione e si finì per introdurre al 22 febbraio la festa della cattedra di S. Pietro ad Antiochia, fissando al 18 gennaio quella romana. La cattedra, letteralmente, è il seggio fisso del sommo pontefice e dei vescovi. E’ posta in permanenza nella chiesa madre della diocesi (di qui il suo nome di « cattedrale ») ed è il simbolo dell’autorità del vescovo e del suo magistero ordinario nella Chiesa locale. La cattedra di S. Pietro indica quindi la sua posizione preminente nel collegio apostolico, dimostrata dalla esplicita volontà di Gesù, che gli assegna il compito di « pascere » il gregge, cioè di guidare il nuovo popolo di Dio, la Chiesa.
Questa investitura da parte di Cristo, ribadita dopo la risurrezione, viene rispettata. Vediamo infatti Pietro svolgere, dopo l’ascensione, il ruolo di guida. Presiede alla elezione di Mattia e parla a nome di tutti sia alla folla accorsa ad ascoltarlo davanti al cenacolo, nel giorno della Pentecoste, sia più tardi davanti al Sinedrio. Lo stesso Erode Agrippa sa di infliggere un colpo mortale alla Chiesa nascente con l’eliminazione del suo capo, S. Pietro. Mentre la presenza di Pietro ad Antiochia risulta in maniera incontestabile dagli scritti neotestamentari, la sua venuta a Roma nei primi anni dell’impero di Claudio non ha prove altrettanto evidenti.
Lo sviluppo del cristianesimo nella capitale dell’impero attestato dalla lettera paolina ai Romani (scritta verso il 57) non si spiega tuttavia senza la presenza di un missionario di primo piano. La venuta, qualunque sia la data in cui ciò accadde, e la morte di S. Pietro a Roma, sono suffragare da tradizioni antichissime, accolte ora universalmente da studiosi anche non cattolici. Lo attestano in maniera storicamente inoppugnabile anche gli scavi intrapresi nel 1939 per ordine di Pio XII nelle Grotte Vaticane, sotto la Basilica di S. Pietro, e i cui risultati sono accolti favorevolmente anche da studiosi non cattolici.

Autore: Piero Bargellini

Publié dans:Cattedra di San Pietro, feste |on 20 février, 2012 |Pas de commentaires »

SANT’ANTONIO ABATE: UNA TRADIZIONE MILLENARIA

http://www.zenit.org/article-29273?l=italian

SANT’ANTONIO ABATE: UNA TRADIZIONE MILLENARIA

La festa che ricorre oggi è in assoluto la più studiata sul piano etno-antropologico

di Pietro Barbini
ROMA, martedì, 17 gennaio 2012 (ZENIT.org) – Il 17 gennaio, come da tradizione, in moltissimi paesi, comuni e province d’Italia si festeggia Sant’Antonio Abate. Eremita egiziano, conosciuto anche come Sant’Antonio l’Anacoreta o Sant’Antonio del Deserto, fondatore del monachesimo, è considerato il primo degli abati.
Sant’Antonio Abate, da non confondere con il Santo di Padova, è uno dei Santi più autorevoli della storia, talmente importante da essere celebrato non solo dalla Chiesa Cattolica, ma anche dalla Chiesa Luterana e da quella Copta. La sua vita ci è stata tramandata da Sant’Atanasio d’Alessandria, che fu suo fedele discepolo e compagno di lotta contro l’arianesimo.
Funzioni, veglie, processioni, benedizioni speciali, parate e giganteschi falò; prodotti gastronomici tipici del posto consumati all’aperto, canti, balli, musiche e rievocazioni storiche che narrano la vita e i miracoli del santo: tutto questo si svolge normalmente tra il 16 e il 17 gennaio. I festeggiamenti sono soliti aprirsi con la tradizionale veglia contadina la sera precedente, a cui fa seguito l’apertura degli stand gastronomici. La mattina seguente, dopo la funzione religiosa, vengono accesi i giganteschi falò, preparati precedentemente, naturalmente dopo esser stati benedetti dal parroco; mentre la catasta brucia, si balla, si canta e si degustano i piatti tipici del posto fino a tarda notte, accompagnati da musiche folkloristiche e spettacoli di vario genere, come ad esempio la lettura di poesie che parlano del Santo, ma anche l’esposizione di racconti popolari e contadini.
Questa singolare festa è considerata una delle più interessanti, ed è sicuramente la più studiata, dal punto di vista etno-antropologico; ricca di folklore e religiosità popolare, di antiche tradizioni, affascina non poco chi vi prende parte. Dopotutto la vita stessa del Santo, che morì all’età di ben 106 anni, come la sua figura, ha da sempre affascinato fedeli e miscredenti.
Oltre ai falò e al fuoco, la tradizione vuole che, dopo la messa, il parroco imponga la benedizione ai campi, al bestiame e al raccolto. L’Abate, infatti, è Patrono dei macellai, dei contadini, degli allevatori e degli animali domestici. È interessante come in alcune località questa festa venga associata alla smettitura del maiale. Il maiale, infatti, è l’animale che nell’iconografia tradizionale accompagna, da sempre, l’Abate. Ciò deriva dal fatto che all’ordine degli Antoniani fu dato il permesso di allevare maiali all’interno dei centri abitati, i quali scorazzavano liberamente con attaccato al collo un campanello; dal grasso di questi animali i monaci ricavavano un unguento che veniva usato sulle persone colpite da varie malattie della pelle, in particolare da ergotismo ed herpes zoster, non a caso malattie conosciute meglio con il nome di “fuoco di Sant’Antonio”.
Al Santo sono inoltre riconosciute grandi capacità taumaturgiche e molti si affidano alla sua grazia, chiedendo guarigioni da qualsiasi male, soprattutto chi è stato “colpito dal fuoco”, ma anche per chiedere liberazioni dal demonio. Sant’Antonio nell’arte sacra è conosciuto come “il santo delle tentazioni demoniache”; nella sua vita, infatti, venne continuamente attaccato, tentato e tormentato dal demonio, addirittura percosso fisicamente fino a ridurlo allo stremo. Insomma l’Abate era continuamente in lotta con il diavolo. Ecco perché la sua associazione al fuoco; a riguardo poi, si narra che il Santo per strappare più anime possibili al demonio si sia recato addirittura all’inferno.
È interessante osservare che in mezzo ai molti simbolismi e rituali che richiamano alla memoria il Santo Abate, persistono alcune usanze tra la popolazione che si è soliti identificare con antiche tradizioni pagane, in uso presso gli antichi romani. Taluni studiosi sostengono anche che la festa del Santo abbia preso origine da culti pagani, come spesso viene asserito riferendosi al Santo Natale, sostenendo, erroneamente, che non esistono documenti e prove sulla data di nascita di Gesù Cristo, ma che sia stata solamente un’invenzione della Chiesa per estirpare il culto pagano del Sol Invivtus. Teoria erronea, se si va alle fonti della storia e si esaminano seriamente i documenti pervenutici (come ad esempio il Libro dei Giubilei, un testo del II secolo a.C., rinvenuto nel 1947 in una grotta del deserto di Qumran). Come per il Natale, oggi, dai documenti e dagli ultimi studi effettuati, si può ben affermare che le tradizioni contadine, parte importante del folklore popolare e molto interessanti dal punto di vista etno-antropologico, non hanno nulla a che vedere con i rituali dedicati al Santo Abate, il 17 gennaio.

Publié dans:feste, Padri del deserto |on 17 janvier, 2012 |Pas de commentaires »

LA FESTA DI OGNISSANTI RINNOVA LA SPERANZA

dal sito:

http://www.zenit.org/article-28466?l=italian

LA FESTA DI OGNISSANTI RINNOVA LA SPERANZA

Santità, perenne giovinezza della Chiesa

di Padre Mario Piatti icms

Il primo di Novembre la Chiesa cattolica festeggia la festa di Ognissanti. Per una grazia singolare, la Chiesa custodisce la stessa freschezza di 2000 anni fa. La santità è la giovinezza della Chiesa, che non esige condizioni storiche, sociali o psicologiche speciali per realizzarsi. Si incarna in ogni epoca, attraverso il cuore di chi la accoglie; irradia di luce il mondo, feconda i solchi aridi della terra, produce, dovunque passi, il frutto dolcissimo della carità.
I Santi non si arrendono mai. Non cedono neppure di fronte alle loro fragilità, alle proprie incostanze, ma fiduciosamente si abbandonano in Dio. Sanno ricominciare sempre, anche dopo qualunque fallimento, perché confidano in Lui e non nelle proprie forze. Non tremano per il baratro dell’umana miseria, ma si inabissano totalmente nella infinita Misericordia di Dio. Non si scandalizzano per il quadro desolante della ingiustizia umana, ma si appellano al solo Giusto, al solo buono, al solo misericordioso.
I Santi sono le persone più libere, che non si lasciano condizionare dagli eventi, ma in tutto contemplano il sapiente progetto di Dio. Perseguono tenacemente la meta, con il cuore sempre fisso al Cielo e camminano fiduciosi in terra. Sanno ritrovare la “via di casa”: non si smarriscono lungo gli inquieti sentieri della storia, perché i loro passi seguono quelli del Maestro (cfr. 1Pt 2,21 ss), tracciando, a loro volta, un sentiero percorribile e indicando a noi la direzione di marcia. Non si lasciano sedurre dalle mode che passano, ma pongono tutta la loro vita e la loro speranza su ciò che è essenziale, su ciò che non muta.
I Santi attestano che, in fondo, per Grazia di Dio, non è difficile amare, patire, offrire con gioia, perdonare, evitare il male e operare sempre per il bene, accogliendo le tante ispirazioni che il Signore infonde nel cuore. Ci insegnano a far tesoro delle prove e del dolore, della morte stessa, non più considerata sciagura e catastrofe ineluttabile, ma consolante porta di accesso per l’eterna beatitudine.
«È importante avere anche dei compagni di viaggio nel cammino della nostra vita cristiana: penso al Direttore spirituale, al Confessore, a persone con cui si può condividere la propria esperienza di fede, ma penso anche alla Vergine Maria e ai Santi. Ognuno dovrebbe avere qualche Santo che gli sia familiare, per sentirlo vicino con la preghiera e l’intercessione, ma anche per imitarlo. Vorrei invitarvi a conoscere maggiormente i Santi, a iniziare da quello di cui portate il nome, leggendone la vita, gli scritti. Siate certi che diventeranno buone guide per amare ancora di più il Signore e validi aiuti per la vostra crescita umana e cristiana» (Benedetto XVI, Castel Gandolfo, 25 agosto 2010). Anche noi, guardando ai Santi, dovremmo dire ogni giorno: non vogliamo meno del Cielo! Non ci accontentiamo dei “surrogati”, che il mondo propone: siamo più ambiziosi. Non ci bastano né l’oro, né il denaro, né il successo né la “fama”: “tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura… (cfr. Fil 3,7ss).
Anche noi, come loro, non siamo fatti per arrenderci, per ritornare indietro, ripiegandoci fatalmente su noi stessi, ma piuttosto per “guardare oltre”, per raggiungere la meta del nostro desiderio. Talmente in alto volai, che raggiunsi la preda… Perché speranza di cielo ottiene quanto spera… ché tanto in alto arrivai, che raggiunsi la preda (San Giovanni della Croce).I Santi non hanno ceduto, hanno continuato a credere, contro ogni logica e contro ogni ostacolo. Da loro impariamo a salire, spesso faticosamente, l’erta della vita, sostenuti dalla Grazia e accompagnati da un popolo, come noi, peregrinante nella storia. Anche noivogliamo puntare in alto, “ad afferrare la preda”, a conquistare il Cuore di Dio. Non ci basta essere “bravi”: vogliamo diventare santi! La salvezza è calarsi in Cristo, pensare, amare e operare in Lui e per Lui.
I volti familiari, la strada di casa, il lavoro, le consuete mura domestiche nascondono, per tutti, un segreto, intessuto nella trama dei nostri giorni, così vicino a noi, ma spesso così distante, perché velato dalle nostre distrazioni e dalla quotidiana “fatica di vivere”. In realtà, la nostra vera cittadinanza è il Cielo, la nostra vera identità è quella di essere figli di Dio, la nostra familiarità è con i Santi (cfr. Ef 2,19-20).
Ripeteva, sul suo letto di dolore e di amore, la giovanissima beata Chiara Badano: «Non ho più niente, ma ho ancora il cuore e con quello posso sempre amare». E, pensando ai suoi coetanei: «… I giovani sono il futuro. Io non posso più correre, però vorrei passare loro la fiaccola come alle Olimpiadi. I giovani hanno una vita sola e vale la pena di spenderla bene!».
Attingiamo alla sorgente di luce e di Grazia e raccogliamo il testimone, a noi trasmesso dai Santi. Il tempo della vita – unico e prezioso – ci è dato proprio per questo.

L’articolo in questione è stato pubblicato da Padre Mario su “Maria di Fatima”, rivista della Famiglia del Cuore Immacolato di Maria

Publié dans:feste, Santi |on 27 octobre, 2011 |Pas de commentaires »

4 ottobre : San Francesco d’Assisi

 dal sito:

 http://www.30giorni.it/articoli_id_9301_l1.htm

(30giorni – settembre 2005)

Francesco d’Assisi: un uomo di pace formato dalla liturgia

Anche la vicenda di Francesco d’Assisi, come avviene per ogni uomo, rimarrà sempre, in un certo qual senso, un mistero. Riconoscere questo non impedisce di continuare ad approfondirla, grazie anche ai risultati già raggiunti fin qui. Proprio in questa prospettiva si sta riconoscendo il ruolo importante, per non dire fondamentale, della liturgia nella vicenda di Francesco

di Pietro Messa

In queste pagine, alcune immagini della pala Il perdono di Assisi, di Prete Ilario da Viterbo (1393), conservata nell’abside della Porziuncola, Basilica di Santa Maria degli Angeli, Assisi; qui sopra, Francesco annuncia il perdono di Assisi
Non si può non riconoscere che in un certo qual senso Francesco d’Assisi ha avuto una fortuna invidiabile rispetto ad altri santi: dichiarato nel 1992 dal Time Magazine uno degli uomini più rappresentativi del secondo millennio, studiato da centri di ricerca universitari laici e non, innumerevoli pubblicazioni scientifiche e divulgative inerenti alla sua storia, diversi film a lui dedicati, riconosciuto come riferimento ideale da persone di diverse culture e religioni. A tutto ciò si aggiunga la scelta di Assisi, la città di san Francesco, da parte di Giovanni Paolo II per la storica giornata del 27 ottobre 1986 che diede inizio al cosiddetto “spirito di Assisi”, ossia quel movimento interreligioso in favore della pace; il Pontefice vi fece ritorno ancora il 9 e il 10 gennaio 1993 e, nonostante le numerose riserve e perplessità su tale opportunità, il 24 gennaio 2002, cioè dopo gli atti terroristici dell’11 settembre 2001.
Quindi un san Francesco molto valorizzato e anche se il giorno della sua festa, il 4 ottobre, in Italia non è diventato festa nazionale, il suo nome è comunque sinonimo di dialogo interculturale e interreligioso. Tuttavia sappiamo tutti che il confine tra aver successo ed essere inflazionati è molto sottile, e questo vale anche per il santo di Assisi.
Gli studi francescani hanno vagliato le fonti inerenti alla sua esperienza cristiana, mentre innumerevoli studiosi continuano a cercare di perfezionare la conoscenza di tali fonti onde scoprire il volto di questo santo, al di là di ogni immagine agiografica o manipolazione ideologica. Si è approfondita la sua formazione culturale e spirituale, riconoscendovi diverse stratificazioni, ossia: la cultura del figlio del mercante, una ideologia cavalleresca che lo conduceva a indossare ideologicamente i panni dei cavalieri, la cultura cortese che rimase anche dopo la conversione, l’elemento evangelico e perfino le reminiscenze delle antiche vite dei Padri del deserto1. Davanti a questi innumerevoli studi, i cui inizi si riconoscono in Paul Sabatier, sembra che ormai su frate Francesco d’Assisi, il figlio del mercante Pietro di Bernardone, non ci sia altro da approfondire. L’immagine maggiormente divulgata però appare non solo inflazionata, a volte si ha la sensazione che sia monca di qualche aspetto importante, quando non è vittima di qualche operazione ideologica strumentalizzante. Certamente, come avviene per ogni uomo, anche la vicenda di Francesco d’Assisi rimarrà sempre in un certo qual senso un mistero. Riconoscere questo non impedisce però di continuare ad approfondirla, grazie anche ai risultati già raggiunti fin qui. Proprio in questa prospettiva si sta riconoscendo il ruolo importante, per non dire fondamentale, della liturgia nella vicenda di Francesco.
Spesso persino la Bibbia, e quindi il Vangelo, è presente nei suoi scritti mediata dalla liturgia [...]. Ciò che appare a uno studio più approfondito è che conobbe la Scrittura mediante la liturgia, ossia grazie alla mediazione della Chiesa
1. Un periodo di riforma liturgica
Il tempo in cui visse Francesco furono anni di grandi cambiamenti e trasformazioni culturali: lo sviluppo dei comuni, la nascita delle università, l’incentivo agli scambi commerciali, il sorgere di nuove esigenze religiose spesso sfociate nell’eresia ma anche in movimenti pauperistici. Tutti questi aspetti normalmente vengono presi in considerazione dagli studiosi più avveduti, quando inquadrano storicamente la vicenda di Francesco d’Assisi. Tuttavia quasi totalmente trascurata è la considerazione che quegli anni furono uno dei momenti nevralgici della storia della liturgia. Infatti se si prende un qualsiasi manuale di storia della liturgia, si può constatare che Innocenzo III diede inizio a una riforma della liturgia della Curia romana i cui esiti proprio tramite i Frati minori si diffusero ovunque, tanto da essere ancora oggi l’elemento caratterizzante la liturgia latina di rito romano.
Agli inizi del Duecento a Roma esistevano fondamentalmente quattro tipi di liturgia: quella della Curia romana, che risiedeva nel Palazzo del Laterano, quella della vicina Basilica di San Giovanni, quella della Basilica di San Pietro e quella cosiddetta dell’Urbe, ossia della città di Roma. Innocenzo III nel suo programma di riforma, che vide uno dei suoi momenti di massima espressività nel Concilio Lateranense IV del 1215, non escluse la liturgia. Della riforma della liturgia uno dei frutti più prestigiosi fu il breviario. Accostando, integrando e adeguando alla vita della Curia romana, spesso soggetta a trasferimenti, testi che precedentemente erano distribuiti in libri diversi, Innocenzo III fornì uno strumento maneggevole soprattutto a coloro che erano spesso in viaggio. Tale breviario, proprio per la sua fruibilità, venne presto adottato anche da alcune diocesi, tra cui quella di Assisi. In questo modo Francesco e la fraternitas minoritica ebbero accesso a un libro liturgico che presto si rivelò conforme alle loro esigenze di persone itineranti che vivevano da “stranieri e pellegrini”2. Così i Frati minori fecero propria la preghiera liturgica e specificatamente quella della Curia romana, ossia del pontefice.

2. Non semplicemente questione di preghiera
Adottare un libro liturgico o l’altro non era indifferente. Lo aveva già compreso precedentemente papa Gregorio VII che vedeva con timore una disparità liturgica perché in alcuni casi conduceva non solo a una disparità giurisdizionale, ma anche dottrinale, vale a dire all’eresia. Ad esempio, adottare il breviario della Curia romana riformato da Innocenzo III significava accogliere tutta una tradizione precedente. La disposizione in esso delle diverse feste, la scelta di determinate letture, l’assemblaggio di passi biblici per formare antifone, versetti e responsorii, la presenza di innumerevoli letture sia patristiche che degli antichi martirologi, erano fondamentalmente il risultato della riflessione ecclesiale e del vissuto soprattutto monastico di tutto il millennio precedente. Quindi, nel far proprio il breviario, Francesco e la fraternitas minoritica si inserirono in una storia che li aveva preceduti e che era stata trasmessa lungo i secoli. Ciò non significa che essi si sentirono oppure agirono come fossero prigionieri di quella tradizione: infatti, come annota una fonte, Francesco non mancò di affermare la propria peculiarità respingendo alcuni modelli a lui precedenti.
Comunque, accogliendo la preghiera del breviario, essi si inserirono dentro quella tradizione spirituale e teologica maturata lungo i secoli nella Chiesa, come si può constatare nella lettura degli scritti di Francesco, in cui le reminiscenze liturgiche sono innumerevoli. Tali reminiscenze, che tecnicamente sono definite casi di “intertestualità e interdiscorsività” – cioè citazioni vere e proprie o semplici rimandi concettuali –, spesso sono una trasmissione di testi patristici interiorizzati dal santo. Se ciò appare sorprendente, soprattutto rispetto a una certa storiografia che ha presentato Francesco di Assisi come il Santo del solo Vangelo – quasi una sorta di precursore della riforma protestante –, ancora più ricco di conseguenze è il fatto che spesso persino la Bibbia, e quindi il Vangelo, è presente nei suoi scritti mediata dalla liturgia. Ciò, naturalmente, conduce a rivedere certe descrizioni dell’esperienza spirituale di Francesco che lo presentano come uno che ha avuto un rapporto immediato, senza mediazioni, con la Scrittura. Invece ciò che appare a uno studio più approfondito è che egli conobbe la Scrittura mediante la liturgia, ossia grazie alla mediazione della Chiesa. E la liturgia è essa stessa una spiegazione della Scrittura, cioè un’esegesi: infatti anche semplicemente la collocazione di una determinata lettura in una festa piuttosto che in un’altra dice già della chiave di lettura e quindi della comprensione di quel determinato brano. Così la lettura del capitolo 11 di Isaia in cui si parla del germoglio che spunta dal tronco di Iesse nel Comune della Vergine Maria è già in sé stessa una prospettiva mariana data a quel determinato brano, accresciuta notevolmente se poi al posto di virga, cioè germoglio – come dovrebbe essere – vi è virgo, cioè Vergine, come risulta esserci nel breviario appartenuto a san Francesco d’Assisi: «Spunterà la Vergine dal tronco di Iesse, un virgulto germoglierà dalle sue radici, su di lui si poserà lo spirito del Signore»3.

Coperta anteriore e posteriore del Breviarium sancti Francisci, decorata con immagini seicentesche d’argento di san Francesco e santa Chiara, protomonastero Santa Chiara, Assisi

3. La testimonianza
del Breviarium sancti Francisci
L’importanza della liturgia nella fraternitas minoritica e nella vicenda di Francesco d’Assisi è testimoniata non solo dalla Regola dei Frati minori confermata da papa Onorio III nel 1223, ma soprattutto da un codice conservato tra le reliquie del protomonastero Santa Chiara presso l’omonima Basilica in Assisi. Come testimonia una scritta autografa di frate Leone, cioè di uno dei compagni nonché testimoni del Santo, questo codice fu usato dallo stesso Francesco: «Il beato Francesco procurò questo breviario per i suoi compagni frate Angelo e frate Leone, poiché, mentre era in salute, volle sempre dire l’ufficio, come è contenuto nella Regola; e nel tempo della sua malattia invece, non potendo recitarlo, voleva ascoltarlo; e questo continuò a fare finché visse»4.
Il codice, denominato Breviarium sancti Francisci, consiste fondamentalmente in un breviario, il salterio e l’evangeliario; la prima parte è la più consistente ed è costituita dal breviario della Curia romana riformato da Innocenzo III. L’antichità del testo, che lo rende un testimone privilegiato di tale riforma e quindi della storia dei libri liturgici in generale, è confermata dalla presenza, soprattutto nelle solennità mariane o di santi legati al ministero pontificio, come Pietro, Paolo e Gregorio Magno, di letture tratte dai sermoni dello stesso Innocenzo III; tali letture dopo la sua morte nel 1216 saranno rese facoltative dal successore, papa Onorio III, e immediatamente scompariranno dal breviario5. Infatti il Breviario di san Francesco è l’unico breviario vero e proprio che contiene tali letture per esteso. Questo codice fu usato da Francesco e certamente cooperò a formare in lui una seppur rudimentale cultura teologica che gli permise di esprimere la sua spiritualità e il suo pensiero in alcuni scritti, tre dei quali sono ancora oggi in nostro possesso in formato autografo6.
Considerato questo ruolo svolto dalla liturgia nella formazione culturale e spirituale di Francesco, essa deve essere tenuta nel dovuto conto quando si cerca di comprendere il messaggio del santo d’Assisi. Quindi, soprattutto il contenuto di tale codice va tenuto presente ogniqualvolta si voglia approfondire una tematica particolare del suo pensiero; così il ruolo di Maria Vergine, nel suo pensiero, diventerà maggiormente intelligibile nella misura in cui si leggeranno i suoi scritti tenendo conto dell’Ufficio della Beata Vergine e delle quattro feste mariane contenute nel suddetto codice, cioè la Presentazione di Gesù al Tempio, il 2 febbraio; l’Annunciazione, il 25 marzo; l’Assunzione con la sua ottava, dal 15 al 22 agosto; e la Nascita di Maria, l’8 settembre. Anche se le prime due feste, ossia la Presentazione al Tempio e l’Annunciazione, celebrano due misteri della vita di Gesù Cristo, già da secoli avevano assunto una forte connotazione mariana, tanto che la prima è denominata nel suddetto Breviarium come festa della Purificazione di Maria Vergine7.
L’importanza del Breviarium sancti Francisci fu riconosciuta e testimoniata dallo stesso frate Leone che lo diede alla badessa Benedetta del monastero Santa Chiara in Assisi perché lo conservasse come un testimone privilegiato della santità di Francesco. Tuttavia, prima di consegnarlo, egli segnò nel calendario diversi giorni anniversari di defunti, tra cui quelli di Innocenzo III e di Gregorio IX. Dopo ancora alcuni anni durante i quali fu usato come libro liturgico, il breviario del Santo fu definitivamente collocato tra le reliquie del suddetto monastero, dove ancora oggi si può ammirare. Proprio a causa di tale importanza, nel Seicento la sua copertina fu decorata con due ornamentazioni d’argento raffiguranti san Francesco e santa Chiara.

Francesco si reca alla Porziuncola
4. Francesco e la Chiesa
Uno degli argomenti più dibattuti nella storiografia francescana è il rapporto di Francesco con la Chiesa. C’è chi ha parlato di Francesco come di una sorta di rivoluzionario, chi invece, non potendo contraddire le fonti, ha cercato la ragione della sua obbedienza alla gerarchia nella sua scelta di vivere nella minorità: sia in un senso che nell’altro, il suo è sempre un atteggiamento visto in un modo che possiamo definire distaccato, estrinseco. La considerazione dell’importanza della liturgia nella vicenda di Francesco può aiutare a comprendere meglio il suo rapporto con la Chiesa: egli visse l’inserimento, certamente non in modo passivo, in una storia che lo precedeva e che si era espressa anche mediante determinate formule liturgiche. La preghiera e la meditazione di testi a lui precedenti, espressione della vita e della santità della Chiesa lungo i secoli, divennero per Francesco il luogo di comunione con la storia della salvezza. Proprio per questo egli fu molto determinato contro coloro che non volevano recitare l’Ufficio, come è testimoniato da quanto scrive nel suo testamento: «E sebbene io sia semplice e infermo, tuttavia voglio sempre avere un chierico che mi reciti l’Ufficio così come è prescritto nella Regola. E tutti gli altri frati siano tenuti a obbedire così ai loro guardiani e a dire l’Ufficio secondo la Regola. E se si trovassero dei frati che non dicessero l’Ufficio secondo la Regola, e volessero variarlo in altro modo, o non fossero cattolici, tutti i frati, ovunque siano, siano tenuti per obbedienza, ovunque trovassero qualcuno di essi, a farlo comparire davanti al custode più vicino al luogo dove l’avranno trovato. E il custode sia fermamente tenuto per obbedienza a custodirlo severamente, come un uomo in prigione giorno e notte, così che non possa essergli tolto di mano finché non lo consegni di persona nelle mani del suo ministro. E il ministro sia fermamente tenuto, per obbedienza, a mandarlo per mezzo di tali frati che lo custodiscano giorno e notte come un uomo imprigionato, finché non lo presentino davanti al signore di Ostia, che è signore, protettore e correttore di tutta la fraternità»8. Tale trafila che si conclude con la consegna al “signore di Ostia”, cioè al cosiddetto cardinal protettore dell’Ordine minoritico, è stata considerata una delle “durezze” di frate Francesco che tanto contrasta con una certa sua immagine irenica; e tale durezza è nei confronti di coloro che non recitano il breviario. Ciò è dovuto al fatto che quella determinata preghiera, e quindi anche il suo rifiuto, era direttamente correlata all’ortodossia o meno della persona e della comunità.
L’assioma lex orandi, lex credendi, lex vivendi lo possiamo constatare vissuto da Francesco e anche ritenuto dallo stesso, anche se non esplicitamente, uno dei riferimenti della sua esperienza cristiana. La modalità con cui Francesco ha pregato, e che ha voluto fosse anche quella della fraternitas minoritica, ossia la recita del breviario, è espressione della sua fede, quella della Chiesa rappresentata dal pontefice, che si è espressa nel suo vissuto concreto. Quindi, se si vuole comprendere appieno il vissuto del santo di Assisi e della sua predicazione di pace – con il significato che ha assunto lungo la storia e soprattutto grazie al pontificato di Giovanni Paolo II –, non può essere trascurata la sua fede espressa mediante la preghiera, soprattutto liturgica, e la recita del breviario.

Publié dans:feste, San Francesco d'Assisi |on 3 octobre, 2011 |Pas de commentaires »

Santi Pietro e Paolo, apostoli, solennità, San Clemente di Roma: Lettera ai Corinzi, 5-7 (La più antica testimonianza storica del martirio di Pietro e di Paolo)

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php

Santi Pietro e Paolo, apostoli, solennità

Meditazione del giorno
San Clemente di Roma, papa dal 90 al 100 circa
Lettera ai Corinzi, 5-7

La più antica testimonianza storica del martirio di Pietro e di Paolo

        Lasciando gli esempi antichi del Antico Testamento, veniamo agli atleti vicinissimi a noi e prendiamo gli esempi validi della nostra epoca. Per invidia e per gelosia le più grandi e giuste colonne furono perseguitate e lottarono sino alla morte. Prendiamo i buoni apostoli. Pietro per l’ingiusta invidia non una o due, ma molte fatiche sopportò, e così col martirio raggiunse il posto della gloria. Per invidia e discordia Paolo mostrò il premio della pazienza. Per sette volte portando catene, esiliato, lapidato, fattosi araldo nell’oriente e nell’occidente, ebbe la nobile fama della fede. Dopo aver predicato la giustizia a tutto il mondo, giunto al confine dell’occidente e resa testimonianza davanti alle autorità, lasciò il mondo e raggiunse il luogo santo, divenendo il più grande modello di pazienza. A questi uomini che vissero santamente si aggiunse una grande schiera di eletti, i quali, soffrendo per invidia molti oltraggi e torture, furono di bellissimo esempio a noi.
        Carissimi, scriviamo tutte queste cose non solo per avvertire voi, ma anche per ricordarle a noi. Siamo sulla stessa arena e uno stesso combattimento ci attende. Lasciamo i vani ed inutili pensieri e seguiamo la norma gloriosa e veneranda della nostra tradizione. Vediamo ciò che è bello, ciò che è piacevole e gradito davanti a chi ci ha creato. Guardiamo il sangue di Gesù Cristo e consideriamo quanto sia prezioso al Padre suo. Effuso per la nostra salvezza portò al mondo la grazia del pentimento
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Papa Benedetto: Mercoledì delle Ceneri, 1° marzo 2006

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro
Mercoledì delle Ceneri, 1° marzo 2006

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2006/documents/hf_ben-xvi_aud_20060301_it.html

Meditazione sul significato del tempo quaresimale

Papa Benedetto XVI

Cari Fratelli e Sorelle,

Inizia oggi, con la Liturgia del Mercoledì delle Ceneri, l’itinerario quaresimale di quaranta giorni che ci condurrà al Triduo pasquale, memoria della passione, morte e risurrezione del Signore, cuore del mistero della nostra salvezza. Questo è un tempo favorevole in cui la Chiesa invita i cristiani a prendere più viva consapevolezza dell’opera redentrice di Cristo e a vivere con più profondità il proprio Battesimo. In effetti, in questo periodo liturgico il Popolo di Dio fin dai primi tempi si nutre con abbondanza della Parola di Dio per rafforzarsi nella fede, ripercorrendo l’intera storia della creazione e della redenzione.
Nella sua durata di quaranta giorni, la Quaresima possiede un’indubbia forza evocativa. Essa intende infatti richiamare alcuni tra gli eventi che hanno scandito la vita e la storia dell’Antico Israele, riproponendone anche a noi il valore paradigmatico: pensiamo, ad esempio, ai quaranta giorni del diluvio universale, che sfociarono nel patto di alleanza sancito da Dio con Noè, e così con l’umanità, e ai quaranta giorni di permanenza di Mosè sul Monte Sinai, cui fece seguito il dono delle tavole della Legge. Il periodo quaresimale vuole invitarci soprattutto a rivivere con Gesù i quaranta giorni da Lui trascorsi nel deserto, pregando e digiunando, prima di intraprendere la sua missione pubblica. Anche noi quest’oggi intraprendiamo un cammino di riflessione e di preghiera con tutti i cristiani del mondo per dirigerci spiritualmente verso il Calvario, meditando i misteri centrali della fede. Ci prepareremo così a sperimentare, dopo il mistero della Croce, la gioia della Pasqua di risurrezione.
Si compie oggi, in tutte le comunità parrocchiali, un gesto austero e simbolico: l’imposizione delle ceneri, e questo rito viene accompagnato da due pregnanti formule, che costituiscono un pressante appello a riconoscersi peccatori e a ritornare a Dio. La prima formula dice: « Ricordati che sei polvere e in polvere ritornerai » (cfr Gn 3,19). Queste parole, tratte dal libro della Genesi, evocano la condizione umana posta sotto il segno della caducità e del limite, e intendono spingerci a riporre ogni speranza soltanto in Dio. La seconda formula si rifà alle parole pronunciate da Gesù all’inizio del suo ministero itinerante: « Convertitevi e credete al Vangelo » (Mc 1,15). È un invito a porre come fondamento del rinnovamento personale e comunitario l’adesione ferma e fiduciosa al Vangelo. La vita del cristiano è vita di fede, fondata sulla Parola di Dio e da essa nutrita. Nelle prove della vita e in ogni tentazione il segreto della vittoria sta nel dare ascolto alla Parola di verità e nel rifiutare con decisione la menzogna e il male. Questo è il vero e centrale programma del tempo della Quaresima: ascoltare la parola di verità, vivere, parlare e fare la verità, rifiutare la menzogna che avvelena l’umanità ed è la porta di tutti i mali. Urge pertanto riascoltare, in questi quaranta giorni, il Vangelo, la parola del Signore, parola di verità, perché in ogni cristiano, in ognuno di noi, si rafforzi la coscienza della verità a lui donata, a noi donata, perché la viva e se ne faccia testimone. La Quaresima a questo ci stimola, a lasciar penetrare la nostra vita dalla Parola di Dio e a conoscere così la verità fondamentale: chi siamo, da dove veniamo, dove dobbiamo andare, qual è la strada da prendere nella vita. E così il periodo della Quaresima ci offre un percorso ascetico e liturgico che, mentre ci aiuta ad aprire gli occhi sulla nostra debolezza, ci fa aprire il cuore all’amore misericordioso di Cristo.
Il cammino quaresimale, avvicinandoci a Dio, ci permette di guardare con occhi nuovi ai fratelli ed alle loro necessità. Chi comincia a vedere Dio, a guardare il volto di Cristo, vede con altri occhi anche il fratello, scopre il fratello, il suo bene, il suo male, le sue necessità. Per questo la Quaresima, come ascolto della verità, è momento favorevole per convertirsi all’amore, perché la verità profonda, la verità di Dio è nello stesso tempo amore. Convertendoci alla verità di Dio, ci dobbiamo necessariamente convertire all’amore. Un amore che sappia fare proprio l’atteggiamento di compassione e di misericordia del Signore, come ho voluto ricordare nel Messaggio per la Quaresima, che ha per tema le parole evangeliche: « Gesù, vedendo le folle, ne provò compassione » (Mt 9,36). Consapevole della propria missione nel mondo, la Chiesa non cessa di proclamare l’amore misericordioso di Cristo, che continua a volgere lo sguardo commosso sugli uomini e sui popoli d’ogni tempo. « Dinanzi alle terribili sfide della povertà di tanta parte dell’umanità – ho scritto nel citato Messaggio quaresimale -, l’indifferenza e la chiusura nel proprio egoismo si pongono in un contrasto intollerabile con lo « sguardo di Cristo ». Il digiuno e l’elemosina, che, insieme con la preghiera, la Chiesa propone in modo speciale nel periodo della Quaresima, sono occasione propizia per conformarci a quello « sguardo »" (L’Oss. Rom. 1 febbraio 2006, p. 5), allo sguardo di Cristo, e vedere noi stessi, l’umanità, gli altri con questo suo sguardo. Con questo spirito entriamo nel clima austero ed orante della Quaresima, che è proprio un clima di amore per il fratello.
Siano giorni di riflessione e di intensa preghiera, in cui ci lasciamo guidare dalla Parola di Dio, che abbondantemente la liturgia ci propone. La Quaresima sia, inoltre, un tempo di digiuno, di penitenza e di vigilanza su noi stessi, persuasi che la lotta al peccato non termina mai, poiché la tentazione è realtà d’ogni giorno e la fragilità e l’illusione sono esperienze di tutti. La Quaresima sia, infine, attraverso l’elemosina, il fare del bene agli altri, occasione di sincera condivisione dei doni ricevuti con i fratelli e di attenzione ai bisogni dei più poveri e abbandonati. In questo itinerario penitenziale ci accompagni Maria, la Madre del Redentore, che è maestra di ascolto e di fedele adesione a Dio. La Vergine Santissima ci aiuti ad arrivare, purificati e rinnovati nella mente e nello spirito, a celebrare il grande mistero della Pasqua di Cristo. Con questi sentimenti, auguro a tutti una buona e fruttuosa Quaresima
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Publié dans:feste, Papa Benedetto XVI |on 8 mars, 2011 |Pas de commentaires »

CHANUKKAH: UN MIRACOLO CHE SI RIPETE – 5771 (2010 – 1-9 DICEMBRE)

dal sito:

http://www.nostreradici.it/chanukkah.htm

CHANUKKAH: UN MIRACOLO CHE SI RIPETE

5771  (2010 – 1-9 DICEMBRE)

Gavriel Levi

 Nel giorno di chanukkà che capita di shabbath, i lumi di chanukkà si accendono assieme con quelli dello shabbath e, la sera dopo assieme con quello dell’avdalà1. La vigilia di shabbath si accende prima la chanukkà e dopo i lumi dello shabbath; alla fine dello shabbath si accende prima la torcia dell’avdalà e dopo i lumi della chanukkà. 
È evidente che questa regola è collegata con il divieto di accendere il fuoco durante lo shabbath: non si può accendere nessun fuoco dopo che è cominciato lo shabbath; non si può accendere nessun fuoco finché lo shabbath non è veramente finito. Tuttavia, se ci riflettiamo sopra, questa regola collega, con un significato più ampio e più profondo, i tre fuochi e le tre luci che accendiamo nelle nostre case e che, in modi diversi, rappresentano la forza creativa dell’uomo e la vita di Israele.
Solo se si è acceso il lume di chanukkà si può accendere il lume dello shabbath; solo se si è acceso il lume dell’avdalà si può accendere il lume di chanukkà.
Se si è lottato per rimanere ebrei, se ci si è conquistati il miracolo, allora si può rinunciare ad accendere ogni fuoco e si può godere del lume che deriva direttamente dai giorni della creazione e che riassume, già in sé, la luce del Mashiach.
Se si è acceso il fuoco che permette di accendere ogni fuoco nella settimana, che è stato regalato da Dio al primo uomo e che ci aiuta a distinguere, con i nostri mezzi, la luce dal buio, allora si può accendere, senza più divieti, il fuoco del miracolo.
Le luci della chanukkià devono rimanere divise e distinguibili l’una dall’altra: ogni giorno è un giorno completo di vita; ogni generazione è completa in se stessa ed è necessaria perché la generazione precedente possa vivere nella successiva.
Le luci dell’avdalà devono essere unite e indistinguibili l’una dall’altra: ogni giorno, anche il più banale, è parte del giorno completo che è tutto shabbath.
La luce dell’avdalà è la luce di un fuoco che si accende dopo lo shabbath; la sua benedizione è centrata nella creazione delle « luci » del fuoco e sulla nostra azione di guardarsi le mani, nel buio e alla luce.
La luce di chanukkà è la luce che si accende per rendere manifesto il miracolo; la sua benedizione riguarda l’obbligo di ripetere il miracolo e di preparare la luce di un giorno per farla ardere otto giorni.
Non può esistere la festa di chanukkà senza dentro una vigilia di shabbath, senza uno shabbath e senza un’uscita di shabbath.
Il miracolo di chanukkà (e cioè la luce di un giorno che deve durare fino al termine dei giorni, ed ancora un giorno di più) contiene dentro di sé: a) la luce del fuoco che esiste quando nessun fuoco può essere acceso dall’uomo; b) la luce di un fuoco che deve essere ricreato, per dividere il giorno umano dalla notte umana; il giorno di shabbath dai sei giorni dell’azione; le mani dell’uomo dalla creazione di Dio.
Il miracolo di chanukkà contiene anche due luci: la luce di un fuoco che non esiste (perché è stato acceso prima); la luce di un fuoco creato da D-o (ma acceso dagli uomini) perché l’uomo possa uscire, senza paura, nel mondo degli uomini.
Tra l’inizio di chanukkà e l’inizio dello shabbath esiste un momento di intervallo: noi ebrei abbiamo compiuto il nostro miracolo, quando il sole non è ancora calato; a D-o viene lasciato il tempo per compiere il suo miracolo, finire la creazione e portare il Mashiach.
Tra la fine dello shabbath e l’inizio di chanukkà esiste un altro momento di intervallo: la storia di tutti i giorni si è ripetuta; l’ebreo può accettare il dono del fuoco direttamente da D-o e, ancora una volta, ripetere il miracolo.
Se noi riusciamo a conservare l’olio per un giorno, anche quando ci sembra che il buio durerà più a lungo e quando ci sembra che non ci sia nessun posto per accendere una luce, D-o vedrà questa luce per otto giorni.
Se non conserviamo l’olio nel buio (ma questo è impossibile perché in fondo lo conserviamo anche senza saperlo) allora D-o dovrà fare il miracolo da solo e dovrà riprendere il fuoco di chanukkà da quello donatoci per l’avdalà.
Un cieco adempie al precetto di chanukkià partecipando, se ne ha la possibilità, con una perutà, all’accensione di un altro ebreo e, se non può perché è solo, accendendo la chanukkià, con qualunque aiuto, da solo.
Per quale luce accende la chanukkià, un cieco?
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Fonte: morasha.it
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La giornata dello Shabbat si apre e si chiude con un’ accensione di lumi. All’imbrunire del venerdì si accendono due candele (in teoria ne basterebbe una) recitando la benedizione che termina con « e ci hai comandato di accendere il lume dello Shabbat ». Al termine dello Shabbat, nella cerimonia dell’Avdalà, la separazione tra il giorno di festa e quello feriale si accende una torcia formata da più luci che intrecciandosi formano un’unica fiamma. Su questo lume si benedice il Signore « creatore dei luminari di fuoco ». Nel Talmud Jeruscialmì (citato anche dal compendio « Torà Temimà » ai primi versi della Genesi) si ricerca la fonte del fatto che nella Avdalà si dice la benedizione sul lume solo dopo che il lume è acceso. Questo lascia supporre che nell’altro caso, l’accensione dei lumi dello Shabbat, prima si dica la benedizione e poi si accenda. In effetti ciò avviene quasi esclusivamente secondo il rito di Roma (quasi tutti gli altri oggi prima accendono e poi dicono la benedizione).

Publié dans:ebraismo, feste |on 3 décembre, 2010 |Pas de commentaires »

5 agosto: dedicazione della Basilica di Santa Maria Maggiore

dal sito:

http://www.parrocchiacornaredo.it/doc/doa_maggiore.asp

dedicazione della Basilica di Santa Maria Maggiore

(Madonna della Neve)
- ricorrenza: 5 agosto –

(immagini sul sito) 

La Basilica Papale di Santa Maria Maggiore è qualche cosa di più di una Basilica, di un tempio mariano per eccellenza; è (anche) un gioiello ricco di bellezze di valore inestimabile che gente da tutto il mondo viene ad ammirare.
Ovviamente siamo a Roma. Anche Milano ebbe una sua basilica di Santa Maria Maggiore, cattedrale « invernale », affiancata dalla Basilica Santa Tecla, « estiva »; entrambe – già cadenti – furono abbattute per far posto al Duomo attuale, intitolato a Maria Nascente, la cui costruzione iniziò « ufficialmente » nel 1386. [vedi]
Tra le maggiori basiliche di Roma (quelle definite « papali » sono quattro) è l’unica a conservare le strutture paleocristiane, sia pure arricchite di consistenti aggiunte successive, e presenta al suo interno alcune particolarità che la rendono unica: i mosaici della navata centrale e dell’Arco trionfale risalenti al V secolo d.C. realizzati durante il pontificato di Sisto III (432-440) e quelli dell’Abside affidati da Niccolò IV al frate francescano Jacopo Torriti (1288-1292); il pavimento « cosmatesco » (ovvero realizzato dalla famiglia dei Cosmati) donato dai nobili romani Scoto e Giovanni Paparoni nel 1288; il soffitto a cassettoni in legno dorato disegnato da Giuliano da Sangallo (1450); il Presepe del XIII secolo di Arnolfo da Cambio; le numerose cappelle (Borghese, Sistina o del Ss. Sacramento, Sforza, Cesi e quella del Crocifisso nonché quella – purtroppo quasi scomparsa – di San Michele); l’Altare maggiore opera di Ferdinando Fuga successivamente arricchito dal genio di Giuseppe Valadier; infine, la Reliquia della Sacra Culla e il Fonte Battesimale bronzeo anch’esso del Valadier.
Insomma questo luogo offre emozioni non solo al pellegrino devoto che si raccoglie in preghiera ma anche al semplice appassionato di arte e addirittura al turista superficiale e distratto. L’incontro con la Basilica liberiana (dal nome di papa Liberio) è un’esperienza che arricchisce umanamente e spiritualmente tutti indistintamente, ferma restando la devozione di fronte all’immagine di Maria, qui venerata con il dolce titolo di Salus Populi Romani (Salvezza del popolo di Roma).

l’icona Salus Populi Romani (imm)

Il 5 agosto di ogni anno viene rievocato, attraverso una solenne Celebrazione, il « Miracolo della Nevicata » (ne parliamo più avanti), quando di fronte agli occhi commossi dei partecipanti una cascata di petali bianchi scende dal soffitto ammantando l’ipogeo e creando quasi un’unione ideale tra l’assemblea e la Madre di Dio. Ed eccoci all’ulteriore appellativo di Madonna della Neve.

 ( A sinistra la nevicata miracolosa come la vede Masolino da Panicale, con papa Liberio che traccia nella neve il confine della costruenda chiesa (Museo di Capodimonte, Napoli).
A destra la navata centrale della Basilica attuale con il bel soffitto a cassettoni; il fregio che sovrasta le colonne è un mosaico del V secolo sovrastato da trentasei riquadri a mosaico del tempo di Sisto III; tra i finestroni sono rappresentate alcune scene della vita della Vergine datate 1593.
Accanto al titolo la facciata e l’abside. imm)

Giovanni Paolo II all’inizio del suo pontificato volle che una lampada ardesse giorno e notte sotto l’icona della Salus Populi Romani, a testimonianza della sua grande devozione per la Madonna. Lo stesso Pontefice l’8 dicembre del 2001 inaugurò il Museo della Basilica, luogo dove la modernità delle strutture e l’antichità dei capolavori esposti offrono al visitatore un panorama unico.

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Si è detto che la Basilica, pur « crescendo » e modificandosi moltissimo nel corso degli anni, ha mantenuto l’impianto originario. Ma forse occorre soffermarsi su quali siano le sue origini.
A volere l’edificazione fu papa Sisto III (Santo) fra gli anni 432 e 440 per intitolarla alla Madre di Dio, evidentemente perché il Concilio di Efeso aveva appena proclamato Maria Theotòkos (appunto: Madre di Dio, anno 431). La costruzione avvenne su una chiesa precedente che era stata voluta da papa Liberio (352-366) al quale secondo la tradizione la Madonna stessa, apparsa in sogno, disse che il luogo ove costruire la chiesa gli sarebbe stato indicato da un miracolo. E questo miracolo fu una nevicata che il 5 agosto 356 imbiancò il colle Esquilino in piena estate; lo stesso papa Liberio tracciò nella neve il contorno di quella che sarebbe stata la nuova chiesa; i lavori furono finanziati da due patrizi romani, un certo Giovanni e sua moglie, che avevano fatto lo stesso sogno del papa.
Questa primitiva Basilica, della quale nulla è giunto fino a noi, era nota come Santa Maria Liberiana (dal nome del Papa) o Santa Maria ad Nives (per via della neve). È da questi fatti che ancora ai giorni nostri si ricorda la data del 5 agosto con una suggestiva celebrazione durante la quale dal soffitto della Basilica viene lasciata scendere una « nevicata » di petali bianchi, rievocazione della nevicata miracolosa.
Ma torniamo alla Basilica « di Sisto III », quella che sia pur con grandi modifiche è giunta a noi. Curiosità vuole che si accenni alla tradizione secondo la quale le ricche dorature del soffitto furono realizzate con il primo oro proveniente dalle Americhe e donato a papa Alessandro VI da Ferdinando di Aragona e Isabella di Castiglia, cioè los Reyes Catolicos che avevano « sponsorizzato » (si direbbe oggi) le spedizioni di Cristoforo Colombo.
Fra i molti « tesori » custoditi vi è anche un « primato »: il primo presepe « plastico » della storia, cioè realizzato con statue e non con bassorilievi monoliti rappresentanti la Natività come sino ad allora si era usato fare. L’iniziativa fu di papa Niccolò IV che nel 1288 commissionò ad Arnolfo di Cambio (o Arnolfo di Lapo, che dir si voglia) una raffigurazione della Natività con sculture rappresentanti ciascuna un « personaggio » (originariamente le statuette erano otto).
  
Il Presepe di Arnolfo e la Sacra Culla (imm)

Niccolò IV veniva dal Frati Minori francescani; è evidente la sua volontà di seguire in qualche modo l’idea di San Francesco, che sessantadue anni prima aveva « inventato » il Presepe ricostruendone la scena con personaggi viventi nella grotta di Greccio.
Un Presepe « vecchia maniera » in bassorilievo era tuttavia già presente sin dal 432 quando papa Sisto III aveva voluto nella Basilica una grotta della Natività simile a Betlemme, tanto che all’epoca la Basilica veniva pure chiamata Santa Maria ad praesepem (dal latino: praesepium = mangiatoia). Nel 1590 papa Sisto V volle poi riunire entrambe le rappresentazioni in una nuova cappella detta del SS. Sacramento (o Sistina, dal suo nome)
Reliquia tutta particolare nella Basilica è la Sacra Culla, preziosa urna ovale opera dell’orafo e architetto Giuseppe Valadier che custodisce ancor più preziosi frammenti del legno della Sacra Culla (cunabulum) recati dai primi pellegrini di ritorno dalla Terrasanta.
È d’obbligo un cenno al Campanile, che è più alto di Roma (75 metri, in stile romanico) voluto da papa Gregorio XI appena dopo aver riportato la sede del Papato da Avignone a Roma, alla conclusione di quel periodo della storia della Chiesa che va sotto il nome di cattività avignonese.
L’edificio della Basilica, comprese le scalinate esterne, costituisce area extraterritoriale a favore della Santa Sede, pur essendo territorio italiano, come San Giovanni in Laterano, Santa Maria di Galeria, San Paolo Fuori le Mura, la residenza di Castel Gandolfo, il Palazzo del Laterano, il Palazzo della Datarìa, il Palazzo ex Sant’Ufficio, il Colle del Gianicolo e il Policlinico Gemelli.

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La Madonna della Neve è patrona di almeno una quarantina di località italiane, fra le quali Ascoli Piceno, Boffalora sopra Ticino, Codroipo, Novi Ligure, Nuoro, Pusiano (Como), Rovereto, Susa, Torre Annunziata e ovviamente Santa Maria Maggiore (Verbania) e Madonna della Neve (Frosinone).
In molti luoghi vi sono tradizioni particolari: a Ponticelli (alle falde del Vesuvio) la statua della Madonna viene portata in processione issata su un carro alto più di sedici metri (un casa di cinque piani) trainato da decine di fedeli e la cui decorazione esterna è scelta annualmente con un apposito concorso; a Torre Annunziata la Madonna è di colore nero, il perché non si sa (ma forse per via che la sua icona fu trovata casualmente da alcuni marinai, ed era nera); a Santa Maria Colle Sambuco (Rieti) la processione si conclude con una caratteristica nevicata artificiale al rientro in chiesa.
 

Publié dans:Chiese, feste |on 5 août, 2010 |Pas de commentaires »
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