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SANTA MESSA IN CENA DOMINI – OMELIA DI GIOVANNI PAOLO II (1998)

dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/homilies/1998/documents/hf_jp-ii_hom_09041998_cenadomini_it.html

SANTA MESSA IN CENA DOMINI
OMELIA DI GIOVANNI PAOLO II

Giovedì Santo, 9 aprile 1998  

1. « Verbum caro, panem verum / Verbo carnem efficit… ».

« La parola del Signore / pane e vino trasformò: / pane in carne, vino in sangue, / in memoria consacrò. / Non i sensi, ma la fede prova questa verità ».

Queste poetiche espressioni di san Tommaso d’Aquino riassumono bene l’odierna Liturgia vespertina « in Cena Domini », e ci aiutano ad entrare nel cuore del mistero che celebriamo. Leggiamo nel Vangelo: « Gesù sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine » (Gv 13,1). Oggi è il giorno nel quale ricordiamo l’istituzione dell’Eucaristia, dono dell’amore e sorgente inesauribile di amore. In essa è scritto e radicato il nuovo comandamento: « Mandatum novum do vobis… »: « Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri » (Gv 13,34).
2. L’amore raggiunge il suo vertice nel dono che la persona fa di se stessa, senza riserve, a Dio ed ai fratelli. Lavando i piedi agli Apostoli, il Maestro propone loro un atteggiamento di servizio: « Voi mi chiamate Maestro e Signore e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri » (Gv 13,13-14). Con questo gesto, Gesù rivela un tratto caratteristico della sua missione: « Io sto in mezzo a voi come colui che serve » (Lc 22,27). Vero discepolo di Cristo è, pertanto, solamente colui che «prende parte» alla sua vicenda, rendendosi come Lui sollecito nel servizio agli altri anche con sacrificio personale. Il servizio, infatti, cioè la cura delle necessità del prossimo, costituisce l’essenza di ogni potere ben ordinato: regnare significa servire. Il ministero sacerdotale, di cui oggi celebriamo e veneriamo l’istituzione, presuppone un atteggiamento di umile disponibilità, soprattutto verso i più bisognosi. Solo in questa luce possiamo cogliere appieno l’evento dell’ultima Cena, che stiamo commemorando.
3. Il Giovedì Santo è qualificato dalla Liturgia come «l’eucaristico oggi», giorno in cui « Gesù Cristo nostro Signore affidò ai suoi discepoli il mistero del suo Corpo e del suo Sangue, perché lo celebrassero in sua memoria » (Canone romano per il Giovedì Santo). Prima di essere immolato sulla Croce il Venerdì Santo, Egli istituì il Sacramento che perpetua questa sua offerta in tutti i tempi. In ogni Santa Messa, la Chiesa fa memoria di quell’evento storico decisivo. Con viva trepidazione il sacerdote si china all’altare sopra i doni eucaristici, per pronunciare le medesime parole dette da Cristo « nella notte in cui fu tradito ». Egli ripete sul pane: « Questo è il mio corpo, che è (dato) per voi » (1 Cor 11,24), e poi sul calice del vino: « Questo calice è la Nuova Alleanza nel mio sangue » (1 Cor 11,25). Da quel Giovedì Santo di quasi duemila anni or sono fino a questa sera, Giovedì Santo del 1998, la Chiesa vive mediante l’Eucaristia, si lascia plasmare dall’Eucaristia, e continua a celebrarla in attesa del ritorno del suo Signore.
Facciamo nostro, questa sera, l’invito di sant’Agostino: O Chiesa amatissima « manduca vitam, bibe vitam: habebis vitam, et integra est vita! »: « mangia la vita, bevi la vita: avrai la vita ed essa resterà intatta! » (Sermo CXXXI, I, 1).
4. « Pange, lingua, gloriosi / Corporis mysterium / Sanguinisque pretiosi… « . Adoriamo questo «mysterium fidei», di cui si nutre la Chiesa incessantemente. Si ridesti nei nostri cuori il senso vivo e trepido del sommo dono che è per noi l’Eucaristia.
E si ridesti la gratitudine, legata al riconoscimento del fatto che non vi è nulla in noi che non ci sia stato donato dal Padre di ogni misericordia (cfr 2 Cor 1,3). L’Eucaristia, il grande «mistero della fede», rimane innanzitutto e soprattutto un dono, qualcosa che abbiamo «ricevuto». Lo ribadisce san Paolo, introducendo il racconto dell’ultima Cena con queste parole: « Io ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso » (1 Cor 11,23). La Chiesa l’ha ricevuto da Cristo e nel celebrare questo sacramento rende grazie al Padre celeste per quanto Egli in Gesù, suo Figlio, ha fatto per noi.
Accogliamo ad ogni celebrazione eucaristica questo dono sempre nuovo; lasciamo che il suo potere divino pervada i nostri cuori e li renda capaci di annunciare la morte del Signore nell’attesa della sua venuta. «Mysterium fidei» canta il sacerdote dopo la consacrazione; ed i fedeli rispondono: « Mortem tuam annuntiamus, Domine… « : « Annunziamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua risurrezione, nell’attesa della tua venuta ». La somma della fede pasquale della Chiesa è contenuta nell’Eucaristia.
Anche questa sera rendiamo grazie al Signore che ha istituito questo grande Sacramento. Noi lo celebriamo e lo riceviamo per trovare in esso la forza di avanzare sulla strada dell’esistenza attendendo il giorno del Signore. Allora saremo introdotti anche noi nella dimora dove Cristo, Sommo Sacerdote, è entrato mediante il sacrificio del suo Corpo e del suo Sangue.
5. « Ave, verum corpus, natum de Maria Virgine »: « Ave, vero corpo, nato da Maria Vergine », così prega quest’oggi la Chiesa. In questa « attesa della sua venuta », ci accompagni Maria, dalla quale Gesù ha preso il corpo, lo stesso corpo che questa sera condividiamo fraternamente nel banchetto eucaristico.

« Esto nobis praegustatum mortis in examine »: « Ci sia dato di pregustarti nel momento decisivo della morte « . Sì, prendici per mano, o Gesù eucaristico, in quell’ora suprema che ci introdurrà nella luce della tua eternità: « O Iesu dulcis! O Iesu pie! O Iesu, fili Mariae! »  

Pasqua giudaica e pasqua cristiana – la discontinuità

dal sito:

http://www.nostreradici.it/pasqua_cristiana.htm#Origene

Pasqua giudaica e pasqua cristiana – la discontinuità 

Il nesso tra Pasqua giudaica e Pasqua cristiana si situa a un livello ben più profondo della coincidenza cronologica, ovvero nella comprensione dell’evento Cristo in chiave storico-salvifica attraverso la griglia di lettura fornita dalla Pasqua storica dell’Esodo, memoriale del riscatto del popolo di Israele dalla schiavitù d’Egitto. Qui troviamo le ragioni non più solo della continuità tra la Pasqua di Israele e quella della chiesa, ma anche e soprattutto dello scarto che separa la seconda dalla prima, scarto la cui misura è data dalla tipologia, cioè dalla struttura binaria che ora taglia l’intera storia dell’umanità e che ha il suo punto discriminante in Cristo.
La realtà non è più univocamente orientata e determinata, ma è ora suddivisa in due versanti (due « economie’), quello della figura (typos) e quello della verità, quello dell’immagine e quello della realtà, quello del preannuncio e quello del compimento, quello della Legge e quello del Verbo. Tutto questo presuppone che le realtà della storia di Israele perdano consistenza propria e assumano significato solo in rapporto a Cristo. Questo trasferimento, quanto alla Pasqua di Es12, è già presente nella perentoria proclamazione dell’Apostolo Paolo: « Cristo, nostra Pasqua (Pascha nostrum) è stato immolato! Celebriamo dunque la festa non con il lievito vecchio né con lievito di malizia e di perversità, ma con azzimi di sincerità e di verìtà » (1 Cor 5, 7-8)
Qui gli elementi rituali della Pasqua di Es 12 appaiono risignificati e trasferiti su Cristo come Pascha, qui da intendere nel senso di « agnello pasquale » immolato, l’agnello il cui sangue valse agli ebrei la salvezza dal flagello di sterminio » con cui Dio colpì l’Egitto (Es 12, 7-13). Anche il Vangelo di Giovanni legge la morte di Cristo in croce (il giorno di Pasqua, nell’ora in cui nel tempio i sacerdoti uccidevano gli agnelli) come immolazione dell’agnello pasquale, al quale « non sarà spezzato alcun osso » (Es 12, 46, citato in Gv 19, 36).
Anche altrove nel Nuovo Testamento – in particolare 1 Pt 1,19 (« foste liberati … con il sangue prezioso di Cristo, come di agnello senza difetti e senza macchia »: cf. Es 12, 5; ma anche 1 Pt 2, 9: « Vi ha chiamati dalle tenebre alla sua ammirabile luce », da confrontare con Pesachim e Melitone) – si segnalano tracce di una haggadah pasquale cristiana, cioè di una illustrazione/spiegazione del significato della Pasqua (era una delle componenti del rito ebraico) in una prospettiva cristologica. Questa haggadah diviene la struttura stessa delle più antiche omelie pasquali cristiane, che poggiano sulla trasposizione tipologica delle prescrizioni di Es 12, la cui lettura durante la liturgia è esplicitamente attestata.
Ma sono gli stessi racconti evangelici della passione a mettere in risalto la natura « pasquale » del sacrificio di Cristo (e non stupirà, dunque, che per l’intero Vangelo di Marco – definito, com’è noto, un racconto della passione con una lunga introduzione – sia stata avanzata l’ipotesi di un’origine come ‘haggadah pasquale cristiana »).
Non è escluso, anzi, che proprio questa comprensione – e la sua traduzione liturgica nelle prime comunità cristiane – si sia imposta sul resoconto storico-cronachistico degli eventi della passione e sia quindi all’origine della discordanza cronologica tra i racconti sinottici e quello di Giovanni. Per quest’ultimo, come abbiamo visto, Gesù muore il 14 del mese di Nisan, giorno della Pasqua giudaica (Gv 18, 28: i giudei non entrano nel pretorio « per non contaminarsi e poter mangiare la Pasqua »); per i Sinottici, invece, l’ultima cena di Gesù è per l’appunto un banchetto pasquale tenuto la sera del 14 Nisan (Mc 14, 12-16; Lc 22, 15: « Ho ardentemente desiderato mangiare questa Pasqua con voi prima di patire »).
Per Giovanni, dunque, Cristo stesso è l’agnello pasquale immolato, cui non viene « spezzato alcun osso »: questa prospettiva diviene il motivo guida della primitiva teologia pasquale: « Al posto dell’agnello il Figlio di Dio » (Melitone, Pseudo Ippolito, Apollinare di Gerapoli); nella prospettiva dei Sinottici, invece, la risignificazione dell’immolazione pasquale avviene a livello rituale, nel cenacolo, ma ha comunque come centro la morte redentrice di Cristo (Lc 22, 19: « Questo è il mio corpo dato per voi: fate questo in memoria di me »). La chiesa antica ha mantenuto un filone che collega la notte di Pasqua con la Pasqua-eucaristia dell’Ultima Cena. Canta un inno di Efrem Siro:
Beata sei tu, o notte ultima, perché in te si è compiuta la notte d’Egitto. Il Signore nostro in te mangiò la piccola Pasqua e divenne lui stesso la grande Pasqua: la Pasqua si innestò sulla Pasqua, la festa sulla festa. Ecco la Pasqua che passa e la Pasqua che non passa; ecco la figura e il suo compimento.
È stato ipotizzato che i racconti sinottici della cena pasquale altro non siano che la storicizzazione delle prime liturgie pasquali dei cristiani, cioè del memoriale con cui i cristiani riconoscevano nella immolazione in croce di Cristo la nuova Pasqua redentrice del (nuovo) popolo di Dio. Come che sia, i Sinottici e Giovanni ci ammettono da punti di inserzione diversi in quella piena circolarità tra l’evento originario e la sua traduzione/attualizzazione sacramentale che può forse confondere i termini dell’esatto decorso storico ma non meno realmente pone la croce e l’eucaristia al centro della Pasqua dei cristiani.

La Pasqua, cuore della vita cristiana (Enzo Bianchi)

dal sito:

http://www.messaggerosantantonio.it/messaggero/pagina_articolo.asp?IDX=1342IDRX=130

La Pasqua, cuore della vita cristiana

di Enzo Bianchi

«Nella Pasqua è importante ricordarci che la vita è più forte della morte, ma solo se è nutrita d’amore».

«Alla Pasqua a Bose – spiega Enzo Bianchi, priore di questa comunità monastica – partecipano  numerosi ospiti. Viene celebrata secondo la tradizione della liturgia cattolica, però arricchita da elementi (canti e segni) della liturgia monastica e si snoda per tre giorni: dal giovedì santo alla notte pasquale, in modo che si possa seguire davvero il cammino di Gesù, dalla passione alla risurrezione. La Pasqua dovrebbe essere il momento centrale della nostra fede, anche se per molti è una delle tante feste che si celebrano. Ma la Pasqua per noi è davvero l’essenza, il nucleo di tutta la vita cristiana. Posso dire che le persone che hanno vissuto in maniera intensa e forte tutto il cammino del Triduo pasquale, non dimenticano questa esperienza, che spesso si traduce in  un cambiamento della loro vita».
Vivere la settimana santa a Bose, comunità monastica di uomini e donne provenienti da Chiese cristiane diverse, è davvero un’esperienza molto intensa. È bello per gli ospiti assaporare il silenzio, assecondare i ritmi dei monaci con le preghiere del mattino, di mezzogiorno e della sera; ascoltare la lectio divina sul Vangelo della Passione per giungere insieme al culmine del Triduo, che è la veglia pasquale (alle 22,00 di sabato 15 aprile). È il momento in cui ospiti e monaci accompagnano «il Giusto» nella sua morte e nella grande festa della risurrezione.
«Credo che nella Pasqua – dice ancora il priore Bianchi –, sia importante ricordarci che la vita è più forte della morte, ma la vita, per essere più forte della morte, deve essere una vita nutrita d’amore, nella quale si ama e si accetta di essere amati. Perché solo l’amore è degno di sconfiggere la morte e va oltre la morte».
A Enzo Bianchi, che è un monaco sempre molto attento a quello che succede nella società e che da sempre cerca il dialogo interreligioso, chiediamo come legga i fatti di questi ultimi tempi che vedono, invece, un inasprimento dei conflitti interreligiosi.
«La cosa mi preoccupa – risponde – perché in questi ultimi anni, all’interno della nostra società, soprattutto di quella italiana, avanza la barbarie: ci sono persone che non sanno quello che dicono e stanno “incendiando” i rapporti tra noi e il mondo dei musulmani. Tutto questo è davvero pericoloso e rischia di aprire una contrapposizione, destinata a diventare uno scontro vero e proprio, non tanto di religioni, ma tra modi di vivere: l’occidentale e il loro. Non dimentichiamoci che spesso persone dei Paesi più poveri, sentondosi emarginate, diventano musulmane proprio per rivoltarsi contro l’Occidente. La religione permette di trovare un’identità quando non esistono più riferimenti culturali. Ma non si dica che questo è scontro tra cristianesimo e islam. È contrapposizione tra situazioni politiche e sociali che non vogliono assolutamente aprirsi al dialogo, a un confronto fecondo che escluda la guerra».
«Credo che si debba, da un lato, fare attenzione a quelli che, all’interno del mondo islamico, sono convinti della possibilità di un confronto con il nostro Occidente, senza ricorrere al terrorismo, senza percorrere la via della violenza e dello scontro di civiltà. È quindi necessario rendere costoro davvero partner del confronto, del dialogo, e cercare che abbiano una voce all’interno del concerto delle Nazioni. Quindi occorre cercare di porre un freno alle persone che, tra noi, sono favorevoli a una nuova crociata. Bisogna avere il coraggio di dire la verità: a volte queste persone aggressive, che vogliono lo scontro, mi fanno più paura dei mondi musulmani, lontani. Quindi non si continui a gridare che l’islam fa paura. Fanno paura alcune persone di casa nostra che non vogliono il dialogo e che vogliono, a ogni costo, la guerra contro altri Paesi e altre culture».

Publié dans:feste - Pasqua, feste del Signore |on 14 avril, 2011 |Pas de commentaires »

Pasqua 2005, Giovanni Paolo II, Messaggio Urbi et Orbi

dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/messages/urbi/documents/hf_jp-ii_mes_20050327_easter-urbi_it.html

MESSAGGIO URBI ET ORBI

DI SUA SANTITÀ GIOVANNI PAOLO II     

Dal Vaticano, 27 Marzo 2005, Pasqua di Risurrezione.

1. Mane nobiscum, Domine!
Resta con noi, Signore! (cfr Lc 24, 29).
Con queste parole i discepoli di Emmaus
invitarono il misterioso Viandante
a restare con loro, mentre volgeva al tramonto
quel primo giorno dopo il sabato
in cui l’incredibile era accaduto.
Secondo la promessa, Cristo era risorto;
ma essi non lo sapevano ancora.
Tuttavia le parole del Viandante lungo la strada
avevano progressivamente riscaldato il loro cuore.
Per questo lo avevano invitato: “Resta con noi”.
Seduti poi intorno alla tavola della cena,
lo avevano riconosciuto allo “spezzare del pane”.
E subito Egli era sparito.
Dinanzi a loro era rimasto il pane spezzato,
e nel loro cuore la dolcezza di quelle sue parole.

2. Fratelli e Sorelle carissimi,
la Parola e il Pane dell’Eucaristia,
mistero e dono della Pasqua,
restano nei secoli come memoria perenne
della passione, morte e risurrezione di Cristo!
Anche noi oggi, Pasqua di Risurrezione,
con tutti i cristiani del mondo ripetiamo:
Gesù, crocifisso e risorto, rimani con noi!
Resta con noi, amico fedele e sicuro sostegno
dell’umanità in cammino sulle strade del tempo!
Tu, Parola vivente del Padre,
infondi fiducia e speranza in quanti cercano
il senso vero della loro esistenza.
Tu, Pane di vita eterna, nutri l’uomo
affamato di verità, di libertà, di giustizia e di pace.

3. Rimani con noi, Parola vivente del Padre,
ed insegnaci parole e gesti di pace:
pace per la terra consacrata dal tuo sangue
e intrisa del sangue di tante vittime innocenti;
pace per i Paesi del Medio Oriente e dell’Africa,
dove pure tanto sangue continua ad essere versato;
pace per tutta l’umanità, su cui sempre incombe
il pericolo di guerre fratricide.
Rimani con noi, Pane di vita eterna,
spezzato e distribuito ai commensali:
dà anche a noi la forza di una solidarietà generosa
verso le moltitudini che, ancor oggi,
soffrono e muoiono di miseria e di fame,
decimate da epidemie letali
o prostrate da immani catastrofi naturali.
Per la forza della tua Risurrezione
siano anch’esse rese partecipi di una vita nuova.

4. Anche noi, uomini e donne del terzo millennio,
abbiamo bisogno di Te, Signore risorto!
Rimani con noi ora e fino alla fine dei tempi.
Fa’ che il progresso materiale dei popoli
non offuschi mai i valori spirituali
che sono l’anima della loro civiltà.
Sostienici, Ti preghiamo, nel nostro cammino.
In Te noi crediamo, in Te speriamo,
perché Tu solo hai parole di vita eterna (cfr Gv 6, 68).
Mane nobiscum, Domine! Alleluia!

Buona Pasqua a tutti!

IL MISTERO DELLA PASQUA RISPLENDE DI STUPORE E DI MERAVIGLIA (il titolo l’ho tratto dal testo, è citazione)

dal sito:

http://www.donbosco-torino.it/ita/Domenica/01-annoA/AnnoA-2011/04-Pasqua-A_2011/Omelie/01-Domenica-Pasqua-A_SC.html

(una citazione per titolo: IL MISTERO DELLA PASQUA RISPLENDE DI STUPORE E DI MERAVIGLIA – )

« Non è qui. È risorto, come aveva detto »

Se tutto nelle opere di Dio porta il segno dello « stupore », direi che soprattutto il mistero della Pasqua splende di stupore e di meraviglia.
È quanto mette in evidenza il Salmo responsoriale, che direttamente sembra riferirsi alla prodigiosa ricostruzione del secondo Tempio dopo il ritorno dall’esilio1 e che la Liturgia applica alla festa di Pasqua:
« La destra del Signore si è alzata,
la destra del Signore ha fatto meraviglie…
La pietra scartata dai costruttori è diventata testata d’angolo;
ecco l’opera del Signore:
una meraviglia ai nostri occhi.
Questo è il giorno fatto dal Signore:
rallegriamoci ed esultiamo in esso » (Sal 118,16.22-24).
La « gioia » che ci pervade in questi giorni santi è proporzionata alla « meraviglia delle meraviglie » che Dio ha saputo operare risuscitando Cristo dai morti: perché la « pietra scartata dai costruttori » è proprio lui! Dio, però, più saggio architetto degli uomini, lo ha posto come « testata d’angolo »2 per sorreggere il nuovo « tempio », formato da tutti i redenti, vincitori ormai anch’essi della morte insieme al loro Signore. Mentre gli uomini gli avevano decretato la morte, Dio lo ha costituito « giudice dei vivi e dei morti » (At 10,42), colui « nel quale soltanto c’è salvezza » (At 4,12).

« Dio lo ha risuscitato al terzo giorno »
Questo senso di « stupore » lo cogliamo anche nell’annuncio che Pietro fa nella casa del centurione Cornelio, dopo la prodigiosa apparizione celeste che gli aveva fatto capire come la via della salvezza era ormai aperta anche ai pagani.
Dopo aver richiamato alcuni tratti della vicenda terrena di Gesù di Nazaret, Pietro ricorda come essa si sia drammaticamente conclusa a Gerusalemme: i Giudei « lo uccisero appendendolo a una croce » (At 10,39)! E questo, nonostante che egli fosse passato « beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui » (v. 38).
Proprio questa incomprensione dei Giudei fa crescere in noi la « meraviglia »: perché gli uomini non sono riusciti a vedere Dio proprio là dove era più presente? Come spiegare questa cecità, che rasenta i limiti dell’assurdo e dell’incredibile?
Meraviglia più grande, però, prova ed esprime san Pietro nel proclamare la risurrezione di Cristo, nella quale Dio si è preso la rivincita sulla ottusità e durezza di cuore degli uomini: « Ma Dio lo ha risuscitato al terzo giorno e volle che apparisse, non a tutto il popolo, ma a testimoni prescelti da Dio, a noi, che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti. E ci ha ordinato di annunziare al popolo e di attestare che egli è il giudice dei vivi e dei morti costituito da Dio. Tutti i profeti gli rendono questa testimonianza: chiunque crede in lui, ottiene la remissione dei peccati per mezzo del suo nome » (At 10,40-43).
Quel gesto di familiarità e di amicizia del Cristo risorto, che « mangia e beve » con i suoi Apostoli (At 10,41)3, commuove ed esalta ancora san Pietro. Nello stesso tempo, però, esso è la dimostrazione che Gesù è « veramente risorto » (cf Lc 24,34) ed è ormai l’eterno Vivente, che può compiere all’infinito gesti di risurrezione per tutti quelli che « credono » in lui: « Chiunque crede in lui, ottiene la remissione dei peccati per mezzo del suo nome » (v. 43).
La forza della risurrezione ormai fermenta la storia e diventa come il « giudizio » di Dio sugli uomini: si è « vivi » o si è « morti » nella misura in cui ci si lascia « trasformare » dalla potenza di questa vita « nuova » che è esplosa nel Cristo quando la pietra che chiudeva il sepolcro si è rovesciata, come ci dirà anche meglio san Paolo nella seconda lettura (Col 3,1-4).

Le donne « avvicinatesi, gli strinsero i piedi e lo adorarono »
Anche il brano di Vangelo è tutto percorso da un senso di stupore e di meraviglia. Anzi san Matteo, più degli altri Evangelisti, accentua questo aspetto, ricordandoci il « grande terremoto » che avvenne al momento della risurrezione del Signore e l’aspetto « rifulgente » di gloria dell’Angelo che fa rotolare la pietra del sepolcro e vi si asside sopra.
Sono tratti ripresi dal genere letterario « apocalittico », che vogliono suggerire la irruzione della potenza di Dio proprio là dove sembrava che gli uomini avessero seppellito per sempre, con il cadavere di Cristo, ogni speranza di vita. Non per nulla la storia della Passione si concludeva con la seguente annotazione: « Essi (cioè i Giudei) andarono e assicurarono il sepolcro, sigillando la pietra e mettendovi la guardia » (Mt 27,66).
Ma analizziamo più dettagliatamente il racconto di san Matteo, cercando di cogliere il suo specifico messaggio. Pur convergendo infatti, nella sostanza, con la narrazione degli altri Evangelisti, egli vi introduce non pochi elementi propri, che dicono la sua « reinterpretazione » dei fatti.
Prima di tutto, il grande rilievo dato alla testimonianza delle donne, che sono Maria di Magdala e « l’altra Maria », cioè Maria di Giacomo.4 Esse non soltanto vanno al sepolcro, come ci dicono anche gli altri Evangelisti, ma hanno per prime, e insieme, l’apparizione di Gesù risorto (Mt 28,9-10). La loro andata al sepolcro, inoltre, non è per « ungere » il corpo del Signore, come in Marco e in Luca, ma per « visitare » la tomba (v. 1), che di fatto troveranno vuota. Indubbiamente Matteo intende dare un fondamento solido alla testimonianza della risurrezione.
Strano, però, che egli affidi e riconosca alle donne questa capacità di testimonianza, che invece san Paolo ignora,5 fedele in ciò alla tradizione giudaica, che non accettava la testimonianza di qualsiasi donna. Proprio per questo dobbiamo pensare di trovarci davanti a una tradizione storica sicura, che non avrebbe potuto essere inventata per nessun motivo.
D’altra parte, è assai importante che la prima esperienza del Cristo risorto la facciano delle donne e ne diventino anche le prime « annunciatrici ». Forse è il premio della loro fede, della loro semplicità e capacità di amare e di intuire: il loro andare al sepolcro già si pone in una linea di amore e di fedeltà al Signore. Gli Apostoli, invece, delusi e impauriti, più calcolatori che generosi, se ne stanno alla larga: addirittura non credono alla testimonianza delle donne, che ritengono come una forma di « vaneggiamento » (cf Lc 24,11).
Anche l’incontro con Gesù avviene in un clima di intensa commozione e di manifestazione scambievole di affetto: « Ed ecco Gesù venne loro incontro dicendo: « Salute a voi ». Ed esse, avvicinatesi, gli strinsero i piedi e lo adorarono. Allora Gesù disse loro: « Non temete; andate ad annunziare ai miei fratelli che vadano in Galilea e là mi vedranno »" (vv. 9-10). Quel gesto di « adorazione » (prosek´ynesan: v. 9), che Matteo carica di significato teologico, esprime la fede della Chiesa nel Signore risorto, ma anche la gioia e l’esultanza di poterlo quasi abbracciare e come afferrare con le proprie mani: tanto è « vero » il suo ritorno alla vita!
Una fede, dunque, quella nel Cristo risorto, che nasce dall’amore e genera l’amore, creando un consorzio di vita infrangibile con lui. È in questa linea che si muove anche il racconto dell’apparizione a Maria di Magdala, riferito con accenti commossi da san Giovanni (20,11-18). La priorità data alle donne nella storia delle apparizioni del Cristo risorto non è solo il riconoscimento della loro alta funzione nella Chiesa, ma direi soprattutto il riconoscimento del primato dell’amore e anche della « gioia » nell’annuncio della fede.

« Non abbiate paura, voi! So che cercate il crocifisso »
Sul tema della « gioia » insiste soprattutto la prima parte del Vangelo odierno. Dopo aver fatto cenno al terremoto e all’apparizione dell’Angelo, che si asside sulla pietra sepolcrale da lui fatta rotolare, il testo continua: « Per lo spavento che ebbero di lui le guardie tremarono tramortite. Ma l’Angelo disse alle donne: « Non abbiate paura, voi! So che cercate il crocifisso. Non è qui. È risorto, come aveva detto; venite a vedere il luogo dove era deposto. Presto, andate a dire ai suoi discepoli: È risuscitato dai morti, e ora vi precede in Galilea; là lo vedrete. Ecco, io ve l’ho detto ». Abbandonato in fretta il sepolcro, con timore e gioia grande, le donne corsero a dare l’annuncio ai suoi discepoli » (vv. 4-8).
È evidente il contrasto fra lo « spavento » delle guardie e l’invito alla « gioia » rivolto alle donne: « Non abbiate paura, voi! So che cercate il crocifisso ». Sono stati d’animo diversi quelli che generano rispettivamente gioia e spavento: le donne « cercano » il Signore, perché lo amano. In un certo senso, direi che Gesù è già risorto nel loro cuore! I nemici di Cristo invece lo temono: il suo ritorno alla vita li giudica e li condanna. Lo vogliono per sempre morto, perché è già morto nel loro cuore!
Se anche nel cuore delle donne c’è un certo « timore » (v. 8), è solo senso di sorpresa davanti a qualcosa di inatteso e di troppo grande per loro; non appena però ne possono verificare il significato, la gioia riprende il sopravvento e « in fretta, con timore e gioia grande » corrono a darne l’annuncio agli Apostoli (v. 8). Si confronti questo particolare con il testo parallelo di Marco, per capire l’accentuazione della gioia fatta dal primo Evangelista: « Ed esse (le donne), uscite, fuggirono via dal sepolcro perché erano piene di timore e di spavento. E non dissero niente a nessuno, perché avevano paura » (Mc 16,8).

È chiaro che Matteo rilegge gli eventi pasquali alla luce della loro posteriore assimilazione da parte della comunità cristiana: una comunità di credenti che si sente salvata da Cristo e che nella sua risurrezione già esperimenta e pregusta la propria risurrezione, quella attuale nello spirito e quella futura del proprio stesso corpo. Tutti motivi da far impazzire il cuore di gioia!
È la « gioia » che solennemente esplode nel canto del « preconio » pasquale nella Liturgia della veglia notturna: « Esulti il coro degli Angeli, esulti l’assemblea celeste, un inno di gloria saluti il trionfo del Signore risorto. Gioisca la terra, inondata di così grande splendore; la luce del Re eterno ha vinto le tenebre del mondo. Gioisca la madre Chiesa, splendente della gloria del suo Signore, e questo tempio tutto risuoni per le acclamazioni del popolo in festa ».
« Se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù »
Tutto questo indica che gli Evangelisti, narrando e proclamando la risurrezione del Signore, non intendevano rievocare solo un grandioso evento del passato, ma celebrare un « mistero » di salvezza, operante anche oggi nel cuore dei credenti e nel flusso stesso della storia.
È quanto san Paolo ricordava ai cristiani di Colossi, invitandoli a vivere alla luce del mistero della risurrezione. Se Cristo, risuscitando dai morti, ha aperto per sé e per noi, che siamo il suo « corpo », le porte del cielo e ci ha ricongiunti con Dio, vuol dire che anche noi dobbiamo lasciarci trasportare in alto: c’è ormai come una forza di lievitazione che ci spinge verso orizzonti, che vanno oltre quelli puramente terreni.
« Se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio; pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra. Voi infatti siete morti e la vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio! Quando si manifesterà Cristo, la vostra vita, allora anche voi sarete manifestati con lui nella gloria! » (Col 3,1-4).
Qui, san Paolo si riferisce certamente al sacramento del Battesimo che, facendoci morire al peccato, ci introduce al mistero della « vita nuova » in Cristo, ci fa cioè risorgere con lui: « Da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatti rivivere con Cristo… Con lui ci ha anche risuscitati e ci ha fatti sedere nei cieli, in Cristo Gesù » (Ef 2,5-6). Soltanto che questa vita di « risorti » non risplende ancora del fulgore della « gloria », come già è avvenuto per Cristo; essa è invece « nascosta » nei segni modesti del nostro agire di ogni giorno.
L’importante, però, è vivere già da adesso da « figli della risurrezione », trascinando in questo impeto di rinnovamento anche i nostri fratelli e tutta la realtà creata. È così che anche noi, come ricordava sant’Atanasio nelle sue « Lettere pasquali », « celebreremo la festa del Signore, non con le parole soltanto, ma con le opere ».

Publié dans:feste - Pasqua |on 12 avril, 2011 |Pas de commentaires »

ABBIAMO VISTO IL SIGNORE

dal sito:

http://www.apostoline.it/riflessioni/nuovo_test/abbiamo_visto_il_signore.htm

ABBIAMO VISTO IL SIGNORE

di MARIA KO HA FONG, biblista

«Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dissero allora gli altri discepoli: “Abbiamo visto il Signore!”. Ma egli disse loro: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non credo”. Otto giorni dopo, i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù…» (Gv 20,24-26).

Perché non eri con noi? Come mai non c’eri? Dove sei stato? Sai cosa hai perso?… Nessuna domanda del genere, nessun rimprovero, nessun interrogatorio, nessun controllo, nessuna indagine di curiosità. Ai tuoi fratelli, o Tommaso, premeva soltanto una cosa: comunicarti una bella notizia, condividere con te l’esperienza straordinaria, farti provare l’emozione intensa di cui erano pervasi, coinvolgerti rimediando ciò che hai perso nella tua assenza, farti partecipe della gioia che spettava anche a te perché eri uno di loro.
Ti aspettavano con ansia. Non appena udirono avvicinarsi i tuoi passi, già volsero tutti lo sguardo verso quella porta chiusa. Come mettesti i piedi nella stanza, tutti accorsero da te dicendoti quasi a gara: “Abbiamo visto il Signore!”. Sui volti raggianti davanti a te non si trovò più nessuna traccia di quella tristezza che adombrava tutti nei giorni precedenti di angoscia e di dolore. Dalla loro voce era scomparsa quella nota di scoraggiamento e di delusione che tu conoscevi bene.
Ora tutti gli occhi erano fissi su di te aspettando la tua reazione. Aspettavano un grido di gioia, un’esclamazione di stupore. Aspettavano forse, che tu dicessi loro: «Ma davvero? Come è avvenuto? Dove? Quando? Come è apparso? Cosa ha detto? Raccontatemi!…». E invece niente di tutto ciò. Al posto degli “Ah!” e “Oh!” di meraviglia, uscì dalla tua bocca una litania fredda di “se non…”. Tu non credevi. Volevi vedere, toccare, constatare, esaminare. Volevi prove certe, concrete. Non ti bastava né l’emozione contagiante, né la testimonianza eloquente. Esigevi l’esperienza diretta, e questa non te la potevano dare i tuoi fratelli, pur con tutto il loro entusiasmo e con tutto il bene che ti volevano.
Trascorsero i giorni e la vita procedeva normale. Tu continuavi a stare insieme con i fratelli come prima, ma c’era qualcosa di cambiato in te e negli altri. Avvertivi una distanza creatasi misteriosamente tra te e loro. Essi erano buoni e cordiali con te come al solito, o forse, più ancora del solito; eppure tu ti sentivi estraneo, lontano, persino fuori posto in mezzo a loro. Ti accorgevi che essi avevano qualcosa che ti mancava. L’avvenimento di quella sera era stato qualcosa di decisivo, di trasformante. E quella sera tu non c’eri.
Avresti potuto lasciarti coinvolgere. Avresti potuto entrare in quel “noi” gridando insieme agli altri: “Abbiamo visto il Signore”, ma non l’hai voluto; e i tuoi fratelli ti rispettavano. Sapevano bene che il Signore amava manifestarsi in una varietà di tempi e di modi, sapevano pure che tu eri un tipo non facile da persuadere. In mezzo a loro tu ti distinguevi come uomo della concretezza, retto, sincero, ma un po’ rigido, testardo, unilaterale. Ben due volte hai frainteso persino Gesù per questa tua durezza di mente e di cuore (cf Gv 11,16; 14,5).
Diametralmente opposto rispetto a Giovanni, che possedeva una forte capacità d’intuizione e una spiccata sensibilità per il mistero, tu facevi fatica a lanciarti più in là e più in alto, oltre al visibile e tangibile. Diverso da Pietro, l’apostolo impulsivo, irruente, intraprendente, tu non ti compromettevi senza ragione, non ti fidavi senza prove. Eri diverso da Andrea, affabile, socievole, zelante e premuroso di far conoscere Gesù agli altri; diverso da Filippo, semplice, schietto e spontaneo; diverso da Matteo, da Giacomo, da Simone…
Insomma, voi non formavate un gruppo omogeneo. Non mancavano momenti di tensione e di disarmonia tra di voi, litigavate qualche volta per delle banalità. La domanda di Pietro a Gesù: “Quante volte dovrò perdonare al mio fratello se pecca contro di me?” (Mt 18,21) forse non era una semplice domanda teorica. C’era persino un po’ di concorrenza tra di voi. Al contrario di quello che vi insegnava Gesù, ambivate di essere il primo, il più grande del gruppo.
Non eravate persone ideali, perfette. Non rappresentavate modelli indiscutibili, ma eravate uomini comuni di carattere diverso, di provenienza e professione diversa. Tutti però attirati dallo stesso Gesù, il quale, in tempi diversi e in circostanze diverse vi ha rivolto lo stesso invito: “Vieni e seguimi!”. Questo era ciò che vi univa ed era tutto ciò che contava.
Tu, Tommaso, davi molta importanza a questa unione fondata in Gesù, apprezzavi la fratellanza fra di voi. Anche nei giorni di disagio interiore dopo quella sera, tu rimanevi fedele alla comunità, alla comunione di preghiera e di carità. Non hai fatto come Cleopa e l’altro discepolo, i quali, stanchi, delusi, scoraggiati, lasciarono la comunità e presero la via per Emmaus, lontano da Gerusalemme, lontano dalla croce, lontano dai loro sogni frantumati, lontano dai fratelli. Il loro era un viaggio di fuga, di evasione, di regresso disperato. A quei due Gesù apparve lungo il cammino, con la sua parola riscaldò il loro cuore, allo spezzare del pane rivelò la novità più strepitosa della storia: Egli è il Risorto per sempre, l’eterno presente. I due ripartirono poi per Gerusalemme, ritornarono dai fratelli raccontando loro la gioia di quel meraviglioso incontro.
A te, invece, Gesù giunse in comunità. Otto giorni dopo arrivò anche per te l’occasione di vedere il Signore. La comunità divenne per te il luogo della visita del Risorto, il contesto in cui egli si rivelò per rinvigorire la tua fede, l’ambiente vitale della tua confessione di fede intensa e profonda: “Mio Signore e mio Dio!”.
Dal tuo tempo al nostro sono ormai passati quasi duemila anni. La tua comunità dovrebbe trovare un riflesso nelle nostre comunità cristiane. Che ne pensi, Tommaso, riusciamo a imitarvi? Le nostre comunità sanno essere risorsa vitale per ognuno di noi come la tua è stata per te? San Basilio scrisse una pagina splendida parlando della bellezza della vita di comunità: «Il primo e grande inconveniente di chi vive in completa solitudine è l’essere soddisfatto di sé. Costui non ha nessuno che giudica la sua condotta e ben presto penserà di essere arrivato alla perfezione della legge. Conservando le sue capacità inattive, non conoscerà ciò di cui ha bisogno e non potrà constatare se compie progressi nelle sue azioni, perché gli verrà meno l’occasione di praticare i comandamenti. In che cosa mostrerà la sua umiltà, se non ha nessuno davanti al quale abbassarsi? Verso chi userà misericordia una volta che si è escluso dai rapporti con gli altri? Come potrà esercitarsi alla mitezza se non ha nessuno che si oppone alla sua volontà? […] Tu che vivi solo con te stesso, a chi laverai i piedi? Dopo di chi ti metterai come ultimo? Chi servirai? Questa felicità e questa gioia d’essere numerosi fratelli che abitano insieme, simile – dice lo Spirito Santo – al profumo che scende dalla barba del grande sacerdote, come si può trovarla nella casa di chi vive da solo?».
Tu, Tommaso, che sei stato uno dei primi ad aver beneficiato della ricchezza di questo “habitare in unum” dei fratelli, pensi che le nostre comunità cristiane di oggi siano ancora capaci di diffondere l’entusiasmo contagioso dell’ “abbiamo visto il Signore”? I nostri fratelli e le nostre sorelle hanno la pazienza di rispettare i ritmi diversi e di aspettare con chi è nell’incertezza gli “otto giorni dopo”? Le nostre comunità cristiane potranno essere sostegno a chi è vacillante, ristoro a chi è ferito, speranza per chi è scoraggiato? Potranno diventare spazio e occasione per una confessione di fede autentica e profonda di ogni fratello?
Grazie, o Tommaso, per mezzo tuo, abbiamo una delle più belle beatitudini pronunciate dal Signore: “Beati quelli che credono pur non avendo visto”; per mezzo tuo, abbiamo una meravigliosa testimonianza della bellezza di seguire insieme Cristo e proclamare insieme: “abbiamo visto il Signore!”.

(da « Se vuoi »)

Publié dans:feste - Pasqua |on 11 avril, 2011 |Pas de commentaires »

L’istituzione della festa liturgica del Sacro Cuore di Gesù – I -

si tratta di tre parti di uno studio, io propongo la prima, le altre due le potete leggere sul sito, il rimando è in fondo alla pagina, dal sito:

http://www.gesuiti.it/moscati/Ital2/SCuore_APaolino.html

L’istituzione della festa liturgica del Sacro Cuore di Gesù – I -
 
 Amedeo Paolino s.j.

Pio XII e l’enciclica « Haurietis Aquas »

Il 15 maggio del 1956 il Papa Pio XII pubblicò l’enciclica « Haurietis Aquas » (1): « Attingerete acqua con gioia alle sorgenti del Salvatore » (2). In questa enciclica Pio XII ricorda l’istituzione della festa del Sacro Cuore – estesa a tutta la Chiesa – da parte di Pio IX il 23 agosto 1856. Nel 2006 ricorrono quindi i 150 anni dalla istituzione e i 50 anni della pubblicazione dell’Enciclica Haurietis Aquas.

L’estensione della Messa del Sacro Cuore a tutta la Chiesa, decretata da Pio IX, venne al termine di un lungo percorso, un travagliato cammino protrattosi per più di due secoli, e segnato – specialmente nel XVII e XVIII secolo – da roventi controversie. Fu anche però un periodo di crescita in profondità e diffusione della devozione al Sacro Cuore.

La storia di questa devozione è distinta da quella della introduzione della festività nella liturgia universale della Chiesa. Due distinte realtà intimamente connesse ed interdipendenti. Tale interdipendenza si verificò in due modi. La crescente devozione del popolo in onore del Sacro Cuore, l’approfondimento teologico, biblico e la benefica utilità pastorale della devozione, esercitarono pressione per la istituzione liturgica della festività. Questa, una volta avvenuta, suscitò nuovi studi, che resero più chiara l’essenza della devozione stessa e il simbolismo del cuore. Inoltre la pratica pastorale crebbe – si può dire – a dismisura.

La storia della devozione al Sacro Cuore o al Costato trafitto di Gesù è più antica, ampia ed attraente della corrispondente istituzione liturgica con Messa e Ufficio propri. Dopo il Vaticano II non si accetta in modo netto la visione dualistica tra « devozioni » del popolo e « liturgia istituzionale ». Nei secoli scorsi vi era invece un marcato dualismo cultuale tra « devozioni » del popolo cristiano e quello « liturgico ufficiale-giuridico » approvato dall’autorità ecclesiale.

Il progresso della ecclesiologia fa ritenere come Chiesa il popolo di Dio, senza intaccare l’autorità gerarchica dei pastori. Si diminuisce la distinzione che vigeva prima del Concilio. L’introduzione di una Messa e Ufficio nella liturgia universale è sempre preceduta da un processo piuttosto lungo. Sorvolando esperienze di anime elevate, iniziamo la storia di questo processo con l’apparire di segni e fatti pubblici riguardanti la devozione al Sacro Cuore.

Il primo « segno » pubblico-devozionale al Sacro Cuore non si ebbe in Europa. Si verificò in Brasile all’inizio dell’evangelizzazione dell’immenso paese. Fu S.José de Anchieta (3), apostolo del Brasile, gesuita, che dedicò al Sacro Cuore una modesta chiesa a Guarapary, nel 1552. La costruzione si trova nella diocesi « Do Espiritu Santo », sulla costa bagnata dall’Atlantico, a nord di Rio de Janeiro.

Francamente ci saremmo aspettato un segno pubblico in Europa. Invece no! Il primo segno pubblico della devozione al Sacro Cuore apparve quindi in un paese allora considerato « mezzo selvatico ».

La sorpresa cresce conoscendo l’esperienza mistica di S. Pietro Canisio (4), contemporaneo dell’Anchieta. Il Canisio ebbe l’esperienza mistica del Sacro Cuore 40 anni prima della costruzione della chiesetta in Brasile. Egli narra nelle note spirituali che nel giorno della professione solenne a Roma, andò a pregare in Vaticano sulla tomba degli apostoli. Nella preghiera, tra altre esperienze, ebbe questa:

« Tu, o Salvatore, alla fine, come mi si aprisse il Cuore del Tuo sacratissimo Corpo, che mi sembrava di vedere davanti a me, mi hai comandato di bere a quella sorgente invitandomi, per così dire, ad attingere acque della mia salvezza dalle Tue fonti, o mio Salvatore » (5).

La devozione al Sacro Cuore nel XVII secolo

Agli inizi del ’600 la devozione al Sacro Cuore si diffuse specialmente per opera dei Padri gesuiti. Ne ricordiamo alcuni fra i più noti. In Spagna Luis De La Puente (6) trattò di questa devozione nelle sue numerose pubblicazioni. In Ungheria Matyas Hajnal (7) scrisse in lingua ungherese un libro di preghiere, nel quale espone « La devozione per cuori che amano il Cuore di Gesù ». In Polonia Kasper Druzbicki (8) compose il trattato « Meta cordium Cor Jesu ». In Francia Vincent Huby (9) propagò questa devozione nelle missioni parrocchiali in Bretagna e nei corsi di Esercizi a gruppi di decine di persone.


Il Sacro Cuore e S.Margherita Maria Alacoque
[Chiesa del Gesù Nuovo, Napoli]
L’attività dei gesuiti e di altri propagò la devozione al Sacro Cuore in un ambito pubblico, ma non molto esteso. Un buon passo avanti si verificò mediante S.Giovanni Eudes (1601-1680). Grande fu la sua opera nella diffusione della devozione ai SS. Cuori di Gesù e Maria. A lui si deve la prima composizione della Messa e dell’ufficio in onore del Sacro Cuore. Leone XIII – che ben conosceva la storia di questa devozione – lo ritenne come « l’autore del culto liturgico dei SS. Cuori ».

Cinque anni dopo l’approvazione della Messa avvennero le rivelazioni a S.Margherita Maria Alacoque (1647-1690), a Paray-le Monial, dal 1673 al 1675. Il gesuita S.Claudio de la Colombière, confessore della veggente, ritenne autentiche le rivelazioni. Ma poco dopo, nel 1676, fu inviato in Inghilterra, incarcerato a causa di false accuse e si ammalò gravemente.

Rimandato in Francia nel 1679, l’infermità gli impedì di diffondere la devozione al Sacro Cuore. Ma Colombière la inculcò a vari studenti gesuiti, dei quali era direttore spirituale. Morì nel 1681. Tra quei studenti vi era Giuseppe Gallifet s.j. (1663-1749), che assimilò fortemente il messaggio delle rivelazioni. Divenuto sacerdote dedicò una straordinaria attenzione nell’illustrare e diffondere le rivelazioni e la devozione al Sacro Cuore.

In tempi piuttosto brevi le rivelazioni a S.Margherita Maria concorsero grandemente all’eccezionale movimento della devozione. P.Gallifet sostenne S.Margherita Maria e compose la Messa in onore del Sacro Cuore: « Venite, exultemus » e l’Ufficio corrispondente. Il Vescovo di Coutances, Mons. Francesco de Lomènie de Brienne, nel 1688 approvò il formulario della Messa e permise di celebrare la festa liturgica del Sacro Cuore il venerdì dopo l’ottava del Corpus Domini.

La prima richiesta a Roma: 1696.

Dopo la morte di S. Margherita Maria Alacoque (1690), le Visitandine di Francia, incoraggiate dalla diffusione della devozione, presentarono varie richieste alla Santa Sede: l’approvazione della festa liturgica del Sacro Cuore; la sua celebrazione il venerdì dopo la festa del Corpus Domini; la facoltà per tutti i sacerdoti che in quel giorno avessero celebrato nei monasteri della Visitazione di dire la Messa « Venite », composta dal P.Gallifet.

I Padri gesuiti appoggiarono la mozione. Si ebbe pure il patrocinio della regina Maria, moglie di Giacomo II Stuart, re d’Inghilterra. Fu nominato « ponente » della causa il Card. Tousaint. Nella discussione della causa il promotore della Fede, Mons. Bottini, si oppose risolutamente all’approvazione. Le ragioni addotte erano soprattutto due: la Chiesa nel culto pubblico non si basa su rivelazioni private; la questione fisiologica del cuore umano in rapporto alle commozioni passionali (amore, dolore, ecc.) non era chiarita. Il 30 maggio 1697 fu reso noto l’esito negativo della causa. Anche i formulari della Messa « Venite » furono respinti.

Secolo XVIII – Si ottiene l’approvazione pontificia

Nonostante la risposta negativa del 1697, la devozione continuava a diffondersi. Il P.Gallifet elencava 317 associazioni in onore del Sacro Cuore sorte nel decennio 1693-1703.

Le Visitandine per la seconda volta presentarono la domanda di approvazione della festività. Il Papa Benedetto XIII era noto per la sua pietà. Alle Visitandine si unì l’episcopato francese, il re Augusto di Polonia e Filippo V di Spagna.

Il P. Gallifet, postulatore, presentò un’opera sul culto al Sacro Cuore e la sua diffusione, che venne pubblicata a Roma l’anno precedente (10). Nella « causa » il Promotore della Fede era Prospero Lambertini (poi Benedetto XIV). La decisione finale fu: « Non proposita », che nello stile della Curia romana significava che la festività non si approvava. Due anni dopo (1729) fu riproposta l’approvazione e si ebbe un terzo amaro e secco: « Negative ».

Per la quarta volta si presentò domanda per l’approvazione alla Sacra Congregazione dei Riti, nel 1763. L’iniziativa partì dall’Episcopato polacco. Appoggiavano la domanda alcuni Principi di Polonia e di Francia. Il sostegno più imponente venne da 148 vescovi di Europa che sottoscrissero la petizione. Tra questi ci fu S.Alfonso Maria de’ Liguori.

La « causa » fu discussa a lungo. Il 2 gennaio 1765 la Sacra Congregazione dei Riti approvava la festa del Sacro Cuore « pro regno Poloniae, pro catholicis Hispaniarum regnis, necnon pro archiconfraternitate sub titulo eiusdem santissimi Cordis in Urbe » (« per il Regno di Polonia, per i cattolici dei regni della Spagna, nonché per l’arciconfraternita che a Roma porta il titolo del Santissimo Cuore »).

La decisione fu confermata dal papa Clemente XIII il 6 febbraio 1765, cioè il mese dopo. Il papa tolse però tolse la dizione « pro catholicis Hispaniarum regnis ». La festa liturgica era limitata dunque alla Polonia e alla Arciconfraternita del Sacro Cuore in Roma. Per la festività liturgica si stabilì il venerdì dopo il Corpus Domini. Da questo momento comunque si può dire che inizia nella Chiesa il culto pubblico canonico al Sacro Cuore.

Nel decreto di approvazione è ricordata la grande diffusione del culto al Sacro Cuore, « per omnes catholici orbis partes » (« per ogni parte del mondo cattolico »). Il « sensus » del popolo cristiano fu determinante e venne revocato il decreto negativo del 30 luglio 1729.

Poco dopo – l’11 maggio 1765 – fu approvato il testo di un nuova messa, detta « Miserebitur ». La notizia dell’approvazione della festa si diffuse rapidamente. Molte diocesi e famiglie religiose si affrettarono a domandare l’indulto per celebrarla, adottando i nuovi testi.

Tutti l’ottennero. Tra i richiedenti ci furono la Compagnia di Gesù, le Visitandine, le diocesi di Pozzuoli e di Gallipoli, diverse Comunità religiose di Capua e Napoli. I testi della nuova messa sviluppano il tema dell’amore misericordioso del Cuore di Gesù, l’onda salutare che scaturisce dal Cuore squarciato, l’immolazione di Gesù sulla Croce nella natura umana.


Gesù nel Vangelo, come nell’apparizione ai discepoli di Emmaus, ci rivela la smisurata ricchezza dell’amore di Dio, che desidera riversare in ognuno di noi.
Estensione universale della liturgia del Sacro Cuore

L’approvazione pontificia – anche se limitata – provocò una immensa diffusione del culto al Sacro Cuore. Non cessarono però dissensi oltraggiosi da parte dei giansenisti, presentando il culto al Cuore di Gesù come un atto di idolatria.

Nel vivo di questa acre polemica la regina Maria Francesca di Portogallo chiese al Papa Pio VI, nel 1777, l’indulto di celebrare la festa liturgica in Portogallo e in tutti i suoi domini. Pio VI « benigne annuit » (rispose favorevolmente) alla domanda dell’indulto e di altre richieste riguardanti la festività del Sacro Cuore.

La rivoluzione francese e il periodo napoleonico spazzarono le polemiche gianseniste e invece la devozione si sviluppò maggiormente. A metà del XIX secolo quasi non vi era diocesi che non avesse ottenuto dalla Sede Apostolica l’indulto di celebrare la liturgia del Sacro Cuore.

A distanza di quasi un secolo dalla prima approvazione romana (del 1765), Pio IX ritenne maturi i tempi per l’estensione della festa alla Chiesa Universale ed emanò il decreto il 23 agosto 1856. Fu adottata la messa « Miserebitur » col suo Ufficio, nella categoria di « duplex maius », secondo i gradi della liturgia di allora.

Conclusione

L’ estensione universale della liturgia del Sacro Cuore ebbe una difficile gestazione. Le risposte « negative » di Roma, l’esame dei testi liturgici, l’attenzione a distinguere tra rivelazioni private e il « Deposito della Fede », i quesiti anche non teologici riguardanti le relazioni tra il cuore e i sentimenti di amore, dolore etc., mostrano quanto sia circospetta la Chiesa nel culto pubblico. La liturgia è la Fede orante. Se nulla di spurio può entrare nel Deposito della Fede, altrettanto nulla di insicuro può sovrapporsi allo splendore della liturgia.

Una delle caratteristiche della liturgia è che rispecchia diverse età storiche, vari atteggiamenti di popoli e differenti spiritualità di fondatori di ordini religiosi. Qualcosa di simile è avvenuto nella formulazione dei numerosi testi liturgici per Messe del Sacro Cuore precedenti al 1856. In essi affiora un continuo lavorio che mette in rilievo molteplici aspetti della « charitas » umana e divina del Verbo-Uomo: amore misericordioso, tenerezza di sentimenti, immolazione, riparazione, peso dell’ingratitudine… Una vasta « concorde discordia » di un grandioso coro, che comunica al pellegrino, nelle vie semioscure della storia, serenità e una misteriosa energia per servire.

Note:
1. Le encicliche si denominano con le prime due o tre parole del testo latino.
2. Isaia 12, 3.
3. José de Anchieta s.j. (1534-1591), nacque a Santa Cruz de Tenerife di Canarias. Studiò nella università di Coimbra; divenne un eccellente umanista rinascimentale. Ottenne dai superiori di essere inviato in Brasile. Sbarcò a Salvador de Bahia nel 1552. Evangelizzatore e difensore degli indigeni. Le città di São Paulo e Rio de Janeiro lo annoverano tra i loro fondatori. È considerato il creatore della letteratura brasiliana. A lui si deve la prima grammatica della lingua « tupi »: « Arte de gramatica da lingua mais usada na costa do Brasil ». Compose drammi per il popolo nelle lingue tupi e guaranì. Scrisse il poema eroico di 2947 esametri: « De gestis Mendis Saa. praesidis Brasiliae », esaltando l’opera di civilizzazione del terzo governatore del Brasile: Mem de Sa. Durante quatto mesi fu ostaggio di pace fra i feroci « I peroig », antropofagi. Nel continuo pericolo di morte fece il voto di comporre un poema in onore della Madre di Dio. Iniziò la composizione durante quei tristi giorni, memorizzando i versi, a volte scritti sulla sabbia: « De B. Virgine Dei Matre Maria », 2893 distici. Ora è considerata una delle grandi opere del Rinascimento. L’Anchieta è chiamato « O Canario do Brasil », espressione che indica la sua origine e la finezza poetica.
4. S. Pietro Canisio (1521-1597), chiamato il secondo apostolo della Germania, dottore della Chiesa (1925); famoso per i « Catechismi »; alieno dalla polemica nei riguardi dei riformatori luterani che egli chiama « fratelli ». La sua profonda fede lo liberò da ogni disperato pessimismo nelle più disastrose situazioni. La sua pietà si sviluppò nella « devotio moderna », impregnata di Umanesimo e basata sulla Scrittura e sulla Patristica.
5. Ecco il testo originale latino delle note spirituali, riguardante l’esperienza del Cuore di Gesù: « … Unde Tu, o Salvator, tandem aperto mihi corde santissimi Corporis Tui, quod inspicere coram videbar, ex fonte illo ut biberem jussisti, invitans scilicet ad hauriendas aquas salutis meae de fontibus Tuis, Salvator meus ». (Braunsberger, Canisius 1. 55-59).
6. De La Puente Luis (1554-1624), rinomato autore di opere ascetiche, tradotte in molte lingue.
7. Hajnal Matyas (1578-1644), missionario popolare; collaborò per la rievangelizzazione cattolica dell’Ungheria. Scrisse il libro di preghiere per la regina Krisztina Nyàry. Il libro ebbe un gran successo. È stato ristampato in edizione facsimile a Budapest nel 1992.
8. Druzbich Kasper (1590-1667), spiccata personalità del cattolicesimo in Polonia. Oltre l’opera « Meta cordium Cor Jesu » scrisse trattati più estesi. Le sue opere furono pubblicate postume; erano però già divulgate durante la sua vita, in copie manoscritte.
9. Huby Vincent (1608-1693), fondatore della prima casa di Esercizi Spirituali a Vannes; grande casa che poteva accogliere 300 esercitanti.
10. L’opera si intitolava: « De cultu sacratissimi Cordis Dei ac Domini nostri Jesu Christi in variis christianis orbis provincis jam propagato ». Era stata scritta trent’anni prima, nel 1696. Benché i « censores » di quell’anno avessero dato un giudizio elogiativo dell’opera, ne sconsigliarono allora la pubblicazione. Negli anni successivi il P.Gallifet la ritoccò e ampliò. Stando a Roma per il suo ufficio di « Assistente » per i gesuiti di Francia, la pubblicò. L’opera si diffuse in tutta Europa, specialmente in Spagna per mezzo di uno studente gesuita: Bernardo Francisco de Hoyos (1711-1735).

Venerdì Santo, commento alle letture: Is 52, 13 – 53, 12; Sal.30; Eb 4, 14-16; 5, 7-9; Gv 18, 1 -19, 42. « tutto è compiuto »

dal sito:

http://liturgia.silvestrini.org/commento/2010-04-02.html

Venerdì Santo

COMMENTO
 LETTURE: Is 52, 13 – 53, 12; Sal.30; Eb 4, 14-16; 5, 7-9; Gv 18, 1 -19, 42.

Tutto è compiuto…

 Il racconto della Passione di Gesù Cristo, costituisce, anche da punto di vista cronologico, il primo nucleo della predicazione apostolica, il punto fondamentale della proclamazione della fede della chiesa. Nella liturgia di oggi, la proclamazione della passione assume una importanza centrale: il valore della parola, come segno sacramentale della presenza attuale del Cristo, prende grande evidenza e polarizza a sé tutta la celebrazione di oggi. Sulla croce il Cristo realizza la suprema manifestazione del nome di Dio: Agapè. Il poema descrive la sofferenza Salvatrice e gloriosa del servo di Jahvè. Il suo dolore è un mistero. Quel dolore però rivela non il suo proprio peccato – egli è innocente – ma il peccato del popolo. Il servo accetta questa piano di Dio, consapevole che lo condurrà alla morte e ad una sepoltura. Cristo è il servo di Jahvè, è lui che si consegna alla morte per il popolo. La risurrezione costituisce la sua esaltazione.

La chiesa oggi non celebra l’Eucaristia, ma invita i fedeli a rivivere nel silenzio adorante e nel modo più intenso possibile il mistero della morte di Cristo, la sua assurda condanna, l’atroce passione e la sua ignominiosa morte sul patibolo della Croce. E’ così che potremmo trarne la più logica ed impegnativa conclusione: noi, responsabili in prima persona di quella morte, con i nostri peccati, re e Dio immerso nell’amore! L’adorazione che poi segue nell’altare della riposizione assume per tutti le caratteristiche della doverosa riparazione e della migliore gratitudine. Le chiesa spoglie e disadorne ci aiutano ulteriormente a comprendere da una parte la gravità della tragedia che si sta consumando nel mondo e dall’altra l’attesa di un evento risolutivo che già intravediamo nella fede e nella speranza ed è il mattino di Pasqua.

Lo vediamo come il servo: su di lui pesano le nostre colpe, ma dalla sua umiliazione viene il nostro riscatto. Dalle piaghe di Gesù sono risanati tutti gli uomini. Oggi è il giorno della immensa fiducia: Cristo ha conosciuto la sofferenza, da lui riceviamo misericordia e in lui troviamo grazia. E la imploriamo per tutti gli uomini nella preghiera universale. Oggi è il giorno della solenne adorazione della croce: lo strumento del patibolo è diventato il termine dell’adorazione da che vi fu appeso il Salvatore del mondo. Siamo sempre sotto la croce. Non c’è momento, non c’è situazione dove non entri la croce a liberare e a salvare. Infatti essa si manifesta in noi ogni giorno, se siamo discepoli fedeli del Signore. Non chiediamogli tanto di discendere dalla croce, quanto di avere la forza di restarci con lui, nella speranza della risurrezione.

Silenti nell’attesa.
La chiesa oggi ci conduce ai piedi della croce. Assume e realizza il mandato di predicare al mondo Cristo, e Cristo crocifisso. L’umanità intera è invitata a prostrarsi, ad adorare il mistero, a comprendere, per quanto ci è dato dalla fede, l’immensità del dono e tutta la gravità del male. Siamo invitati a vedere con umana e divina sapienza la croce di Cristo, ma anche le nostre croci: oggi il confronto è urgente se non vogliamo restare schiacciati dai nostri pesi. Abbiamo bisogno di illuminare di luce divina le vicende più tristi della nostra umana esistenza. Sorbire la luce della croce significa dare un senso, scoprire le finalità arcane e rivelate della sofferenza che ci accompagna, significa andare oltre le umane considerazioni che sappiamo fare con la nostra limitata intelligenza sul dolore, sul dolore dell’innocente, sulle vittime dei giudizi e dei pregiudizi umani. Dobbiamo confrontare e sovrapporre le nostre croci a quelle di Cristo per scoprire che anche il dolore, la passione, la stessa morte può diventare fonte di vita e germe di immortalità e di risurrezione. Quella croce piantata sul monte è conficcata anche nella nostra carne, nel nostro cuore; prima di essere di Cristo è nostra quella croce, ma ora è diventata l’albero fecondo della vita. Privi di questa luce e di questo salutare confronto s’intristisce il nostro mondo, bruciano le foreste e si rimboschiscono di croci; il dolore riassume tutta la sua cruda ed assurda realtà, i crocifissi restano perennemente appesi a quelle croci, i crociati senza speranza restano chiusi nella morsa della morte, il mondo diventa un triste cimitero. Adorare la croce di Cristo vuol dire allora far rinascere la speranza, convincersi che il peso maggiore è già stato assunto volontariamente dal nostro redentore, vuol dire che le croci non hanno più il potere di schiacciarci e di configgerci e gli stessi sepolcri sono aperti per lasciarci liberi di tornare a Dio.

Giovedì Santo, commento alla letture: Es 12, 1-8. 11-14; Sal.115; 1 Cor 11, 23-26; Gv 13, 1-15.

dal sito:

http://liturgia.silvestrini.org/commento/2010-04-01.html

Giovedì Santo

COMMENTO
 LETTURE: Es 12, 1-8. 11-14; Sal.115; 1 Cor 11, 23-26; Gv 13, 1-15.

Eucaristia e Sacerdozio.

 È un giorno solenne e santo quello che celebriamo oggi. Diventiamo i commensali di Dio, ci viene dato come bevanda e come cibo il suo sangue e la sua carne. È il sangue e la carne dell’uomo Dio, prima martirizzato nella crudeltà di una orribile passione, poi racchiusa in un calice e in piccole ostie per assumerli come germe di vita nuova. Così siamo rigenerati nel corpo e nello spirito, diventiamo nuove creature, riscopriamo la nostra fratellanza, diventiamo uno in Cristo, diventiamo templi sacri, in cui inibita la divinità. Non più schiavi ma liberi, con una somiglianza soprannaturale con il nostro creatore e signore. La sfida che satana lanciò sin dal princìpio ai nostri progenitori «sarete come Dio», ora trova il suo vero compimento. Accadde in un’ultima cena, mentre si celebrava la nuova Pasqua. Gesù è prostrato come uno schiavo dinanzi ai suoi, vuole loro lavare i piedi. Vuole dare loro una lezione di umiltà, vuole dire loro che l’amore vero esige l’immolazione volontaria per gli altri, vuole spegnere ogni benché minima ombra di potere, vuole dire agli apostoli e ai futuri ministri dell’Eucaristia che per ripetere validamente quell’eterno sacrificio, devono mettere a disposizione di tutti la propria vita, diventare vittime con la Vittima. Solo così quel sacrificio potrà diventare un memoriale, potrà ripetersi nei secoli sugli altari del mondo per sfamare gli affamati di ogni tempo e dissetare le brame dei viventi. «Fate questo in memoria di me» non significa soltanto ricevere una dignità e un mandato, significa soprattutto assimilarsi a Cristo, assumerne le sembianze, ripeterne i suoi gesti e le sue parole, offrirsi ogni giorno come vittima, essere il cibo di tutti, lasciarsi dilaniare nella carne e nello spirito, essere sacerdoti del Dio altissimo, capaci di generare Cristo con un limpido amore alla Madre sua e nostra. Così eucaristia e sacerdozio si fondono nel mistero, si realizzano e si perpetuano nella storia. Così il Vivente entra nel mondo, si dona, si lascia divorare, s’immola, guarisce, risana, redime e salva.
Oggi è le festa dei sacerdoti, oggi più che mai contempliamo l’amore di Dio, la grande missione che ci ha affidato, la potenza che egli ha voluto conferire alle nostre parole, ma ci troviamo anche prostrati nella consapevolezza dei limiti e delle debolezze, che ci accompagnano anche quando saliamo tremanti sui pulpiti e sugli altari. È lì che guardandoci allo specchio ci convinciamo che i primi affamati siamo noi, è lì che verrebbe la voglia di scendere e di smettere le nostre messe, ma è ancora lì che troviamo i motivi veri di una interiore e totale purificazione: ci purifica lo sguardo misericordioso di Dio e quello altrettanto benevolo dei fratelli; così ci troviamo accomunati a sperimentare il nostro sacerdozio: «il mio e vostro sacrificio».

Grandi eventi si compiono in questo giorno: la chiesa (fedeli e presbiteri) si riunisce in mattinata nelle cattedrali con il proprio Vescovo per fare concreta e viva esperienza di unità, memore della preghiera di Cristo che intensamente la chiede al Padre per la sua Chiesa. La stessa unità viene celebrata nel memoriale eucaristico e nell’istituzione del Sacerdozio. La benedizione degli oli santi, che serviranno per l’amministrazione dei sacramenti, avviene nella stessa celebrazione a testimoniare la premura della Chiesa per i propri fedeli, che si estende per tutto il tempo della vita terrena e diventano veicoli di grazia e segni efficaci di salvezza. E’ un giorno veramente santo questo Giovedì: per i sacerdoti è il giorno in cui possono percepire, più che mai, la grandezza del dono ricevuto, che li assimila a Cristo stesso e li rende strumenti di salvezza e dispensatori dei beni di Dio; per i fedeli è il nuovo patto indissolubile ed eterno, sancito da Cristo che, per restare sempre con noi vivo, si rende presente nell’Eucaristia e diventa cibo e bevanda di vita; per tutti può essere un giorno in cui la presenza di Dio e il suo amore per l’uomo si rende nel mondo più percettibile e più intenso.

Il Mistero di Dio che ci parla

dal sito:

http://www.zenit.org/article-14697?l=italian

Il Mistero di Dio che ci parla

CITTA’ DEL VATICANO, sabato, 14 giugno 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato il 12 giugno scorso da monsignor Nikola Eterovic, Segretario Generale del Sinodo dei Vescovi, nel presentare nelal Sala Stampa della Santa Sede l’Instrumentum Laboris della XII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi che si terrà in Vaticano dal 5 al 26 ottobre 2008 sul tema: « La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa ».

* * *

I) Introduzione

« In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio » (Gv 1, 1). Questa è la prima citazione biblica dell’Instrumentum laboris, presa dal Prologo del Vangelo di San Giovanni. Essa permette di volgere uno sguardo al mistero eterno di Dio Uno e Trino che nella pienezza dei tempi ha voluto rivelare agli uomini la sua vita nascosta da secoli e da generazioni (cf. Col 1, 26). Nella sua bontà infinità, Dio Padre non ha solamente parlato tramite la creazione, effettuata per mezzo del Figlio diletto (cf. Col 1, 16). Egli ha voluto parlare ai padri anche per mezzo dei profeti (Eb 1, 1) che sono stati ispirati dallo Spirito Santo. Negli ultimi tempi, poi, Dio Padre ha parlato a tutti per mezzo del suo Figlio « che ha costituito erede di tutte le cose e per mezzo del quale ha fatto anche il mondo » (Eb 1, 2). Il Verbo fatto carne venne ad abitare in mezzo ai suoi (cf. Gv 1, 14). Incarnandosi, il Verbo eterno entrò nel tempo e nello spazio, categorie proprie della condizione umana. Infatti, concepito per opera dello Spirito Santo e nato dalla Vergine Maria, Gesù Cristo è diventato in tutto simile agli uomini eccetto nel peccato (cf. Eb 4, 15). Ha pertanto dovuto esprimersi in modo umano, tramite gesti e parole che sono narrati nel Nuovo Testamento, soprattutto nei Vangeli. Ma anche le Scritture dell’Antico Testamento (la Torah, i profeti e gli scritti sapienziali) gli rendono testimonianza (cf. Gv 5, 39). Il Signore Gesù, che ha parole di vita eterna (cf. Gv 6, 68), insegna ciò che ha imparato dal Padre che lo ha inviato al mondo (cf. Gv 14, 24). « Infatti colui che Dio ha mandato proferisce le parole di Dio e dà lo Spirito senza misura » (Gv 3, 34). Nella persona di Gesù Cristo le parole e i gesti si intrecciano e completano nel rivelare il mistero di salvezza compiuto dal Verbo fatto carne, dalla Parola d’amore vissuta sino alla fine (cf. Gv 13, 1), fino al sacrificio della croce, quando il Figlio obbediente consegnò il suo spirito a Dio Padre (cf. Lc 23, 46). Quando non poté più parlare, continuò a rivelare l’abisso dell’amore di Dio per gli uomini versando il suo sangue per molti, in remissione dei peccati (cf. Mt 26, 28). Dal suo fianco trapassato con la lancia, « uscì sangue e acqua » (Gv 119, 34), simboli del Battesimo e dell’Eucaristia, sacramenti che segnano l’inizio e il culmine della vita cristiana. La rivelazione del Signore Gesù ha raggiunto l’apice nel mistero pasquale: nella passione, nella morte e nella resurrezione. Egli, glorificato ed asceso alla destra di Dio Padre, è presente in vari modi in mezzo ai suoi fino alla fine del mondo. Secondo la sua volontà, il Signore risorto continua ad esser presente nella Chiesa soprattutto per mezzo del Pane della Parola e dell’Eucaristia.

Tale grande mistero di salvezza è affidato alla Chiesa come il tesoro più prezioso da celebrare e da vivere, come pure da annunciare fino alla fine dei tempi. Pertanto, è del tutto logico che l’Instrumentum laboris si concluda con il mandato del Signore Gesù risorto, secondo la versione dell’Evangelista Marco: « Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura » (Mc 16,15). Tra questi due poli, il riferimento al Verbo eterno e il mandato missionario della Chiesa, si situa la ricca riflessione del Documento di lavoro della prossima assise sinodale sulla Parola di Dio, sulla sua importanza capitale sia per la vita della Chiesa sia per la sua missione nel mondo contemporaneo.

II) Procedura sinodale

L’Instrumentum laboris, che oggi viene presentato, rappresenta una tappa importante nella preparazione dell’Assemblea sinodale che avrà luogo nella Città del Vaticano dal 5 al 26 ottobre 2008. Si tratta di un processo lungo ed esigente, risultato della collaborazione dei Vescovi del mondo intero, membri dell’unico collegio episcopale con a Capo il Vescovo di Roma, il Santo Padre Benedetto XVI.

Infatti, l’iter della preparazione sinodale ha avuto l’avvio con la pubblicazione, avvenuta il 6 ottobre 2006, del tema della XII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi: La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa. Precedentemente, per incarico del Romano Pontefice, la Segreteria Generale del Sinodo dei Vescovi aveva fatto una consultazione presso l’episcopato cattolico chiedendo di indicare gli argomenti più attuali per l’intera Chiesa che secondo loro avrebbero potuto essere affidati alla discussione sinodale. La Parola di Dio, tema segnalato da vari punti di vista, è stata la proposta preferita dai Vescovi che Sua Santità Benedetto XVI ha benevolmente accolto. Valendosi della collaborazione del Consiglio Ordinario, e coadiuvata da alcuni esperti, la Segreteria Generale del Sinodo dei Vescovi ha in seguito preparato i Lineamenta, Documento che ha per scopo di facilitare la riflessione sull’argomento prescelto per l’approfondimento dell’Assemblea sinodale. I Lineamenta, pubblicati il 27 aprile 2007, in 8 lingue (latino, francese, inglese, italiano, polacco, portoghese, spagnolo e tedesco), contenevano anche delle domande assai puntuali con le quali si intendeva promuovere l’approfondimento a livello capillare sul tema sinodale. Il Documento è stato inviato, come di consueto, ai 13 Sinodi dei Vescovi delle Chiese Orientali Cattoliche sui iuris, alle 113 Conferenze Episcopali, ai 25 Dicasteri della Curia Romana e all’Unione dei Superiori Generali. Tali organismi dovevano favorire la riflessione a livello delle strutture locali (metropolie, diocesi, parrocchie, movimenti, associazioni, gruppi di fedeli, ecc.), sintetizzare i loro contributi e far pervenire le risposte alla Segreteria Generale del Sinodo dei Vescovi entro il mese di novembre 2007. Il Consiglio Ordinario della Segreteria Generale ha studiato l’abbondante materiale pervenuto che è stato sintetizzato nel presente Documento. Esso, in qualche modo, riflette la percezione a livello della Chiesa universale della portata del tema della prossima Assemblea sinodale. Al riguardo, occorre segnalare un grande interesse per l’argomento, dimostrato anche dal fatto che i Lineamenta sono stati tradotti in lingua cinese ed araba. L’Instrumentum laboris permette di constatare i grandi frutti del rinnovamento biblico che hanno avuto notevoli influssi nel campo liturgico, catechetico, esegetico, teologico e spirituale in seguito alla promulgazione della Costituzione dogmatica Dei Verbum del 18 novembre 1965, 43 anni fa. Negli anni successivi, inoltre, sono stati pubblicati importanti Documenti sul tema, tra cui occorre menzionare Il Catechismo della Chiesa Cattolica e il suo Compendio, come pure due Documenti della Pontificia Commissione Biblica: L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa e Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana.

III) Scopo dell’Assemblea sinodale

Nella parte introduttiva dell’Instrumentum laboris si indicano, tra l’altro, le attese comuni che provengono dalle risposte delle Chiese particolari, come pure la finalità del Sinodo. La riflessione sinodale dovrebbe favorire la conoscenza e l’amore della Parola di Dio che è viva, efficace e penetrante (cf. Eb 4, 12), allo scopo di riscoprire la bontà infinita di Dio che si rivela all’uomo come ad amico, si intrattiene con lui e lo invita alla comunione con sé (cf. DV 2). Inoltre, per mezzo della Parola di Dio si auspica di rafforzare la comunione ecclesiale, fomentare la vocazione universale alla salvezza, rinvigorire la missione ai vicini ed ai lontani, rinnovare la fantasia della carità cercando di contribuire a trovare soluzioni ai tanti problemi dell’uomo contemporaneo che ha fame sia del pane sia di ogni parola che esce dalla bocca di Dio (cf. Mt 4, 4). Più concretamente, lo scopo del Sinodo, secondo l’Instrumentum laboris, è soprattutto d’indole pastorale e missionaria. Ovviamente ogni riflessione ecclesiale deve essere ben fondata su aspetti dottrinali. Pertanto, è importante fare un essenziale riferimento teorico, cercando di chiarire maggiormente gli aspetti fondamentali della verità sulla Rivelazione: sulla Parola di Dio, sulla Tradizione, sulla Bibbia, sul Magistero, che motivano e garantiscono un valido ed efficace cammino di fede. Su tale base solida si fondano, poi, ragioni di natura pastorale: stimolare l’amore profondo per la Sacra Scrittura affinché i fedeli abbiano largo accesso ad essa (cf. DV 22); praticare maggiormente la Lectio divina, debitamente adattata alle varie circostanze. In tale contesto appare vitale riscoprire il nesso tra la Parola di Dio e la liturgia che ha il punto culminante nella celebrazione della Santa Messa. Al riguardo, è indicativo che nell’Instrumentum laboris siano spesso riportate le Incidenze pastorali, suggerite dai Vescovi, Pastori del gregge che è stato affidato alle loro cure. Per far vedere quanto bisogna fare in tale campo, è sufficiente ricordare che la Bibbia è tradotta in 2.454 lingue, mentre nel mondo vi sono fino a 6.700 lingue, di cui 3.000 sono considerate come principali. La Bibbia è il libro più tradotto e diffuso nel mondo ma, purtroppo, non è molto letto. Secondo le recenti indagini del Gfk-Eurisko, solamente il 38 % degli italiani praticanti avrebbe letto un brano biblico negli ultimi 12 mesi. La percentuale scende al 27 % se si prende in considerazione la popolazione italiana adulta. La maggioranza dell’oltre 50 % considera la Sacra Scrittura difficile da intendere, in Italia e in altri Paesi consultati. Ovviamente, la gente ha bisogno di essere introdotta e guidata ad una intelligenza ecclesiale della Bibbia.

Il Sinodo si propone di ripresentare l’unità tra il pane della Parola e dell’Eucaristia, tra la liturgia della Parola e dell’Eucaristia, che sono così unite tra di loro da formare un’unica mensa del Pane di vita (cf. DV 21). Il motivo liturgico appare essenziale, sorgente della vita cristiana orientata alla carità e alla missione. Infatti, la Parola di Dio è all’origine di una chiamata. Indirizzata a molti, per la grazia dello Spirito Santo, essa crea comunione, ispira iniziative di carità operosa in favore dei poveri e dei bisognosi di beni materiali e spirituali e, per il suo proprio dinamismo, apre i cuori alla missione affinché ciò che il cristiano ha ricevuto gratuitamente lo condivida con gli altri. Pertanto, la prossima Assemblea sinodale avrà due importanti punti di riferimento. Il primo è il precedente Sinodo sull’Eucaristia e il secondo è l’Anno Paolino che incomincerà il 29 giugno, 4 mesi prima della celebrazione sinodale. Il ricordo di San Paolo, Apostolo delle genti, non mancherà di suscitare un rinnovato slancio missionario della Chiesa a beneficio dell’umanità intera. Il centro di tale dinamismo rimane la celebrazione dell’Eucaristia domenicale, fonte e culmine della vita e della missione della Chiesa. Dopo la riflessione sulla liturgia dell’Eucaristia è logico approfondire la liturgia della Parola, parte integrante della Santa Messa, memoriale, sacrificio e convito delle nozze dell’Agnello immolato per la salvezza degli uomini. Del resto, l’Esortazione Apostolica Postsinodale Sacramentum Caritatis ha dedicato i Numeri 43-46 alla Liturgia della Parola. Tale tema sarà, dunque, ripreso e approfondito ulteriormente.

IV) Struttura dell’Instrumentum laboris

L’Instrumentum laboris è diviso in tre parti, riprendendo quasi letteralmente il tema dell’Assemblea sinodale: 1) Il Mistero di Dio che ci parla; 2) La Parola di Dio nella vita della Chiesa; 3) La Parola di Dio nella missione della Chiesa. Ovviamente, vi è una parte introduttiva, con indicazioni preliminari utili, e la conclusione in cui sono riportate le idee portanti del Documento.

1) La prima parte, Il Mistero di Do che ci parla, è divisa in tre capitoli. Nel primo si cerca di spiegare il contenuto del termine Parola di Dio che assume notevole ampiezza nella Rivelazione divina. Il Documento elenca 7 significati che sono diversi ma complementari. Pertanto, la Parola di Dio è come un canto armonioso a più voci. Tutte conducono a Gesù Cristo, Verbo incarnato, espressione piena e perfetta della Parola di Dio. Per la volontà di Dio Uno e Trino, la Parola di Dio è affidata alla Chiesa che pertanto diventa, in un certo modo, sacramento della Parola di Dio.

Il secondo capitolo è dedicato al tema dell’ispirazione e della verità della Sacra Scrittura, come pure del suo rapporto con la Parola di Dio. È lo Spirito Santo che ha ispirato gli autori sacri e che garantisce l’unità della Scrittura, composta da 73 libri, 46 dell’Antico e 27 del Nuovo Testamento. Lo Spirito Santo, però, richiede la collaborazione dell’uomo che è pure vero autore della Scrittura. Grazie allo Spirito Santo la Parola di Dio diventa realtà liturgica e profetica. Prima di essere Libro, la Sacra Scrittura è annuncio (kerygma), la testimonianza dello Spirito Santo sulla presenza di Cristo nella sua Chiesa.

La Bibbia stessa attesta la non coincidenza tra Scrittura e Parola di Dio che eccede il Libro e raggiunge l’uomo anche tramite la Chiesa, Tradizione vivente. La Sacra Scrittura è, però, attestazione della relazione tra Dio e l’uomo, la illumina e orienta in maniera certa. Si impone, dunque, la riflessione sul rapporto tra Tradizione, Scrittura e Magistero per una retta interpretazione ecclesiale della Sacra Scrittura.

Il terzo capitolo ribadisce l’atteggiamento che dovrebbe avere il credente di fronte alla Parola di Dio. Esso è caratterizzato dall’ascolto: a Dio che parla è dovuta l’obbedienza della fede e un abbandono libero di se stessi (cf. DV 5). Ciò accade a livello personale e comunitario, nella comunione della Chiesa. La Parola di Dio pertanto trasforma la vita di coloro che la ascoltano e cercano di metterla in pratica. L’esempio eccellente di tale attitudine è Maria, Madre di Gesù, Vergine dell’ascolto. Tra le figure di uditori della Parola di Dio che poi sono diventati grandi evangelizzatori, l’Instrumentum laboris ricorda per l’Antico Testamento: Abramo, Mosè, i profeti, e per il Nuovo Testamento: i santi Pietro e Paolo, gli altri apostoli, gli evangelisti.

2) La seconda parte, La Parola di Dio nella vita della Chiesa, è divisa in due capitoli. Il primo constata che la Parola di Dio vivifica la Chiesa che nasce e vive della Parola di Dio. Essa sostiene la Chiesa lungo il suo pellegrinaggio terrestre verso la patria celeste. Nella potenza dello Spirito Santo la Parola di Dio permea e anima tutta la vita della Chiesa.

Il secondo capitolo, poi, descrive la Parola di Dio nei molteplici servizi della Chiesa. Il Ministero della Parola, che si esprime in vari modi, ha come luogo privilegiato le celebrazioni liturgiche. Ciò vale in maniera del tutto particolare per l’Eucaristia ove accade l’unico incontro dei fedeli con Dio che continua a parlare alla sua Chiesa, radunata ogni domenica, giorno del Signore, e nelle feste di precetto. Occorre pertanto curare bene la liturgia della Parola, le letture, l’omelia, la preghiera dei fedeli, parti essenziali della Santa Messa. Anche nella celebrazione di altri Sacramenti dovrebbe essere più valorizzata la Parola di Dio. Il Documento, poi, ripresenta l’attualità della Lectio Divina a livello comunitario e personale. Si sottolinea l’importanza dello studio della teologia e, in particolare, dell’esegesi, secondo il senso della Chiesa e cioè interpretando la Scrittura nel contesto della viva Tradizione della Chiesa, valorizzando l’eredità dei Padri e restando in attento ascolto delle indicazioni del Magistero. In tale modo gli specialisti della Scrittura forniscono un prezioso aiuto ai pastori in contatto diretto con i fedeli. La riscoperta della Parola di Dio deve portare ad una sempre migliore diaconia, servizio della carità, che è nota essenziale della Chiesa voluta da Gesù Cristo.

3) La terza parte, La Parola di Dio nella missione della Chiesa, è articolata in tre capitoli. Nel primo si ribadisce la missione della Chiesa nel proclamare la Parola di Dio in vista della costruzione del Regno di Dio. Tale missione si compie tramite l’evangelizzazione e la catechesi. Il cuore di entrambe è la Parola di Dio.

Nel secondo capitolo si indica come realizzare la vocazione comune dei fedeli a ricevere e a donare la Parola Dio. Essa, infatti, deve essere a disposizione di tutti in ogni tempo. Ovviamente vi è diversità di compiti e di responsabilità in tale missione ecclesiale. Si precisa, in modo particolare, che ai Vescovi compete la responsabilità nell’istruire i fedeli sul retto uso della Sacra Scrittura. In tale importante compito essi sono coadiuvati dai presbiteri e dai diaconi. Le persone consacrate hanno un ruolo speciale nel proporre al Popolo di Dio la ricchezza della Bibbia. I fedeli laici, poi, sono chiamati a conoscere il tesoro della Scrittura e a far risplendere la novità del Vangelo nella loro vita di ogni giorno, in famiglia e in società.

Il terzo capitolo è dedicato ai rapporti ecumenici ed interreligiosi, senza dimenticare i nessi della Bibbia con coloro che si dichiarano lontani dalla Chiesa o addirittura non credenti. Si tratta del dialogo che di norma accompagna la missione.

La Sacra Scrittura è un importante vincolo di unità con gli altri cristiani, membri delle Chiese e comunità cristiane. Oltre il sacramento del battesimo, la venerazione delle Scritture unisce tutti coloro che credono in Dio Uno e Trino, Padre, Figlio e Spirito Santo, il cui mistero è rivelato anche nella Bibbia.

Un rapporto del tutto speciale unisce i cristiani con gli Ebrei, con i quali condividono buona parte delle Scritture, denominata dai cristiani Antico Testamento. Del resto, per comprendere in modo adeguato la persona stessa di Gesù Cristo, è necessario riconoscerlo come figlio del popolo Ebraico, in quanto Gesù è ebreo e lo è per sempre (cf. Istrumentum laboris [IL] 54).

Si fanno importanti considerazioni nei riguardi di fedeli appartenenti alle religioni tradizionali e a quelle che hanno le loro scritture sante (l’induismo, il buddismo, il giainismo, il taoismo) e, in modo particolare, all’islam. Anche se il cristianesimo è piuttosto la religione della persona di Gesù Cristo e non del Libro, il fatto che possiede la Sacra Scrittura rappresenta un punto importanti nel dialogo interreligioso.

Si mette, poi, in risalto l’importanza della Bibbia per la cultura di numerosi popoli, soprattutto del cosiddetto Occidente per cui tale Libro rappresenta il « grande codice », fondamento comune per la ricerca di un autentico umanesimo a cui, come afferma il Santo Padre Benedetto XVI, il cristianesimo ha da offrire « la più potente forza di rinnovamento e di elevazione, cioè l’Amore di Dio che si fa amore umano » (IL 58).

V) Contributo del Santo Padre Benedetto XVI

Alla fine di questa breve presentazione dell’Instrumentum laboris, è doveroso ricordare il grande contributo del Santo Padre Benedetto XVI, come risulta da numerose citazioni nel Documento. Vi sono varie ragioni per l’abbondante presenza del pensiero del Romano Pontefice. Egli è Vescovo di Roma, Capo del corpus episcoporum, ed è normale che i membri del medesimo collegio episcopale siano attenti ai sui pronunciamenti, caratterizzati dal carisma petrino. Egli è, poi, Presidente del Sinodo dei Vescovi e, dunque, segue da vicino le tappe della preparazione dell’Assemblea sinodale, fornendo preziose indicazioni, come in occasione degli incontri con il Consiglio Ordinario della Segreteria Generale del Sinodo dei Vescovi. Essendo l’intelligenza della Scrittura nella Chiesa di importanza vitale, il Santo Padre ne ha parlato numerose volte, arricchendo la riflessione teologica e spirituale su tale tema. L’argomento è stato, poi, oggetto di suoi numerosi studi, dal tuttora valido commento alla Costituzione dogmatica Dei Verbum, scritto da giovane teologo che aveva partecipato alle discussioni del Concilio Ecumenico Vaticano II, fino al libro Gesù di Nazaret, citato nell’Istrumentum laboris. Di altri interventi del Romano Pontefice sull’argomento, mi permetto di ricordare il discorso La Sacra Scrittura nella vita della Chiesa, pronunciato in occasione del 40° della promulgazione della Dei Vebrum, come pure l’Angelus del 6 novembre 2005, sullo stesso argomento (cf. IL 8).

Per concludere, mi riferisco a due significative affermazioni del Santo Padre Benedetto XVI. La prima ben descrive l’attitudine con cui i padri sinodali si apprestano ad approfondire il tema dell’Assemblea sinodale: « La Chiesa non trae la sua vita da se stessa, ma dal Vangelo ed è a partire dal Vangelo che essa non cessa di orientarsi nel suo pellegrinaggio ». Pertanto, occorre scrutare la Parola di Dio per sapere come rispondere alle sfide ecclesiali e sociali dell’uomo concreto, cittadino del complesso mondo contemporaneo.

La seconda frase contiene l’auspicio ad un autentico rinnovamento della Chiesa, fondato su una ermeneutica della continuità con la grande Tradizione ecclesiale: « La Chiesa deve sempre rinnovarsi e ringiovanire e la Parola di Dio, che non invecchia mai né mai si esaurisce, è mezzo privilegiato a tale scopo. È infatti la Parola di Dio che, per il tramite dello Spirito Santo, ci guida sempre di nuovo alla verità tutta intera (cf. Gv 16, 13) ». Pertanto, non sorprende che dalla frequentazione della Parola di Dio, in particolare tramite la Lectio divina, accompagnata dalla preghiera, il Santo Padre auspica per la Chiesa una « nuova primavera spirituale » (IL 12).

Affidandoci all’intercessione della Beata Vergine Maria e di tanti santi che hanno raggiunto l’ideale di vita eroica dell’amore verso Dio e verso il prossimo, nutrendosi della Parola di Dio, formuliamo voti che il proposito del Santo Padre possa realizzarsi anche tramite il Sinodo dei Vescovi per il bene della Chiesa e dell’umanità intera.

Publié dans:feste - Pasqua, meditazioni |on 1 avril, 2010 |Pas de commentaires »
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