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14 SETTEMBRE: LA FESTA DELL’ESALTAZIONE DELLA CROCE NELLA TRADIZIONE BIZANTINA – OGGI HA PORTATO L’ALTISSIMO COME GRAPPOLO PIENO DI VITA

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14 SETTEMBRE: LA FESTA DELL’ESALTAZIONE DELLA CROCE NELLA TRADIZIONE BIZANTINA

OGGI HA PORTATO L’ALTISSIMO COME GRAPPOLO PIENO DI VITA

DI MANUEL NIN

La festa dell’Esaltazione della Croce – Universale esaltazione della Croce preziosa e vivificante è il suo titolo nei libri liturgici di tradizione bizantina – ha un’origine gerosolimitana collegata alla dedicazione della basilica della Risurrezione, edificata sulla tomba del Signore nel 335, e anche alla celebrazione del ritrovamento della reliquia della Croce da parte dell’imperatrice Elena e del vescovo Macario, rappresentati nell’icona della festa. La Croce ha un posto rilevante nella liturgia bizantina:  viene commemorata tutti i mercoledì e venerdì dell’anno col canto di un tropario, la terza domenica di Quaresima, il 7 maggio e il 1° agosto, sempre presentata come luogo di vittoria di Cristo sulla morte, della vita sulla morte, luogo di morte della morte. La celebrazione del 14 settembre è preceduta da una prefesta il 13, che celebra appunto la dedicazione della basilica della Risurrezione, e si prolunga  con  un’ottava  fino  al giorno 21.
I testi dell’ufficiatura mettono ripetutamente in parallelo l’albero del paradiso e quello della Croce:  « Croce venerabilissima che le schiere angeliche circondano gioiose, oggi, nella tua esaltazione, per divino volere risollevi tutti coloro che, per l’inganno di quel frutto, erano stati scacciati ed erano precipitati nella morte »; « nel paradiso un tempo un albero mi ha spogliato, perché facendomene gustare il frutto, il nemico ha introdotto la morte; ma l’albero della Croce, che porta agli uomini l’abito della vita, è stato piantato sulla terra, e tutto il mondo si è riempito di ogni gioia »; « la Croce che ha portato l’Altissimo, quale grappolo pieno di vita, si mostra oggi elevata da terra:  per essa siamo stati tutti attratti a Dio, e la morte è stata del tutto inghiottita. O albero immacolato, per il quale gustiamo il cibo immortale dell’Eden, dando gloria a Cristo! ».
Uno dei tropari dell’ufficiatura vespertina, con delle immagini toccanti e profonde, riassume tutto il mistero della salvezza:  « Venite, genti tutte, adoriamo il legno benedetto per il quale si è realizzata l’eterna giustizia:  poiché colui che con l’albero ha ingannato il progenitore Adamo, viene adescato dalla Croce, e cade travolto in una funesta caduta. Col sangue di Dio viene lavato il veleno del serpente, ed è annullata la maledizione della giusta condanna per l’ingiusta condanna inflitta al giusto:  poiché con un albero bisognava risanare l’albero, e con la passione dell’impassibile distruggere nell’albero le passioni del condannato ». In un altro tropario, l’incarnazione di Cristo, Dio nella carne, è presentata come l’esca che nella Croce attira e vince il nemico:  « Per te è caduto colui che con un albero aveva ingannato, è stato adescato da Dio che nella carne in te è stato confitto, e che dona la pace alle anime nostre ».
Diversi testi fanno una lettura cristologica dei tanti passi dell’Antico Testamento che la tradizione patristica e liturgica ha letto e interpretato come prefigurazioni del mistero della Croce del Signore:  « Ciò che Mosè prefigurò un tempo nella sua persona, mettendo così in rotta Amalek e abbattendolo, ciò che Davide cantore ordinò di venerare come sgabello dei tuoi piedi, la tua Croce preziosa, o Cristo Dio »; « tracciando una croce, Mosè, col bastone verticale, divise il Mar Rosso per Israele che lo passò a piedi asciutti, poi lo riunì su se stesso volgendolo contro i carri del faraone, disegnando, orizzontalmente, l’arma invincibile »; « nelle viscere del mostro marino, Giona stendendo le palme a forma di croce, chiaramente prefigurava la salvifica passione:  perciò uscendo il terzo giorno, rappresentò la risurrezione del Cristo Dio crocifisso nella carne che con la sua risurrezione il terzo giorno ha illuminato il mondo ».
Alla fine del mattutino si svolge il rito dell’esaltazione e della venerazione della santa Croce. Il sacerdote prende dall’altare il vassoio che contiene la Croce preziosa collocata in mezzo a foglie di basilico – l’erba profumata che, secondo la tradizione, era l’unica a crescere sul Calvario e che attorniava la Croce quando fu ritrovata – e in processione lo porta tenendo il vassoio sulla sua testa fino alla porta centrale dell’iconostasi e in mezzo alla chiesa. Lì depone il vassoio su un tavolino, fa tre prostrazioni fino a terra e, prendendo in mano la Croce con le foglie di basilico, guardando a oriente, la innalza sopra il proprio capo, poi l’abbassa fino a terra e infine traccia il segno di croce, mentre i fedeli cantano per cento volte « Kyrie eleison ». Ripetendo questa grande benedizione verso i quattro punti cardinali e di nuovo verso oriente, il sacerdote invoca la misericordia e la benedizione del Signore sulla Chiesa e sul mondo intero. Al termine, il sacerdote innalza la Croce e con essa benedice il popolo che poi passa a venerarla e riceve delle foglie di basilico, per ricordare il buon profumo del Cristo risorto che tutti i cristiani sono chiamati a testimoniare nel mondo.

(©L’Osservatore Romano 14-15 settembre 2009)

J. RATZINGER. LA TRASFIGURAZIONE (DA GESÙ DI NAZARET)

http://kairosterzomillennio.blogspot.it/2012/02/omelie-sulla-trasfigurazione.html

J. RATZINGER. LA TRASFIGURAZIONE (DA GESÙ DI NAZARET)

In tutti e tre i sinottici la confessione di Pietro e il rac­conto della trasfigurazione di Gesù sono collegati tra loro da un’indicazione temporale. Matteo e Marco di­cono: «Sei giorni dopo, Gesù prese con sé Pietro, Gia­como e Giovanni» (Mt. 17,1; Mc. 9,2), Luca scrive: «Circa otto giorni dopo questi discorsi … » (Lc 9,28). Ciò significa innanzi tutto che i due avvenimenti in cui Pietro svolge sempre un ruolo preminente han­no a che fare l’uno con l’altro. In un primo momento potremmo dire: entrambe le volte si tratta della divi­nità di Gesù, il Figlio; ma entrambe le volte l’appari­zione della sua gloria è legata anche al tema della pas­sione. La divinità di Gesù va insieme alla croce; solo in questo legame riconosciamo Gesù in modo giusto. Giovanni ha espresso questo intimo intreccio di croce e gloria dicendo che la croce è l’«esaltazione» di Gesù e che la sua esaltazione non si compie se non sulla cro­ce. Ora dobbiamo tuttavia andare un po’ più a fondo circa questa singolare datazione. Esistono due inter­pretazioni differenti che però non devono escludersi a vicenda.
In particolare Jean-Marie Van Cangi e Michel Van Esbroeck hanno sviscerato il rapporto con il calenda­rio delle festività giudaiche. Essi richiamano l’atten­zione sul fatto che soltanto cinque giorni separano due grandi feste giudaiche nell’autunno: prima vi è lo Yom Kippur, la grande festa dell’espiazione; sei giorni dopo viene poi celebrata la festa delle Capanne (Sukkot) che dura una settimana. Ciò starebbe a significare che la confessione di Pietro ha avuto luogo durante il grande giorno dell’espiazione e che teologicamente andrebbe anche interpretata sullo sfondo di questa festa, l’unica occasione dell’anno in cui il sommo sacerdote pronun­cia solennemente il nome YHWH nel Santo dei Santi del tempio. In questo contesto la confessione di Pietro in Gesù Figlio del Dio vivente acquisirebbe un’ulte­riore dimensione di profondità. Jean Daniélou ricolle­ga invece l’indicazione della data fornita dagli evange­listi esclusivamente alla festa delle Capanne, che – co­me già detto – durava un’intera settimana. In sostanza, dunque, le indicazioni temporali di Matteo, Marco e Luca concorderebbero. I sei, rispettivamente circa ot­to giorni, si riferirebbero quindi alla settimana della festa delle Capanne; la trasfigurazione di Gesù avreb­be pertanto avuto luogo l’ultimo giorno di questa fe­sta, che ne costituiva insieme il culmine e la sintesi in­terna.
Le due interpretazioni sono accomunate dal fatto che la trasfigurazione di Gesù ha a che fare con la fe­sta delle Capanne. Vedremo che, in effetti, questa rela­zione si manifesta nel testo stesso e ci consente una comprensione più profonda dell’intero avvenimento. Oltre la peculiarità di questi racconti emerge un tratto fondamentale della vita di Gesù, delineato soprattutto da Giovanni, come abbiamo visto nel capitolo prece­dente: i grandi avvenimenti della vita di Gesù hanno un rapporto intrinseco con il calendario delle festività ebraiche; sono, per così dire, avvenimenti liturgici in cui la liturgia, con la sua commemorazione e la sua attesa, diventa realtà, diventa vita, che riconduce a sua volta alla liturgia e che da lì vorrebbe ridiventare vita.
Proprio nell’analisi delle relazioni tra la storia della trasfigurazione e la festa delle Capanne vedremo anco­ra una volta con chiarezza, che tutte le feste giudaiche hanno in sé tre dimensioni. Derivando da celebrazioni della religione naturale, parlano del Creatore e della creazione; si trasformano poi in ricordi dell’agire stori­co di Dio e infine, in base a ciò, in feste della speranza che vanno incontro al Signore che viene, nel quale giunge a compimento l’agire salvifico di Dio nella sto­ria e si risolve al tempo stesso nella riconciliazione di tutta la creazione. Vedremo come queste tre dimensio­ni delle feste si approfondiscano ulteriormente e acquistino un nuovo carattere mediante la loro realizza­zione nella vita e nella passione di Gesù. A questa interpretazione liturgica della data se ne con­trappone un’altra, sostenuta con insistenza soprattutto da Hartmut Gese, che non reputa sufficientemente fondata l’allusione alla festa delle Capanne e legge in­vece l’intero testo sullo sfondo di Esodo 24 – la salita di Mosè sul monte Sinai. In effetti, questo capitolo, in cui viene descritta la stipulazione dell’Alleanza di Dio con Israele, è una chiave interpretativa essenziale per l’evento della trasfigurazione. Vi si legge: «La Gloria del Signore venne a dimorare sul monte Sinai e la nube lo coprì per sei giorni. Al settimo giorno il Signore chiamò Mosè dalla nube» (Es 24,16). Il fatto che qui­a differenza dei Vangeli – si parli del settimo giorno non deve smentire un legame tra Esodo 24 e l’evento della trasfigurazione; mi sembra tuttavia più convin­cente la datazione basata sul calendario delle festività giudaiche. Del resto, non vi è nulla di inconsueto nel fatto che diversi collegamenti tipologici confluiscano negli avvenimenti del cammino di Gesù, dimostrando così che Mosè e i Profeti parlano tutti di Gesù.
Veniamo ora al testo stesso della trasfigurazione. Vi si dice che Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovan­ni e li portò sopra un monte alto, loro soli (cfr. Mc 9,2). Ritroveremo questi tre discepoli sul monte degli Ulivi (cfr. Mc 14,33) nell’estrema angoscia di Gesù come immagine di contrasto con la trasfigurazione, sebbene i due episodi siano inscindibilmente legati tra loro. Qui non si può non vedere il riferimento a Esodo 24, dove Mosè porta con sé nella sua salita Aronne, Nadab e Abiu – ma anche settanta anziani d’Israele.
Come già nel Discorso della montagna e nelle notti trascorse in preghiera da Gesù, incontriamo di nuovo il monte come luogo della particolare vicinanza di Dio; di nuovo dobbiamo pensare ai vari monti della vita di Gesù come a un tutt’uno: il monte della tentazione, il monte della sua grande predicazione, il monte della preghiera, il monte della trasfigurazione, il monte dell’angoscia, il monte della croce e infine il monte dell’a­scensione; su di esso il Signore – in contrasto con l’of­ferta del dominio sul mondo in virtù del potere del de­monio – dichiara: «Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra» (Mt 28,18). Sullo sfondo si stagliano però anche il Sinai, l’Oreb, il Moria – i monti della rivela­zione dell’Antico Testamento, che sono tutti al tempo stesso monti della passione e monti della rivelazione e, dal canto loro, rimandano, anche al monte del tempio su cui la rivelazione diventa liturgica.
Nella ricerca di un’interpretazione, senza dubbio si profila dapprima sullo sfondo il simbolismo generale del monte: il monte come luogo della salita – non solo della salita esteriore, ma anche dell’ascesa interiore; il monte come un liberarsi dal peso della vita quotidia­na, come un respirare nell’ aria pura della creazione; il monte che offre il panorama dell’ampiezza della crea­zione e della sua bellezza; il monte che mi dà elevatez­za interiore e mi permette di intuire il Creatore. La storia aggiunge a queste considerazioni l’esperienza del Dio che parla e l’esperienza della passione, che culmina nel sacrificio di Isacco, nel sacrificio dell’a­gnello, prefigurazione dell’Agnello definitivo, sacrifi­cato sul monte Calvario. Mosè ed Elia avevano potuto ricevere la rivelazione di Dio sul monte; ora sono a colloquio con Colui che è la rivelazione di Dio in per­sona.
«Si trasfigurò davanti a loro» dice semplicemente Marco e, con un po’ di goffaggine, quasi balbettando dinanzi al mistero aggiunge: «Le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaia sulla terra potrebbe renderle così bianche» (9,2s). Matteo dispo­ne già di parole più impegnative: «Il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce» (17,2). Luca è l’unico ad aver indicato già in precedenza lo scopo della salita: «Salì sul monte a pregare», e da lì spiega poi l’avvenimento di cui i tre discepoli diventano testimoni: «E, mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne can­dida e sfolgorante» (9,29). La trasfigurazione è un av­venimento di preghiera; diventa visibile ciò che acca­de nel dialogo di Gesù con il Padre: l’intima compe­netrazione del suo essere con Dio, che diventa pura luce. Nel suo essere uno con il Padre, Gesù stesso è Luce da Luce. Ciò che Egli è nel suo intimo e ciò che Pietro aveva cercato di dire nella sua confessione – si rende percepibile in questo momento anche ai sensi: l’essere di Gesù nella luce di Dio, il suo proprio esse­re luce come Figlio.
Qui diventano visibili il riferimento alla figura di Mosè e la differenza: «Quando Mosè scese dal monte Sinai [ ... ] non sapeva che la pelle del suo viso era di­ventata raggiante, poiché aveva conversato con il Si­gnore»(Es 34,29). Attraverso la conversazione con Dio, la luce di Dio si irradia su di lui e lo rende a sua volta raggiante. Tuttavia, si tratta, per cosi dire, di un raggio che lo raggiunge dall’esterno, e ora fa risplen­dere anche lui. Gesù, invece, risplende dall’interno, non riceve solo luce, ma è Egli stesso Luce da Luce.
L’abito di Gesù, bianco come la luce durante la trasfi­gurazione, parla tuttavia anche del nostro futuro. Nella letteratura apocalittica le vesti bianche sono espressione della creatura celeste – le vesti degli angeli e degli eletti. così, l’Apocalisse di Giovanni parla delle vesti candide che verranno indossate dai salvati (cfr. soprattutto 7,9.13; 19,14), Essa, però, ci dice anche qualcosa di nuo­vo: le vesti degli eletti sono candide perché essi le hanno lavate nel sangue dell’ Agnello (cfr. Ap 7,14) – vuol dire: perché mediante il battesimo sono stati uniti alla passio­ne di Gesù e la sua passione è la purificazione che ci re­stituisce la veste originaria, perduta nel peccato (cfr. Le 15,22!). Mediante il battesimo siamo con Gesù rivestiti di luce e siamo diventati noi stessi luce.
Ora appaiono Mosè ed Elia e parlano con Gesù. Ciò che il Risorto spiegherà ai discepoli sulla via di Em­maus è qui un’apparizione visibile. La Legge e i Profe­ti parlano con Gesù, parlano di Gesù. Soltanto Luca ci riferisce – almeno in un breve accenno – di che cosa conversavano i due grandi testimoni di Dio con Gesù: «Apparsi nella loro gloria, parlavano della sua diparti­ta che avrebbe portato a compimento a Gerusalemme» (9,31). Il loro argomento di conversazione è la croce, intesa tuttavia in senso ampio come esodo di Gesù, che doveva aver luogo a Gerusalemme. La cro­ce di Gesù è esodo, un uscire da questa vita, un attraversare il «Mar Rosso» della passione e un passare nella gloria, nella quale tuttavia restano sempre impresse le stimmate.
In tal modo si chiarisce che il tema fondamentale della Legge e dei Profeti è la «speranza di Israele» ­l’esodo che libera definitivamente; che il contenuto di questa speranza è il sofferente Figlio dell’uomo e ser­vo di Dio che, soffrendo, apre la porta verso la libertà e la novità. Mosè ed Elia sono essi stessi figure e testi­moni della passione. Parlano con il Trasfigurato di ciò che hanno detto sulla terra, della passione di Gesù; ma, mentre ne parlano con il Trasfigurato, diventa pa­lese che questa passione porta salvezza; che è permea­ta dalla gloria di Dio, che la passione viene trasformata in luce, in libertà e gioia.
A questo punto dobbiamo anticipare la conversazione che i tre discepoli intrattengono con Gesù durante la discesa dal «monte alto». Gesù parla con loro della sua futura risurrezione dai morti che, appunto, include la croce come precedente passaggio. I discepoli, invece, pongono domande sul ritorno di Elia annunciato dagli scribi. Gesù dice loro: «Sì, prima viene Elia e ristabili­sce ogni cosa; ma come sta scritto del Figlio dell’uo­mo? Che deve soffrire molto ed essere disprezzato. Orbene, io vi dico che Elia è già venuto, ma hanno fat­to di lui quello che hanno voluto, come di lui sta scritto» (Me 9,9-13). Gesù conferma così, da una parte, l’attesa del ritorno di Elia, ma dall’altra completa e corregge al con tempo l’immagine che ci si era fatti di quell’evento. Identifica tacitamente l’Elia che ritorna con Giovanni Battista: nell’attività del Battista ha avu­to luogo un ritorno di Elia.
Giovanni era venuto per riunire Israele, per prepa­rarlo all’ avvento del Messia. Se però il Messia è Egli stesso il sofferente Figlio dell’uomo e solo così apre la via verso la salvezza, allora anche l’attività preparato­ria di Elia deve stare in qualche modo sotto il segno della passione. E infatti: «Hanno fatto di lui quello che hanno voluto, come di lui sta scritto» (Mc 9,13). Qui Gesù ricorda, da una parte, l’effettivo destino del Battista, ma dall’ altra, con il riferimento alla Scrittu­ra, allude forse anche a tradizioni esistenti, che predi­cevano il martirio di Elia: Elia veniva considerato «l’unico a essere sfuggito al martirio durante la perse­cuzione; al suo ritorno deve subire anch’egli la morte» (Pesch, Markusevangeliurn II, p. 80).
L’attesa della salvezza e la passione vengono pertan­to comunemente associate tra loro, sviluppando così un’immagine della redenzione che, in fondo, è confor­me alla Scrittura, ma che possiede una novità travol­gente rispetto alle aspettative esistenti: la Scrittura an­dava e va continuamente riletta con il Cristo sofferen­te. Sempre di nuovo dobbiamo lasciarci introdurre dal Signore nel suo dialogo con Mosè ed Elia, continua­mente dobbiamo imparare di nuovo a partire da Lui, il Risorto, a comprendere la Scrittura.
Torniamo al racconto stesso della trasfigurazione. I tre discepoli sono sconvolti dalla grandezza dell’ apparizio­ne: il «timore di Dio» li pervade, come abbiamo visto in altri momenti in cui avvertono la vicinanza di Dio in Ge­sù, intuiscono la propria miseria e sono quasi paralizzati dalla paura. «Erano stati presi dallo spavento» ci dice Marco (9,6). E tuttavia Pietro prende la parola, anche se nel suo stordimento, «non sapeva [ ... ] che cosa dire» (9,6): «Maestro, è bello per noi stare qui; facciamo tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia!» (9,5).
Di queste parole per così dire estatiche, pronunciate nel timore ma anche nella gioia della vicinanza di Dio, si è discusso molto. Hanno forse a che fare con la festa delle Capanne, nel cui ultimo giorno ebbe luogol’ap­parizione? Hartmut Gese contesta questa ipotesi e ri­tiene che il vero punto di riferimento nell’ Antico Testa­mento sia Esodo 33,7ss, dove viene descritta la «ritua­lizzazione dell’ episodio del Sinai» . Secondo questo te­sto, Mosè piantò «fuori dell’accampamento» la tenda della rivelazione, su cui scese poi la colonna di nube. Lì il Signore e Mosè parlarono «faccia a faccia, come un uomo parla con un altro» (33,11). Qui Pietro vorrebbe dunque dare continuità all’ evento della rivelazione ed erigere tende di rivelazione; il particolare della nube che ora avvolge i discepoli potrebbe confermarlo. Una reminiscenza di questo testo della Scrittura potrebbe senz’ altro essere presente; l’esegesi ebraica e paleocri­stiana conosce un intreccio in cui differenti riferimenti alla rivelazione confluiscono e si completano a vicenda. Il fatto che debbano essere costruite tre tende della ri­velazione è tuttavia in contrasto con un simile riferi­mento o almeno lo fa apparire secondario. Il rapporto con la festa delle Capanne diventa con­vincente se si considera l’interpretazione messianica di questa festa nel giudaismo all’epoca di Gesù. Jean Da­niélou ha approfondito questo aspetto in maniera con­vincente, collegandolo alla testimonianza dei Padri, in cui le tradizioni ebraiche erano senz’ altro ancora note e venivano reinterpretate nel contesto cristiano. La fe­sta delle Capanne presenta la medesima tridimensio­nalità caratteristica – come abbiamo già potuto vedere – delle grandi feste giudaiche in generale: una festa tratta originariamente dalla religione naturale diventa al tempo stesso una festa dei ricordi storici delle azioni salvifiche di Dio, e il ricordo diventa speranza di sal­vezza definitiva. Creazione – storia – speranza si colle­gano tra loro. Se durante la festa naturale delle Capan­ne con la sua offerta dell’ acqua si era implorata la pioggia necessaria in una terra arida, la festa diviene ben presto il ricordo della peregrinazione di Israele nel deserto, dove gli ebrei avevano vissuto nelle tende (ca­panne, sukkot) (cfr. Lv 23,43),Daniélou cita prima Riesenfeld: «Le capanne furono concepite non solo come ricordo della protezione divina nel deserto, ma [ciò che è importante] anche come una prefigurazione dei sukkot [divini] nei quali i giusti avrebbero abitato nel secolo a venire. Sembra, quindi, che con il rito più caratteristico della festa delle Capanne, così come que­sta era celebrata nei tempi del giudaismo, era collega­to un significato escatologico molto preciso» (p. 451). Nel Nuovo Testamento, ritroviamo in Luca il discorso delle eterne tende dei giusti nella vita futura (16,9). «L’epifania della gloria di Gesù» così Daniélou «è in­terpretata da Pietro come il segno che i tempi messianici sono arrivati. E uno dei caratteri dei tempi messia­nici era il soggiorno dei giusti nelle tende di cui quelle della festa delle Capanne erano figura» (p. 459). L’esperienza della trasfigurazione durante la festa delle Capanne permise a Pietro di riconoscere, nella sua estasi, «che le realtà prefigurate dai riti della festa era­no realizzate [ ... ]. La scena della trasfigurazione indica dunque che i tempi messianici sono venuti» (p. 459). Solo durante la discesa dal monte Pietro dovrà impa­rare ancora in modo nuovo a comprendere che l’epo­ca messianica è innanzitutto l’epoca della croce e che la trasfigurazione – il diventare luce in virtù del Signo­re e con Lui – comporta il nostro essere arsi dalla luce della passione.
A partire da questi collegamenti acquista nuovo si­gnificato anche la frase fondamentale del Prologo di Giovanni, dove l’evangelista riassume il mistero di Ge­sù: «E il Verbo si fece carne e venne ad abitare [lette­ralmente: pose la tenda] in mezzo a noi» (Cv 1,14). Sì, il Signore ha piantato la tenda del suo corpo in mezzo a noi, inaugurando così l’epoca messianica. Seguendo questa traccia, Gregorio di Nissa ha commentato il rapporto tra la festa delle Capanne e l’incarnazione in un testo magnifico, che parte dalla constatazione che la festa delle Capanne veniva sempre celebrata ma non era compiuta: «La vera festa della costruzione delle Capanne, infatti, non c’era ancora. Ma proprio per questo, conformemente alla parola profetica [allusio­ne al Salmo 118,27], Dio il Signore dell’universo si è rivelato a noi, per compiere la ricostruzione della ten­da distrutta della natura umana» (Gregorio di Nissa, De anima, PC 46, 132 B; cfr. Daniélou, pp. 464-466). Con negli occhi questa panoramica, torniamo ora al racconto della trasfigurazione. «Poi si formò una nube che li avvolse nell’ombra e uscì una voce dalla nube: « Questi è il Figlio mio prediletto: ascoltatelo! »» (Me 9,7). La nube sacra è il segno della presenza di Dio stesso, la Shekinah. La nube sopra la tenda della rive­lazione indicava la presenza di Dio. Gesù è la tenda sa­cra sopra la quale si trova la nube della presenza di Dio e dalla quale essa avvolge «nell’ombra» ora anche gli altri. Si ripete la scena del battesimo di Gesù, quan­do il Padre stesso dalla nube aveva indicato Gesù co­me Figlio: «Tu sei il Figlio mio prediletto, in te mi so­no compiaciuto» (Mc 1, 11).
A questa solenne proclamazione della dignità filiale si aggiunge però ora l’imperativo: «Ascoltatelo! ». Qui torna visibile la relazione con la salita di Mosè sul Si­nai, che all’inizio avevamo visto come sfondo della sto­ria della trasfigurazione. Sul monte, Mosè aveva ricevuto la Torah, la parola d’insegnamento di Dio. Ora, con riferimento a Gesù, ci viene detto: «Ascoltatelo! ». Hartmut Gese ha commentato questa scena con per­spicace correttezza: «Gesù è diventato la stessa Parola divina della rivelazione. I Vangeli non possono presen­tarlo in modo più chiaro e più possente: Gesù è la stes­sa Torah» (p. 81). L’apparizione è così terminata, il suo significato più profondo è riassunto in quest’unica parola. I discepoli devono ridiscendere con Gesù e im­parare sempre di nuovo: «Ascoltatelo!».
Se impariamo a interpretare così il contenuto del rac­conto della trasfigurazione – irruzione e inizio dell’epoca messianica – riusciamo anche a comprendere la parola oscura che Marco inserisce tra la confessione di Pietro e l’insegnamento ai discepoli, da una parte, e il racconto della trasfigurazione, dall’altra: «E diceva lo­ro: « In verità vi dico: vi sono alcuni qui presenti, che non morranno senza aver visto il regno di Dio venire con potenza »» (9,1). Che cosa significa? Gesù predice forse che alcuni degli astanti saranno ancora in vita al momento della sua Parusìa, dell’irruzione definitiva del regno di Dio? Oppure preannuncia qualcos’altro?
Rudolf Pesch (II 2, p. 66s) ha osservato in modo convincente che la collocazione di questa parola subi­to prima della trasfigurazione indica con molta chia­rezza il rimando a questo avvenimento. Ad alcuni ­che sono poi i tre accompagnatori di Gesù nella salita sul monte – viene promesso che faranno l’esperienza della venuta del regno di Dio «con potenza». Sul mon­te, i tre discepoli vedono splendere la gloria del regno di Dio in Gesù. Sul monte, la nube sacra di Dio li av­volge nell’ombra. Sul monte – nel dialogo di Gesù tra­sfigurato con la Legge e i Profeti – essi riconoscono che la vera festa delle Capanne è arrivata. Sul monte apprendono che Gesù stesso è la Torah vivente, l’inte­ra parola di Dio. Sul monte vedono la «potenza» (djnamis) del regno che viene in Cristo.
Tuttavia, proprio nello spaventoso incontro con la gloria di Dio in Gesù devono imparare ciò che Paolo dice ai discepoli di tutti i tempi nella Prima Lettera ai Corinzi: «Noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cri­sto potenza di Dio [dinamis] e sapienza di Dio»(1,23s). Questa «potenza» (dynamis) del regno futuro appare loro nel Gesù trasfigurato che parla con i testi­moni dell’ Antica Alleanza della «necessità» della sua passione come via verso la gloria (cfr. Lc 24,26s). Ve­dono così la Parusìa anticipata; vengono così iniziati pian piano all’intera profondità del mistero di Gesù.

J. Ratzinger-Benedetto XVI « Gesù di Nazaret, pg. 352-366

S. BEDA IL VENERABILE. SULLA TRASFIGURAZIONE – 6 AGOSTO

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S. BEDA IL VENERABILE. SULLA TRASFIGURAZIONE – 6 AGOSTO

Apparvero Mosè ed Elia nella loro maestà e parlavano della sua dipartita che si sarebbe realizzata a Gerusalemme. Perciò Mosè ed Elia che sul monte parlarono col Signore della sua passione e risurrezione significano le predizioni della Legge e dei profeti che si sono realizzate nel Signore, come ora è evidente a ogni persona dotta e ancora più evidente risulterà in futuro a tutti gli eletti. E giustamente Luca dice che quelli apparvero nella loro maestà, poiché allora si vedrà più apertamente con quanto decoro di verità siano stati proferiti i discorsi divini, non solo quanto al senso ma anche quanto alla forma. In Mosé ed Elia si possono anche comprendere tutti quelli che regneranno col Signore … Concorda anche il fatto che essi parlavano della dipartita di Gesù, che si sarebbe realizzata a Gerusalemme, perché unica materia di lode per i fedeli diventa la passione del Redentore, e quanto più essi tengono a mente che non si possono salvare senza la sua grazia, tanto più forte conservano sempre in petto la memoria di questa grazia e l’attestano con devota confessione.
Ma quanto più ciascuno di noi gusta la dolcezza della vita celeste, tanto più prova disgusto di tutto ciò che di terreno ci dilettava: perciò giustamente Pietro, vista la maestà del Signore e dei suoi santi, dimentica subito tutto ciò che di terreno aveva appreso, e gode di aderire per sempre alla sola realtà che vede, dicendo: Signore è bene che noi stiamo qui; se vuoi innalziamo qui tre tende, una per te, una per Mosè, e una per Elia.
Certo Pietro non sapeva quello che diceva quando nel mezzo della conversazione celeste pensò di fare delle tende. Infatti non sarà necessaria alcuna casa nella gloria della vita celeste, dove nella completa pace, nella luce della contemplazione celeste non resterà da temere alcuna avversità, come testimonia l’apostolo Giovanni che descrivendo lo splendore di questa città superna, dice tra l’altro: Non ho visto tempio in essa perché sono tempio il Signore onnipotente e l’Agnello (Ap 21, 22).
Ma Pietro ben sapeva che cosa diceva quando disse: Signore, è bene che noi stiamo qui, perché in realtà per l’uomo il solo bene è entrare nel gaudio del Signore e stargli vicino contemplandolo in eterno. Perciò a ragione riteniamo che non abbia goduto mai di un vero bene chi, a causa della sua colpa, non ha mai potuto contemplare il volto del suo Creatore. Che se Pietro, contemplata l’umanità glorificata di Cristo, è preso da tanta gioia da non voler più essere distolto da tale visione, quale beatitudine pensiamo, fratelli carissimi, che abbiano raggiunto coloro che hanno meritato di contemplare l’eccellenza della sua divinità? E se quello considerò sommo bene contemplarne l’aspetto trasfigurato sul monte insieme soltanto con Mosè ed Elia, quale parola può spiegare, quale concetto comprendere quale sarà la gioia dei giusti quando si avvicineranno al monte Sion, alla città del Dio vivente, Gerusalemme, e alla moltitudine degli angeli (cfr. Eb 12, 22), e quando contempleranno Dio, creatore di questa città non attraverso uno specchio, per enigma, ma a faccia a faccia (1 Cor 13, 12)? Di questa visione proprio Pietro parla ai fedeli a proposito del Signore: Nel quale ora credete pur non vedendolo; e quando lo vedrete esulterete di letizia inenarrabile e glorificata (1 Pt 1, 8)
Segue: Mentre egli ancora parlava ecco una nube lucente li adombrò, ed ecco dalla nube una voce che disse: « Questo è il Figlio mio diletto nel quale mi sono compiaciuto; ascoltatelo ». Poiché chiedevano di innalzare le tende, vengono ammoniti dalla copertura della nube splendente che non sono necessarie case nella dimora celeste, dove il Signore protegge tutto con l’ombra eterna della sua luce. Colui infatti che per quaranta anni stese una nube a loro protezione perché il sole o la luna non scottassero né di giorno né di notte il popolo che marciava nel deserto, quanto più protegge nei secoli col velo delle sue ali quelli che dimorano nelle tende del regno celeste? Sappiamo infatti, per insegnamento dell’apostolo che se la nostra casa in cui abitiamo sulla terra viene distrutta, noi abbiamo un altro edificio che è opera di Dio, una dimora eterna, che non è stata costruita dalla mano dell’uomo e che si trova in cielo.
Poiché desideravano contemplare il volto risplendente del Figlio dell’uomo, venne il Padre ad affermare con la sua voce che quello era il suo Figlio diletto nel quale si era compiaciuto, perché dalla gloria della sua umanità, che vedevano, imparassero a sospirare di contemplare la presenza della divinità, che è uguale a quella del Padre. Ciò poi che la voce del Padre dice del Figlio: Nel quale mi sono compiaciuto, lo attesta altrove anche il Figlio: Colui che mi ha mandato è con me e non mi lascerà solo, perché io faccio sempre quello che gli è gradito (Gv 8, 29). E aggiungendo ascoltatelo, il Padre ha manifestato che quello era proprio colui del quale Mosè parlava al popolo al quale aveva dato la legge: Il vostro Dio vi susciterà un profeta dai vostri fratelli, che ascolterete come me stesso, secondo tutto quanto vi avrà detto (Dt 18, 15). Non vieta infatti di ascoltare Mosè ed Elia, cioè la Legge e le profezie, ma fa capire a tutti costoro che si deve preferire l’ascolto del Figlio che è venuto ad adempiere la Legge e i Profeti, e comanda di anteporre la luce della verità del Vangelo a tutti i simboli e all’oscurità dell’Antico Testamento. Con provvidenziale disposizione viene rafforzata la fede dei discepoli perché non vacilli, a causa della crocifissione del Signore, perché nell’imminenza della croce si dimostra come la sua umanità sarebbe stata sublimata dalla luce celeste in virtù della risurrezione; e la voce del Padre attesta che il Figlio è per divinità coeterno a lui, perché al sopraggiungere dell’ora della passione quelli si dolessero meno della sua morte, ricordando che era sempre stato glorificato da Dio Padre nella divinità colui che, subito dopo la morte, sarebbe stato glorificato nell’umanità.
Ma i discepoli che, in quanto carnali, erano ancora di debole consistenza, udita la voce di Dio, per timore caddero faccia a terra. Il Signore perciò, autorevole maestro in tutto, li consola parlando loro e toccandoli li fa alzare.
(Dall’Omelia I, 24 passim)

PAPA PIO IX: LETTERA ENCICLICA MISERENTISSIMUS REDEMPTOR AL SACRATISSIMO CUORE DI GESÙ (5.8.1928)

http://www.vatican.va/holy_father/pius_xi/encyclicals/documents/hf_p-xi_enc_19280508_miserentissimus-redemptor_it.html

LETTERA ENCICLICA MISERENTISSIMUS REDEMPTOR
DEL SOMMO PONTEFICE PIO XI SULL’ATTO DI RIPARAZIONE
AL SACRATISSIMO CUORE DI GESÙ (5.8.1928)

Ai Reverendi Patriarchi,
Primati, Arcivescovi,
Vescovi e agli altri Ordinari locali
che hanno pace e comunione con l’Apostolica Sede.

Venerabili Fratelli, salute e Apostolica Benedizione.

Il misericordiosissimo nostro Redentore, dopo aver recato la salvezza al genere umano sul legno della Croce, prima di salire da questo mondo al Padre, per consolare i suoi mesti apostoli e discepoli, disse: « Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo » [1]. Queste parole, in verità assai gradite, sono motivo di ogni speranza e sicurezza. Esse Ci vengono facilmente alla memoria, Venerabili Fratelli, tutte le volte che — per così dire — da questa più alta specola guardiamo tutta l’umana famiglia afflitta da tanti gravi mali, e la Chiesa pure, tormentata senza tregua da assalti e da insidie. Infatti, tale divina promessa, come dapprima sollevò gli abbattuti animi degli Apostoli e, così animati, li accese fervidamente a spargere per la terra i semi della dottrina evangelica, così in seguito guidò alla vittoria la Chiesa contro le potenze dell’inferno. Sempre, certamente, il Signore Gesù Cristo assistette la sua Chiesa; ma con più valido aiuto e protezione specialmente quando fu travagliata da pericoli e sciagure più gravi, dando proprio quei rimedi che erano i più adatti alla condizione dei tempi e delle cose, con la sua divina Sapienza che « arriva da una estremità all’altra con potenza, e con soavità dispone tutte le cose » [2]. Ma neppure in tempi a noi più vicini « si è accorciata la mano del Signore » [3], specialmente quando qualche errore si introdusse, e abbastanza largamente si diffuse, così da doverne temere che si inaridissero in qualche modo le fonti della vita cristiana per gli uomini allontanatisi dall’amore di Dio e dalla sua consuetudine. E poiché alcuni del popolo forse ignorano, altri trascurano i lamenti che l’amantissimo Gesù fece a Maria Margherita Alacoque nelle sue apparizioni, come pure i desideri e le volontà che manifestò agli uomini, alla fine, per il loro proprio vantaggio, Ci piace, Venerabili Fratelli, trattener- Ci con Voi alquanto per parlare dell’obbligo che Ci impone di fare ammenda onorevole al Sacratissimo Cuor di Gesù, con questa intenzione: che ciascuno di Voi insegni con diligenza al proprio gregge quanto Noi vi avremo comunicato, e lo ecciti alla esecuzione di quanto stiamo per ordinare.
Tra tutti gli altri documenti della infinita bontà del nostro Redentore, questo specialmente risplende: raffreddandosi l’amore dei fedeli, la stessa divina carità fu proposta ad essere onorata con speciale culto, e così le ricchezze della sua bontà furono largamente svelate con quella forma di venerazione con cui onoriamo il Sacratissimo Cuore di Gesù « nel quale sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza » [4]. Infatti, come già al genere umano, che usciva dall’arca di Noè, la bontà di Dio volle che riducesse il segno della contratta amicizia, « l’arcobaleno che appare tra le nubi » [5], così negli agitatissimi tempi moderni, quando serpeggiava l’eresia più scaltra di tutte, quella eresia giansenista — nemica all’amore e alla pietà verso Dio — che predicava un Dio non tanto da amare come padre quanto da temere come giudice implacabile, il benignissimo Gesù mostrò ai popoli il suo Cuore Sacratissimo quale spiegato vessillo di pace e di carità, assicurando indubbia vittoria nella battaglia. Perciò, ben a ragione, il Nostro predecessore Leone XIII di felice memoria nella sua Enciclica « Annum sacrum », ammirando la grandissima opportunità del culto del Cuore Sacratissimo di Gesù, non esitò ad affermare: « Allorché la Chiesa, alle origini, era oppressa dal giogo dei Cesari, ad un giovane imperatore apparve, in alto, una croce, auspice ad un tempo e realizzatrice della splendida vittoria che subito dopo seguì. Ora vi è offerto davanti agli occhi un segno faustissimo e divinissimo, cioè il Sacratissimo Cuore di Gesù, che porta su di sé la croce e che splende tra fiamme di lucentissimo candore. In lui dobbiamo collocare ogni speranza: a lui va richiesta e da lui va attesa la salvezza ».
E ciò ben a ragione, Venerabili Fratelli, perché in quel felicissimo segno e nella forma che ne emana non sono forse contenute tutta la sostanza della religione e specialmente la norma di una vita più perfetta, come quella che guida per una via più facile le menti a conoscere intimamente Gesù Cristo e induce i cuori ad amarlo più ardentemente e più generosamente ad imitarlo? Nessuno dunque deve meravigliarsi che i Nostri predecessori abbiano sempre difeso questa ottima forma di culto dalle accuse dei denigratori e l’abbiano sommamente lodata e promossa con il massimo impegno secondo che i tempi e le condizioni richiedevano. Certo per divina ispirazione avvenne che il pio affetto dei fedeli verso il Sacratissimo Cuore di Gesù di giorno in giorno andasse sempre crescendo; quindi sorsero dappertutto pie associazioni per promuovere il culto del divin Cuore, e si diffuse l’usanza, che oggi dappertutto già vige, della sacra Comunione fatta il primo venerdì di ogni mese, secondo il desiderio di Gesù Cristo stesso.
È certo però che fra tutte le pratiche che spettano propriamente al culto del Sacratissimo Cuore, primeggia, degna da ricordare, la pia consacrazione con la quale offriamo al Cuore di Gesù noi e tutte le cose nostre, riconoscendole ricevute dalla eterna carità di Dio. E avendo il Salvator nostro manifestato alla innocentissima discepola del suo Cuore Margherita Maria, quanto Egli, mosso meno dal suo diritto che dalla immensa carità verso di noi, desiderasse che dagli uomini gli fosse reso questo tributo di devozione, la Santa prima di tutti lo offerse insieme con il suo Padre spirituale Claudio de la Colombière; seguirono poi, con l’andare del tempo, a tributarlo le singole persone, poi le famiglie private e le Associazioni, infine le stesse autorità, le città e i regni. Essendosi nel secolo scorso e in questo nostro, per le macchinazioni degli empi, giunti a tal punto da disprezzare l’impero di Cristo e da dichiarare pubblicamente guerra alla Chiesa con leggi e mozioni dei popoli contrarie al diritto divino e naturale, anzi con il grido di intere assemblee: «Non vogliamo che costui regni su di noi » [6], appunto per la detta consacrazione erompeva quasi, e faceva forte contrasto, la voce unanime dei devoti del Sacratissimo Cuore per rivendicarne la gloria e difenderne i diritti: « Bisogna che Cristo regni [7]: Venga il regno tuo ». Ne fu finalmente conseguenza felice che tutto il genere umano, che appartiene per diritto nativo a Cristo, nel quale solo tutte le cose sono riunite [8], all’inizio di questo secolo, dal Nostro predecessore Leone XIII di f.m., con il plauso di tutto l’orbe cristiano, fosse consacrato al suo Sacratissimo Cuore.
Questi così fausti e lieti inizi, come dicemmo nella Nostra Enciclica «Quas primas », Noi stessi, per somma bontà di Dio, portammo a pieno compimento, quando, secondo i moltissimi desideri e voti di Vescovi e fedeli, al termine dell’Anno giubilare istituimmo la festa di Cristo Re universale, da celebrarsi solennemente in tutto il mondo cristiano. E ciò facendo, non soltanto ponemmo in luce il sommo impero che Cristo tiene su tutte le cose, sulla società civile e domestica, sugli individui singoli, ma fin d’allora pregustammo insieme la gioia di quel giorno lietissimo, in cui il mondo intero si sottometterà di buon grado e volonteroso al dominio dolcissimo di Cristo Re. Perciò ordinammo allora contemporaneamente che, in occasione della festa istituita, si rinnovasse questa medesima consacrazione ogni anno, per conseguire più certo e più copioso il frutto della consacrazione stessa, e stringere nel Cuore del Re dei re e del Sovrano dei sovrani i popoli tutti, con amore cristiano nella comunione di pace.
Se non che a tutti questi ossequi, e particolarmente alla tanto fruttuosa consacrazione, che mediante l’istituzione della festa di Cristo Re venne, a dir così, riconfermata, conviene che se ne aggiunga un altro di cui, Venerabili Fratelli, Ci è caro al presente intrattenervi alquanto più a lungo: l’atto cioè di espiazione o riparazione, come suol dirsi, da prestarsi al Cuore Sacratissimo di Gesù. Infatti, se nella consacrazione primeggia l’intento di ricambiare l’amore del Creatore con l’amore della creatura, ne segue naturalmente un altro, che dello stesso Amore increato, quando sia o per dimenticanza trascurato o per offesa amareggiato, si debbano risarcire gli oltraggi in qualsiasi modo recatigli; il qual dovere comunemente chiamiamo col nome di riparazione.
Se all’uno e all’altro dovere siamo obbligati per le stesse ragioni, al debito particolarmente della riparazione siamo tenuti da un più potente motivo di giustizia e di amore: di giustizia, per espiare l’offesa recata a Dio con le nostre colpe e ristabilire, con la penitenza, l’ordine violato; di amore, per patire insieme con Cristo paziente e « saturato di obbrobri » e recargli, secondo la nostra pochezza, qualche conforto. Infatti, essendo noi tutti peccatori e gravati da molte colpe, dobbiamo onorare il nostro Dio, non solo con il culto col quale adoriamo coi dovuti ossequi la somma sua Maestà, o mediante la preghiera riconosciamo il suo supremo dominio, o con i ringraziamenti lodiamo la sua generosità infinita; ma inoltre è necessario che diamo soddisfazione alla giusta vendetta di Dio, « per gli innumerevoli peccati e offese e negligenze » nostre. Dunque, alla consacrazione con la quale ci offriamo a Dio e diventiamo sacri a Lui, per quella santità e stabilità che sono proprie della consacrazione, come insegna l’Angelico [9], si deve aggiungere l’espiazione, con cui estinguere del tutto le colpe, a meno che la santità della somma giustizia rigetti la nostra proterva indegnità, e anziché gradire il nostro dono, lo rifiuti piuttosto come sgradito.
Questo dovere di espiazione incombe a tutto il genere umano poiché, secondo gli insegnamenti della fede cristiana, dopo la miseranda caduta di Adamo, esso, macchiato di colpa ereditaria, soggetto alle passioni e degradato nel modo più compassionevole, avrebbe meritato d’essere condannato alla eterna perdizione. Negano, sì, questa verità, i superbi sapienti del nostro secolo i quali, rinnovando la vecchia eresia di Pelagio, vantano una bontà congenita della umana natura, che per virtù sua si spinge a sempre maggiore perfezione. Ma queste false invenzioni della superbia umana sono condannate dall’Apostolo, il quale ci ammonisce che « eravamo per natura meritevoli d’ira »[10]. E in verità, già fin dal principio del mondo gli uomini riconobbero in qualche modo il debito di tale comune espiazione, mentre per un certo istinto naturale si diedero, anche con pubblici sacrifici, a placare la divinità.
Se non che nessuna potenza creata era bastevole all’espiazione delle colpe umane, se il figlio di Dio non avesse assunto la natura umana da redimere. E ciò lo stesso Salvatore degli uomini annunziò per bocca del Salmista: «Tu non hai voluto né vittime né oblazioni, ma mi hai formato un corpo; non hai gradito né olocausti né sacrifici espiatori. Allora io dissi: Ecco, io vengo » [11]. E in verità « egli prese le nostre infermità e portò i nostri dolori; per le nostre iniquità fu ferito »[12] e « i peccati nostri portò egli stesso nel proprio corpo sopra il legno …[13]… cancellando il chirografo del decreto scritto contro di noi, ed Egli, affiggendolo alla croce, lo tolse di mezzo …[14], affinché, morti al peccato, vivessimo per la giustizia » [15].
Sebbene la copiosa redenzione di Cristo, con sovrabbondanza « ci condonò tutti i peccati » [16], tuttavia, per quella mirabile disposizione della divina Sapienza secondo la quale nel nostro corpo si deve compiere quello che manca dei patimenti di Cristo a favore del corpo di Lui, che è la Chiesa [17], noi possiamo, anzi dobbiamo aggiungere alle lodi e soddisfazioni « che Cristo in nome dei peccatori tributò a Dio », anche le nostre lodi e soddisfazioni. Ma conviene sempre ricordare che tutto il valore espiatorio dipende unicamente dal cruento sacrificio di Cristo, il quale si rinnova, senza interruzione, sui nostri altari in modo incruento, poiché « una stessa è la Vittima, uno medesimo è ora l’oblatore mediante il ministero dei sacerdoti, quello stesso che si offrì sulla croce, mutata solamente la maniera dell’oblazione » [18]. Per tale motivo con questo augusto sacrificio Eucaristico si deve congiungere l’immolazione dei ministri e degli altri fedeli, affinché anche essi si offrano quali « vittime vive, sante, gradevoli a Dio » [19]. Anzi, San Cipriano non esita ad affermare « che il sacrificio del Signore non si compie con la dovuta santificazione se l’offerta e il sacrificio nostro non corrisponderanno alla passione » [20]. Perciò l’Apostolo ci ammonisce perché « portando nel nostro corpo la mortificazione di Gesù » [21] e sepolti e innestati con Cristo in somiglianza con la sua morte [22], non solo crocifiggiamo la nostra carne, i vizi e le passioni [23] « fuggendo la corruzione della concupiscenza che è nel mondo » [24], ma « la vita di Gesù si manifesti così nei corpi nostri » [25] e fatti partecipi del suo sacerdozio eterno possiamo offrire « doni e sacrifici per i peccati » [26]. Non sono, infatti, partecipi di questo arcano sacerdozio e dell’ufficio di offrire soddisfazioni e sacrifici quelli solamente di cui il Pontefice nostro Cristo Gesù si vale come di ministri per offrire a Dio un’oblazione monda in ogni luogo dall’oriente all’occidente [27], ma anche tutta la moltitudine dei cristiani, chiamata a ragione dal Principe degli Apostoli « Stirpe eletta, Sacerdozio regale » [28], deve offrire sacrificio per i peccati per sé e per tutto il genere umano [29], quasi non altrimenti che ogni sacerdote e pontefice «preso fra gli uomini è preposto a pro degli uomini in tutte quelle cose che riguardano Dio » [30].
Quando poi l’oblazione nostra e il nostro sacrificio avranno più perfettamente corrisposto al sacrificio del Signore, ossia noi avremo immolato l’amore proprio e le nostre passioni, e crocifisso la nostra carne con quella mistica crocifissione di cui parla l’Apostolo, tanto più copiosi frutti di propiziazione e di espiazione raccoglieremo per noi e per gli altri. Mirabile legame stringe infatti i fedeli tutti con Cristo, come quello che corre fra il capo e le altre membra del corpo, e similmente quella misteriosa comunione dei Santi, che professiamo per fede cattolica, onde gli individui e i popoli non solamente sono uniti fra loro, ma altresì con lo stesso « capo che è Cristo, dal quale tutto il corpo, ben compaginato e connesso mediante la collaborazione di ogni giuntura, secondo l’energia propria di ogni membro, riceve forza per crescere in modo da edificare se stesso nella carità » [31]. Questa fu la preghiera che lo stesso Cristo Gesù, mediatore tra Dio e gli uomini, vicino a morte rivolse al Padre: « Io in essi e tu in me, affinché siano consumati nell’unità » [32].
Pertanto, nella stessa maniera in cui la consacrazione professa e conferma l’unione con Cristo, così l’espiazione, purificando dalle colpe, incomincia l’unione stessa, e con la partecipazione dei patimenti di Cristo la perfeziona, e con l’oblazione dei sacrifici a favore dei fratelli la porta all’ultimo compimento. E tale appunto fu il disegno della misericordia di Gesù quando, acceso della fiamma dell’amore, volle svelare a noi il suo Cuore con i segni della sua passione, affinché noi, meditando da una parte la malizia infinita del peccato e ammirando dall’altra la infinita carità del Redentore, detestassimo più vivamente il peccato e più ardentemente ricambiassimo l’amore.
E in verità lo spirito di espiazione o di riparazione ebbe sempre le prime e principali parti nel culto con cui si onora il Cuore Sacratissimo di Gesù, ed è certo il più consono all’origine, alla natura, all’efficacia, alle pratiche proprie di questa particolare devozione, come è confermato dalla storia e dalla pratica, dalla sacra liturgia e dagli atti dei Sommi Pontefici. Infatti, nel manifestarsi a Margherita Maria, Cristo, mentre insisteva sull’immensità del proprio amore, al tempo stesso, in atteggiamento addolorato, si lamentò dei tanti e tanto gravi oltraggi a sé fatti dall’ingratitudine degli uomini, con queste parole, che dovrebbero sempre essere colpite nel cuore delle anime buone né mai cancellarsi dalla memoria: « Ecco — disse — quel Cuore che ha tanto amato gli uomini e li ha ricolmati di tutti i benefìci, ma in cambio del suo amore infinito, anziché trovare gratitudine, incontrò invece dimenticanza, indifferenza, oltraggi, e questi arrecatigli talora anche da anime a lui obbligate con il più stretto debito di speciale amore ». E appunto in riparazione di tali colpe Egli, tra molte altre raccomandazioni, fece queste specialmente come a sé graditissime: che i fedeli con tale intento di riparazione si accostassero alla sacra mensa — che si dice appunto « Comunione Riparatrice » — e per un’ora intera praticassero atti e preghiere di riparazione, il che con tutta verità si dice «Ora Santa »: devozioni, queste, che la Chiesa non solo ha approvato, ma ha pure arricchito di copiosi favori spirituali.
Ma come potrà dirsi che Cristo regni beato nel Cielo se può essere consolato da questi atti di riparazione? « Dà un’anima che ami e comprenderà quello che dico » [33], rispondiamo con le parole di Agostino, che fanno proprio al nostro proposito.
Ogni anima, infatti, veramente infiammata nell’amore di Dio, se con la considerazione si volge al tempo passato, meditando vede e contempla Gesù sofferente per l’uomo, afflitto, in mezzo ai più gravi dolori, « per noi uomini e per la nostra salute », dalla tristezza, dalle angosce e dagli obbrobri quasi oppresso, anzi « schiacciato dai nostri delitti » [34], e in atto di risanarci con i suoi lividi. Con tanta maggior verità le anime pie meditano queste cose, in quanto i peccati e i delitti degli uomini, in qualsiasi tempo commessi, furono la causa per la quale il Figlio di Dio fosse dato a morte, ed anche al presente cagionerebbero per sé a Cristo la morte, accompagnata dagli stessi dolori e dalle medesime angosce, giacché ogni peccato si considera rinnovare in qualche modo la passione del Signore: « Di nuovo in loro stessi crocifiggono il Figlio di Dio, e lo espongono al ludibrio» [35]. Che se a causa anche dei nostri peccati futuri, ma previsti, l’anima di Gesù divenne triste sino alla morte, non è a dubitare che qualche conforto non abbia anche fin da allora provato per la previsione della nostra riparazione, quando a « lui apparve l’Angelo dal cielo » [36] per consolare il suo cuore oppresso dalla tristezza e dalle angosce.
E così anche ora in modo mirabile ma vero, noi possiamo e dobbiamo consolare quel Cuore Sacratissimo che viene continuamente ferito dai peccati degli uomini ingrati, giacché — come si legge anche nella sacra liturgia — Cristo stesso si duole, per bocca del salmista, di essere abbandonato dai suoi amici: « Smacco e dolore mi spezzano il cuore; mi aspettavo compassione, ma non ce ne fu, qualche consolatore, e non l’ho trovato » [37].
Si aggiunga che la passione espiatrice di Cristo si rinnova e in certo qual modo continua nel suo corpo mistico, la Chiesa. Infatti, per servirci nuovamente delle parole di Sant’Agostino [38]: «Cristo patì tutto ciò che doveva patire; né al numero dei patimenti nulla più manca. Dunque i patimenti sono compiuti, ma nel capo; rimanevano tuttora le sofferenze di Cristo da compiersi nel corpo ». Ciò Gesù stesso dichiarò, quando a Saulo, « spirante ancora minacce e stragi contro i discepoli » [39], disse: « Io sono Gesù che tu perseguiti » [40], chiaramente significando che le persecuzioni mosse alla Chiesa, vanno a colpire gravemente lo stesso suo Capo divino. A buon diritto, dunque, Cristo sofferente ancora nel suo corpo mistico desidera averci compagni della sua espiazione; così richiede pure la nostra unione con lui; infatti, essendo noi « il corpo di Cristo e membra congiunte » [41], quanto soffre il capo, tanto devono con esso soffrire anche le membra [42].
Quanto poi sia urgente, specialmente in questo nostro secolo, la necessità della espiazione o riparazione, non può ignorarlo chiunque con gli occhi e con la mente, come dicemmo prima, consideri questo mondo « tutto sottoposto al maligno » [43]. Infatti, da ogni parte giunge a Noi il grido dei popoli, i cui re o governi veramente si sono sollevati e hanno congiurato insieme contro il Signore e contro la sua Chiesa [44]. Vedemmo in quelle nazioni calpestati i diritti divini ed umani, i templi distrutti dalle fondamenta, i religiosi e le sacre vergini cacciati dalle loro case, imprigionati, affamati, afflitti da obbrobriose sevizie; le schiere dei fanciulli e delle fanciulle strappate dal grembo della Madre Chiesa, spinte a negare e bestemmiare Cristo, e condotte ai peggiori delitti della lussuria; tutto il popolo cristiano minacciato, oppresso, in continuo pericolo di apostasia dalla Fede, o di morte anche la più atroce. Cose tanto dolorose sembrano, con tali sciagure preannunziare fin d’ora e anticipare « il principio dei dolori » che apporterà « l’uomo iniquo che s’innalza su tutto quello che è Dio e religione » [45].
E non è meno triste lo spettacolo, Venerabili Fratelli, che fra gli stessi fedeli, lavati col battesimo nel sangue dell’Agnello immacolato e arricchiti della grazia, anche si incontrino tanti, di ogni classe, che, ignoranti delle cose divine, avvelenati da false dottrine, vivono una vita viziosa, lontana dalla casa del Padre, senza la luce della vera fede, senza la gioia della speranza nella futura beatitudine, privi del beneficio e del conforto che deriva dall’ardore della carità, sicché davvero si può dire che siano immersi nelle tenebre, e nelle ombre di morte. Inoltre cresce tra i fedeli la noncuranza della disciplina ecclesiastica e dell’avita tradizione da cui è sorretta tutta la vita cristiana, è regolata la società domestica, è difesa la santità del matrimonio; l’educazione dei fanciulli è del tutto trascurata o guastata da troppo effeminate cure, e perfino tolta alla Chiesa la facoltà di educare cristianamente la gioventù; il pudore cristiano lacrimevolmente dimenticato nel modo di vivere e di vestire, delle donne soprattutto; una cupidigia insaziabile dei beni caduchi; un predominio sfrenato degli interessi civili; una ricerca bramosa di favore popolare; un disprezzo della legittima autorità e della parola di Dio, per cui è scossa la fede stessa o messa a grave repentaglio.
Ma al complesso di tanti mali si aggiungono l’ignavia e l’infingardaggine di coloro che, a somiglianza degli apostoli addormentati e fuggitivi, malfermi nella fede, abbandonano miseramente Cristo, oppresso dai dolori o assalito dai satelliti di Satana, e la perfidia di coloro che, seguendo l’esempio di Giuda traditore, o con sacrilega temerità si accostano alla Comunione o passano al campo nemico. E così corre alla mente, pur senza volerlo, il pensiero che già siano giunti i tempi profetizzati da Nostro Signore: « E poiché abbondò l’iniquità, si raffredderà la carità di molti » [46].
A tutte queste considerazioni quanti fedeli volgeranno piamente l’animo, accesi d’amore per Cristo sofferente, non potranno non espiare le proprie e le altrui colpe con maggiore impegno, risarcire l’onore di Cristo, promuovere l’eterna salvezza delle anime. E per certo possiamo adattare, in qualche maniera, anche per descrivere questa età nostra, le parole dell’Apostolo: «Dove abbondò il delitto, sovrabbondò la grazia » [47]. Infatti, cresciuta di molto la perversità degli uomini, meravigliosamente va pure aumentando, per favore dello Spirito Santo, il numero dei fedeli dell’uno e dell’altro sesso, che con animo più volonteroso si sforzano di dar soddisfazione al Divin Cuore per tante ingiurie recategli, ed anzi non temono di offrire se stessi a Cristo come vittime. Poiché se qualcuno va con amore fra sé ripensando a quanto sin qui abbiamo ricordato e, per così dire, se lo ha impresso nell’intimo del cuore, dovrà senza dubbio non solo aborrire ogni peccato come sommo male e fuggirlo, ma tutto offrirsi alla volontà di Dio e adoperarsi a risarcire l’onore leso della Divina Maestà con l’assidua preghiera, con l’uso di volontarie penitenze e con la paziente sofferenza di quelle prove che incontrerà; infine: con la vita tutta, condotta secondo questo spirito di riparazione.
Così nacquero anche molte famiglie religiose di uomini e donne che, giorno e notte, con ambito servizio, si propongono di far in qualche modo le veci dell’Angelo confortatore di Gesù nell’orto; così pure le pie associazioni, approvate dalla Santa Sede e arricchite di indulgenze, che con opportuni esercizi di pietà e di virtù si prefiggono lo scopo della riparazione; così, per non parlare di altre pie pratiche, l’uso frequente di solenni ammende, da parte non solo dei singoli fedeli, ma delle parrocchie, delle diocesi, delle città.
Pertanto, Venerabili Fratelli, come la pratica della consacrazione, cominciata da umili inizi, e poi largamente diffusasi, ebbe con la Nostra conferma lo splendore e la corona desiderata, così grandemente bramiamo che questa ammenda riparatrice, già da tempo santamente introdotta e propagata, abbia il più fermo suggello dalla Nostra autorità apostolica, e ne diventi universale e più solenne la pratica in mezzo al popolo cristiano. Perciò stabiliamo e ordiniamo che tutti gli anni nella festa del Sacratissimo Cuore di Gesù — la quale in questa occasione abbiamo voluto che si elevasse al grado di doppio di prima classe con l’ottava — in tutte le chiese del mondo si faccia con la stessa formula, secondo l’esemplare unito a questa Enciclica, una solenne ammenda al nostro amantissimo Redentore, per riparare con essa le nostre colpe e risarcire i violati diritti di Cristo Sommo Re e Signore amantissimo.
Da questa pratica, poi santamente rinnovata ed estesa a tutta la Chiesa, non è da dubitare, Venerabili Fratelli, che molti e segnalati beni Ci ripromettiamo, tanto per i singoli individui, quanto per la società religiosa, domestica e civile; avendo lo stesso Redentore nostro promesso a Margherita Maria « che avrebbe arricchito con l’abbondanza delle sue grazie coloro che avessero reso al Cuor Suo questo onore ». I peccatori certamente « volgendo lo sguardo a Colui che trafissero » [48], commossi al pianto di tutta la Chiesa, detestando le ingiurie recate al Sommo Re, « rientreranno in se stessi » [49] perché non avvenga che ostinandosi nei peccati alla vista di Colui che piagarono « venire sulle nubi del cielo » [50], piangano sé troppo tardi e inutilmente sopra di lui [51]. I giusti poi, diventeranno più giusti e più santi [52] e si consacreranno con rinnovato ardore al servizio del loro Re, che vedono tanto disprezzato e combattuto e così gravemente ingiuriato, soprattutto si accrescerà in essi lo zelo per la salvezza delle anime, al sentire quel gemito della Vittima Divina « A che pro il mio sangue? » [53] e riflettendo insieme al gaudio di questo Sacratissimo Cuore « per un peccatore che torna a penitenza » [54]. E questo innanzi tutto Noi principalmente speriamo e intensamente desideriamo che la giustizia di Dio, la quale per dieci giusti avrebbe perdonato a Sodoma, molto più voglia usare misericordia a tutta l’umana famiglia, al supplicarla e placarla che faranno i fedeli tutti, insieme con Cristo Mediatore e Capo. Sia propizia ai Nostri voti e a queste Nostre disposizioni la benignissima Madre di Dio, la quale, avendoci dato Gesù Riparatore, avendolo nutrito e presso la croce offerto vittima per noi, per la mirabile unione che ebbe con Lui e per grazia singolarissima, divenne anche lei, come piamente è detta, Riparatrice. Confidando nella sua intercessione presso Gesù, che essendo l’unico «Mediatore tra Dio e gli uomini » [55], volle associarsi la Madre Sua come avvocata dei peccatori, dispensiera e mediatrice di grazia, impartiamo di cuore, auspice dei divini favori e testimone della paterna Nostra benevolenza, a Voi, Venerabili Fratelli, e a tutto il gregge affidato alle vostre cure, l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, l’8 maggio 1928, anno settimo del Nostro Pontificato.

PIUS PP. XI
ATTO DI RIPARAZIONE AL SACRATISSIMO CUORE DI GESÙ
Gesù dolcissimo, il cui immenso amore per gli uomini viene con tanta ingratitudine ripagato di oblìo, di trascuratezza, di disprezzo, ecco che noi prostrati dinanzi ai tuoi altari intendiamo riparare con particolari attestazioni di onore una così indegna freddezza e le ingiurie con le quali da ogni parte viene ferito dagli uomini l’amantissimo tuo Cuore.
Ricordando però che noi pure altre volte ci macchiammo di tanta indegnità e provandone vivissimo dolore, imploriamo anzitutto per noi la tua misericordia, pronti a riparare con volontaria espiazione, non solo i peccati commessi da noi, ma anche quelli di coloro che errando lontano dalla via della salute, o ricusano di seguire Te come pastore e guida ostinandosi nella loro infedeltà, o calpestando le promesse del Battesimo hanno scosso il soavissimo giogo della tua legge.
E mentre intendiamo espiare tutto il cumulo di sì deplorevoli delitti, ci proponiamo di ripararli ciascuno in particolare: l’immodestia e le brutture della vita e dell’abbigliamento, le tante insidie tese dalla corruttela alle anime innocenti, la profanazione dei giorni festivi, le ingiurie esecrande scagliate contro Te e i tuoi Santi, gli insulti lanciati contro il tuo Vicario e l’ordine sacerdotale, le negligenze e gli orribili sacrilegi ond’è profanato lo stesso Sacramento dell’amore divino, e infine le colpe pubbliche delle nazioni che osteggiano i diritti e il magistero della Chiesa da Te fondata.
Oh! potessimo noi lavare col nostro sangue questi affronti! Intanto, come riparazione dell’onore divino conculcato, noi Ti presentiamo — accompagnandola con le espiazioni della Vergine Tua Madre, di tutti i Santi e delle anime pie — quella soddisfazione che Tu stesso un giorno offristi sulla croce al Padre e che ogni giorno rinnovi sugli altari: promettendo con tutto il cuore di voler riparare, per quanto sarà in noi e con l’aiuto della tua grazia, i peccati commessi da noi e dagli altri e l’indifferenza verso sì grande amore con la fermezza della fede, l’innocenza della vita, l’osservanza perfetta della legge evangelica specialmente della carità, e d’impedire inoltre con tutte le nostre forze le ingiurie contro di Te, e di attrarre quanti più potremo al tuo sèguito. Accogli, Te ne preghiamo, o benignissimo Gesù, per intercessione della Beata Vergine Maria Riparatrice, questo volontario ossequio di riparazione, e conservaci fedelissimi nella tua ubbidienza e nel tuo servizio fino alla morte col gran dono della perseveranza, mercé il quale possiamo tutti un giorno pervenire a quella patria, dove Tu col Padre e con lo Spirito Santo vivi e regni, Dio, per tutti i secoli dei secoli. Così sia.

 NOTE SUL SITO

OMELIA PER IL CORPUS DOMINI – T’ADORIAMO OSTIA DIVINA, T’ADORIAMO OSTIA D’AMORE

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/18659.html

OMELIA – PADRE ANTONIO RUNGI

T’ADORIAMO OSTIA DIVINA, T’ADORIAMO OSTIA D’AMORE

Celebriamo oggi la Solennità del Corpus Domini che per antica tradizione è la festa più importante e sentita della cristianità circa il culto eucaristico. Il centro della vita di ogni cristiano è la SS.Eucaristia, sia come celebrazione del memoria della pasqua del Signore, sia come partecipazione alla mensa eucaristica ed al banchetto del cielo che la SS.Eucaristia anticipa sacramentalmente.
Intorno a questa festa si sono sviluppate importanti manifestazioni di culto e di fede, che, soprattutto in alcune comunità conservano la loro freschezza, validità, incisività nella vita spirituale dei cristiani. Parliamo della Processione del Corpus Domini che in questa giornata si svolge in tutte le nostre comunità, ove la solennità la si festeggia di Domenica. Alla scuola della SS.Eucaristia si sono formati i santi che oggi vengono riproposti come modelli di vita per quanti sentono nel loro cuore l’urgenza di una vera comunione con il Signore e nel Signore con tutti i nostri fratelli nella fede e nell’umanità. I bellissimi canti religiosi e liturgici dedicati all’Eucaristia costituiscono per se stessi una catechesi ed una lezione di spiritualità eucaristica. Tutti i santi attratti dal grande mistero della fede, che racchiude in sé la presenza in corpo, sangue, anima e divinità di nostro Signore Gesù Cristo, hanno scritto ed hanno composto canti in onore di Gesù Sacramentato. Dai Padri della Chiesa, ai grandi teologi, ai santi di ieri e di oggi. Ascoltando loro e leggendo i testi composti da chi davvero è stato attratto dall’Amore Eucaristico noi possiamo capire il senso di questa odierna celebrazione. Il classico canto che conosciamo tutti quanti « T’adoriamo, ostia divina » ci invita a rinnovare la nostra lode a Dio, il nostro grazie verso colui che ha dato la vita per noi, Gesù Cristo Redentore. Rinnoveremo questa lode al Signore anche quest’anno con il partecipare prima di tutto alla liturgia eucaristica e poi alla solenne processione del Corpus Domini, che è la madre di tutte le processioni che si svolgono nelle nostre città e nei nostri quartieri, in quanto a camminare per le strade della nostra vita quotidiana è lo stesso Cristo nel santissimo sacramento dell’altare. Non è l’immagine della Madonna e neppure di santi, non sono le icone del Cristo, della Vergine Santa e dei Santi, ma è Gesù stesso che passa per le nostre strade a benedire, confortare e consolare, ma anche a chiedere un impegno di vita cristiana che parta proprio dal culto eucaristico e che si sviluppi in questo orizzonte.

Il testo della sequenza che leggeremo oggi nella liturgia della santa messa ci immette nei contenuti teologici della SS.Eucaristia. « Questa è la festa solenne nella quale celebriamo la prima sacra cena. È il banchetto del nuovo Re, nuova Pasqua, nuova legge; e l’antico è giunto a termine. Cede al nuovo il rito antico, la realtà disperde l’ombra: luce, non più tenebra. Cristo lascia in sua memoria ciò che ha fatto nella cena: noi lo rinnoviamo. Obbedienti al suo comando, consacriamo il pane e il vino, ostia di salvezza. È certezza a noi cristiani: si trasforma il pane in carne, si fa sangue il vino. Tu non vedi, non comprendi, ma la fede ti conferma, oltre la natura. È un segno ciò che appare: nasconde nel mistero realtà sublimi. Mangi carne, bevi sangue; ma rimane Cristo intero in ciascuna specie. Chi ne mangia non lo spezza, né separa, né divide: intatto lo riceve. Siano uno, siano mille, ugualmente lo ricevono: mai è consumato. Vanno i buoni, vanno gli empi; ma diversa ne è la sorte: vita o morte provoca. Vita ai buoni, morte agli empi: nella stessa comunione ben diverso è l’esito! Quando spezzi il sacramento non temere, ma ricorda: Cristo è tanto in ogni parte, quanto nell’intero. È diviso solo il segno non si tocca la sostanza; nulla è diminuito della sua persona ».
La liturgia della parola è chiaramente tutta improntata ai testi eucaristici, a partire dalla prima lettura tratta dal libro della Gènesi, nella quale si parla del sacrificio offerto al Signore dal sacerdote Melkisedek. Testo di chiaro riferimento al mistero dell’eucaristia, che è sacrificio di lode e di ringraziamento.
La seconda lettura, tratta dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi, ci presenta il momento dell’istituzione dell’eucaristia e la trasmissione orale di questo grande avvenimento alla vigilia della passione di Cristo che si celebra nel cenacolo, alla quale anche Giuda, il traditore, prende parte. Forte richiamo a quale tipo di approccio spirituale abbiamo noi con l’Eucaristia. Con la sensibilità di Giovanni o l’indifferenza di Giuda? A vedere come ci si accosta alla SS.Eucaristia in molte chiese e soprattutto a livello personale dovremmo pensare davvero che l’Euacristia sta diventando la grande sconosciuta nella vita dei cristiani, a partire dagli stessi bambini che hanno fatto la prima comunione e dopo le feste e festiccine si domenticano facilmente dell’eucaristia e l’abbandonano immediatamente. Come è triste sapere che tanti bambini e giovani una volta ricevuto il sacramento vi si accostano raramente o per niente. I frutti di un approccio più positivo all’Eucaristia difficilmente lo recuperiamo. Giustamente allora l’Apostolo Paolo rammenta ai cristiani di Corinto questo fatto speciale: l’istituzione dell’eucaristia e del sacerdozio cattolico in quell’ultima memorabile cena di Dio tra noi.

Ma è soprattutto il Vangelo a far convergere l’attenzione sul mistero dell’eucaristia con il presentarsi la moltiplicazione dei pani che, come si sa nel Vangelo dice chiaro riferimento al mistero eucaristico. Dal Vangelo secondo Luca, ascoltiamo, infatti, il racconto della moltiplicazione dei pani e dei pesci.

Chiudiamo questa nostra riflessione sul Corpus Domini con quanto diremo nel Prefazio dell’Eucaristia che ci introduce nel mistero della transustanziazione del pane e del vino nel corpo e sangue di Gesù. Chi mangia questo cibo e beve questa bevanda ha la vita eterna e non va incontro al giudizio di condanna. « Nell’ultima cena con i suoi Apostoli, egli volle perpetuare nei secoli il memoriale della sua passione e si offrì a te, Agnello senza macchia, lode perfetta e sacrificio a te gradito. In questo grande mistero tu nutri e santifichi i tuoi fedeli, perché una sola fede illumini e una sola carità riunisca l’umanità diffusa su tutta la terra. E noi ci accostiamo a questo sacro convito, perché l’effusione del tuo Spirito ci trasformi a immagine della tua gloria ».

Accostiamoci spesso a questo sacro convinto soprattutto di domenica, nei tempi forti dell’anno liturgico e in tutte le feste e ricorrenze. Saremo felici davvero e per l’eternità, in quanto ricevendo il corpo del Signore noi siamo intimamente legati a Lui e lo amiamo davvero più della nostra stessa vita.

2 GIUGNO 2013 – CORPUS DOMINI – LECTIO DIVINA: LC 9,11B-17

http://www.donbosco-torino.it/ita/Domenica/03-annoC/annoC/12-13/05-Ordinario/Omelie/09-Corpus-Domini-2013/09-Corpus-Domini-2013_C-JB.html

2 GIUGNO 2013  | 9A DOM. : CORPUS DOMINI – T. ORDINARIO C  |  PROPOSTA DI LECTIO DIVINA

LECTIO DIVINA: LC 9,11B-17

Durante il suo ministero pubblico Gesù è stato, spesso, ospite e commensale: ha condiviso la fame dell’uomo e la sua sete di stare insieme. Dando da mangiare alle folle che lo avevano ascoltato, ha moltiplicato il poco pane e ha saziato il bisogno di quanti hanno creduto in Lui. Prima di saziare la loro fame di pane, aveva colmato il loro bisogno di Dio; ha solo dato ascolto al bisogno di chi lo aveva ascoltato. Il miracolo è una conseguenza dell’ascolto della Parola. Ed è significativo che per operare il portento Gesù facesse ricorso all’aiuto, piccolo ma non insignificante, dei suoi discepoli; per aver messo a sua disposizione il poco che avevano, videro come Gesù riusciva a soddisfare una moltitudine.
I cristiani devono apprendere dai gesti che ripetono, se vogliono realizzare il mandato del loro Signore, poiché nell’Eucaristia dovranno ripetere il suo gesto di prendersi cura della fame degli uomini dividendo loro il pane di Dio che è Cristo Gesù; e nessuno, che si riconosce discepolo, ha poco da dare, poiché basterà che offra ciò che ha.

In quel tempo, 11 b Gesu parlava alla folla del regno di Dio e guariva coloro che ne avevano bisogno.
12 Giunti a sera, i dodici vennero a lui e gli dissero:
« Congeda la folla, perché vada nei villaggi e nelle fattorie dei dintorni a trovare cibo e alloggio, perché siamo allo scoperto ».
13 Rispose: « Date loro voi stessi da mangiare ».
Essi gli dissero:
« Noi non abbiamo altro che cinque pani e due pesci, a meno che non andiamo a comprare i viveri per tutta questa gente » [15 Poiché essi erano circa cinquemila uomini]
Gesù disse ai suoi discepoli: « Dite loro di mettersi in gruppi di cinquanta »
Lo fecero, e tutti si sistemarono.
16 Gesù prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò la benedizione su di loro, li spezzò e li diede ai discepoli perché li distribuissero alla gente. 17 Tutti mangiarono a sazietà, e raccolsero gli avanzi: dodici canestri.
 1. LEGGERE: capire quello che dice il testo facendo attenzione a come lo dice
Anche se il testo narra di un miracolo, il racconto è centrato su un dialogo tra Gesù e i suoi discepoli. Il miracolo avrà la folla come beneficiaria, ma questa non lo aveva chiesto: si era solo, innanzitutto, lasciata annunciare il Regno e si era fatta guarire da Gesù; poi sarà servita dai discepoli. Gesù soddisfa la fame solo di quanti hanno ascoltato il suo messaggio. E il pane che non era stato nemmeno desiderato, diventa puro dono, e in abbondanza.
Gesù mantiene l’iniziativa per tutto l’episodio, meno che all’inizio della conversazione con i suoi discepoli. Loro avrebbero voluto sbarazzarsi delle persone, una volta evangelizzate. E per una buona ragione: avevano cibo solo per loro. Avevano, sì, buoni sentimenti: avevano preso in considerazione la possibilità di acquistare per tante persone. Con quali soldi? Qui la loro obbedienza, più che la loro povertà, è il « supporto » del miracolo: più che mettere a disposizione quel poco che avevano, si sono messi loro a disposizione di Gesù e della folla. Senza questo cambiamento di atteggiamento non ci sarebbe stato alcun miracolo.
Il prodigio si accentua soltanto alla fine. Il cibo miracoloso è narrato come un pasto eucaristico. Per il narratore esiste un alimento che sazia veramente e non si può perdere: il pane benedetto da Gesù e distribuito dai suoi discepoli.
 2. MEDITARE: applicare alla vita quello che dice il testo!
Il mistero che oggi motiva la nostra festa è, senza dubbio, fondamentale per la nostra vita di fede. Come ogni mistero della fede, nasconde una straordinaria storia d’amore: Cristo Gesù non si limitò a dare la sua vita per noi, oltre ad aver vissuto in mezzo a noi; cercò, in più, il modo di rimanere, in sua assenza, in corpo e anima, a nostra disposizione. Solo un amore divino giunge ad essere così fantasioso! Solo la potenza di Dio può essere così onnipotente! Chi ci aveva amato tanto da dare la vita per noi, continua ad amarci tanto da rimanere a nostra disposizione; nel pane e nel vino eucaristico Cristo è a disposizione della nostra fame e del nostro bisogno.
Oggi, Corpus Domini, celebriamo e ringraziamo questa volontà di Gesù di fare l’impossibile – e questo è quello che ha fatto – riuscendo a diventare il nostro cibo normale, solo per esserci di aiuto e di sostegno nella vita quotidiana.
E’ proprio questo sforzo di Gesù per soddisfare il nostro bisogno ciò che vuole oggi ricordare il Vangelo; moltiplicando pani e pesci, Gesù ha saziato il bisogno assillante di una folla che era venuta ad ascoltarlo, con grande stupore dei suoi discepoli. La scena continua ad essere significativa per noi: le persone che hanno ricevuto il pane erano andate da Gesù solo per soddisfare la loro fame di Dio; ascoltandolo parlare del Regno, avevano dimenticato la loro fame; e avevano ritardato di andare a mangiare, per sentire Gesù più a lungo. Coloro che lo accompagnavano lo fecero capire: né Gesù né la folla lo avevano notato; entrambi erano impegnati per Dio e per il suo regno. Gesù non ha seguito il consiglio dei suoi discepoli che lo spingevano a liberarsi da una folla senza alloggio e senza cibo; i discepoli, consapevoli della loro povertà, non sapevano cosa fare con così tante persone all’aperto con due pesci e cinque pani; non sapevano ancora che avere Gesù significa contare sui miracoli che si verificano solo per chi ama al di là di ogni immaginazione.
In questo caso, nel comportamento dei suoi protagonisti siamo coinvolti tutti. Rivediamo brevemente con quale di loro ci identifichiamo di più e capiremo cosa ci manca ancora perché la nostra pratica eucaristica finalmente sazi il nostro bisogno di Dio e il nostro bisogno di vita. Le persone erano andate per ascoltare Gesù e alcune più bisognose, a chiedere la guarigione; rimaste ad ascoltarlo parlare del Regno e vedendolo guarire i malati, hanno perso la cognizione del tempo e la sensazione della fame; sono stati i discepoli che, preoccupati dalla scarsità dei mezzi, hanno fatto prendere coscienza a Gesù della responsabilità che si sarebbero addossati. La folla, che si vide sorpresa per il miracolo, non aveva pensato a questo; con Gesù, che parlava loro di Dio e del suo regno, non poteva sentire il bisogno più vitale, la fame di pane; con Gesù, che curava quanti avevano bisogno di lui, non avevano bisogno di alloggio né di cibo.
Ma Gesù glielo ha dato: aveva fornito ciò che era più importante, Dio, ciò che era necessario, il suo regno; non li avrebbe lasciati soli, a cielo aperto, senza soddisfare almeno il loro bisogno di cibo. Per ottenere da Dio il miracolo minore, si deve avere il coraggio di desiderare da Lui il miracolo più grande: Gesù ha moltiplicato il pane per una folla che ha preferito restare affamata piuttosto che far a meno di Dio, che ha trascorso il suo tempo a farsi guarire dentro, prima di procurarsi il cibo. Non sappiamo ciò che ci stiamo perdendo, come stiamo perdendo tempo nel soddisfare i nostri piccoli bisogni, senza alimentare la nostra fame di Dio, il profondo e radicale bisogno di Lui e il sentirci curati e guariti da Lui. Chi è dedicato all’ascolto di Dio, come la folla, lasciando per dopo il proprio bisogno, si vedrà sorpreso dalla preoccupazione che avrà Dio di saziare la sua necessità. Occuparsi delle cose di Dio coinvolgerà Dio nelle nostre cose.
Le Eucaristie alle quali partecipiamo, non hanno l’effetto desiderato per noi, il miracolo che ci serve, perché siamo soliti mettere le nostre esigenze al di sopra della volontà di Dio; siamo tanto occupati per quello che ancora ci manca, che non facciamo altro che presentare a Dio le nostre carenze; e non gli lasciamo il tempo perché Lui si presenti come la risposta al nostro bisogno. Andare da Gesù, come la folla perché ci parli di Dio e ce lo renda vicino, è il modo più efficace per vedere saziato il nostro bisogno, senza averlo sentito e senza neanche averlo chiesto! Il pane moltiplicato, il proprio bisogno esaudito, lo ottiene gratis chi mette Dio e il suo regno prima della sua fame e della sua necessità; dimenticarlo ci sta condannando a non sperimentare oggi i grandi miracoli; mettendo la nostra fame, per quanto sia insopportabile, e queste nostre esigenze, per quanto insaziabili possano apparirci, al di sopra e davanti a Dio e del suo regno, veniamo privati del pane di Dio e della sua vita. Ritorniamo, come la folla, ad ascoltare Gesù e a stare attenti a ciò che ci insegna; e lui tornerà a sentire il nostro bisogno e a fare in modo di soddisfarlo. Un Dio tenuto in conto è un Dio attento.
Consideriamo logico il comportamento dei discepoli, allarmati per la situazione creata in un campo, alla fine della giornata, con risorse limitate e una folla che non aveva ancora mangiato. Non ci scandalizza la loro poca fede o il loro tentativo di sbarazzarsi di coloro che avevano bisogno del loro aiuto. Nel loro atteggiamento possiamo identificarci tutti noi discepoli di Gesù: la loro paura di dover intraprendere qualcosa con così poche risorse è una mancanza di fiducia nel Signore, in colui che avevano ascoltato allo stesso modo della folla. Loro pensavano di avere il sufficiente per se stessi e credevano di doversi liberare della necessità degli altri; la loro mancanza di generosità ha impedito loro di prevedere la generosità del loro maestro: non potevano aspettarsi un miracolo così grande, perché tanto grande era il loro egoismo così come la loro mancanza di cibo; siccome avevano pochi pani nella cesta, non poteva contenersi nel cuore il bisogno di una folla; sono diventati tirchi, perché si credevano poveri; ma più che poveri di beni, erano mancanti di fede. Come noi.
Moltiplicando le loro scorte, Gesù mostrò ai suoi discepoli che quelli che vivono con lui devono aprire la propria esistenza, per quanto povera, al bisogno degli altri; non si può vivere con Gesù e non struggersi dinanzi alla fame di tanta gente. Avevano visto come curava i malati e li guariva, come accostava gli emarginati e li restituiva alla società, come accoglieva i peccatori e li ridava a Dio; ma non avevano imparato la lezione; ancora pensavano che erano poco buoni per potersi dedicare a fare del bene agli altri, che avevano poche cose per far fronte a tanti bisogni: la loro poca fede non poteva moltiplicare i loro pochi beni. Pur potendo contare su Gesù, non aspettavano da lui alcun miracolo.
Serve poco, ed è solo un esempio, che i cristiani si comunichino con il Corpo di Cristo, che affoghino il loro bisogno di Dio nel ricevere il pane eucaristico, se diventano insensibili dinanzi al bisogno di pane che oggi hanno tanti uomini. Come i discepoli di Gesù, continuiamo a pensare che i nostri pani e i nostri pesci sono pochi per le nostre esigenze e così ci disinteressiamo di quanti, molti più numerosi di noi, non hanno altro che bisogno e una vita povera. Il discepolo di Gesù, sapendo che della sua fame, di Dio e di pane, se ne occupa già il suo Maestro, deve impegnarsi a soddisfare la fame degli altri. Solo così diventa efficace e affidabile la nostra ricezione del suo Corpo e della sua Vita: chi ha Dio per cibo, deve nutrire gli affamati. Dimenticarlo sarebbe disprezzare il corpo di Cristo che riceviamo. Né più né meno.

JUAN JOSE BARTOLOME sdb

Publié dans:feste, feste del Signore, LECTIO |on 31 mai, 2013 |Pas de commentaires »

SANTA MESSA DELL’ASCENSIONE DEL SIGNORE – PAPA PAOLO VI 1975

http://www.vatican.va/holy_father/paul_vi/homilies/1975/documents/hf_p-vi_hom_19750508_it.html

SANTA MESSA DELL’ASCENSIONE DEL SIGNORE

OMELIA DEL SANTO PADRE PAOLO VI

8 maggio 1975

Fratelli venerati e Figli carissimi,

Fedeli alla norma liturgica, noi sospendiamo per un breve momento il sacro rito, che stiamo celebrando, e cerchiamo di fissare la nostra attenzione sul mistero che oggi mette in festa la Chiesa: il mistero dell’Ascensione di nostro Signor Gesù Cristo al cielo, dove Egli siede nella gloria alla destra del Padre. Mistero dell’Ascensione! oh! veramente mistero! mistero per ciò che si riferisce a Cristo; mistero per il modo con cui a noi è dato ancora di pensare e di avere presente la sua divina ed umana figura, e mistero per il riflesso che questo estremo e supremo destino di Cristo ha su quello dell’umanità, sulla Chiesa da lui fondata, sulla terra e su ciascuna delle nostre esistenze.
Oh! veramente mistero, sia nel senso ontologico e teologico che questo avvenimento ultimo e conclusivo della vita di Gesù sulla terra ha nel disegno divino dell’Incarnazione e della Redenzione: quale nuova rivelazione ci è data dalla sua scomparsa dalla scena sensibile e storica di questo mondo! E sia nel senso fenomenico per cui Cristo è sottratto alla nostra terrena conversazione, e misteriosamente scompare dal nostro sguardo sensibile. Ricordiamo la brevissima, ma sorprendente narrazione del fatto, quale ci è data da San Luca nel primo capitolo degli «Atti degli Apostoli», della quale abbiamo testé ascoltata la laconica, ma scultorea lettura: dopo l’ultimo saluto agli Apostoli, con la profetica promessa della missione dello Spirito Santo e della diffusione del Vangelo fra i popoli, Gesù, «mentre essi guardavano, si levò in alto e una nuvola lo nascose ai loro occhi» (Act. 1, 8-9).
Primo aspetto dell’avvenimento, il solo sperimentale: Gesù si innalza, cioè si distacca dalla terra, e scompare, si nasconde: i nostri occhi bruceranno di insonne desiderio di rivederlo, di vederlo ancora; ma fino alla sua «parusia», cioè fino alla sua ultima e apocalittica apparizione, in un mondo totalmente diverso da quello nostro presente, non lo vedremo più! la generazione degli Apostoli scomparirà, senza che la tensione della loro attesa sia soddisfatta; così per le altre generazioni successive, così per la nostra presente generazione, che ancora vive del suo ricordo e ancora aspetta la sua trionfale e finale ricomparsa, Gesù rimane invisibile. Facciamo attenzione, Fratelli e Figli! Invisibile, ma non assente! Innanzi tutto: questo distacco escatologico, cioè ultimo e definitivo, di Gesù dalla umana conversazione è già di per sé una conferma della sua divinità, e un avallo del suo disegno salvifico nella storia universale dell’umanità. Gesù, nei discorsi della notte imminente alla sua passione e alla sua morte, dichiarò: «Io vi rivedrò e il vostro cuore esulterà, e nessuno potrà rapirvi la vostra gioia . . . Io sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo; di nuovo lascio il mondo e vado al Padre» (Io. 16, 22. 28); «è un bene per voi ch’io me ne vada, perché se non vado, il Paraclito (quale annuncio!) non verrà a voi» (Ibid. 7).
Noi siamo qui in un’atmosfera, che potremmo dire surreale. Ma questa rivelazione ci introduce finalmente nel disegno supercosmico dell’economia soprannaturale: «noi aspettiamo, scriverà l’Apostolo Pietro, nuovi cieli e nuova terra» (2 Petr. 3, 13). Solo che noi, diciamo noi moderni specialmente, educati alla conoscenza scientifica del mondo, e soddisfatti e fieri della sovrabbondante ricchezza delle nostre conquiste sperimentali e culturali, non siamo facilmente predisposti ad ammettere un ordine diverso da quello che costituisce il quadro della nostra presente esplorazione; e sebbene esso ci sveli, ad ogni indagine, una ordinatrice sapienza polivalente, anzi staremmo per dire, una libera fantasia creatrice divina in ogni suo aspetto, noi siamo forse assaliti dal dubbio circa la possibilità, circa la futura realtà d’un ordine soprannaturale, e facilmente mormoriamo col servo cattivo della parabola: «tarda ormai il mio padrone a venire . . . » (Matth. 24, 28); per concludere, circa la dottrina escatologica del Vangelo: sarà vera? non manca forse di prove razionali? Dimenticando così, come dicevamo, che Gesù, – ora invisibile, e tollerante che la vicenda della natura e del tempo proceda col suo inesorabile ritmo, mentr’e il dramma della libertà umana svolge il suo gioco, docile o temerario, – Gesù non è assente, anzi Egli è ancora con noi; sì, con noi, per chi è attento a cogliere nel segno, cioè nel sacramento della sua parola (Io. 8, 25) ovvero della sua immagine riflessa nell’umanità sofferente (Matth. 25, 40), oppure nella sua Chiesa vivente e testimoniante (Cfr. Lumen Gentium, 1; Act. 9, 4), e finalmente nella realtà sacramentale e sacrificale eucaristica la sua multiforme presenza. Come, del resto, Egli, all’ultimo congedo, aveva asserito: «Ecco, Io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo» (Matth. 28, 20).
Ma come, come vederlo, come riconoscerlo, come riascoltare la sua voce, come aprirgli il nostro cuore, se le vie naturali della nostra conversazione sono incapaci di superare l’abisso, che il mistero dell’Ascensione ha scavato fra Lui e noi? Lo sappiamo. Gesù si è nascosto, affinché noi lo cercassimo; e noi sappiamo qual è l’arte, qual è la virtù, che ci abilita a questa ricerca, anzi a questa scienza superrazionale della misteriosa presenza di Cristo fra noi. È la fede, che nel battesimo ci è infusa, e che ex auditu si determina (Cfr. S. THOMAE In IV Sent. 4, 2, 2, sol. 3), accogliendo cioè la parola di Cristo insegnata dalla Chiesa; la fede, che nel suo esercizio, come c’insegna S. Agostino, ha pure i suoi occhi, habet namque fides oculos suos (Cfr. S. AUGUSTINI Ep. 120: PL 33, 456; et En. in Ps. 146: PL 4, 1897); esercitata con amore e per amore alla divina verità, con gli «occhi del cuore», cresce nella sua certezza, approfondisce la sua visione, e diventa un’esigenza d’azione (Cfr. Gal. 3, 11).
Festa perciò della fede questa nostra dell’Ascensione; una fede che spalanca la finestra sull’oltretempo riguardo a Cristo risorto, lasciandoci intravedere qualche cosa della sua gloria immortale: e sull’oltretomba riguardo a noi morituri, ma destinati, alla fine dei nostri giorni nel tempo, alla sopravvivenza nella comunione dei Santi e alla risurrezione dell’ultimo giorno per l’eternità. La fede allora diventa speranza (Hebr. 11, 1); una speranza vittoriosa emana dal mistero dell’Ascensione, fonte ed esempio del nostro futuro destino, e che può e deve sorreggere il faticoso cammino del nostro pellegrinaggio terrestre. E la speranza, ci è assicurato, non delude: spes autem non confundit (Rom. 5, 5). Amen!

ANNUNCIAZIONE DEL SIGNORE -25 MARZO (2013: 8 aprile) – SULL’ESEMPIO DI MARIA – Enrico dal Covolo SDB

http://www.donbosco-torino.it/ita/Maria/feste/2000-2001/Sull’esempio%20di%20Maria.html

SULL’ESEMPIO DI MARIA

ANNUNCIAZIONE DEL SIGNORE  -25 MARZO (2013: 8 aprile)

Enrico dal Covolo SDB

Nei suoi primi inizi l’Incarnazione si è realizzata nel grembo di Maria, quando l’umile ancella del Signore ha formulato liberamente il suo assenso dinanzi al misterioso piano di Dio, che le veniva svelato.
Grazie a quel fiat di Maria, scrive san Leone Magno, “il Figlio di Dio fa il suo ingresso in mezzo alle miserie di questo mondo, scendendo dal suo trono celeste, ma senza lasciare la gloria del Padre. Entra in una condizione nuova. Nasce in un modo nuovo”. Proprio con quel fiat ha avuto inizio la nuova storia dell’umanità, di cui abbiamo celebrati i duemila anni.
Con il racconto dell’Annunciazione Luca illustra in maniera efficace l’intera storia della vocazione di Maria, utilizzando uno schema a cinque punti (che in verità ritorna di norma nelle storie bibliche di vocazione). I cinque punti sono i seguenti:
– la chiamata-elezione da parte di Dio;
– la risposta di Maria;
– la missione, che Dio stesso le affida;
– il turbamento di Maria;
– infine, la conferma rassicurante da parte di Dio.
Riflettendo su ognuno di questi momenti potremo avviare un utile confronto tra la storia della vocazione di Maria e la storia della nostra vocazione, così da renderci sempre più disponibili e generosi alla chiamata del Signore e conformare più decisamente a Cristo la nostra vita.
Scriveva nel XII secolo un monaco famoso, sant’Isacco, abate del Monastero della Stella: “Ciò che la Bibbia dice di Maria va riferito singolarmente a ogni anima credente”.
Non è dunque una presunzione confrontare la nostra storia di vocazione con quella di Maria: è invece una precisa esigenza della vita spirituale di ogni cristiano.
La chiamata-elezione da parte di Dio
“L’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea di nome Nazaret, da una vergine chiamata Maria”.
Ecco il primo tratto di questa splendida storia, la storia della vocazione di Maria: è la chiamata-elezione da parte di Dio.
È lui il vero protagonista del racconto. A ben guardare, anche la storia della vocazione di Maria, come ogni storia di vocazione, è anzitutto dono e mistero (per usare una suggestiva espressione del Papa, allorché, nel cinquantesimo della sua ordinazione sacerdotale, ha inteso rileggere con sguardo di fede la storia della propria vocazione).
È Dio che manda Gabriele, è Dio che riempie di grazia… Così l’umile ancella, vuota di sé, è piena di grazia, e in lei si compiono le “grandi cose” di Dio.
È una lezione per tutti noi. Solo alla luce della grazia, solo assicurando il primato di Dio nella nostra vita potremo capire noi stessi, e decifrare la storia della nostra vocazione. “Che io conosca te, che io conosca me”, implorava sant’Agostino nei Soliloqui, alla vigilia del suo Battesimo.

LA RISPOSTA DI MARIA
Davanti all’intervento gratuito di Dio, Maria conclude il proprio discernimento con una parola di totale disponibilità: “Eccomi, sono la serva del Signore. Dio faccia con me come tu hai detto”. Ha conosciuto Dio e ha riconosciuto se stessa, umile serva nella quale la grazia viene ad operare grandi cose.
Ecco il secondo tratto dei racconti biblici di vocazione: la risposta del chiamato.
Si tratta di una risposta che in Maria è totalmente positiva: vuota di sé, la vergine è piena di grazia. Ma la risposta del chiamato può essere anche negativa: si pensi al giovane ricco. Non ha voluto svuotarsi delle sue ricchezze, non ha lasciato spazio alla grazia, e se n’è andato via triste.
A ciascuno di noi, in ogni giorno della nostra vita, è data la possibilità di rispondere come Maria o come il giovane ricco.
E io, che cosa devo ancora lasciare, per seguire Gesù?

  LA MISSIONE
“Tu hai trovato grazia presso Dio”, prosegue l’Angelo. “Avrai un figlio, e gli darai nome Gesù”.
È questo il terzo tratto dei racconti biblici di vocazione: la missione. Maria è chiamata ad essere madre, madre di quel Figlio, e in lui di tutti gli uomini. Ma è una missione che essa scoprirà gradualmente nel corso della sua vita, fino ad afferrarne completamente il senso solo ai piedi della croce di Gesù.
Sta qui un insegnamento importante per la nostra vita: anche noi dilateremo gli spazi della missione e ne scopriremo i risvolti più fecondi, se ci disporremo – come Maria – a un pellegrinaggio di fede, che è insieme via della croce.
Solo se siamo disposti ad abbracciare ogni giorno la croce e a seguire Gesù, scopriremo in profondità la missione che ci è affidata.

IL TURBAMENTO DI MARIA
“Maria fu turbata da queste parole… «Come è possibile tutto questo?»”.
Siamo al quarto tratto dei racconti di vocazione: le resistenze, i turbamenti, le tentazioni del chiamato. Il fatto che perplessità e interrogativi ricorrano di norma nei racconti biblici di vocazione significa che il dubbio in se stesso non è deviazione colpevole, ma è una tappa di discernimento necessaria.
Il fatto è che Dio interpella una libertà, e una libertà responsabile. Tuttavia, il dubbio non deve restare la nostra ultima parola: il dubbio permanente finisce per tarpare le ali della fede e paralizza le possibilità di una risposta generosa al Signore.

LA CONFERMA DI DIO
“Non temere, Maria!”. Ed ecco finalmente l’ultimo atto della storia: la conferma rassicurante da parte di Dio.
Soltanto che, ordinariamente, questa conferma sulla storia di vocazione non la si può sperimentare in forma previa, come una garanzia, un’assicurazione preliminare, mentre ce ne stiamo a braccia incrociate a guardare.
La conferma di Dio la si esperimenta all’interno del cammino di un’esistenza donata a Gesù e agli altri.
Allora, in un’esistenza impostata così, non verranno a mancare i segni di Dio, e, volgendoci indietro a guardare, scopriremo che alla fine tutto è grazia.
“Non temere, Maria…”. Non temere, tu che ascolti la chiamata del Signore! Egli è con te.
La storia è finita… Ma è una storia che si propone a noi in ogni giorno della nostra vita.
Riferiremo alla nostra storia la storia di Maria: e se sapremo svuotarci di noi stessi e dei nostri egoismi, ci scopriremo anche noi “pieni di grazia”.

« L’UOMO NON NASCE DA SE STESSO, RICEVE LA VITA » – Omelia di monsignor Camisasca per la festa della Presentazione di Gesù al tempio

http://www.zenit.org/article-35454?l=italian

« L’UOMO NON NASCE DA SE STESSO, RICEVE LA VITA »

Omelia di monsignor Camisasca per la festa della Presentazione di Gesù al tempio

REGGIO EMILIA, Sunday, 3 February 2013 (Zenit.org).
Pubblichiamo di seguito il testo dell’omelia pronunciata ieri da monsignor Massimo Camisasca, vescovo della diocesi di Reggio Emilia–Guastalla, per la festa della Presentazione di Gesù al tempio.
***

Cari fratelli e sorelle,
la Chiesa ha significativamente legato questa giornata, memoria della presentazione di Gesù al Tempio, alla vita consacrata. Saluto e ringrazio innanzitutto mons. Gianfranco Ruffini, mio vicario per la vita consacrata e i monasteri e tutti voi religiosi e religiose, soprattutto coloro che durante quest’anno festeggiano un particolare anniversario della professione religiosa.
Vorrei guardare assieme a voi ciò che caratterizza la vostra vita e, nello stesso tempo, indicare a tutti ciò che è essenziale in ogni autentica vita cristiana.
La Tradizione ecclesiale ha visto nell’obbedienza, verginità e povertà le caratteristiche principali della persona di Gesù e di ogni uomo e donna chiamati a seguirlo.
Sono i consigli evangelici, così chiamati perché nascono da un invito di Gesù: se vuoi essere perfetto… (Mt 19,21). In realtà esprimono un ideale a cui tutti sono invitati, pur nella diversità delle forme in cui si esprime la risposta dell’uomo a Dio. Sono paragonabili ad un unico raggio di luce bianca che si rifrange in tre diversi colori.
Obbedienza, povertà e verginità ci parlano innanzitutto del rapporto che Gesù aveva col Padre, ma anche con gli uomini e con le cose. Rappresentano perciò l’itinerario compiuto della vita cristiana.
L’obbedienza
L’obbedienza è il fondamento e assieme il coronamento della vita nuova. L’uomo non nasce da se stesso, riceve la vita. E rimane in vita perché lo Spirito di Dio continuamente alimenta la sua persona. Vivere è, dunque, aderire a Colui che ci crea e ci rinnova. Il rapporto col padre e con la madre è per ogni uomo e donna il segno riassuntivo di tutto questo dinamismo di crescita verso la propria statura adulta, verso la propria maturità personale.
Ogni autorità, infatti, è soltanto una funzione vicaria, necessaria ma relativa a quell’autorità che non viene mai meno, anzi cresce di importanza col crescere della nostra figliolanza, l’autorità di Dio Padre.
Gesù ha fondato tutta la propria esistenza, la propria missione, nel rapporto col Padre. Io faccio ciò che piace a Lui (Cfr. Gv 8,29). Il dialogo, vissuto giorno e notte, col Padre era l’alimento della sua vita. Egli fu obbediente ai genitori, alla gente, alla legge mosaica, perfino alle leggi civili, per custodire l’obbedienza al Padre. Cercare la volontà del Padre, entrare in essa, era il suo pane quotidiano. Egli ha insegnato a noi a fare altrettanto. Anzi, ci ha mandato il suo Spirito che in noi grida “Padre”(cfr. Rom 8,15; Gal 4,6) perché lo conosce e lo sa riconoscere.
Nello stesso tempo, è anche vero che noi impariamo dalle autorità sulla terra a riconoscere ed amare l’autorità e la paternità di Colui che è nel cielo.
Per questo, grande è la responsabilità davanti a Dio e agli uomini di ogni autorità! I superiori possono facilitare o ostacolare il cammino dei loro fratelli verso la verità e il bene, possono svelare o offuscare il volto di Dio.
In una comunità ecclesiale, in particolare, il posto dell’autorità è proprio quello del Padre. Ogni autorità nella Chiesa deve saper coniugare accoglienza, ascolto, pazienza, capacità di perdono, con l’indicazione disinteressata della verità e del bene. Deve sapere quando comandare e quando consigliare, quando correggere apertamente e quando rimandare. Non deve lasciarsi guidare nel giudizio sulle persone da nessun interesse che non sia il bene dell’altro.
Così ha vissuto Gesù con i suoi apostoli. E noi possiamo partecipare dei raggi di questa luce. Egli ha insegnato agli apostoli la sua obbedienza chiamandoli a vivere con lui. Ascoltando le sue parole, guardandolo agire, aderendo a ciò che egli chiedeva loro, sono entrati, quasi senza accorgersi, in una vita nuova di cui lo Spirito ha rivelato loro, in modo definitivo, la realtà.
Obbedire, molto prima che eseguire un comando, significa per noi addentrarsi nell’esperienza della compagnia vocazionale, in cui ha iniziato a rivelarsi il disegno buono del Padre per noi.
Verginità e maturità affettiva
La verginità è l’altro volto dell’obbedienza. Potremmo dire che è l’obbedienza al Padre vissuta nel rapporto con gli uomini e con le donne. Essa è la modalità di rapporto che Gesù viveva con ogni persona.
La verginità non rappresenta la rinuncia ad amare. Chi segue Cristo, imitando anche la forma della sua esistenza, non vive una vita diminuita, meschina, arida. All’opposto, è raggiunto dalla promessa di Gesù di avere il centuplo sulla terra, assieme alle persecuzioni (cfr. Mc 10,30). Cento volte tanto in pienezza affettiva. Eppure Gesù non si è sposato, non ha avuto figli carnali. Come stanno insieme le due cose? Certamente egli non ha disprezzato il matrimonio: ha iniziato il suo ministero pubblico durante una festa di nozze, ha fatto dell’unione tra uomo e donna un sacramento, cioè un segno efficace della alleanza tra Dio e l’umanità. Ma ha scelto lui stesso e ha chiesto a chi lo seguiva stabilmente di non avere marito o moglie. Ha presentato sé come l’unum necessarium (Lc 10,42). Amare Cristo, seguirlo, può bastare al cuore dell’uomo: in Lui troviamo un amore che non ci chiude in noi stessi ma, al contrario, ci spalanca ad amare tanti uomini e donne con lo stesso amore disinteressato con cui Gesù ama le nostre persone. L’itinerario della verginità ci conduce alla pienezza della carità, a quei beni definitivi che resteranno quando tutto ciò che è provvisorio scomparirà.
Se la verginità non può essere frutto dei nostri sforzi o propositi, allo stesso modo esige, e quasi suscita, il cambiamento del nostro modo istintivo di possedere, segnato dalla nostra condizione di peccatori.
Gesù invita a guardare l’altro con occhio purificato (Cfr. Mt 6,22), come lo guarda Dio, nel rispetto della sua vocazione.
La verginità, prima ancora che nei rapporti con i fratelli, dev’essere vissuta con noi stessi, imparando a guardarci, corpo e anima, come ci guarda Dio. Anche i legami con i genitori, i parenti, gli amici, devono essere segnati da questa conversione.
La verginità è custodita nella preghiera, con cui chiediamo a Dio l’esperienza del suo amore. Dal silenzio, che ci aiuta ad uscire dalla distrazione. Da un uso oculato e vigilante delle fonti di immagini (libri, cinema, televisione, tecnologie…), che permetta una purificazione della memoria.
Ma soprattutto sarà l’esperienza stessa della verginità a renderla desiderabile e a far sentire come leggero ogni sacrificio che essa richiederà alla nostra umanità ferita.
Tutta la nostra vita può essere definita un cammino di purificazione, di conversione dell’amore, verso la maturità affettiva. Anche se tale itinerario non sarà mai interamente compiuto sulla terra, noi, già nel tempo, possiamo sperimentare il passaggio dall’ira alla pazienza, dalla superbia all’umiltà, dal rancore al perdono, dall’invidia alla gioia per i beni degli altri. Possiamo, soprattutto, per grazia di Dio, convertire il nostro desiderio di possedere l’altro e le cose strumentalizzandole a nostro piacere, nella gratuità che sa godere in modo puro della presenza della persona amata, che sa donarsi e sacrificarsi.
La povertà è la pienezza dell’umano
La povertà nasce dalla scoperta che io appartengo ad un Altro, a Dio. Tale coscienza è fonte di un’enorme positività: sono di un Altro perché sono stato voluto e amato da lui. Sono stato suscitato all’essere dal nulla.
Se io sono opera di un Altro, tutto mi è dato da lui. Nello stesso tempo tutto è mio perché in Gesù trovo ogni bene necessario alla vita, in misura sovrabbondante. Tutto mi è dato per conoscere il Padre e colui che egli ha mandato (Cfr. Gv 17,3).
Vedere e usare di ogni cosa per raggiungere il Padre: in questo sta il segreto affascinante della povertà. Essa non è propriamente una virtù negativa, ma un atteggiamento positivo.
Nei discorsi missionari riportati da Matteo e Luca nei loro vangeli, tutto ciò è molto chiaro. La vita è definita dalla missione ed essa necessita di uomini liberi. Gesù invita i suoi che stanno partendo a non avere due tuniche, due borse, a non rimanere troppo in una casa (cfr. Lc 9,3-5; Mt 10,9-14). Li invita cioè ad avere un rapporto leggero, libero con cose e persone. Nessun uomo e nessuna cosa è disprezzata, tutto è collocato in un disegno in cui ciascuno trova il suo giusto posto. È veramente l’inizio di quei cieli nuovi e terra nuova di cui parla san Pietro (2Pt 3,13). L’inizio di un mondo veramente umano.
La povertà è la virtù che nasce dalla resurrezione di Cristo. Tutto è vostro, ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio (cfr. 1Cor 3,21-23). Soltanto chi vive nella certezza di aver ricevuto tutto da Gesù è libero di fronte alle cose. Altrimenti cercherà la propria sicurezza in ciò che ha, stringendolo sempre più a sé. Come in un naufragio, invece di affidarsi alla leggerezza delle acque, si aggrappa agli altri trascinandoli verso il fondo.
Colui che vive la povertà è luminoso. Essa deve irraggiarsi nel nostro modo di vestire, di mangiare, di arredare la casa. Dalla nostra vita deve essere abolito ogni sfarzo e ogni sciatteria. Le nostre case mostrino a noi e a chi vi entra la bellezza della semplicità, la gioia di avere solo ciò che è necessario.
Cari fratelli e sorelle, è questo il mio augurio per tutti voi. Possa la vostra vita risplendere nel mondo come segno e testimonianza della presenza di Dio in mezzo a noi.
Amen

2 FEEBBRAIO: PRESENTAZIONE DEL SIGNORE AL TEMPIO

http://www.agosti.191.it/laparola/HTML%20PAROLE%20DI%20VITA/ANNO%20B/B05%20-%20FESTIVITA’%20DEL%20SIGNORE,%20DELLA%20B.V.%20MARIA%20E%20DEI%20SANTI/B02%20-%20PRESENTAZIONE%20DEL%20SIGNORE%20(2%20FEBBRAIO).htm

2 FEEBBRAIO: PRESENTAZIONE DEL SIGNORE AL TEMPIO

Paolo VI ha restituito a questa festività il significato liturgico di un tempo, quando tutta la Chiesa (specialmente nelle antiche liturgie orientali) ricordava che quaranta giorni dopo la nascita, il Signore Gesù si trova nel tempio con il Dio dei suoi padri, compiendo così la prima offerta rituale della sua vita terrena e incontrando, nello stesso tempo, il popolo dei credenti nelle persone di Simeone e Anna, unici testimoni della sua grande manifestazione. È sorprendente il contrasto fra il modesto comportamento dei genitori di Gesù, preoccupati di rispettare scrupolosamente la “Legge” riguardo ai primogeniti, e la densità teologica dell’evento percepito nella fede dai due anziani personaggi. La Liturgia di questa festività approfondisce questa intuizione di fede, ricordando come il mistero della redenzione ha liberato dal “male” tutta l’umanità; infatti, già nell’antifona d’inizio è affermato: “Abbiamo accolto, o Dio, la tua misericordia in mezzo al tuo tempio”.
Nella prima lettura il profeta Malachia annuncia un messaggero che prepara il “giorno del Signore” quando Dio ritornerà tra il suo popolo come giudice, per ristabilire l’autentica alleanza di un tempo. Nella seconda lettura, l’autore della lettera agli Ebrei afferma che è Gesù Cristo colui che rinnova l’alleanza salvando ogni credente con la sua “condizione umana”; questa “assunzione” d’umanità è il supremo atto della sua immensa misericordia. La pagina evangelica descrive Gesù come colui che Dio ha destinato alla salvezza dell’intera umanità; il “canto” di Simeone lo afferma chiaramente (I miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli, luce per illuminare le genti e gloria del tuo popolo Israele).

PRIMA LETTURA
Dal libro del profeta Malachia 3,1-4
-Così dice il Signore Dio: «Ecco, io manderò un mio messaggero a preparare la via davanti a me e subito entrerà nel suo tempio il Signore, che voi cercate; l’angelo dell’alleanza, che voi sospirate, ecco viene, dice il Signore degli eserciti. Chi sopporterà il giorno della sua venuta? Chi resisterà al suo apparire? Egli è come il fuoco del fonditore e come la lisciva dei lavandai. Siederà per fondere e purificare; purificherà i figli di Levi, li affinerà come oro e argento, perché possano offrire al Signore un’oblazione secondo giustizia. Allora l’offerta di Giuda e di Gerusalemme sarà gradita al Signore come nei giorni antichi, come negli anni lontani».
In questa parte del suo libro, il profeta Malachia, dopo aver rimproverato i sacerdoti del tempio per il loro formalismo nella celebrazione del culto, e l’incapacità di offrire un vero sacrificio a JHWH, annuncia l’imminente venuta del “giorno del Signore” che vedrà Dio stesso, come giudice, stabilire una nuova liturgia a lui gradita. Malachia riprende e precisa la profezia del ritorno del Signore nel suo tempio che avverrà come per un grande re, preceduto da messaggeri con il compito di redimere spiritualmente il popolo. Alcuni studiosi vedono in questi messaggeri di JHWH l’immagine del profeta Elia, atteso dal popolo eletto per preparare la venuta del Signore mediante la riconciliazione dei cuori; altri, invece scorgono Giovanni il Battista, la “voce proclamante” l’avvento del Signore che, come “angelo dell’alleanza”, stabilirà il nuovo patto promesso dal Profeta Geremia.
Per la Chiesa, il giorno del Signore è la venuta del Cristo che riconcilia gli uomini con il Padre. Non è facile, però, riconoscere il “giorno del Signore” e sentire il “suo essere” se il cuore non è “puro” e riconciliato con Dio; il peccato, infatti, allontana l’uomo dal suo creatore e causa la perdita della sua amicizia. Il “giudizio” del Signore è continuamente presente nell’animo umano, perché il “suo giorno” è una realizzazione spirituale interiore e perpetua che giudica incessantemente ogni comportamento. Tommaso d’Aquino, in una delle sue pagine più belle, afferma: “Mentre l’amore umano tende ad impossessarsi del bene che trova nel suo oggetto, l’amore divino crea il bene nella creatura amata”. Un concetto molto bello che può essere realizzato solo in un cuore completamente aperto e disponibile al Signore, che sappia seguire i nuovi Elia ed i nuovi Battista presenti nella Chiesa; essi sono coloro che come il Santo Padre, con moniti e richiami, cercano di preparare gli uomini all’incontro escatologico con il Signore, sono gli angeli inviati da Dio quale segno della sua sollecitudine per attirare ogni credente nel Regno preparato da sempre per la sua creatura più cara.

SALMO RESPONSORIALE
Dal Salmo 23
-Vieni, Signore, nel tuo tempio santo.
Sollevate, porte, i vostri frontali, alzatevi, porte antiche, ed entri il re della gloria.
Chi è questo re della gloria? Il Signore forte e potente, il Signore potente in battaglia.
Sollevate, porte, i vostri frontali, alzatevi, porte antiche, ed entri il re della gloria.
Chi è questo re della gloria? Il Signore degli eserciti è il re della gloria.
Questo bellissimo Salmo è una solenne epifania del Signore di tutto l’universo, il Dio degli eserciti celesti; esso è scandito come una marcia che accompagna la processione sacra verso Gerusalemme, la città Santa. Dopo aver celebrato la signoria suprema di JHWH sul creato, il corteo si arresta davanti al Tempio del Signore dove le porte sono invitate a spalancarsi, sollevando i loro frontoni e i loro archi per accogliere il Re della Gloria.
Il Salmo è, in ogni sua parte, una bellissima ode al Signore (probabilmente un ricordo della processione con l’Arca dell’alleanza) che, come ricorda Plinio il Giovane in una sua lettera a Traiano (103 d.C.) anticamente era recitata nella Liturgia cristiana dell’aurora. Padre David Maria Turoldo ispirandosi a questo Salmo ha scritto: “Pure se il velo del Tempio si è rotto alla sua morte e la Presenza ora si posa sopra un patibolo, anche se più non credete, o pellegrini, aiutateci a cantare ad altra gloria”.  

SECONDA LETTURA
Dalla lettera agli Ebrei 2,14-18
Poiché i figli hanno in comune il sangue e la carne, anche Gesù ne è divenuto partecipe, per ridurre all’impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo, e liberare così quelli che per timore della morte erano soggetti a schiavitù per tutta la vita. Egli infatti non si prende cura degli angeli, ma della stirpe di Abramo si prende cura. Perciò doveva rendersi in tutto simile ai fratelli, per diventare un sommo sacerdote misericordioso e fedele nelle cose che riguardano Dio, allo scopo di espiare i peccati del popolo. Infatti, proprio per essere stato messo alla prova ed avere sofferto personalmente, è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova.
L’autore della lettera agli Ebrei, dopo aver delineato la realtà della mediazione unica e perfetta di Cristo, in questa parte della sua epistola chiarisce le “modalità” e gli “effetti” di tale intervento divino. Gesù ha indicato la via della salvezza a tutta l’umanità, non con una semplice manifestazione di solidarietà, ma vivendo l’umana condizione al limite estremo delle sue possibilità (l’unica realtà umana non assunta da Cristo fu il peccato). La conseguenza di tale redenzione è stata la liberazione dalla “schiavitù” della morte, principale espressione del potere del male sull’uomo; la morte di Cristo ha donato a tutta l’umanità, per la prima volta nella storia, la possibilità di vivere in una perfetta adesione a Dio, che con vero amore e misericordia può, così, rimanere vicino al “suo popolo” nell’esperienza delle quotidiane debolezze.
Questo “suo popolo”, per il quale Cristo ha esercitato il sommo sacerdozio con la sua passione e la sua vittoria sulla morte, sono tutti coloro che credono nella sua “Parola” e la diffondono tra gli altri. Essi non sono più morti (nel peccato), perché Cristo è risorto; non sono più deboli, perché Cristo è forte; non sono più paurosi di fronte al nemico (il maligno), perché Cristo è il vincitore. Tuttavia non è possibile dimenticare la triste esperienza umana la cui storia, anche quella individuale, parla di debolezza, di infedeltà, di vigliaccheria, di resa di fronte al nemico; parla soprattutto di peccato. Esiste un misterioso legame tra la potenza di Cristo e la disponibilità dell’uomo per vincere il peccato e ottenere la salvezza, non solo quella finale ma anche quella della quotidiana esistenza; esso (il legame) è la mano di Cristo continuamente tesa verso l’uomo e la volontà dell’uomo che, purtroppo, può anche rifiutare di stringere quella mano salvatrice.

IL VANGELO
Dal Vangelo secondo Luca 2,22-40
Quando venne il tempo della purificazione secondo la Legge di Mosè, (Maria e Giuseppe) portarono il bambino a Gerusalemme per offrirlo al Signore, come è scritto nella Legge del Signore: “Ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore”; e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o di giovani colombi, come prescrive la Legge del Signore. Ora a Gerusalemme c’era un uomo di nome Simeone, uomo giusto e timorato di Dio, che aspettava il conforto d’Israele; lo Spirito Santo che era sopra di lui, gli aveva preannunziato che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Messia del Signore. Mosso dunque dallo Spirito, si recò al tempio; e mentre i genitori vi portavano il bambino Gesù per adempiere la Legge, lo prese tra le braccia e benedisse Dio. «Ora lascia, o Signore, che il tuo servo vada in pace secondo la tua parola; perché i miei occhi han visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli, luce per illuminare le genti e gloria del tuo popolo Israele». Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui. Simeone li benedisse e parlò a Maria, sua madre: «Egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione perché siano svelati i pensieri di molti cuori. E anche a te una spada trafiggerà l’anima». C’era anche una profetessa, Anna, figlia di Fanuèle, della tribù di Aser. Era molto avanzata in età, aveva vissuto col marito sette anni dal tempo in cui era ragazza, era poi rimasta vedova e ora aveva ottantaquattro anni. Non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere. Sopraggiunta in quel momento, si mise anche lei a lodare Dio e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme. Quando ebbero tutto compiuto secondo la Legge del Signore, fecero ritorno in Galilea, alla loro città di Nazareth. Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era sopra di lui.
Ai tempi di Gesù il tempio era il luogo del sacrificio, della purificazione, dell’adorazione di JHWH e per ogni israelita un obbligo di fede. La presentazione al tempio avveniva per “essere riscattati” perché, secondo la “Legge di Mosè”, ogni primogenito maschio apparteneva al Signore e poteva essere “riavuto dai genitori” con l’offerta di due animali (le due tortore erano il riscatto per il povero) che erano sacrificati con un olocausto cruento perché, come è affermato nel Pentateuco, il sangue versato in sacrificio è principio di vita, rende immondi e purifica anche le puerpere. Questa legge, imposta ad ogni figlio d’Israele, coinvolge anche Gesù che con Maria e Giuseppe entra per la prima volta nel tempio; un evento nel quale lo studioso Giosuè Boesch vede la realizzazione di tre realtà di grande valore teologico: il Signore è entrato nel suo tempio, adempiendo la profezia di Malachia, Israele è purificato in Maria da tutto il sangue versato dai profeti uccisi, in Gesù il genere umano è riscattato e ogni uomo in lui è primogenito del Padre. Per testimoniare questo grande avvenimento, lo Spirito del Signore invita nel tempio Anna e Simeone, due persone che da lungo tempo attendevano l’arrivo del Messia.
Per il terzo Evangelista Gerusalemme è sempre la tappa ultima di un viaggio definitivo, o almeno significativo di Gesù; egli, anche se concepito a Nazareth, lontano dalla Giudea è “presentato” da Maria e Giuseppe nella città santa, nel tempio, nella casa della gloria del Padre, dove egli deve manifestare nella pienezza tutta quella gloria messianica che, in qualche modo, già preannuncia la sua gloria suprema e definitiva quando (come precisa sempre l’Evangelista Luca), dopo il quarantesimo giorno dalla sua Risurrezione entrerà definitivamente nel tempio del cielo. È significativo come Luca escluda completamente dalla scena i sacerdoti del tempio, e concentri invece l’attenzione su due persone apparentemente senza particolari qualifiche giuridico-cultuali (è il vero popolo d’Israele che in loro incontra il Signore); per l’evangelista non è la presentazione di Gesù nel tempio l’avvenimento più importante, ma la sua rivelazione nell’incontro con il suo popolo. Un’incontro di gioia che, unitamente allo Spirito santo, “apre” la bocca a Simeone in un cantico di fede e di amore (I miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli, luce per illuminare le genti e gloria del tuo popolo Israele).
La profezia di Simeone coinvolge anche la madre nel destino del figlio (… e anche a te una spada trapasserà l’anima), un mistero che allude alla partecipazione di Maria alle sofferenze redentrici del Cristo, il servo di JHWH. A questo proposito il teologo Louis Soubigou in una sua riflessione afferma: “Anche se può stupire che la profezia di Simeone non sia indirizzata anche a Giuseppe, nel contesto della pagina lucana Maria è il simbolo o, meglio, la figlia di Sion nella quale è personificato il destino di Israele; la “spada che trapasserà il cuore” non è riferita solo alle sofferenze personali di Maria perché la croce sul Golgota sarà come una spada nella carne di tutta Israele. Maria, come figlia di Israele, è trafitta perché l’Israele, incarnato da Gesù, diventerà “il trafitto”, al quale molti leveranno gli sguardi per salvarsi”. Per questo la Chiesa vede nella festività della presentazione del Signore al tempio, madre e figlio (uniti) attuare il mistero di salvezza operato dal Cristo, nel quale la Vergine diviene l’esecutrice di quella stessa missione che doveva realizzare il popolo eletto, l’antico Israele; una missione che con Maria coinvolge anche il nuovo popolo di Dio (tutti i credenti) anche se costantemente provato nella fede. Maria è una donna povera e l’offerta dei poveri (due tortore) lo prova, ma è anche la “più ricca” di tutte le madri perché suo Figlio, anche se non le appartiene, è il Figlio di Dio. Nel tempio, infatti, inizia quel “distacco” che culminerà con l’affermazione di Gesù sulla croce: “Donna ecco tuo figlio”, dove egli non ha che Dio per Padre al quale affida il suo spirito.
In questo brano evangelico (più che altrove) Maria è la “figura” della Chiesa; essa soffrirà per il Figlio che ha partorito e per il Messia in cui crede. Lo scandalo della Croce coinvolge lei come madre più di ogni altra persona; anche se la sofferenza di Cristo si completa nella sua persona, è necessario che Maria e la Chiesa (della quale è figura) portino in loro la morte stessa di Cristo alla sequela del servo sofferente. Quindi, in questa festività che ricorda la presentazione al tempio di Gesù, sono presenti due aspetti apparentemente contrastanti (di lode e di imbarazzo): l’annuncio di Simeone della “liberazione”, non più attesa ma fatta “carne”, in un bambino che si può tenere in braccio dolcemente e ammirare (i miei occhi hanno visto la salvezza) e la dura profezia (Egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione perché siano svelati i pensieri di molti cuori. E anche a te una spada trafiggerà l’anima), che mette a nudo le contraddizioni di ogni uomo e di tutto un popolo. La profezia di Simeone è sempre attuale perché la “luce” rivela sempre le situazioni umane, le concessioni al male, e svela i continui compromessi. Ma la luce è anche via, orientamento, invito alla speranza e alla gioia per ogni uomo. Rimane ad ogni fedele la volontà di seguirla con fedeltà, con gioia, anche se un po’ di “spada nella carne” li farà sempre più simili a Maria, e a tutta la Chiesa.

Preghiera
Dio onnipotente ed eterno,
guarda i tuoi fedeli
riuniti nella festa della presentazione al tempio
del tuo unico Figlio fatto uomo,
e concedi anche a noi
di essere presentati a te
pienamente rinnovati nello spirito.

Amen.

(Giosuè Boesch)                                                                                                                

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