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FESTA DEI SANTI PIETRO E PAOLO – GIOVANNI XXIII, 1962

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FESTA DEI SANTI PIETRO E PAOLO

CELEBRAZIONE DEI PRIMI VESPRI

ALLOCUZIONE DEL SANTO PADRE GIOVANNI XXIII

Basilica Vaticana

 Giovedì, 28 giugno 1962

Le care impressioni della visita al Laterano nei secondi Vesperi di S. Giovanni — in esultanza commossa innanzi al fervore così vivo di quella folla tutta popolare e modesta, ma vibrante di sentimento filiale intorno al Papa, il suo Vescovo di Roma — sono invito continuo a letizia spirituale, per questa celebrazione dei primi Vesperi della festa di S. Pietro in Vaticano. Come è bello ed insieme edificante questo chiudersi del Testamento Antico col Precursore di Cristo e l’aprirsi del Nuovo sulle indicazioni di lui, nella luce e dell’umile pescatore di Galilea, chiamato al governo del Testamento eterno, della Chiesa universale. Sul mare del mondo verso Roma Venerabili Fratelli! quanti qui siete, e diletti figli, non vi torni discaro qualche pensiero che intendiamo esprimervi a comune edificazione. Con S. Giovanni noi eravamo a sentirne la voce profetica nel deserto, quando insisteva sul Parate viam Domini: rectas facite semitas eius [1]. Cioè: strada del Signore da preparare: vie giuste da rettificare e da percorrere, sino a raggiungere la salvezza per tutti. Questa sera, siamo invece come sul mare, nella barca di Pietro, il pescatore, dove Gesù era salito, e di là parlava alle turbe. S. Luca racconta il bell’episodio. — Finito che Gesù ebbe di parlare, disse a Simone: « Va al largo con la barca, e calate le reti per la pesca ». Gli rispose Simone: « Maestro, abbiamo faticato tutta una notte senza prender nulla, ma sulla tua parola calerò le reti ». Così fece infatti, e ne seguì una pescagione copiosissima [2]. Su questa pagina evangelica, Padri della Chiesa e commentatori di ogni tempo amarono trattenersi. Dai loro scritti — ricordiamo particolarmente quelli di Leone e Gregorio — scende una dottrina, la cui nota di solennità è divenuta familiare all’orecchio ed al buon gusto di quanti hanno tra mano abitualmente il Messale ed il Breviario. Distintissimo fra questi il primo, il Magno, della cui morte gloriosa abbiamo festeggiato il centenario il 15 novembre scorso. In questa vigilia ci attira in modo speciale il pensiero di un altro Pontefice, grande lui pure, Papa Innocenzo III, che questa pagina di S. Luca ha saputo felicemente riassumere sotto amabili significazioni e figure. Il mare di Galilea, su cui Gesù si posa, è il secolo, diremo meglio il mondo intero, che egli è venuto a redimere. La barca di Pietro è la Santa Chiesa, di cui Pietro, Simone il pescatore, fu fatto capo. L’ordine di Gesù a Pietro e ai suoi perchè vadano al largo e portino a più vasto ardimento la pescagione, il  Duc in altum dell’umile naviglio, è Roma, la capitale del mondo di allora, riservata a divenire, più tardi, la vera capitale, e il centro elevato e luminoso del mondo cristiano. La rete da gettarsi su le onde per la conquista delle anime è la predicazione apostolica. La Chiesa di Cristo diffusa « Ubique Terrarum»   Che spettacolo questo mare di Galilea, chiamato a rappresentare i secoli e i popoli! Aquae multae: populi multi: mare magnum totum saeculum; così lo chiama Papa Innocenzo. Mare grande e spazioso. Il libro dei Salmi lo designa bene, anche più vivacemente : pieno di pesci d’ogni genere: animalia pusilla cum magnis: illic naves pertransibunt [3]. Come il mare è turbolento e amaro, così il secolo, così il mondo degli uomini, è turbato dalle amarezze e dai contrasti: non mai pace e sicurezza; non mai riposo e tranquillità; sempre e dappertutto timore e tremore: ubique labor et dolor. L’Evangelista S. Giovanni [4] scrisse che il mondo è tutto posto sulla malignità. Il sorriso è commisto al gemito: i punti estremi del gaudio sono occupati dal lutto [5]. L’uccello è nato per il volo: l’uomo è destinato al pesante lavoro [6]. Il libro dell’Ecclesiastico è anche più incisivo : — Una continua occupazione è riservata a tutti gli uomini, un giogo preme sulle spalle di tutti i figli di Adamo. Nel mare i pesci più piccoli sono divorati dai più grandi: così nel mondo i piccoli uomini sono schiacciati dai forti e dai prepotenti [7]. Ebbene è sulla vastità di questo mondo che si stende la misericordia dell’Altissimo, a redenzione dalla schiavitù, ad elevazione delle più nobili energie; è su questo mondo che il Padre Celeste ha mandato il Figlio suo Unigenito, rivestito di umana carne, per assistere tutti i figli dell’uomo nello sforzo della loro risurrezione dalle miserie di quaggiù, e per riaccompagnarli fino alle altezze della eterna vita. È su questo mare immenso della umanità purificata dalla virtù del Sangue di Cristo, che lo stesso Verbo del Padre propter nos homines et propter nostram salutem descendit de caelis, et incarnatus est de Spiritu Sancto ex Maria Virgine et homo factus est; homo et Salvator mundi, et totius mundi per Ecclesiam Sanctam suam Rex gloriosus et immortalis per saecula. Geniale commento di Innocenzo III La Chiesa di Cristo diffusa ubique terrarum viene rappresentata nel Vangelo dalla barca di Pietro, che Gesù predilesse, da cui sovente amò parlare come Maestro dei popoli, e che in una circostanza particolarmente misteriosa e solenne — questa di cui riferisce S. Luca nel capo quinto del suo Vangelo — volle indicare agli Apostoli suoi, come il punto più elevato delle divine conquiste del suo Regno. Avete passato una notte infeconda di navigazione col nihil cepimus. Ora dico a te, o Pietro, duc in altum: al largo la barca; e a tutti i suoi: gettate le reti, come fecero in perfetta obbedienza: et concluserunt piscium multitudinem copiosam. Diletti figli! È a questo punto della lettura evangelica che papa Innocenzo III, nella festa di S. Pietro se ne esce con vigore esultante: L’altezza di questo mare, altitudo maris istius, di cui Gesù benedetto disse a S. Pietro:  duc in altum, è Roma, quae primatum et principatum super universum saeculum obtinebat et obtinet. La divina Provvidenza volle esaltare questa città : perchè come nel tempo del paganesimo trionfante essa sola aveva la dominazione sopra tutta la gentilità sparsa nel mondo, così dopo la venuta di Gesù Redentore iniziatasi la Cristianità, era degno e conveniente che la Chiesa Santa sola tenesse la dignità del magistero e del governo sopra tutti i fedeli della terra. E Papa Innocenzo prosegue a proclamare come Iddio abbia trovato e voluto consonum et dignum, che colui che era il capo e principe della Chiesa, costituisse la sede religiosa e principale, presso la città, che aveva il principato e il governo secolare. Per questo Gesù disse a Pietro Duc in altum, come a dire : Va a Roma e trasferisci te e i tuoi a quella città, e là gettate le vostre reti per la pesca. Così evidente parrà quanto il Signore abbia amato ed ami questa Sede augusta, e questa Roma meritasse il nome di sacerdotale e di regia, imperiale ed apostolica, depositaria ed in esercizio di dominio non solo sopra i corpi, ma anche di magistero sulle anime. Ben più nobile ora e degna di autorità divina che non fosse nel passato di potestà terrena. È assai toccante sentire dalle parole del grande Papa il richiamo della pia tradizione del Domine, quo vadis: e delle parole di Gesù a Pietro, tremante e fuggitivo: « Vado a Roma per farmi crocifiggere un’altra volta ». Interessante anche la differenza, secondo S. Luca, di espressioni di Gesù, che a S. Pietro parla in singolare: Duc in altum: e poi prosegue in plurale al resto degli Apostoli: Laxate retia in capturam. Il solo Pietro, come solo principe della Chiesa universale, è veduto nell’altezza della sua suprema prelatura. Non possiamo però dimenticare che anche a S. Paolo, come a lui, sarebbe stato affidato il compito di stendere in Roma la rete apostolica della sacra predicazione. Una spirituale conversazione come questa Nostra, Venerabili Fratelli e diletti figli, che introduce alla festa di S. Pietro, è naturale che si adorni come di duplice corona, che insieme conferma l’associarsi dei due grandi Apostoli, nella ammirazione e nel culto. Papa Innocenzo arriva fino alla bella comparazione di questi due grandi apostoli della Chiesa Romana, della Chiesa universale, in riferimento storico, poetico e contraddistinto ai due fondatori della Roma primitiva, cioè a Romolo e Remo, le cui due sepolture, al dire degli archeologi, giacevano quasi a parallela distanza dall’un capo all’altro della città; cioè Pietro dalla parte dove Romolo fu tumulato: e Remo dalla parte dove fu indicata la tomba di S. Paolo. Grande rispetto noi dobbiamo e amiamo rendere ai vetustissimi ricordi della Roma primitiva — come commentava allora Papa Innocenzo — ai duo fratres secundum carnem, qui urbem istam corporaliter non sine divina providentia — condiderunt, et honorabilibus iacent tumulata sepulcris. Ma è ben giusto che la nostra religiosa tenerezza si volga con particolare sentimento ai duo fratres secundum fidem, Petrus et Paulus, qui urbem istam spiritualiter fundaverunt, gloriosis basilicis tumulati.

Il Sacro Ministero della grande predicazione Notate la precisa significazione dei contrasti: duo fratres secundum carnem et corporaliter condentes: i due Santi Patroni di Roma, fratres secundum fidem: spiritualiter fundatores, gloriosis basilicis honorificentissime tumulati. Non dobbiamo dimenticare le reti dei pescatori, all’ordine di Gesù gettate nel mare e raccolte a gran fatica, a gran trionfo di apostolica obbedienza. La rete simbolica che oggi stesso, in intreccio floreale, sta sulle soglie di questa Basilica Vaticana. Come la barca di Pietro significa la Chiesa, come il mare mosso rappresenta il secolo e il mondo agitato, come Roma il centro dell’attività cattolica ed apostolica: così le reti sono figurazione del ministero della predicazione popolare. Papa Innocenzo approfitta dell’accenno per dare in sintesi istruttiva e fervorosa i caratteri sacri e peculiari della eloquenza pastorale : che è quanto dire del ministero sacro per la conquista e il nutrimento prezioso, di cui il sacerdozio cattolico deve essere distributore alle anime dei fedeli. Il provvido predicatore deve preparare i suoi saggi di istruzione popolare e anche più elaborata per qualunque classe e levatura. Saper variare di argomento, di tono, di colore : ora circa le virtù, ora circa i vizi, ora circa i premi ed ora circa i castighi, della misericordia e della giustizia, assai su questi due temi, ora con semplicità, ora con sottilità, ora secondo la storia ed ora secondo l’allegoria : presentazione di autorità, di similitudini, di ragioni, di esempi. Questi sono i fili e gli intrecci, di cui sono fatte le reti, capaci, resistenti, preziose. Queste le reti più sicure ed efficaci per convincere le anime alla chiarezza di visione della buona dottrina apostolica, per portarle al fervore, alla santificazione, alla letizia. Di queste reti si sono serviti i Beatissimi Apostoli Pietro e Paolo. Le loro Lettere ci parlano ancora dal fondo della loro età. Per questa predicazione Roma si è convertita dall’errore alla verità, dai vizi alle virtù: ed è divenuta  domina gentium, maestra del mondo.

Onore nel tempo ai beati principi degli Apostoli La venerazione, che ogni buon cattolico nutre per gli Apostoli di Cristo di tutti i tempi e di tutti i popoli, deve mantenere il suo fervore : anzi nella imminente celebrazione del Concilio Ecumenico Vaticano II, che vuole essere tutto un profluvio di celeste dottrina, aumentare di ispirazione, di pacifica e santa esaltazione. Ma di questi due primi e beati Apostoli di Roma, Pietro e Paolo, sempre in eco alla tradizione dei secoli come Padri e Patroni principali e preclarissimi, dobbiamo particolarmente studiare i grandi insegnamenti, a splendore delle intelligenze, a fiamma dei cuori. Ci piace por termine a questa effusione di sentimenti e di voti paterni con la fervente invocazione augurale del grande Pontefice Innocenzo III, uno dei più insigni e gloriosi della Chiesa e della storia: Illos patres et patronos debet specialiter et principaliter honorare Roma inclita nostra, quatenus, meritis et precibus eorum adiuta, ita nunc salubriter conservetur in terris, ut tandem feliciter coronetur in caelis. Praestante Domino nostro Iesu Christo, qui est super omnia Deus benedictus in saecula saeculorum. Amen [8].

[1] Cfr. Matth. 3, 3; Marc. 1, 3; Luc. 3, 4. [2] Cfr. Luc. 5, 1-7. [3] Ps. 103, 25-26. [4] 1 Io. 5, 19. [5] Prov. 14, 13. [6] Iob. 5, 7. [7] Cfr. Eccl. 40 e 13. [8] Innocentii III, Opera omnia, Sermo XXII, in solemnitate B. Apostolorum Petri et Pauli, Migne PL 207, col. 555, ss.

 

SOLENNITÀ DEI SANTI APOSTOLI PIETRO E PAOLO 2009 – OMELIA BENEDETTO XVI

http://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/homilies/2009/documents/hf_ben-xvi_hom_20090629_pallio.html

SOLENNITÀ DEI SANTI APOSTOLI PIETRO E PAOLO

SANTA MESSA E IMPOSIZIONE DEL PALLIO AI NUOVI METROPOLITI

OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

Basilica Vaticana Lunedì, 29 giugno 2009

Signori Cardinali, Venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio, Cari fratelli e sorelle! A tutti rivolgo il mio saluto cordiale con le parole dell’Apostolo accanto alla cui tomba ci troviamo: “A voi grazia e pace in abbondanza” (1Pt 1, 2). Saluto, in particolare, i Membri della Delegazione del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli e i numerosi Metropoliti che oggi ricevono il Pallio. Nella colletta di questa giornata solenne chiediamo al Signore “che la Chiesa segua sempre l’insegnamento degli Apostoli dai quali ha ricevuto il primo annunzio della fede”. La richiesta che rivolgiamo a Dio interpella al contempo noi stessi: seguiamo noi l’insegnamenti dei grandi Apostoli fondatori? Li conosciamo veramente? Nell’Anno Paolino che si è ieri concluso abbiamo cercato di ascoltare in modo nuovo lui, il “maestro delle genti”, e di apprendere così nuovamente l’alfabeto della fede. Abbiamo cercato di riconoscere con Paolo e mediante Paolo il Cristo e di trovare così la via per la retta vita cristiana. Nel Canone del Nuovo Testamento, oltre alle Lettere di san Paolo, ci sono anche due Lettere sotto il nome di san Pietro. La prima di esse si conclude esplicitamente con un saluto da Roma, che però appare sotto l’apocalittico nome di copertura di Babilonia: “Vi saluta la co-eletta che vive in Babilonia…” (5, 13). Chiamando la Chiesa di Roma la “co-eletta”, la colloca nella grande comunità di tutte le Chiese locali – nella comunità di tutti coloro che Dio ha adunato, affinché nella “Babilonia” del tempo di questo mondo costruiscano il suo Popolo e facciano entrare Dio nella storia. La Prima Lettera di san Pietro è un saluto rivolto da Roma all’intera cristianità di tutti i tempi. Essa ci invita ad ascoltare “l’insegnamento degli Apostoli”, che ci indica la via verso la vita. Questa Lettera è un testo ricchissimo, che proviene dal cuore e tocca il cuore. Il suo centro è – come potrebbe essere diversamente? – la figura di Cristo, che viene illustrato come Colui che soffre e che ama, come Crocifisso e Risorto: “Insultato, non rispondeva con insulti, maltrattato, non minacciava vendetta … Dalle sue piaghe siete stati guariti” (1Pt 2, 23s). Partendo dal centro che è Cristo, la Lettera costituisce poi anche un’introduzione ai fondamentali Sacramenti cristiani del Battesimo e dell’Eucaristia e un discorso rivolto ai sacerdoti, nel quale Pietro si qualifica come co-presbitero con loro. Egli parla ai Pastori di tutte le generazioni come colui che personalmente è stato incaricato dal Signore di pascere le sue pecorelle e così ha ricevuto in modo particolare un mandato sacerdotale. Che cosa, dunque, ci dice san Pietro – proprio nell’Anno sacerdotale – circa il compito del sacerdote? Innanzitutto, egli comprende il ministero sacerdotale totalmente a partire da Cristo. Chiama Cristo il “pastore e custode delle … anime” (2, 25). Dove la traduzione italiana parla di “custode”, il testo greco ha la parola epíscopos (vescovo). Un po’ più avanti, Cristo viene qualificato come il Pastore supremo: archipoimen (5, 4). Sorprende che Pietro chiami Cristo stesso vescovo – vescovo delle anime. Che cosa intende dire con ciò? Nella parola greca “episcopos” è contenuto il verbo “vedere”; per questo è stata tradotta con “custode” ossia “sorvegliante”. Ma certamente non s’intende una sorveglianza esterna, come s’addice forse ad una guardia carceraria. S’intende piuttosto un vedere dall’alto – un vedere a partire dall’elevatezza di Dio. Un vedere nella prospettiva di Dio è un vedere dell’amore che vuole servire l’altro, vuole aiutarlo a diventare veramente se stesso. Cristo è il “vescovo delle anime”, ci dice Pietro. Ciò significa: Egli ci vede nella prospettiva di Dio. Guardando a partire da Dio, si ha una visione d’insieme, si vedono i pericoli come anche le speranze e le possibilità. Nella prospettiva di Dio si vede l’essenza, si vede l’uomo interiore. Se Cristo è il vescovo delle anime, l’obiettivo è quello di evitare che l’anima nell’uomo s’immiserisca, è di far sì che l’uomo non perda la sua essenza, la capacità per la verità e per l’amore. Far sì che egli venga a conoscere Dio; che non si smarrisca in vicoli ciechi; che non si perda nell’isolamento, ma rimanga aperto per l’insieme. Gesù, il “vescovo delle anime”, è il prototipo di ogni ministero episcopale e sacerdotale. Essere vescovo, essere sacerdote significa in questa prospettiva: assumere la posizione di Cristo. Pensare, vedere ed agire a partire dalla sua posizione elevata. A partire da Lui essere a disposizione degli uomini, affinché trovino la vita. Così la parola “vescovo” s’avvicina molto al termine “pastore”, anzi, i due concetti diventano interscambiabili. È compito del pastore pascolare e custodire il gregge e condurlo ai pascoli giusti. Pascolare il gregge vuol dire aver cura che le pecore trovino il nutrimento giusto, sia saziata la loro fame e spenta la loro sete. Fuori di metafora, questo significa: la parola di Dio è il nutrimento di cui l’uomo ha bisogno. Rendere sempre di nuovo presente la parola di Dio e dare così nutrimento agli uomini è il compito del retto Pastore. Ed egli deve anche saper resistere ai nemici, ai lupi. Deve precedere, indicare la via, conservare l’unità del gregge. Pietro, nel suo discorso ai presbiteri, evidenzia ancora una cosa molto importante. Non basta parlare. I Pastori devono farsi “modelli del gregge” (5, 3). La parola di Dio viene portata dal passato nel presente, quando è vissuta. È meraviglioso vedere come nei santi la parola di Dio diventi una parola rivolta al nostro tempo. In figure come Francesco e poi di nuovo come Padre Pio e molti altri, Cristo è diventato veramente contemporaneo della loro generazione, è uscito dal passato ed entrato nel presente. Questo significa essere Pastore – modello del gregge: vivere la Parola ora, nella grande comunità della santa Chiesa. Molto brevemente vorrei ancora richiamare l’attenzione su due altre affermazioni della Prima Lettera di san Pietro, che riguardano in modo speciale noi, in questo nostro tempo. C’è innanzitutto la frase oggi nuovamente scoperta, in base alla quale i teologi medievali compresero il loro compito, il compito del teologo: “Adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi” (3, 15). La fede cristiana è speranza. Apre la via verso il futuro. Ed è una speranza che possiede ragionevolezza; una speranza la cui ragione possiamo e dobbiamo esporre. La fede proviene dalla Ragione eterna che è entrata nel nostro mondo e ci ha mostrato il vero Dio. Va al di là della capacità propria della nostra ragione, così come l’amore vede più della semplice intelligenza. Ma la fede parla alla ragione e nel confronto dialettico può tener testa alla ragione. Non la contraddice, ma va di pari passo con essa e, al contempo, conduce al di là di essa – introduce nella Ragione più grande di Dio. Come Pastori del nostro tempo abbiamo il compito di comprendere noi per primi la ragione della fede. Il compito di non lasciarla rimanere semplicemente una tradizione, ma di riconoscerla come risposta alle nostre domande. La fede esige la nostra partecipazione razionale, che si approfondisce e si purifica in una condivisione d’amore. Fa parte dei nostri doveri come Pastori di penetrare la fede col pensiero per essere in grado di mostrare la ragione della nostra speranza nella disputa del nostro tempo. Tuttavia, il pensare – pur così necessario – da solo non basta. Così come parlare, da solo, non basta. Nella sua catechesi battesimale ed eucaristica nel secondo capitolo della sua Lettera, Pietro allude al Salmo usato nella Chiesa antica nel contesto della comunione, e cioè al versetto che dice: “Gustate e vedete com’è buono il Signore” (Ps 34 [33], 9; 1 Pt 2, 3). Solo il gustare conduce al vedere. Pensiamo ai discepoli di Emmaus: solo nella comunione conviviale con Gesù, solo nella frazione del pane si aprono i loro occhi. Solo nella comunione col Signore veramente sperimentata essi diventano vedenti. Ciò vale per tutti noi: al di là del pensare e del parlare, abbiamo bisogno dell’esperienza della fede; del rapporto vitale con Gesù Cristo. La fede non deve rimanere teoria: deve essere vita. Se nel Sacramento incontriamo il Signore; se nella preghiera parliamo con Lui; se nelle decisioni del quotidiano aderiamo a Cristo – allora “vediamo” sempre di più quanto Egli è buono. Allora sperimentiamo che è cosa buona stare con Lui. Da una tale certezza vissuta deriva poi la capacità di comunicare la fede agli altri in modo credibile. Il Curato d’Ars non era un grande pensatore. Ma egli “gustava” il Signore. Viveva con Lui fin nelle minuzie del quotidiano oltre che nelle grandi esigenze del ministero pastorale. In questo modo divenne “uno che vede”. Aveva gustato, e per questo sapeva che il Signore è buono. Preghiamo il Signore, affinché ci doni questo gustare e possiamo così diventare testimoni credibili della speranza che è in noi. Alla fine vorrei far notare ancora una piccola, ma importante parola di san Pietro. Subito all’inizio della Lettera egli ci dice che la mèta della nostra fede è la salvezza delle anime (cfr 1, 9). Nel mondo del linguaggio e del pensiero dell’attuale cristianità questa è un’affermazione strana, per alcuni forse addirittura scandalosa. La parola “anima” è caduta in discredito. Si dice che questo porterebbe ad una divisione dell’uomo in spirito e fisico, in anima e corpo, mentre in realtà egli sarebbe un’unità indivisibile. Inoltre “la salvezza delle anime” come mèta della fede sembra indicare un cristianesimo individualistico, una perdita di responsabilità per il mondo nel suo insieme, nella sua corporeità e nella sua materialità. Ma di tutto questo non si trova nulla nella Lettera di san Pietro. Lo zelo per la testimonianza in favore della speranza, la responsabilità per gli altri caratterizzano l’intero testo. Per comprendere la parola sulla salvezza delle anime come mèta della fede dobbiamo partire da un altro lato. Resta vero che l’incuria per le anime, l’immiserirsi dell’uomo interiore non distrugge soltanto il singolo, ma minaccia il destino dell’umanità nel suo insieme. Senza risanamento delle anime, senza risanamento dell’uomo dal di dentro, non può esserci una salvezza per l’umanità. La vera malattia delle anime san Pietro, alla nostra sorpresa, la qualifica come ignoranza – cioè come non conoscenza di Dio. Chi non conosce Dio, chi almeno non lo cerca sinceramente, resta fuori della vera vita (cfr 1 Pt 1, 14). Ancora un’altra parola della Lettera può esserci utile per capire meglio la formula “salvezza delle anime”: “Purificate le vostre anime con l’obbedienza alla verità” (cfr 1, 22). È l’obbedienza alla verità che rende pura l’anima. Ed è il convivere con la menzogna che la inquina. L’obbedienza alla verità comincia con le piccole verità del quotidiano, che spesso possono essere faticose e dolorose. Questa obbedienza si estende poi fino all’obbedienza senza riserve di fronte alla Verità stessa che è Cristo. Tale obbedienza ci rende non solo puri, ma soprattutto anche liberi per il servizio a Cristo e così alla salvezza del mondo, che pur sempre prende inizio dalla purificazione obbediente della propria anima mediante la verità. Possiamo indicare la via verso la verità solo se noi stessi – in obbedienza e pazienza – ci lasciamo purificare dalla verità. E ora mi rivolgo a voi, cari Confratelli nell’episcopato, che in quest’ora riceverete dalla mia mano il Pallio. È stato intessuto con la lana di agnelli che il Papa benedice nella festa di sant’Agnese. In questo modo esso ricorda gli agnelli e le pecore di Cristo, che il Signore risorto ha affidato a Pietro con il compito di pascerli (cfr Gv 21, 15-18). Ricorda il gregge di Gesù Cristo, che voi, cari Fratelli, dovete pascere in comunione con Pietro. Ci ricorda Cristo stesso, che come Buon Pastore ha preso sulle sue spalle la pecorella smarrita, l’umanità, per riportarla a casa. Ci ricorda il fatto che Egli, il Pastore supremo, ha voluto farsi Lui stesso Agnello, per farsi carico dal di dentro del destino di tutti noi; per portarci e risanarci dall’interno. Vogliamo pregare il Signore, affinché ci doni di essere sulle sue orme Pastori giusti, “non perché costretti, ma volentieri, come piace a Dio … con animo generoso … modelli del gregge” (1 Pt 5, 2s). Amen.

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