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BENEDETTO XVI – L’ANNO DELLA FEDE. LA RAGIONEVOLEZZA DELLA FEDE IN DIO

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BENEDETTO XVI – L’ANNO DELLA FEDE. LA RAGIONEVOLEZZA DELLA FEDE IN DIO

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI

Mercoledì, 21 novembre 2012

Cari fratelli e sorelle,

avanziamo in quest’Anno della fede, portando nel nostro cuore la speranza di riscoprire quanta gioia c’è nel credere e di ritrovare l’entusiasmo di comunicare a tutti le verità della fede. Queste verità non sono un semplice messaggio su Dio, una particolare informazione su di Lui. Esprimono invece l’evento dell’incontro di Dio con gli uomini, incontro salvifico e liberante, che realizza le aspirazioni più profonde dell’uomo, i suoi aneliti di pace, di fraternità, di amore. La fede porta a scoprire che l’incontro con Dio valorizza, perfeziona ed eleva quanto di vero, di buono e di bello c’è nell’uomo. Accade così che, mentre Dio si rivela e si lascia conoscere, l’uomo viene a sapere chi è Dio e, conoscendolo, scopre se stesso, la propria origine, il proprio destino, la grandezza e la dignità della vita umana.
La fede permette un sapere autentico su Dio che coinvolge tutta la persona umana: è un “sàpere”, cioè un conoscere che dona sapore alla vita, un gusto nuovo d’esistere, un modo gioioso di stare al mondo. La fede si esprime nel dono di sé per gli altri, nella fraternità che rende solidali, capaci di amare, vincendo la solitudine che rende tristi. Questa conoscenza di Dio attraverso la fede non è perciò solo intellettuale, ma vitale. E’ la conoscenza di Dio-Amore, grazie al suo stesso amore. L’amore di Dio poi fa vedere, apre gli occhi, permette di conoscere tutta la realtà, oltre le prospettive anguste dell’individualismo e del soggettivismo che disorientano le coscienze. La conoscenza di Dio è perciò esperienza di fede e implica, nel contempo, un cammino intellettuale e morale: toccati nel profondo dalla presenza dello Spirito di Gesù in noi, superiamo gli orizzonti dei nostri egoismi e ci apriamo ai veri valori dell’esistenza.
Oggi in questa catechesi vorrei soffermarmi sulla ragionevolezza della fede in Dio. La tradizione cattolica sin dall’inizio ha rigettato il cosiddetto fideismo, che è la volontà di credere contro la ragione. Credo quia absurdum (credo perché è assurdo) non è formula che interpreti la fede cattolica. Dio, infatti, non è assurdo, semmai è mistero. Il mistero, a sua volta, non è irrazionale, ma sovrabbondanza di senso, di significato, di verità. Se, guardando al mistero, la ragione vede buio, non è perché nel mistero non ci sia luce, ma piuttosto perché ce n’è troppa. Così come quando gli occhi dell’uomo si dirigono direttamente al sole per guardarlo, vedono solo tenebra; ma chi direbbe che il sole non è luminoso, anzi la fonte della luce? La fede permette di guardare il «sole», Dio, perché è accoglienza della sua rivelazione nella storia e, per così dire, riceve veramente tutta la luminosità del mistero di Dio, riconoscendo il grande miracolo: Dio si è avvicinato all’uomo, si è offerto alla sua conoscenza, accondiscendendo al limite creaturale della sua ragione (cfr Conc. Ec. Vat. II, Cost. dogm. Dei Verbum, 13). Allo stesso tempo, Dio, con la sua grazia, illumina la ragione, le apre orizzonti nuovi, incommensurabili e infiniti. Per questo, la fede costituisce uno stimolo a cercare sempre, a non fermarsi mai e a mai quietarsi nella scoperta inesausta della verità e della realtà. E’ falso il pregiudizio di certi pensatori moderni, secondo i quali la ragione umana verrebbe come bloccata dai dogmi della fede. E’ vero esattamente il contrario, come i grandi maestri della tradizione cattolica hanno dimostrato. Sant’Agostino, prima della sua conversione, cerca con tanta inquietudine la verità, attraverso tutte le filosofie disponibili, trovandole tutte insoddisfacenti. La sua faticosa ricerca razionale è per lui una significativa pedagogia per l’incontro con la Verità di Cristo. Quando dice: «comprendi per credere e credi per comprendere» (Discorso 43, 9: PL 38, 258), è come se raccontasse la propria esperienza di vita. Intelletto e fede, dinanzi alla divina Rivelazione non sono estranei o antagonisti, ma sono ambedue condizioni per comprenderne il senso, per recepirne il messaggio autentico, accostandosi alla soglia del mistero. Sant’Agostino, insieme a tanti altri autori cristiani, è testimone di una fede che si esercita con la ragione, che pensa e invita a pensare. Su questa scia, Sant’Anselmo dirà nel suo Proslogion che la fede cattolica è fides quaerens intellectum, dove il cercare l’intelligenza è atto interiore al credere. Sarà soprattutto San Tommaso d’Aquino – forte di questa tradizione – a confrontarsi con la ragione dei filosofi, mostrando quanta nuova feconda vitalità razionale deriva al pensiero umano dall’innesto dei principi e delle verità della fede cristiana.
La fede cattolica è dunque ragionevole e nutre fiducia anche nella ragione umana. Il Concilio Vaticano I, nella Costituzione dogmatica Dei Filius, ha affermato che la ragione è in grado di conoscere con certezza l’esistenza di Dio attraverso la via della creazione, mentre solo alla fede appartiene la possibilità di conoscere «facilmente, con assoluta certezza e senza errore» (DS 3005) le verità che riguardano Dio, alla luce della grazia. La conoscenza della fede, inoltre, non è contro la retta ragione. Il Beato Papa Giovanni Paolo II, infatti, nell’Enciclica Fides et ratio, sintetizza così: «La ragione dell’uomo non si annulla né si avvilisce dando l’assenso ai contenuti di fede; questi sono in ogni caso raggiunti con scelta libera e consapevole» (n. 43). Nell’irresistibile desiderio di verità, solo un armonico rapporto tra fede e ragione è la strada giusta che conduce a Dio e al pieno compimento di sé.
Questa dottrina è facilmente riconoscibile in tutto il Nuovo Testamento. San Paolo, scrivendo ai cristiani di Corinto, sostiene, come abbiamo sentito: «Mentre i Giudei chiedono segni e i Greci cercano sapienza, noi invece annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani» (1 Cor 1,22-23). Dio, infatti, ha salvato il mondo non con un atto di potenza, ma mediante l’umiliazione del suo Figlio unigenito: secondo i parametri umani, l’insolita modalità attuata da Dio stride con le esigenze della sapienza greca. Eppure, la Croce di Cristo ha una sua ragione, che San Paolo chiama: ho lògos tou staurou, “la parola della croce” (1 Cor 1,18). Qui, il termine lògos indica tanto la parola quanto la ragione e, se allude alla parola, è perché esprime verbalmente ciò che la ragione elabora. Dunque, Paolo vede nella Croce non un avvenimento irrazionale, ma un fatto salvifico che possiede una propria ragionevolezza riconoscibile alla luce della fede. Allo stesso tempo, egli ha talmente fiducia nella ragione umana, al punto da meravigliarsi per il fatto che molti, pur vedendo le opere compiute da Dio, si ostinano a non credere in Lui. Dice nella Lettera ai Romani: «Infatti le … perfezioni invisibili [di Dio], ossia la sua eterna potenza e divinità, vengono contemplate e comprese dalla creazione del mondo attraverso le opere da lui compiute» (1,20). Così, anche S. Pietro esorta i cristiani della diaspora ad adorare «il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (1 Pt 3,15). In un clima di persecuzione e di forte esigenza di testimoniare la fede, ai credenti viene chiesto di giustificare con motivazioni fondate la loro adesione alla parola del Vangelo, di dare la ragione della nostra speranza.
Su queste premesse circa il nesso fecondo tra comprendere e credere, si fonda anche il rapporto virtuoso fra scienza e fede. La ricerca scientifica porta alla conoscenza di verità sempre nuove sull’uomo e sul cosmo, lo vediamo. Il vero bene dell’umanità, accessibile nella fede, apre l’orizzonte nel quale si deve muovere il suo cammino di scoperta. Vanno pertanto incoraggiate, ad esempio, le ricerche poste a servizio della vita e miranti a debellare le malattie. Importanti sono anche le indagini volte a scoprire i segreti del nostro pianeta e dell’universo, nella consapevolezza che l’uomo è al vertice della creazione non per sfruttarla insensatamente, ma per custodirla e renderla abitabile. Così la fede, vissuta realmente, non entra in conflitto con la scienza, piuttosto coopera con essa, offrendo criteri basilari perché promuova il bene di tutti, chiedendole di rinunciare solo a quei tentativi che – opponendosi al progetto originario di Dio – possono produrre effetti che si ritorcono contro l’uomo stesso. Anche per questo è ragionevole credere: se la scienza è una preziosa alleata della fede per la comprensione del disegno di Dio nell’universo, la fede permette al progresso scientifico di realizzarsi sempre per il bene e per la verità dell’uomo, restando fedele a questo stesso disegno.
Ecco perché è decisivo per l’uomo aprirsi alla fede e conoscere Dio e il suo progetto di salvezza in Gesù Cristo. Nel Vangelo viene inaugurato un nuovo umanesimo, un’autentica «grammatica» dell’uomo e di tutta la realtà. Afferma il Catechismo della Chiesa Cattolica: «La verità di Dio è la sua sapienza che regge l’ordine della creazione e del governo del mondo. Dio che, da solo, «ha fatto cielo e terra» (Sal 115,15), può donare, egli solo, la vera conoscenza di ogni cosa creata nella relazione con lui» (n. 216).
Confidiamo allora che il nostro impegno nell’ evangelizzazione aiuti a ridare nuova centralità al Vangelo nella vita di tanti uomini e donne del nostro tempo. E preghiamo perché tutti ritrovino in Cristo il senso dell’esistenza e il fondamento della vera libertà: senza Dio, infatti, l’uomo smarrisce se stesso. Le testimonianze di quanti ci hanno preceduto e hanno dedicato la loro vita al Vangelo lo confermano per sempre. E’ ragionevole credere, è in gioco la nostra esistenza. Vale la pena di spendersi per Cristo, Lui solo appaga i desideri di verità e di bene radicati nell’anima di ogni uomo: ora, nel tempo che passa, e nel giorno senza fine dell’Eternità beata.

Publié dans:fede e ragione, Papa Benedetto XVI |on 17 octobre, 2016 |Pas de commentaires »

L’ARMONIA FRA FEDE E RAGIONE NELLA SCIENZA – PAPA GIOVANNI PAOLO II

http://www.lanuovabq.it/it/articoli-larmonia-fra-fede-e-ragione-nella-scienza-7307.htm

L’ARMONIA FRA FEDE E RAGIONE NELLA SCIENZA – PAPA GIOVANNI PAOLO II

di Augusto Pessina

«La fede e la ragione sono come le due ali con le quali lo spirito umano si innalza verso la contemplazione della verità». È questo il magnifico incipit dell’enciclica Fides et Ratio di Giovanni Paolo II che dopo 15 anni (14 settembre 1998) appare di attualità e profondità sorprendenti. Il successivo pontificato di Benedetto XVI ha svolto molti dei punti critici di questa enciclica e anche la Lumen Fidei ha ribadito questa armonia innata tra ragione e fede. Spesso la lettura di questo incipit della enciclica di Giovanni Paolo II è stata fatta in modo asimmetrico e riduttivo esaltando la ragione allo scopo di dare una qualche parvenza di dignità anche alla fede, comunque considerata un’ala più piccola o debole. In realtà la forza della affermazione è nel proporre una questione di metodo che riguarda la natura e la modalità stessa della conoscenza alla quale non si sottrae nemmeno quelle scientifica. La ragione è infatti sempre costretta ad aderire al dato reale “per fiducia” e questo rappresenta anche per lo scienziato il punto di partenza per la successiva verifica critica. Come dice l’enciclica «L’uomo, essere che cerca la verità, è dunque anche colui che vive di credenza. Nel credere ,ciascuno si affida alle conoscenze acquisite da altre persone» (Fiedes et Ratio n 31,32). È questa armonia, misteriosa e anche drammatica perché coinvolge la libertà, a permettere alle due ali quella sinergia che produce forza per il volo. Nessun volo è possibile con una sola ala e quando una delle due ali difetta anche il volo si fa molto difficile. Questa stessa dinamica riguarda anche la ragione e la fede cristiana intesa come riconoscimento della verità rivelata da un testimone. Anche in questo caso «…la fede chiede che il suo oggetto sia compreso con la ragione e la ragione al culmine della sua ricerca ammette come necessario ciò che la fede presenta (Fides et Ratio, n. 42)». La fede dunque, lungi dall’essere una zavorra, è in grado di «provocare la ragione ad uscire da ogni isolamento e rischiare per tutto ciò che è bello, buono e vero. La fede si fa avvocato convinto e convincente della ragione (Fides et Ratio,n.56)». Per questo recita ancora l’enciclica «Quando la ragione è debole , la fede rischia di essere ridotta a mito o superstizione (Fides et Ratio,n. 48)». Il dialogo armonico tra ragione e fede è capace di valorizzare criticamente anche la ricerca scientifica che diventa in questa ottica un grande strumento per una conoscenza più profonda del mistero dell’uomo stesso come 50 anni fa scriveva la Gaudium et Spes: «il gusto per le scienze e la rigorosa fedeltà al vero nella indagine scientifica, la necessità di collaborare con gli altri nei gruppi tecnici specializzati, il senso della solidarietà internazionale, la coscienza sempre più viva della responsabilità degli esperti nell’aiutare e proteggere gli uomini, la volontà di rendere più felici le condizioni di vita per tutti, specialmente per coloro che soffrono per la privazione della responsabilità personale o per la povertà culturale. (Gaudium et Spes, n.57)». Tuttavia se di fronte ai grandi passi della scienza questa dinamica suscita meraviglia, nel contempo essa pone sempre domande che riguardano il bello, il bene e il vero. Quando questa dinamica viene meno, le domande scompaiono e la ragione si confonde. Come sottolinea la Lumen Fidei, descrivendo bene un disagio esistenziale del nostro tempo «quando la luce della ragione non riesce ad illuminare il futuro l’uomo resta abbandonato all’oscurità e alla paura dell’ignoto(Lumen Fidei,n. 3)». Giovanni Paolo II nella sua prima enciclica aveva messo in guarda da questo rischio quando scriveva «L’uomo d’oggi sembra essere sempre minacciato da ciò che produce, cioè dal risultato del lavoro delle sue mani e, ancor più, del lavoro del suo intelletto, delle tendenze della sua volontà. I frutti di questa multiforme attività dell’uomo, troppo presto e in modo spesso imprevedibile, sono non soltanto e non tanto oggetto di “alienazione”, nel senso che vengono semplicemente tolti a colui che li ha prodotti; quanto, almeno parzialmente, in una cerchia conseguente e indiretta dei loro effetti, questi frutti si rivolgono contro l’uomo stesso. Essi sono, infatti, diretti, o possono esser diretti contro di lui. In questo sembra consistere l’atto principale del dramma dell’esistenza umana contemporanea, nella sua più larga ed universale dimensione. L’uomo, pertanto, vive sempre più nella paura. Egli teme che i suoi prodotti, naturalmente non tutti e non nella maggior parte, ma alcuni e proprio quelli che contengono una speciale porzione della sua genialità e della sua iniziativa, possano essere rivolti in modo radicale contro lui stesso; teme che possano diventare mezzi e strumenti di una inimmaginabile autodistruzione, di fronte alla quale tutti i cataclismi e le catastrofi della storia, che noi conosciamo, sembrano impallidire (Redemptor Hominis, n.15)». Oggi questo rischio è presente in certa ricerca della cosiddetta “biomedicina” laddove la persona appare secondaria al mercato, al successo, all’affermazione del potere della tecno-scienza sulla stessa natura umana. In tale panorama questa enciclica è un grande punto di riferimento non solo per chi ha la fede, ma anche per chi ha cuore l’uso corretto e costruttivo della ragione per il bene comune.

LA FEDE E LA PROVVIDENZA NEI « PROMESSI SPOSI »

http://luoghi-manzoniani.jimdo.com/alessandro-manzoni/fede-e-provvidenza/

LA FEDE E LA PROVVIDENZA NEI « PROMESSI SPOSI »

« Il Regno dei cieli si può paragonare al lievito, che una donna ha preso e impastato con tre misure di farina perchè tutta si fermenti ». (Mt 13, 33). Questa breve parabola aiuta a comprendere il ruolo della Provvidenza all’interno del romanzo, una Provvidenza che può essere considerata un « personaggio » fondamentale, presente in quasi ogni pagina, fedele compagna dei vari personaggi e delle vicende narrate.
« La c’è, la Provvidenza », viva, palpitante, eppure discreta e silenziosa: si affaccia nei discorsi della gente, nelle loro esclamazioni: « … Lui sa quel che fa… lasciamo fare a Quel di lassù… Dio ci aiuterà… « ; si affaccia nei pensieri di Lucia, costretta ad abbandonare la sua casa: « … Chi dava a voi tanta giocondità è per tutto; e non turba mai la gioia de’ suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande… « ; si affaccia in ogni evento della storia, che sembra solo un nodo di dolore e di tragedia senza senso, retta più dal caso, che da un disegno d’amore preciso, e che invece si rivela come linguaggio segreto della Provvidenza stessa.
La storia nei « Promessi sposi » è un succedersi di eventi l’uno più triste dell’altro: un matrimonio che va a monte per i capricci di un signorotto, la carestia, la calata dei Lanzichenecchi, la peste… è una storia tetra, che dal male passa al peggio; è una storia di tribolazioni, di affanni, di angoscia, una storia piena di morte, di lutto, di pianto.
Eppure, in tutto questo nero, si aprono spiragli di luce; la gente, incredibilmente, continua a sperare, ad avere fede, a vivere gli eventi con dignità e serenità, senza mai cedere alla disperazione, sorretta da un’incrollabile fiducia in Dio; è la fede degli umili, delle persone semplici, timorate di Dio, convinte che « Lui sa quel che fa ». Sono persone « piccole » nella fede, nel senso che, con la fiducia disarmante che solo i bambini possono avere, si affidano tranquillamente al volere di Dio; ma proprio in questa fiducia da bambini sta la grandezza della loro fede. Non sono nè superbi, nè arroganti; non vogliono a tutti i costi tentare di dare un senso a quanto sta accadendo, o peggio ancora, contestare Dio per quanto succede; non pretendono di comprendere un mistero che, con tutta la sua grandezza, sovrasta la ragione umana. Non sono come Giobbe, che parla, critica, contesta, per sentirsi rispondere: « … Chi è costui che vuole offuscare il consiglio con parole insipienti? … Io t’interrogherò, e tu mi istruirai. Dov’eri tu quand’io ponevo le fondamenta della terra? … « (Gb 38, 2. 3b-4).
Niente di tutto questo: solo la consapevolezza che Dio « … sa quel che fa… « . Certo, la storia è catastrofica, ma la Provvidenza aiuta a dare un senso radicalmente diverso ai fatti: le avversità diventano prove che verificano la forza della fede dei personaggi e permettono di renderla più salda. Anzi, le prove diventano motivo di lode e di ringraziamento a Dio: « … Ringraziate il cielo che v’ha condotti a questo stato, non per mezzo dell’allegrezze turbolente e passeggere, ma co’ travagli e tra le miserie, per disporvi ad un’allegrezza raccolta e tranquilla… « , dice fra Cristoforo a Renzo e Lucia nel lazzaretto una volta ritrovatisi. Se letta nell’ottica della fede, la storia, anche se apocalittica, anche se dolorosa, acquista un senso, perchè purifica ed eleva l’animo. I protagonisti del romanzo hanno il grande dono della fiducia, dell’attesa, della pazienza di non volere capire e vedere chiaro immediatamente in tutto. Il loro atteggiamento può essere commentato dalle seguenti parole di S. Teresa di Lisieux: « Che importa, Signore, se l’orizzonte è oscuro? Pregarti per domani non posso. Proteggimi, coprimi della tua ombra solo per oggi ». Si riconosce, pur fra mille incertezze e titubanze, che esiste una finalità intrinseca alla storia, immanente ad essa, eppure trascendente; la fede in Dio rimane l’unico conforto e la sola roccaforte contro la violenza, il dolore, il non senso. La fede è il lievito che fa fermentare tutta la pasta e la trasforma, dandole un volto, un significato, una speranza.

Publié dans:fede e ragione, Letteratura italiana |on 12 novembre, 2014 |Pas de commentaires »

QUALE RUOLO DELLA FEDE IN DIO NELLO SPAZIO PUBBLICO?

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1350548

QUALE RUOLO DELLA FEDE IN DIO NELLO SPAZIO PUBBLICO?

« Lectio magistralis » alla Lettura annuale di Magna Carta, Roma, 6 maggio 2013

di Camillo Ruini

Parleremo non del ruolo di Dio ma del ruolo della fede in Dio, nello spazio pubblico: è una precisazione necessaria perché quando si parla di Dio la questione è inevitabilmente filosofica e teologica (di questa ho parlato nel mio libro intervista con Andrea Galli). Quando invece si parla della fede in Dio la questione può essere anche storica, culturale, sociologica, politica.
La domanda su Dio però si ripropone, nel senso che occorre precisare a quale Dio si rivolga la fede: la differenza tra gli dei del politeismo, il Dio del monoteismo, o il Dio del panteismo è infatti assai grande ed ha conseguenze decisive anche per il ruolo della fede nello spazio pubblico.
Dirò dunque che mi riferisco al Dio di Gesù Cristo, cioè al Dio della nostra tradizione italiana, europea e non solo europea. Il riferimento a questo Dio ha plasmato la nostra cultura e la nostra civiltà. A mio parere, e secondo la dottrina della Chiesa cattolica, questo Dio può essere conosciuto, per alcuni aspetti, anche dalla nostra ragione e in questa misura è accessibile ai non credenti in Cristo. La piena conoscenza di lui si ha però solo accogliendo nella fede il suo manifestarsi a noi nella storia di Israele e soprattutto in Gesù di Nazaret.
Nella storia delle religioni e delle culture il ruolo di Dio nello spazio pubblico è qualcosa di ovvio e di originario, anche se viene concepito in modi molto differenziati. Le religioni, tradizionalmente, hanno svolto, e tuttora svolgono assai spesso, un ruolo centrale nella genesi e articolazione delle culture, delle società e della vita pubblica. Proprio con il cristianesimo è accaduto però qualcosa di nuovo. Per comprendere questa novità è importante inquadrarla un poco storicamente.

Nel VI secolo a.C., in un periodo nel quale sono avvenuti grandi rivolgimenti culturali in aeree geografiche anche molto distanti e disparate, in Grecia le divinità mitiche dell’Olimpo hanno cominciato ad essere soppiantate dal Dio dei filosofi, o meglio dall’Essere assoluto, unico ed eterno, con il quale però, per la sua trascendenza rispetto a noi e al mondo, non si potrebbe interloquire e non avrebbe senso rivolgersi nella preghiera. Così si apre una frattura tra la conoscenza razionale di Dio e il senso religioso.
Nello stesso periodo in Israele, proprio al tempo della catastrofe politica dell’esilio in Babilonia e della fine dell’indipendenza, giunge a compimento (ad esempio ad opera di un profeta che ha scritto la seconda parte del libro di Isaia) la convinzione che il Dio di Israele, Jahweh, non è solo l’unico Dio che Israele deve adorare, ma anche l’unico Dio esistente, creatore e salvatore universale, l’unico vero Dio di tutti i popoli.
Si ha quindi uno sviluppo analogo a quello avvenuto in Grecia, ma con una differenza essenziale: questo unico Dio è assoluto ed eterno ma è anche a noi sommamente vicino, è il Dio che si interessa di noi e ha preso l’iniziativa di rivelarsi al popolo di Israele. Di più, è il Dio sommamente libero e personale, che ha creato il mondo liberamente e per amore.
Questo è anche il Dio di Gesù Cristo: in Cristo anzi la vicinanza e l’amore di Dio giungono al vertice umanamente inconcepibile della morte del Figlio per noi. Non solo, ma anche da parte nostra il rapporto con Dio non è più legato ad aspetti etnici e giuridici, come l’appartenenza a un popolo e l’osservanza della legge mosaica, bensì è aperto a ogni persona, sulla base della libera scelta personale della fede e della conversione.
Così la libertà diventa fattore centrale nel rapporto tra Dio e noi, per così dire da entrambe le parti, dalla parte di Dio e dalla parte dell’uomo. Il cristianesimo può quindi ben dirsi la religione della libertà, oltre che la religione del Logos, della ragione, e – soprattutto – dell’amore.
Possiamo aggiungere che il concetto stesso di persona, fondamentale nella nostra civiltà, ha origini teologiche: viene sviluppato infatti nel tentativo di comprendere l’unità di Dio Padre e del Figlio, e dello Spirito Santo, nella relazione e donazione reciproca. Perciò, fin dall’origine, persona è un concetto relazionale, dice rapporto all’altro e non chiusura in se stessi.
In questo quadro assumono tutto il loro rilievo le celebri parole di Gesù “Date a Cesare quello che è di Cesare e date a Dio quello che è di Dio” (Matteo 22, 21 e paralleli). La rilevanza pubblica della fede in Dio non viene affatto negata ma passa attraverso la libertà delle persone. Che questa rilevanza pubblica sussista nel cristianesimo fin dalle origini appare nel modo più chiaro dal carattere pubblico del processo a Gesù e dal significato che i primi discepoli attribuivano alla sua risurrezione, come adempimento della promessa di Dio a Israele, che era promessa di liberazione e salvezza del popolo, e in concreto come venuta del regno di Dio annunciato da Gesù, che significava la signoria salvifica di Dio su ogni aspetto della nostra vita e della realtà.
Di fatto per i primi tre secoli della sua storia il cristianesimo ha effettivamente mantenuto e testimoniato, soprattutto attraverso il martirio affrontato per non rendere culto divino all’imperatore romano, l’affermazione sia della libertà della fede sia del suo carattere pubblico.
La svolta, come sappiamo, è avvenuta nel secolo IV, non tanto con Costantino, che si è limitato a riconoscere la libertà e liceità del culto cristiano, quanto con Teodosio, che nel suo editto del 380 impose a tutti i sudditi dell’impero il credo cristiano, nella forma del Credo del Concilio di Nicea, anche (anzi soprattutto) allo scopo di reprimere le eresie all’interno del cristianesimo e preservare l’unità dell’Impero.
Così il cristianesimo è divenuto, contro la sua origine e la sua natura più profonda, religione di Stato, sebbene, almeno in Occidente, mai in forma pacifica e piena: è stata mantenuta infatti la distinzione dei due poteri, ecclesiastico e civile (allora in concreto del papa e dell’imperatore), teorizzata un secolo dopo l’editto di Teodosio dal papa Gelasio I.
Inoltre, la teologia cattolica non ha mai ammesso che qualcuno venga obbligato con la forza a credere, ma solo – in modo in verità assai poco coerente – che venga usata la forza per impedire a chi aveva già creduto di abbandonare la fede (in concreto, per procedere contro gli eretici). Possiamo dire che alla base di questa posizione sta “l’oggettivismo” medioevale, cioè il primato unilaterale dell’istanza della verità su quella della libertà.
Solo con la fine dell’unità religiosa dell’Occidente a seguito della riforma protestante questa situazione entra in crisi. Senza ripercorrere le varie tappe di una storia nota, possiamo dire che il primato unilaterale della verità ha condotto alle guerre di religione dei secoli XVI e XVII e che si è usciti da questa situazione insostenibile attraverso la secolarizzazione della politica, cioè la fine del ruolo pubblico vincolante della fede religiosa.
Questo però non equivale ancora alla fine di ogni ruolo pubblico delle religioni, in particolare di un ruolo che passi attraverso le libere scelte dei cittadini. Uno sviluppo di questo genere si è verificato più tardi, soprattutto in Francia, con l’illuminismo francese e la rivoluzione francese, ed è tuttora tipico dei paesi latini di matrice cattolica: qui la rivendicazione della ragione e della libertà assumono un volto decisamente ostile alla Chiesa e talvolta chiuso ad ogni trascendenza, mentre la Chiesa a sua volta fatica e tarda a lungo a distinguere tra le istanze anticristiane, a cui evidentemente non poteva non opporsi, e la rivendicazione della libertà sociale e politica, che invece avrebbe potuto e dovuto essere accolta positivamente, sulla base del messaggio cristiano stesso. La “laicità” alla francese implica proprio la chiusura ad ogni ruolo pubblico delle religioni.
Che sviluppi di questo genere non fossero un portato necessario della modernità appare soprattutto dalla vicenda storica degli Stati Uniti d’America. La loro stessa nascita infatti è dovuta, in larga misura, a quei gruppi di cristiani protestanti che erano fuggiti dal sistema delle Chiese di stato, vigente anche nell’Europa protestante, e che formavano libere comunità di credenti. Il fondamento della società americana è costituito pertanto dalle Chiese libere, per le quali è essenziale non essere Chiese dello Stato ma fondarsi sulla libera unione dei credenti.
In questo senso si può dire che alla base della società americana c’è una separazione tra Chiesa e Stato determinata, anzi reclamata dalla religione e rivolta anzitutto a proteggere la religione stessa e il suo spazio vitale, che lo Stato deve lasciare libero. Per conseguenza, tutto il complesso dei rapporti tra sfera statale e non statale in America si è sviluppato diversamente che in Europa, attribuendo anche alla sfera non statale un concreto carattere pubblico, favorito dal sistema giuridico e fiscale.
In questa America, con la sua specifica identità, i cattolici si sono integrati bene, riconoscendo ben presto il carattere positivo della separazione tra Stato e Chiesa legata a motivazioni religiose e l’importanza della libertà religiosa così garantita.
Fino al Concilio Vaticano II però rimaneva una difficoltà, o una riserva di principio, che non riguardava i cattolici americani come tali, ma la Chiesa cattolica nel suo complesso. Questa difficoltà si riferiva al riconoscimento della libertà religiosa, non semplicemente come accettazione di un dato di fatto (questa accettazione c’era già prima del Concilio), ma come affermazione di un diritto.
Il Vaticano II ha superato questa difficoltà con la dichiarazione sulla libertà religiosa, documento decisivo per il rapporto tra Chiesa e modernità, come ha sottolineato Benedetto XVI in uno dei suoi ultimi discorsi, quello al clero romano del 14 febbraio scorso. Non per caso la dichiarazione sulla libertà religiosa è stata redatta con il forte contributo dei vescovi e dei teologi nordamericani.
La libertà religiosa vi è affermata chiaramente come diritto universale, fondato sulla dignità che appartiene per natura alla persona umana; non quindi, come spesso si faceva e si continua a fare, su un approccio relativistico che escluda il valore di verità di ogni religione e in particolare del cristianesimo.
Con il Concilio è stata ricuperata dunque, e concretizzata nell’attuale situazione storica, la concezione cristiana originaria della libertà del nostro rapporto con Dio.
Più in generale, il Vaticano II ha rappresentato il superamento, almeno in linea di principio, di quel ritardo storico del cattolicesimo nell’epoca moderna a cui ho accennato.
Il Concilio ha fatto propria infatti la centralità del soggetto umano, che è la rivendicazione di fondo dell’età moderna, mostrandone la radice cristiana e l’infondatezza della contrapposizione tra centralità dell’uomo e centralità di Dio.
Ha inoltre affermato la legittima autonomia delle realtà terrene (che a sua volta non significa negazione del rapporto con il Creatore). Il filosofo Giovanni Fornero, decisamente laico, scrive, alla voce “Laicismo” nel Dizionario di filosofia dell’Abbagnano, che per laicismo si intende “il principio dell’autonomia delle attività umane, cioè l’esigenza che esse si svolgano secondo regole proprie, che non siano imposte dall’esterno, per fini o interessi diversi da quelli a cui tali attività si ispirano”. Ma queste sono, quasi alla lettera, le parole con cui il Vaticano II (Gaudium et spes, 36) definisce la legittima autonomia delle realtà terrene.
Quindi anche sulla laicità, come sulla libertà religiosa e sulla centralità del soggetto umano, si poteva sperare che dopo il Concilio il contenzioso tra “cattolici” e “laici” (per usare una terminologia che non mi convince) fosse ormai alle nostre spalle. In particolare per l’Italia anche l’ostacolo del Concordato sembrava sostanzialmente rimosso, dopo che l’accordo di revisione del 1984 aveva espressamente riconosciuto che “si considera non più in vigore il principio, originariamente richiamato nei Patti lateranensi, della religione cattolica come sola religione dello Stato italiano”.
Le vicende degli ultimi decenni sembrano però smentire crudamente una tale speranza: ci troviamo infatti in una fase nuova, e acuta, della contesa intorno alla laicità, o forse più propriamente al ruolo della fede nello spazio pubblico. Ma in realtà l’oggetto del contendere si è profondamente modificato.
Non si tratta più, almeno in linea principale, dei rapporti tra Chiesa e Stato come istituzioni: a questo riguardo infatti la loro distinzione e l’autonomia reciproca sono sostanzialmente accettate e condivise sia dai cattolici sia dai laici, e con esse l’apertura pluralista degli ordinamenti dello Stato democratico e liberale alle posizioni più diverse, che di per sé hanno tutte, davanti allo Stato, uguali diritti e uguale dignità. Le polemiche che vengono sollevate su queste tematiche sembrano dunque piuttosto pretestuose e sono probabilmente il riflesso dell’altro e ben più consistente contenzioso di cui ora dobbiamo occuparci.
Oggetto di quest’ultimo sono principalmente le grandi problematiche etiche ed antropologiche che sono emerse negli ultimi decenni, a seguito sia dei profondi cambiamenti intervenuti nei costumi e nei comportamenti sia delle nuove applicazioni al soggetto umano delle biotecnologie, che hanno aperto orizzonti fino ad un recente passato imprevedibili.
Queste problematiche hanno infatti chiaramente una dimensione non soltanto personale e privata ma anche pubblica e non possono trovare risposta se non sulla base della concezione dell’uomo a cui si fa riferimento: in particolare della domanda di fondo se l’uomo sia soltanto un essere della natura, frutto dell’evoluzione cosmica e biologica, o invece abbia anche una dimensione trascendente, irriducibile all’universo fisico.
Sarebbe strano, dunque, che le grandi religioni non intervenissero al riguardo e non facessero udire la loro voce sulla scena pubblica. Come è naturale, di questo si fanno carico anzitutto, nelle diverse aree geografiche e culturali, le religioni in esse prevalenti: in Occidente quindi il cristianesimo e in particolare, specialmente in Italia, la Chiesa cattolica.
In concreto la loro voce risuona con una forza che pochi avrebbero previsto quando una secolarizzazione sempre più radicale era ritenuta il destino inevitabile del mondo contemporaneo, o almeno dell’Occidente: quando cioè sembrava fuori dall’orizzonte quel risveglio, su scala mondiale, delle religioni e del loro ruolo pubblico che è una delle grandi novità degli ultimi decenni. Vorrei ricordare, a questo proposito, la sorpresa e lo sconcerto che provocarono, anche in ambito cattolico, le affermazioni fatte da Giovanni Paolo II al convegno di Loreto, nell’ormai lontano aprile 1985, quando invitò a riscoprire “il ruolo anche pubblico che il cristianesimo può svolgere per la promozione dell’uomo e per il bene dell’Italia, nel pieno rispetto anzi nella convinta promozione della libertà religiosa e civile di tutti e di ciascuno, e senza confondere in alcun modo la Chiesa con la comunità politica”.
La vera alternativa alle grandi religioni a proposito delle questioni antropologiche ed etiche ha, per così dire, due facce, tra loro certamente collegate ma alla fine reciprocamente incompatibili.
Da una parte essa è costituita – come si è detto – dal “naturalismo”, cioè dalla convinzione che l’uomo sia integralmente riconducibile alla natura, all’universo fisico: viene meno così quel primato del soggetto umano, da considerarsi sempre come fine e mai semplicemente come mezzo, che aveva costituito l’istanza fondamentale della modernità. Questa concezione naturalistica è presentata per lo più come il risultato delle scienze empiriche, dimenticando l’autentica natura della conoscenza scientifica, che per i suoi stessi metodi è limitata a ciò che è empiricamente verificabile e non può pretendere, senza contraddirsi, di costituire una visione globale della realtà: di una simile pretesa, infatti, nessuna verifica sperimentale è possibile o anche solo ipotizzabile.
L’altra faccia dell’alternativa alle grandi religioni è la rivendicazione della libertà individuale, in rapporto alla quale andrebbe evitata ogni discriminazione. Questa libertà, per la quale in ultima analisi tutto è relativo al soggetto, viene eretta a supremo criterio etico e giuridico: ogni altra posizione può essere quindi lecita soltanto finché non contrasta ma rimane subordinata rispetto a questo criterio relativistico. In tal modo vengono sistematicamente censurate, quanto meno nella loro valenza pubblica, le norme morali del cristianesimo. Si è sviluppata così in Occidente quella che Benedetto XVI ha ripetutamente denominato “la dittatura del relativismo”, una forma di cultura che taglia deliberatamente le proprie radici storiche e costituisce una contraddizione radicale non solo del cristianesimo ma più ampiamente delle tradizioni religiose e morali dell’umanità.
Vediamo ora perché relativismo e naturalismo siano in realtà tra loro incompatibili. Già sul piano logico, il naturalismo pretende di rappresentare l’interpretazione scientifica del mondo, e dell’uomo in esso. Non è pertanto compatibile con il relativismo, per il quale ogni interpretazione è semplicemente soggettiva e destituita di validità universale.
Ma è soprattutto sul piano esistenziale, a livello del vissuto di ciascuno di noi, che la contraddizione esplode. Il relativismo, infatti, ha il suo nucleo nell’esaltazione e potremmo dire nell’assolutizzazione della libertà individuale, quindi nel valore e nella centralità del singolo soggetto. Ma è proprio questo ciò che viene radicalmente escluso dalla riconduzione del soggetto umano alla natura, a una natura che non sa niente di lui e non si cura affatto di lui. Questa contraddizione è alla base dello spaesamento e dell’inquietudine che affliggono oggi soprattutto i giovani, ma certo non soltanto essi. È qui la radice profonda di un certo affievolirsi della fiducia nella vita, anzi della voglia di vivere.
Il taglio delle proprie radici prende spesso la forma dell’odio verso la propria civiltà: si tratta di un fenomeno diffuso nell’Europa occidentale e ripetutamente denunciato da Benedetto XVI. Questo odio si rivolge particolarmente verso il cristianesimo, considerato il principale ostacolo al naturalismo e al relativismo, e a volte si insinua anche tra i credenti, svuotando dall’interno la fede cristiana e l’appartenenza alla Chiesa del loro vigore e del loro fascino.
Simili posizioni sono però lontane dall’essere da tutti condivise, anche nel cosiddetto “mondo laico”. Molti laici, infatti, ritengono di doverle rifiutare, per rimanere fedeli alle origini e alle motivazioni autentiche del liberalismo, che giudicano incompatibili con la dittatura del relativismo perché, come ha sottolineato Marcello Pera, al centro del liberalismo sta la dottrina dei diritti fondamentali dell’uomo in quanto uomo, che precedono ogni decisione sia degli individui sia degli Stati e si fondano su una concezione etica ritenuta vera e transculturale.
Joseph Ratzinger, prima e dopo la sua elezione al Pontificato, ha motivato sul piano sia storico sia teologico questa nuova sintonia tra cattolici e laici, arrivando a sostenere che la distinzione tra gli uni e gli altri “deve essere relativizzata”. Ritengo anch’io che il loro rapporto non debba necessariamente esaurirsi in un semplice dialogo, pur rispettoso e amichevole, ma possa e debba dar luogo a vere forme di collaborazione, richieste dalla presente situazione storica.
È doveroso aggiungere però che non tutti i cattolici condividono l’apertura cordiale a quei laici che sostengono queste posizioni: non mancano infatti coloro che li vedono con sospetto, temendo – secondo me a torto – che strumentalizzino la fede cristiana a fini ideologici e politici.
Il motivo principale di tale diffidenza è che non pochi, sebbene cattolici, non appaiono realmente convinti della necessità di un impegno forte nel campo dell’etica pubblica. In concreto questi cattolici rimangono piuttosto legati, in materia di laicità, al quadro classico della divisione di competenze tra istituzioni civili ed istituzioni ecclesiastiche e mi sembrano non cogliere pienamente la portata della novità costituita dall’emergere delle attuali problematiche antropologiche ed etiche.
Alcuni di loro sono anzi portati a rivendicare per sé l’autentica laicità, intesa come richiamo alla propria coscienza e come autonomia e indipendenza dal magistero della Chiesa nell’ambito dell’assunzione di responsabilità pubbliche e di scelte legislative. Sul piano politico e giuridico essi hanno certamente il diritto di agire così, ma non possono pretendere che questi comportamenti siano, per un cattolico, anche teologicamente ed ecclesialmente legittimi. Infatti, mentre per chi non è cattolico gli insegnamenti della Chiesa possono avere valore solo nella misura in cui appaiano razionalmente convincenti, per i cattolici essi hanno valore anche e anzitutto in quanto sono espressione del messaggio cristiano nelle concrete circostanze storiche.
Spingendo l’analisi più in profondità, rimane attuale la celebre tesi del grande giurista tedesco Ernst-Wolfgang Böckenförde secondo la quale lo Stato liberale secolarizzato vive di presupposti che esso stesso non può garantire e tra questi svolgono un ruolo peculiare gli impulsi e i vincoli morali di cui la religione è la sorgente.
Molto recentemente Rémi Brague ha proposto un importante aggiornamento della tesi di Böckenförde: anzitutto estendendola dallo Stato all’uomo di oggi, che in larga misura ha smesso di credere nel proprio valore, a causa della sua tendenziale riduzione alla natura e del predominare del relativismo. È l’uomo dunque, e non solo lo Stato, ad aver bisogno oggi di un sostegno che non è in grado di garantirsi da se stesso.
In secondo luogo la religione non è soltanto, e nemmeno primariamente, fonte di impulsi e vincoli etici, come sembra pensare Böckenförde. Oggi, prima che di assicurare dei limiti e degli argini, si tratta di trovare delle ragioni di vita e questa è, fin dall’inizio, la funzione, o meglio la missione più propria del cristianesimo: esso infatti ci dice anzitutto non “come” vivere, ma “perché” vivere, perché scegliere la vita, perché gioirne e perché trasmetterla.
In una prospettiva di questo genere sembra da capovolgere l’idea assai diffusa secondo la quale il progresso e il futuro dell’Italia consisterebbero nell’omologarsi a quelle altre nazioni europee nelle quali si è andati e si sta andando sempre più avanti nel mettere tra parentesi l’eredità del cristianesimo.
Al contrario, “l’eccezione italiana” – nei limiti in cui realmente esiste – può rappresentare un’indicazione positiva perché la società europea possa superare quella sua strana tendenza per la quale essa sembra compiacersi di prosciugare le energie vitali e morali di cui si nutrono le persone, le famiglie, i popoli. Proprio la percezione del valore decisivo di queste riserve di energie è ciò che accomuna oggi molti cattolici e laici e che indica un grande compito comune che ci attende.
Prendiamo ora in esame l’obiezione che viene continuamente riproposta, secondo la quale ogni riferimento a contenuti e valori oggettivi e non relativistici costituirebbe una inaccettabile limitazione della libertà e in concreto l’imposizione di una visione particolare, quella cristiana, anche a chi non la condivide.
Un’obiezione di questo genere può anzitutto essere facilmente ritorta: proprio il relativismo, infatti, tende facilmente ad assolutizzarsi, cioè a negare la liceità di posizioni diverse dalle sue, perché le ritiene incompatibili con la libertà. In questi anni ne abbiamo avuto varie conferme pratiche, come nel caso delle agenzie per l’adozione dei bambini costrette a chiudere in Inghilterra se non erano disponibili a patrocinare l’adozione da parte di coppie dello stesso sesso.
In realtà nessuna società o consorzio umano può sussistere senza dotarsi di alcune norme che valgano per tutti i suoi membri. Perché una società sia libera ciò che conta è che queste norme vengano stabilite attraverso il libero gioco democratico e che attraverso il medesimo gioco possano essere modificate o anche cambiate integralmente. È questa la condizione comune in cui si trovano sia coloro che vogliono introdurre cambiamenti sostanziali nelle concezioni antropologiche ed etiche che erano condivise praticamente da tutti fino a un secolo fa, sia coloro che vogliono invece conservarle nella loro sostanza. Gli uni e gli altri possono ugualmente concorrere a stabilire le norme che valgono per tutti: prevarrà chi saprà ottenere la maggioranza dei consensi.
Ciò naturalmente non significa che competa a una maggioranza stabilire cosa sia vero o falso, e nemmeno cosa sia in se stesso giusto o ingiusto. Il gioco democratico non riguarda la verità delle cose, ma solo le regole comuni di comportamento. Coloro che, per motivi di coscienza, ritengono di non potersi adeguare a tali norme, è giusto che abbiano la possibilità dell’obiezione di coscienza. Se le leggi, in quel caso, non consentono tale obiezione, si potrà dare testimonianza delle proprie convinzioni in una forma più costosa ma anche più forte, affrontando le pene previste dalla legge. In effetti i più eroici ed efficaci obiettori di coscienza furono e sono i martiri cristiani delle diverse epoche storiche.
Vorrei infine cancellare l’impressione per la quale le posizioni che si rifanno a una matrice cristiana, sia perché animate dalla fede sia per motivi non di fede ma di cultura, sarebbero inevitabilmente prigioniere del passato e incapaci di aprirsi agli sviluppi e ai cambiamenti che ci attendono e sono anzi già in corso.
Ho sottolineato infatti che il cristianesimo è la religione sia del Logos, sia della libertà, sia dell’amore e della persona come essere in relazione. Sono questi i contenuti essenziali da salvaguardare e proprio essi aprono al futuro, che è appunto il frutto della nostra ragione e della nostra liberà e che può essere costruito in maniera utile e non distruttiva solo attraverso la capacità di relazionarsi all’altro e di collaborare con lui, come mostra tutta l’esperienza storica.
Perciò non si tratta affatto di negare la storicità dell’uomo e il variare delle forme storiche in cui la convivenza umana si realizza. Si tratta solo di mantenere, in questo continuo variare, quei fattori essenziali che rendono possibile uno sviluppo autentico, perché conforme alla specificità e dignità irriducibile del nostro essere.
Per riassumere tutto si potrebbe dire che, come nel medioevo si ebbe una prevalenza unilaterale della verità sulla libertà, così la tentazione del nostro tempo è un’altrettanto unilaterale prevalenza della libertà sulla verità del nostro essere.
Tenere distinti questi due piani, della libertà e della verità, ma anche cercare sempre di nuovo una loro possibile sintesi è la difficile impresa che il tempo in cui viviamo ha davanti a sé.

Roma, 6 maggio 2013

Publié dans:Cardinali, fede e ragione, LECTIO |on 12 novembre, 2014 |Pas de commentaires »

Fede, ragione e dialogo tra le religioni (Jean-Louis Tauran)

dal sito:

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/cultura/2010/295q05a1.html

(L’Osservatore Romano 23 dicembre 2010)

Fede, ragione e dialogo tra le religioni

Se conosciamo noi stessi possiamo confrontarci con gli altri

Pubblichiamo ampi stralci della lezione tenuta dal cardinale presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo interreligioso in occasione del dottorato honoris causa che gli è stato conferito dall’Institut Catholic di Parigi.

di Jean-Louis Tauran

Ci sono coincidenze nella storia che in realtà sono appuntamenti. Il 25 agosto 1900, a Weimar, uno scrittore moriva nella follia, Friedrich Nietzche. Qualche tempo prima, aveva composto una sorta di biografia, Ecce Homo, rivelatrice dell’angoscia che lo attanagliava:  « Dov’è Dio? » si chiedeva. « Ve lo dirò io:  l’abbiamo ucciso, voi e io. Dio è morto, siamo noi ad averlo ucciso ». Nello stesso momento, a Roma, un vecchio Papa, Leone xiii (aveva allora 90 anni) redigeva quella che sarebbe stata l’enciclica Tametsi futura, resa pubblica il 1° novembre 1900. « Bisogna reintegrare il Signore Gesù nel suo ambito; molti sono lontani da Gesù Cristo, più per ignoranza che per perversità; numerosi sono quelli che studiano l’uomo e la natura, ben pochi quelli che studiano il Figlio di Dio. Supplichiamo quanti sono cristiani di fare tutto il possibile per conoscere il loro Redentore com’è veramente ».
L’accostamento dei due testi rivela il dramma spirituale che vivono ancora gli uomini e le donne di quel tempo. Da un lato, la ribellione dell’intelligenza e dall’altro l’adesione a un Dio che esercita la sua sovranità sulla mente di ognuno nella concretezza del quotidiano. Abbiamo sperimentato cos’è il mondo senza Dio:  l’inferno. L’umanità nel secolo scorso ha conosciuto la notte dei due totalitarismi che hanno generato gli eccessi che conosciamo fin troppo bene. Essi avevano annunciato la morte di Dio, organizzato la persecuzione dei credenti ed escluso definitivamente la religione dalla sfera pubblica.
Ma Dio, che era stato congedato, in realtà era sempre lì. Come poteva essere diversamente? L’ateismo insegnato e praticato non è mai riuscito a eliminare Dio dall’orizzonte dell’uomo. La ricerca di Dio nasce più forte che mai, il sacro interroga, la presenza di un islam europeo che si afferma, il successo delle sette, l’attrazione esercitata dalle forme di saggezza provenienti dall’Asia, il lungo Pontificato di Giovanni Paolo II che ha ridato alla Chiesa la sua visibilità e l’insegnamento di Papa Benedetto XVI che le dà la sua interiorità, hanno contribuito a farci ricordare che l’uomo è prima di tutto la creatura che s’interroga sul « senso del senso » (Paul Ricouer). È la coscienza – la facoltà di riflettere sul proprio destino, sul senso della vita e della morte – a distinguere l’uomo dai regni vegetale e animale. Egli è il solo a prevedere un aldilà. La religione non è un momento particolare della storia, essa appartiene alla natura dell’uomo. Nelle nostre società multiculturali e plurireligiose, credenti o non credenti, tutti, ci poniamo le tre domande fondamentali di Emmanuel Kant:  che cosa posso conoscere? Che cosa devo fare? Che cosa posso sperare?
Credenti o non credenti, aspettiamo qualcosa che dia senso alla nostra esistenza, che salvi la nostra vita dall’inutilità e dall’abisso. Alcuni lo trovano nella politica, altri nell’apparire, altri ancora nell’edonismo. Come ha così ben osservato Dostoevskij:  « L’uomo non può vivere senza inginocchiarsi davanti a qualcosa (…) se l’uomo rifiuta Dio, s’inginocchierà davanti a un idolo. Noi siamo tutti idolatri e non atei ». Il desiderio di credere è così forte nell’uomo che, dopo aver espulso Dio dalla propria vita, un’altra fede vi s’insedierà:  la fede in un altro assoluto che non è altro che l’uomo stesso:  « Homo homini deus » per dirla come Feuerbach. Ieri Dio era assente; oggi ci sono troppi dei!
È in questo contesto che si situa il dialogo interreligioso. Quando i credenti dialogano, cercano di conoscersi e di arricchirsi gli uni gli altri con il loro patrimonio spirituale, rispettando allo stesso tempo la libertà di ognuno, al fine di considerare quello che possono fare insieme per il bene della società. Il dialogo interreligioso non ha come fine la conversione dell’altro, sebbene spesso la favorisca. Il dialogo interreligioso sarà però autentico solo se ognuno resterà fedele alla propria fede. Non la si mette affatto fra parentesi; al contrario la si approfondisce per essere meglio in grado di darne conto.
Direi che tre atteggiamenti s’impongono:  il dovere dell’identità, avere un’identità spirituale (problema dell’ignoranza in materia di religione); il coraggio dell’alterità, gli altri credenti possono arricchirmi; la franchezza delle nostre intenzioni, testimoniamo, proponiamo, evitando gli eccessi del proselitismo. Ma il paradosso sta nel fatto che le religioni sono spesso percepite come un pericolo:  fanatismo, fondamentalismo, derive settarie, sono di frequente associate alla religione, e ciò soprattutto a causa di azioni terroristiche ispirate da motivi religiosi, perpetrate da adepti sviati e minoritari di una religione.
« Nessuna circostanza vale a giustificare tale attività criminosa, che copre di infamia chi la compie, e che è tanto più deprecabile quando si fa scudo di una religione, abbassando così la pura verità di Dio alla misura della propria cecità e perversione morale ». Non conosco condanna più sferzante di quella di Benedetto XVI pronunciata davanti al Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede all’inizio del 2006. In effetti le religioni – o piuttosto alcuni credenti – sono capaci del meglio come del peggio. Le religioni possono mettersi al servizio di un progetto di santità o di alienazione:  possono predicare la pace o la guerra. Da qui la necessità per i loro responsabili di coniugare fede e ragione.
Cosa possono apportare le religioni alla società? Sono una risorsa?
La mia risposta è evidentemente affermativa. Se esiste un umanesimo, esso affonda le sue radici nell’humus cristiano:  la persona umana come valore supremo, la sua dignità, i suoi diritti fondamentali, il principio di solidarietà e di sussidiarietà, la giustizia e la pace sono valori cristiani. La prima scuola nel continente europeo è fondata da un monaco, Alcuino, alla corte di Carlo Magno. È la Chiesa cattolica a fondare le prime università. Le élite del continente africano e di quello asiatico sono state formate in istituti d’istruzione cristiani. Ci sono pensatori e teologi all’origine del diritto delle genti.
È il Papato a realizzare le prime meditazioni di pace. Infine, bisogna ricordare che è stato il cristianesimo a riuscire a far inscrivere nelle società moderne la distinzione fra il fatto politico e il fatto religioso, principio che ha sconvolto le relazioni internazionali. Tutte le religioni ritengono la famiglia come l’ambito in cui s’impara a vivere insieme; che la terra, quella in cui sono nato, con la sua storia, modella la mia identità; che l’educazione è non solo conoscenza ma anche trasmissione di valori e che la politica e l’economia non sono il tutto dell’uomo; infine che la vita interiore è necessaria.
La grandezza dell’ebraismo, come quella dell’islam, consiste indubbiamente nel denunciare l’idolatria. La grandezza del cristianesimo nel ricordare che Dio si è fatto uomo affinché diventassimo suoi figli. Insieme dobbiamo denunciare ogni pretesa dell’uomo a farsi Dio. Non dimentichiamo mai che la tentazione del paganesimo è di divinizzare tutto.
Tutti i credenti dovrebbero poter unire le loro buone volontà quando si tratta di servire, di curare, di educare. Purtroppo però due grandi ostacoli condizionano il diffondersi dei credenti:  la crisi dell’intelligenza e la difficoltà della trasmissione dei valori.
La crisi dell’intelligenza:  siamo uomini e donne superinformati, ma abbiamo grandi difficoltà a pensare, a mettere in ordine le nostre idee, ad assaporare il silenzio. Ciò che manca di più all’uomo di oggi è una vita interiore. Pascal diceva:  « La grande disgrazia degli uomini è che non sanno stare a riposo nella propria stanza ».
La crisi della trasmissione dei valori:  siamo assicurati contro tutti gli infortuni, salvo la malattia e la morte, e ciò che importa è sentirsi senza vincoli, anche se per questo si deve sacrificare un amico, un parente, un collega. Si pratica un umanesimo sociale che si riduce a dire:  non facciamo il male, ma non abbiamo bisogno di Dio per fare il bene! È un mondo chiuso a Dio! L’uomo è capace di vere imprese; non si deve aspettare nulla da Dio!
Ora noi cristiani faremo sempre resistenza di fronte a questo mondo. Con le parole di Pascal:  « Al di fuori di Gesù Cristo non sappiamo né cos’è la vita, né cos’è la morte, né cos’è Dio, né cosa siamo noi stessi ». Ma è a questo mondo, al nostro mondo, che dobbiamo annunciare Gesù Cristo e il suo Vangelo, « con dolcezza e rispetto », come raccomanda Pietro. Di fatto l’unico problema esistente, e che è il valore fondamentale da trasmettere e da proporre, è di sapere se c’è stato un caso unico in cui un uomo ha avuto il diritto di dire di essere Dio; non perché quest’uomo si è fatto Dio, ma perché Dio si è fatto uomo. È tutto qui! Non è un’utopia!
Ecco cosa dobbiamo proporre, ecco cosa celebriamo. Se proviamo a volte qualche dubbio, un po’ di sconforto, ricordiamoci di quei due doni magnifici con cui Dio ci ha gratificati:  un’intelligenza per comprendere e un cuore per amare.
Non dobbiamo essere complessati. Si dice che siamo minoritari. Diciamo che siamo una minoranza che conta! Nel Collège des Bernardins, Benedetto XVI ha magistralmente ricordato la novità dell’annuncio cristiano. Questa novità non è altro che la possibilità di dire ora a tutti i popoli:  « Egli si è mostrato. Egli personalmente. La novità dell’annuncio cristiano non consiste in un pensiero ma in un fatto:  Egli si è mostrato ». Il Papa proseguiva dicendo che i nostri contemporanei, nonostante le apparenze, sono essi stessi alla ricerca di Dio e devono essere messi in condizione di poter « cercare Dio e lasciarsi trovare da Lui:  questo oggi non è meno necessario che in tempi passati ». E concludeva:  « Una cultura meramente positivista che rimuovesse nel campo soggettivo come non scientifica la domanda circa Dio, sarebbe la capitolazione della ragione, la rinuncia alle sue possibilità più alte e quindi un tracollo dell’umanesimo, le cui conseguenze non potrebbero essere che gravi ». La ricerca di Dio e la disponibilità ad ascoltarlo restano ancora oggi il fondamento di qualsiasi cultura vera.
Il dialogo interreligioso non può riposare su una base d’ignoranza globale. Noi abbiamo delle radici; dobbiamo conservare il patrimonio umano e spirituale che ci ha modellati. Abbiamo un ruolo da svolgere dal momento che tanti giovani sono eredi senza eredità e costruttori senza modello.
Nel 1905 Ferdinand Buisson non esitò a scrivere:  « Per l’educazione di un bambino che deve diventare uomo, è bene che sia, di volta in volta, messo a contatto con i versetti appassionati dei profeti d’Israele e con i filosofi greci, che abbia conosciuto e sentito qualcosa della Città antica. Sarà bene che gli si facciano conoscere e ascoltare le più belle pagine del Vangelo, come pure quelle di Marco Aurelio, che abbia sfogliato, come Michelet, tutte le Bibbie dell’umanità, che gli si faccia attraversare, non con pregiudizi e con spirito critico, ma con calorosa simpatia, tutte le forme di civiltà che si sono succedute. Ciò che risulterà da questo studio non sarà il disprezzo, l’odio, l’intolleranza, al contrario sarà una profonda simpatia, un’ammirazione rispettosa per tutte le manifestazioni del pensiero incessantemente in cammino verso un ideale incessantemente in crescita ».
Il secolo che inizia ha ereditato da quello che l’ha preceduto:  come lo scorso secolo anche questo è dominato dall’economia, dalle guerre e dalle disuguaglianze. Ma è anche arricchito dai progressi delle scienze e della tecnica. I nostri contemporanei sono più consapevoli delle loro responsabilità nella gestione delle risorse naturali e nell’uso da fare dei risultati della ricerca scientifica. Dopo aver dominato le realtà fisiche, ci si avventura ora nel dominio del vivente. Una domanda sorge spontanea:  andiamo verso uno scontro o verso un dialogo fra culture e religioni? Come cristiani quale sarà il nostro contributo? Saremo ispiratori o accompagnatori? È indubbiamente difficile rispondere, ma sono convinto che il cristianesimo, che non è mai stato tanto universale come lo è oggi, saprà, come ha saputo fare nel corso della sua lunga storia, approfittare della globalizzazione – che è un dato di fatto – per offrire il suo contributo a due necessità che quest’ultima non è stata in grado di assicurare:  la giustizia e la pace. Lo faremo nella Chiesa, questa Chiesa talora con il volto segnato, ma sempre nascente, che genera apostoli capaci di osare affinché questa terra non sia mai priva di speranza e di amore.
Si pone spesso la domanda:  il cristianesimo morirà? Personalmente mi pongo un’altra domanda; quando il cristianesimo inizierà a esistere?
Ciò che è allo stesso tempo magnifico e terrificante è che Dio ci lascia liberi. Noi possiamo dire « no » a Dio! Abbiamo il potere di salvarci o di perderci. Il problema non è né la morte, né l’assurdo, è la libertà. Tale è Dio, tale è l’uomo. Il che faceva dire al grande poeta tedesco contemporaneo di Goethe, Friedrich Hölderlin:  « Dio ha creato l’uomo, come il mare fa i continenti, ritirandosi ».

Publié dans:fede e ragione |on 11 avril, 2011 |Pas de commentaires »

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