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IL PROGETTO DI UN’ECOLOGIA INTEGRALE. L’ARMONIA CON DIO, CON GLI ALTRI, CON LA NATURA, CON SE STESSO

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IL PROGETTO DI UN’ECOLOGIA INTEGRALE. L’ARMONIA CON DIO, CON GLI ALTRI, CON LA NATURA, CON SE STESSO

Felice Accrocca

Il 29 novembre 1979 – con la lettera Inter sanctos – Giovanni Paolo II proclamava l’Assisiate patrono dei cultori dell’ecologia poiché la sua figura spiccava tra i santi e gli altri grandi uomini che avevano «percepito gli elementi della natura come uno splendido dono di Dio agli uomini» e avevano contemplato «in modo singolare le opere del Creatore». Secondo Jacques Dalarun ciò ha favorito un malinteso, in quanto «in tutti i suoi scritti Francesco non usa mai il termine natura: è un controsenso pensare che potesse venerare un concetto che gli è estraneo. Francesco – precisa infatti lo storico francese – non venera la natura: celebra la creazione»[1]. Si tratta di puntualizzazioni senz’altro opportune, anche se credo che pur utilizzando un termine non del tutto appropriato, Giovanni Paolo II intendesse dire sostanzialmente le stesse cose affermate da Dalarun.
Nell’occasione, papa Wojtyla faceva espressa menzione del Cantico di frate sole, dal quale un altro pontefice, Francesco, avrebbe tratto – decenni più tardi – l’ispirazione e il titolo per una straordinaria enciclica sulla «cura della casa comune»[2]. In questo testo, Francesco d’Assisi viene descritto come «l’esempio per eccellenza della cura per ciò che è debole e di un’ecologia integrale, vissuta con gioia e autenticità». San Francesco, sostiene il papa,
manifestò un’attenzione particolare verso la creazione di Dio e verso i più poveri e abbandonati. Amava ed era amato per la sua gioia, la sua dedizione generosa, il suo cuore universale. Era un mistico e un pellegrino che viveva con semplicità e in una meravigliosa armonia con Dio, con gli altri, con la natura e con se stesso. In lui si riscontra fino a che punto sono inseparabili la preoccupazione per la natura, la giustizia verso i poveri, l’impegno nella società e la pace interiore (LS 10).
Una sintesi inclusiva, completa ed efficace. Dico inclusiva perché non di rado letture parziali dell’esperienza di Francesco d’Assisi si sono incrociate e scontrate, con l’obiettivo di sottolineare un aspetto della sua poliedrica personalità a scapito dell’altro, se non in opposizione all’altro.
In tal modo, molti hanno finito per forgiarsi un Francesco a proprio uso e consumo, senza preoccuparsi troppo se il ritratto confezionato fosse o meno supportato dalle fonti. Si è così giunti a plasmarne un modello buono per ogni stagione – dal vegetariano, al pacifista, al patriottico e così via –, vivisezionandolo senza posa, estrapolando aspetti specifici della sua personalità per poi assolutizzarli fino a fare di essi il tutto di quella esperienza, dimenticando spesso la sorgente da cui tutto era scaturito, vale a dire il suo rapporto con il Dio di Gesù Cristo. Mi propongo, in queste pagine, di far percepire qualcosa di quell’«ecologia integrale» di Francesco, che seppe ricostruire «una meravigliosa armonia con Dio, con gli altri, con la natura e con se stesso».

1. L’armonia con Dio
Nel Sacro Convento di Assisi, nella cappella delle reliquie (vi si accede dalla basilica inferiore), si conserva una piccola pergamena (10×13 cm) che contiene, su entrambi i lati, due brevi autografi di Francesco, straordinariamente e meritatamente famosi: si tratta delle cosiddette Lodi di Dio Altissimo e della Benedizione a frate Leone. Secondo quanto attesta Tommaso da Celano, il Santo scrisse quelle parole sul monte della Verna a sostegno di uno dei suoi compagni, chiamato ad affrontare una forte tentazione. Quel frate, riferisce l’agiografo,
desiderava ardentemente di avere a sua consolazione uno scritto contenente parole del Signore con brevi note scritte di proprio pugno da san Francesco. Era infatti convinto che avrebbe potuto superare o almeno sopportare più facilmente la grave tentazione, non della carne ma dello spirito, da cui si sentiva oppresso[3].
Tommaso non indica il nome del destinatario, ma fortunatamente è proprio quest’ultimo a rivelarci la sua identità attraverso le parole da lui stesso vergate sulla pergamena, nel lato che riporta la Benedizione. Si tratta, come tutti sanno, di frate Leone. Dall’insieme dei dati così trasmessi si può supporre che in un primo tempo – comunque, «dopo l’impressione delle stimmate» – e per motivazioni proprie (per rendere «grazie a Dio per il beneficio a lui fatto», dice Leone), Francesco scrisse su un foglio le Lodi di Dio Altissimo; poi, in un secondo momento, a richiesta del frate tentato, consegnò a quest’ultimo il testo che egli aveva inizialmente redatto per proprio conto, aggiungendovi, sul retro, la benedizione accompagnata da un disegno di sua mano. Un testo senza dubbio straordinario. Quel che è importante capire, per intenderne appieno la natura e il contenuto, è cosa avesse intenzione di dire frate Leone quando accennò al beneficio ricevuto da Francesco. Senz’altro si riferiva alle stimmate. Ma ad esse soltanto?
Ora, sappiamo che gli ultimi anni di vita del Santo non furono affatto facili. Alla redazione del testo definitivo della Regola si era finalmente giunti con molte difficoltà, a prezzo di numerosi e dolorosi contrasti. A ciò si aggiungano le incomprensioni e – se non vogliamo usare eufemismi – persino i maltrattamenti che Francesco fu talvolta costretto a subire da parte di alcuni confratelli (CAss 11: FF 1554). Nell’apologo Sulla vera letizia, alla domanda di frate Leone su cosa si dovesse intendere per «vera letizia», è possibile – per non dire probabile – che con la sua risposta egli volesse rappresentare anche lo stato in cui poteva essersi effettivamente venuto a trovare (forse, in più di un’occasione), se non per il ripetersi di una situazione identica a quella descritta, per aver comunque subito il rifiuto dei suoi, a volte malcelato, altre volte manifesto. Alla fine, Francesco ebbe un crollo; la testimonianza dei compagni ci offre un quadro particolareggiato di quei terribili momenti di solitudine. Essi narrarono, infatti, che subì una «gravissima tentazione dello spirito», durante la quale «alle volte fuggiva la compagnia dei fratelli, perché non riusciva a mostrarsi loro ilare come soleva essere». Rimase due anni in quella difficile condizione, fin quando non ne fu liberato dal Signore (CAss 63: FF 1591).
Francesco, quindi, ebbe anch’egli il suo Getsemani. Come tutti i grandi mistici gli fu chiesto di attraversare la notte buia dello spirito, durante la quale gli sembrò che il Signore tacesse, che non rispondesse al suo grido di angoscia. Non è del tutto azzardato collocare le stimmate a ridosso del superamento di questo periodo difficile: sulla Verna, Francesco avrebbe dunque avuto la risposta definitiva ai propri dubbi. Si tratterebbe della risposta evidente di Dio dopo un doloroso periodo di “assenza”. Il «beneficio» ricevuto potrebbe perciò consistere non solo e non tanto nell’impressione delle stimmate, ma nel dono – immenso – di una pace interiore ritrovata, che gli faceva accettare con serenità pure situazioni che prima erano state per lui causa di tentazione.
Quelle Lodi straordinarie costituirebbero, quindi, il sigillo di un’armonia ritrovata a caro prezzo, un bene immenso a lungo agognato da Francesco. Un’armonia che diventa sigillo di un’esistenza vissuta in Dio e tutta orientata al suo servizio, il che – d’altronde – è quanto propose ai frati esortandoli con queste parole:
Nient’altro dunque dobbiamo desiderare, niente altro volere, nient’altro ci piaccia e diletti, se non il Creatore e Redentore e Salvatore nostro, solo vero Dio, il quale è il bene pieno, ogni bene, tutto il bene, vero e sommo bene [...]. Niente dunque ci ostacoli, niente ci separi, niente si interponga (Rnb XXIII, 9.10: FF 70-71).

2. L’armonia con gli altri
Non sempre Francesco mostrò amabilità di carattere, poiché in alcuni momenti giunse letteralmente a perdere le staffe, come quando salì sulla casa che era stata costruita alla Porziuncola senza il suo consenso e cominciò a scoperchiarne il tetto (CAss 56: FF 1579) o quando, a Bologna, fece uscire tutti i frati – anche i malati – da una dimora edificata appositamente per loro, proprio perché la voce corrente diceva essere quella la «casa dei frati» (2Cel 58: FF 644). Peraltro, i compagni e lo stesso frate Leone testimoniarono, senza mezzi termini, il timore che i frati, anche frate Elia, nutrivano nei riguardi di Francesco[4]. Nondimeno, quest’uomo sanguigno, capace di scagliare vere e proprie maledizioni[5] – altra cosa, perciò, dal Santo ritratto spesso in maniera sdolcinata dalla carta stampata e dalla cinematografia –, seppe mostrare grande sensibilità, anche in momenti non facili della sua vita.
Esemplare, in tal senso, la lettera autografa che scrisse a frate Leone; un paleografo del valore di Attilio Bartoli Langeli ha potuto dimostrarne le diverse fasi di scrittura: le ultime quattro righe dell’originale, infatti, furono aggiunte da Francesco in un secondo momento. Inizialmente, in risposta ai dubbi di Leone, egli si era espresso in tono piuttosto duro:
Frate Leone, il tuo frate Francesco ti augura salute e pace. Così dico a te, figlio mio, come madre, che tutte le parole, che abbiamo detto lungo la via, le riassumo brevemente in questa parola di consiglio, e non c’è bisogno che tu venga da me per consigliarti, perché così ti consiglio: in qualunque maniera ti sembra meglio di piacere al Signore Dio e di seguire le sue orme e la sua povertà, fatelo con la benedizione del Signore Dio e con la mia obbedienza (LfL 1-3: FF 249-250).
Leone non aveva dunque alcuna ragione per tornare da Francesco, poiché quest’ultimo gli aveva detto tutto quanto aveva da comunicargli. La lettera veniva chiusa dal Tau che l’Assisiate apponeva abitualmente in calce ai propri scritti (3Cel 3: FF 828; LegM IV, 9: FF 1079). Egli faceva così capire al confratello che non desiderava vederlo; in un secondo momento, dovette tuttavia pentirsi della sua iniziale durezza. Così raschiò il Tau e, con penna e inchiostro diversi da quelli utilizzati in precedenza, scrisse le ultime quattro righe nell’esiguo spazio ancora disponibile: «E se a te è necessario, perché tu ne abbia altra consolazione, che la tua anima ritorni a me, e tu lo vuoi, vieni!» (LfL 4: FF 250).
Grazie all’autografo, è quindi possibile penetrare – almeno per un attimo – nell’animo di Francesco, scorgerne turbamenti e ripensamenti interiori. Capiamo perciò che ci troviamo di fronte a un uomo forse portato ad agire d’impulso, ma che sapeva comunque riconoscere le intemperanze del proprio carattere; un uomo in lotta con la propria umanità, anche per lui – e non potrebbe essere altrimenti – difficilmente governabile. Eppure quale molla l’aveva fatto scattare? Un carattere, per quanto impulsivo, ha comunque bisogno che s’accenda una miccia per scoppiare. Il terreno, naturalmente, è insidioso, le ipotesi non sono suffragate da dati certi. Quella che propongo è perciò una lettura forse possibile, o meglio, una proposta interpretativa conscia della sua debolezza.
Credo che una spiegazione sia infatti possibile a partire dalla considerazione della temperie spirituale vissuta in quegli anni dall’Assisiate. La lettera fu scritta entro il 1224: dopo quella data Francesco e Leone, di fatto, vissero insieme e uno scritto del genere non si giustificherebbe; inoltre, negli ultimi anni di vita, Francesco era ormai del tutto cieco. Ora, molto probabilmente, proprio negli anni precedenti il 1224 – come s’è accennato – il Santo fu preda di una «gravissima tentazione dello spirito» (CAss 63: FF 1591). Giungendo in un momento tanto difficile, la richiesta di Leone avrebbe senz’altro potuto provocare l’iniziale rifiuto di Francesco: tali incontri, ormai, gli costavano troppo – sia dal lato psicologico che spirituale – ed era forte la tentazione di evitarli. In un primo tempo, dunque, egli potrebbe aver ceduto all’impulso che gli suggeriva di rispondere subito con un «no» secco. Poi, tornando in se stesso, dovette ritenere più giusto non dare la precedenza ai propri problemi, privando l’amico di un incontro al quale teneva tanto.
Non poteva, cioè, non vivere quanto egli stesso chiedeva ad altri. Dobbiamo infatti tener presente che – con tutta probabilità – nei primi mesi del 1223, un ministro, logorato dalle tensioni che gli procuravano i suoi rapporti con i frati, scrisse a Francesco chiedendogli il permesso di potersi ritirare in un eremo. Per tutta risposta questi l’invitò a «reputare una grazia» tutte quelle cose che gli impedivano «di amare il Signore Iddio» e tutti coloro – «frati o altri» – che a lui si opponevano: «E ama – l’esortò – coloro che ti fanno queste cose. E non aspettarti da loro altro, se non ciò che il Signore ti darà. E in questo amali e non pretendere che siano cristiani migliori» (Lmin 2-5: FF 234). Gli additava così una via diversa: non la separazione dai fratelli, ma un’immersione totale nella fraternità, priva di difese e di attese nei riguardi degli altri, indicando nella misericordia la via privilegiata per guadagnare a Cristo i suoi frati.
Se a un ministro Francesco aveva chiesto tanto, poteva egli stesso esimersi dal bere il calice? Così, lottando aspramente, corresse il tono iniziale della lettera – che finiva per apparirgli troppo duro – e fece marcia indietro. Con sensibilità veramente materna – «come una madre» –, seppe dunque mettere le esigenze di Leone davanti alle proprie. Per lui, infatti, veniva sempre prima l’Altro, il totalmente Altro, immensamente distante e sorprendentemente vicino; poi l’altro, il fratello che Dio metteva sui suoi passi e che lui si sforzava di vedere con gli occhi dell’Altissimo. Solo alla fine veniva lui, al quale non fece mai sconti di nessun genere. Pure l’armonia con i fratelli, come quella con Dio, fu dunque conquistata a prezzo di un’ascesi non facile.

3. L’armonia con il creato
La conversione spinse Francesco a guardare con occhi diversi a uomini e cose: anche agli animali, che divennero i suoi fratelli più piccoli, anche al creato che si rivelò ai suoi occhi come l’orma del Creatore. Da questa consapevolezza nuova mosse l’esigenza di una lode incessante di Dio, riservata non agli uomini soltanto, ma a tutta intera la creazione. Solo in questo contesto possiamo comprendere nella sua piena e vera luce il Cantico di frate sole, il più famoso tra i compimenti poetici di Francesco. Un testo che – contrariamente a quel che molti credono – nacque in circostanze umanamente tutt’altro che positive. Nei primi mesi del 1225, ormai sullo scorcio della propria esistenza, Francesco si fermò per oltre cinquanta giorni a San Damiano, in preda ad atroci sofferenze. A un certo momento, una notte, non ce la fece più e invocò il soccorso del Signore; si sentì così rispondere in spirito: «Fratello, rallegrati e gioisci di cuore nelle tue infermità» (CAss 83: FF 1614); il mattino seguente compose il Cantico di frate sole. Ricordano i compagni:
Quando era più tormentato dal male, incominciava a dire le Lodi del Signore, e poi le faceva cantare dai suoi compagni, perché, andando dietro al canto, potesse dimenticare l’acerbità dei dolori e delle malattie. E così fece fino al giorno della sua morte (CAss 83: FF 1615).
Quella poesia che nei secoli ha dato pace e consolazione a milioni e milioni di uomini nacque dunque in un momento di particolare dolore, eco di un animo pacificato nel profondo e perciò capace d’invitare tutte le creature alla lode di Dio.
Una questione ancora aperta, che si rivela di non poca importanza per comprendere il testo e il rapporto di Francesco con il creato, è il modo d’intendere la preposizione «per», tante volte ripetuta nel Cantico («Laudato si’, mi’ Signore, per»). Le citazioni da due studiosi, entrambi seri e competenti, bastano a darci il quadro della contesa: Carlo Paolazzi asserisce, infatti, in modo netto, che il «per»

va inteso in senso strumentale («per mezzo di sorella Luna», «per mezzo di fratello Vento»), non in senso causale («a causa di…»), che distoglierebbe la pienezza della lode dal Creatore, dirottandola sulle creature[6].
Dal proprio canto, Daniele Solvi ritiene che la testimonianza dei compagni – da lui giudicata «autorevole» (il riferimento è a CAss 83: FF 1615) – spinga piuttosto a credere che il «per» «doveva avere valore causale, non strumentale o di agente»[7]. Cosa dire in proposito?
È bene anzitutto precisare che pure in altri suoi scritti Francesco invita le creature tutte a lodare il Signore. Così, ad esempio, nelle Lodi per ogni ora (Lora 5-8: FF 264) oppure nell’Esortazione alla lode di Dio (Eslod 5-7.11-12: FF 265a). Non si ha, tuttavia, la stessa chiarezza quando si tratta del Cantico di frate sole. La situazione appare in effetti complessa e neppure le testimonianze agiografiche si rivelano concordi. Infatti, mentre secondo Tommaso da Celano Francesco volle invitare tutte le creature alla lode di Dio (Mem 213: FF 803), i compagni del Santo danno una diversa lettura del testo (CAss 83, 88: FF 1615, 1624).
Il panorama variegato non consente – a mio avviso – di assumere una posizione netta ed esclusiva. Non è detto, peraltro, che le due opinioni non possano coesistere. Certo è che Francesco ha utilizzato l’uno e l’altro registro, entrambi finalizzati alla lode di Dio. I compagni, infatti, ricordano come Francesco comandasse al frate ortolano di non coltivare tutto il terreno, ma di lasciarne libera una parte affinché producesse erbe verdeggianti che poi fiorissero al tempo opportuno; egli, inoltre,
diceva che il frate ortolano doveva fare un bel giardinetto da qualche parte dell’orto, dove seminare e trapiantare ogni sorta di erbe odorose e di piante che producono bei fiori, affinché nel tempo della fioritura invitino tutti quelli che le guardano a lodare Dio, poiché ogni creatura dice e grida: Dio mi ha fatta per te, o uomo (CAss 88: FF 1623).
Servendosi delle testimonianze dei compagni, Tommaso da Celano concettualizzò quel che essi lasciavano intuire, estraendo dalle loro memorie il succo di una lezione di vita. Secondo il Celanese, infatti, agli occhi di Francesco il mondo appariva come uno «specchio tersissimo» della bontà di Dio:
In ogni opera loda l’Artefice; tutto ciò che trova nelle creature lo riferisce al Creatore. Esulta di gioia in tutte le opere delle mani del Signore, e attraverso questa visione letificante intuisce la causa e la ragione che le vivifica. Nelle cose belle riconosce la Bellezza Somma, e da tutto ciò che per lui è buono sale un grido: «Chi ci ha creati è infinitamente buono». Attraverso le orme impresse nella natura, segue ovunque il Diletto e si fa scala di ogni cosa per giungere al suo trono (Mem 165: FF 750).
Espressioni, queste, divenute poi famose soprattutto grazie a san Bonaventura, che le riprese testualmente[8].
Di grande interesse si rivelano le riletture del redattore dello Specchio di perfezione, il quale si sforzò d’interpretare in chiave cristologica comportamenti o scelte di Francesco e di dare agli stessi un contenuto teologico, che risultava assente nella fonte di cui egli si servì. Ciò appare evidente proprio nel capitolo decimo dell’opera, dedicato all’amore di Francesco per le creature e delle creature per lui. La pericope 118, in modo particolare, presenta inserti originali del redattore con l’obiettivo di fornire la chiave interpretativa per comprendere in modo adeguato il comportamento del Santo, che a un lettore sprovveduto sarebbe altrimenti potuto sembrare sin troppo singolare.
Avverte perciò che, dopo il fuoco, Francesco «amava in modo particolare l’acqua, simbolo della santa penitenza e tribolazione, che lavano le sporcizie dell’anima; e perché il primo lavacro dell’anima si fa per mezzo dell’acqua del battesimo» (Spec 118: FF 1818). Ricorda poi il monito rivolto da Francesco al frate incaricato della legna, affinché non tagliasse del tutto l’albero, ma ne lasciasse sempre una parte intatta, spiegando – ed è questo il suo contributo originale – che doveva far così «per amore di colui che volle operare la nostra salvezza sul legno della croce» (ivi). Anche il monito rivolto all’ortolano perché lasciasse libera una parte del terreno in modo tale che nella stagione adatta potesse riempirsi di fiori, rivela un fondamento cristologico, «per amore di colui che è chiamato “fiore del campo e giglio delle valli”» (ivi). Nell’esegesi biblica era del resto ormai luogo comune riferire al Cristo quel noto versetto del Cantico dei cantici (2,1), in coerenza con l’interpretazione che vedeva appunto nello sposo la figura del Figlio di Dio.
La creazione, dunque, grida: «Chi ci ha creati è infinitamente buono» (Mem 146: FF 750); e ancora: «Dio mi ha fatta per te, o uomo» (CAss 88: FF 1623). È questo il punto forte del discorso di Francesco: la creazione tutta, opera di Dio, è chiamata alla lode di Dio, ma vi è chiamato soprattutto l’uomo, vertice della creazione stessa, poiché tutto è stato dato a lui in maniera che se ne serva e lo restituisca al Creatore. Torna, in altri termini, il concetto di restituzione, ben attestato negli scritti di Francesco. A Dio va, quindi, ricondotta l’opera creata, perché loda Dio e parla di Dio. Far violenza alla creazione vuol dire, perciò, far violenza a Dio stesso.
Il dramma è tutto qui: che le creature servono Iddio molto meglio dell’uomo, poiché, mentre esse obbediscono al Creatore, l’uomo gli volta tranquillamente le spalle (Am V, 1-2: FF 153-154). È vero, però, che Francesco – il quale esaltava l’obbedienza delle creature inanimate opponendola alla disobbedienza dell’uomo nei confronti del suo Creatore – non si dimostrò miope di fronte alla violenza gratuita e alla sopraffazione che pure tante volte il mondo animale lascia emergere con fare ferino. Di fronte alla cattiveria gratuita, anzi, reagì a volte con implacabile durezza: maledì una scrofa che aveva ucciso un agnello appena nato e quella morì dopo tre giorni tra dolori indicibili (Mem 111: FF 698). Maledì un pettirosso, il più grande tra quelli di un’intera covata, poiché si era messo a perseguitare i fratelli più piccoli, saziandosi a volontà e scacciando gli altri lontano dal cibo, perché ne restassero privi (Mem 47: FF 633).
Anche gli animali, in definitiva, dovevano obbedire al progetto di amore di Dio, per cui egli esprimeva comunque delle opzioni preferenziali, prediligendo quelli che potevano essere presi a modello per esaltare i valori evangelici. L’armonia con la creazione includeva così il rispetto di quelle stessi leggi che sono necessarie affinché tra gli uomini possa instaurarsi una vera pace.

4. L’armonia con se stesso
Forse quello dell’armonia di Francesco con se stesso può risultare l’aspetto più insidioso, perché egli sembrò a tratti avere misericordia per tutti meno che per la propria persona, tanto che un frate dovette impiegare una volta grande accortezza e sapienza per convincerlo del fatto che non s’era mostrato troppo indulgente con «frate corpo» (2Cel 210-211: FF 800). Malgrado raccomandasse ai frati di trattare il corpo con discrezione, non dette qui buon esempio. «Fu questo – assicura Tommaso – l’unico insegnamento nel quale la condotta del Padre non corrispose alle parole» (2Cel 129: FF 713).
Eppure i suoi scritti mostrano che, a prezzo di duro sforzo, anche quest’ultimo dissidio fu da lui ricomposto. Espressioni rivelatrici compaiono – a mio avviso – nel Saluto alle virtù, nel quale scrive che
la santa obbedienza confonde ogni volontà propria corporale e carnale, e tiene il corpo di ciascuno mortificato per l’obbedienza allo spirito e per l’obbedienza al proprio fratello; e allora egli è suddito e sottomesso a tutti gli uomini che sono nel mondo, e non soltanto ai soli uomini, ma anche a tutte le bestie e alle fiere, così che possano fare di lui quello che vogliono, per quanto sarà loro concesso dall’alto dal Signore (Salvir 14-18: FF 258).
L’«obbedienza caritativa [...] soddisfa a Dio e al prossimo» (Am III, 6: FF 149), rivelandosi così antidoto efficace per combattere il peccato di Adamo, che non peccò «fino a quando non contravvenne all’obbedienza» (Am II, 2: FF 146).
Proprio in questa concezione dell’obbedienza sta la chiave del superamento di un’apparente contraddizione, poiché «colui che si appropria la sua volontà e si esalta per i beni che il Signore dice e opera in lui» «mangia dell’albero della scienza del bene» (Am II, 3: FF 147). È nell’abbandono a Dio che alla fine Francesco risolve interrogativi e dubbi, restituendo a Dio ogni cosa, dal momento che «tutti i beni sono suoi» (Rnb XVII, 17: FF 49), invitando pure i suoi frati a non attribuire «al proprio io carnale» «ogni scienza che sanno e desiderano sapere», ma a restituirla «all’altissimo Signore Dio, al quale appartiene ogni bene» (Am VII, 4: FF 156). In definitiva, è beato quel «servo che restituisce tutti i beni al Signore Iddio, perché chi riterrà qualche cosa per sé, nasconde dentro di sé il denaro del Signore suo Dio, e gli sarà tolto ciò che credeva di possedere» (Am XVIII, 2: FF 168).
Nella lotta difficile con se stesso, alla fine Francesco accettò che fosse Dio a decidere tempi e modi della sua vita. Come Gesù anch’egli, dopo aver pregato in molte occasioni che il calice passasse senza che fosse costretto a berlo, «depose tuttavia la sua volontà nella volontà del Padre dicendo: “Padre, sia fatta la tua volontà; non come voglio io, ma come vuoi tu”» (2Lf 10: 183). In questa perenne tensione egli riuscì a far pace con se stesso, anche se la vittoria fu pagata a caro prezzo.
5. Torniamo a fare della nostra terra un giardino
Non possiamo, dunque, comprendere la disposizione di Francesco nei riguardi del creato e degli animali al di fuori di un orizzonte teocentrico, prescindendo cioè da Dio e dall’obbedienza che gli è dovuta. Il rispetto dell’ambiente passa – nel suo insegnamento – attraverso il rispetto e l’obbedienza dovuti al Creatore: il Santo era infatti ben cosciente che Dio aveva creato l’universo come un giardino e voleva che l’uomo, riconquistato dal sangue di Cristo, tornasse a obbedire al suo Creatore in modo che l’universo intero diventasse di nuovo quel giardino che era stato in origine. L’obbedienza, «sorella» della carità (Salvir 3: FF 256), virtù poco amata in ogni tempo, chiede all’uomo di adeguare i suoi progetti a quelli che sono i progetti di Dio; un’obbedienza dovuta «non solo al Padre che è nei cieli, ma anche al progetto di vita che egli ha inscritto nell’intera famiglia delle sue creature»[9]. E ha ben ragione Carlo Paolazzi quando afferma che siamo, forse, di fronte al «messaggio più inatteso e inascoltato dell’intera cultura religiosa dell’Occidente cristiano»[10].

 

Publié dans:ECOLOGIA |on 21 février, 2017 |Pas de commentaires »

ECOLOGIA: UNA DEFINIZIONE IN TRE PUNTI

http://www.zenit.org/it/articles/ecologia-una-definizione-in-tre-punti

ECOLOGIA: UNA DEFINIZIONE IN TRE PUNTI

Per il Glossario di Bioetica, è lo «studio della casa» o cura dell’ambiente in cui viviamo, che può essere basata sulla paura per la sopravvivenza. Esiste anche l’ecologia della gravidanza

Roma, 15 Ottobre 2013 (Zenit.org) Carlo Bellieni

Ecologia: Significa «studio della casa», dunque cura dell’ambiente in cui viviamo. Si può avere un’ecologia basata sulla paura per la sopravvivenza e un’ecologia basata sulla valorizzazione di ogni particolare della creazione. L’ecologia della gravidanza è la cura ambientale dovuta al feto nella sua prima casa, l’utero.

Realismo
Possiamo distinguere una macroecologia e una microecologia. La prima riguarda l’ambiente-terra o l’ambiente-città; la seconda riguarda l’ambiente più ristretto della casa o –nel caso del bambino non ancora nato – del corpo materno. Esiste un’ecologia negativa, che pensa di preservare l’ambiente «perché le scorte terminano», e si basa unicamente sulla paura; e un’ecologia positiva che pensa di preservare l’ambiente «perché tutto ha un’utilità in sé» e non va sciupato, sfruttato insensatamente o trattato senza rispetto.

La ragione
Perché l’ecologia interessa la bioetica? Perché la bioetica si interessa della vita e un attacco alla sostenibilità della vita è un attacco in sé immorale, basti pensare al fenomeno inquinamento come gesto di violenza verso l’intera natura e verso la singola persona. Dato che la bioetica si interessa spesso di diritto alla vita e diritto alla salute, bisogna ricordare come influisce sulla fertilità tutta la serie di inquinanti che ci circonda.  A questi attacchi, la morale corrente risponde non con la prevenzione –armonia e salute – ma con la medicina per curare le conseguenze spesso con scarsi risultati e a caro prezzo; e con l’abbandono dell’individuo che si ritrova a “scegliere” tra una vita dura e le scelte mediche di cui sopra. L’ecologia dice invece che si deve prevenire, e la migliore prevenzione è affidarsi all’armonia e alla salute della natura.
Cos’è l’ecologia prenatale? È in primis l’ armonia dell’ambiente uterino che deve essere rispettato evitando le manipolazioni sui primi stadi della vita, che possono determinare alterazioni a livello epigenetico, cioè del modo in cui si esprimono i geni del DNA. L’ambiente in cui avviene il concepimento è un ambiente delicato e fragile e ogni ingresso esterno può essere rischioso. Ecologia prenatale significa anche preservare la donna dal contatto con inquinanti che ne possono mettere a rischio la fertilità, quali solventi, plastiche, insetticidi, metalli pesanti, lavori stressanti, usuranti e faticosi. In terzo luogo, significa preservare il feto da sostanze che la madre può in buona fede assumere ma che possono danneggiarlo gravemente, quali alcol, droghe, tabacco.

Il sentimento
Abbiamo la responsabilità di curare ciò che ci circonda, perché ne riconosciamo il senso e la bellezza magari nascosta o oltraggiata. Per questo non si può accettare un ingresso falloso nel mondo naturale, con un eccesso di tecnologia che in fondo non sa che danni può provocare. Il mondo prenatale poi è stato la nostra prima casa e guardare in questo modo lo sviluppo della vita ha un maggior valore educativo e un maggior impatto a difesa della vita, di tanti discorsi che mostrano il negativo e cercano di sradicarlo.

Publié dans:ECOLOGIA |on 15 octobre, 2013 |Pas de commentaires »

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