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LA BELLEZZA DELLA POESIA NELLA BIBBIA – Rav Alberto Sermoneta

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LA BELLEZZA DELLA POESIA NELLA BIBBIA

di Alberto Sermoneta
rabbino capo della Comunità ebraica di Bologna

È molto difficile parlare del rapporto che c’è tra l’uomo in generale, l’ebreo in particolare e Dio. Sin dai primissimi capitoli della Torah – la parte fondamentale dell’Antico Testamento – si narra dell’istituzione del rapporto tra l’uomo e Dio. Cercherò di trovare una spiegazione dal punto di vista rabbinico, poiché il contenuto del libro di Bloch mi tocca particolarmente da vicino, in quanto studioso del testo della Torah, della Bibbia, dei testi rabbinici e di ciò che riguarda lo scibile ebraico.
Nella Torah troviamo raccontato, sin dalla vita dei primi uomini, il rapporto di amore e timore o terrore nei confronti di Dio da parte degli esseri umani. Analizzando il titolo stesso del libro di Bloch, Dio e la poesia, mi vengono in mente quei brani che si trovano all’interno del testo biblico che sono parte integrante della Bibbia e che l’arricchiscono ancora di più del rapporto già marcato tra Dio e l’oggetto del suo creato, l’essere umano. I brani poetici per eccellenza si distinguono nel testo – dalla metrica, dalla composizione linguistica – rispetto a quelli in prosa.
Il primo esempio di poesia è il racconto che la Torah ci propone, riguardo la Creazione, nel primo capitolo del Genesi. La Creazione, nella sua lettura più poetica, ci fa notare quanto è grande lo sforzo che Dio fa per raggiungere quello scopo che egli stesso si era prefisso prima ancora d’iniziare l’opera creativa. Nel testo di Bloch, troviamo a un certo punto una domanda a proposito del verbo usato per la creazione. Sono le parole con cui comincia il testo biblico: “In principio, Dio ha creato il cielo e la terra”. Fanno molto bene gli esegeti a cercare l’origine più profonda sia delle parole sia dei verbi. Qual è il verbo della creazione? “Creò”: Dio creò il cielo e la terra. Nessuno di noi è in grado di capire se “creò” è la traduzione precisa di quanto dice la Bibbia in ebraico. Infatti, non è la traduzione precisa. I miei maestri mi hanno insegnato che tradurre è tradire. Il testo viene tradito nel momento in cui viene tradotto. Barah significa creare da una materia non esistente, cioè dal nulla. Questa è una caratteristica esclusivamente divina. Poi, andando avanti, troviamo altri verbi che ci fanno pensare alla creazione più umana, quella che noi conosciamo con il termine “creazione”: iozzer, che significa creare da una materia che non ha forma e, quindi, plasmare una figura. L’ultimo verbo della creazione che si trova nel secondo verso del secondo capitolo è asah, che significa fare, portare a termine qualcosa, completare. Questi sono i tre verbi della creazione. Se noi traduciamo tutti e tre con il termine “creare” commettiamo un errore. Dio ha una caratteristica superiore rispetto all’essere umano, cioè quella di creare qualcosa da ciò che non esiste. Questa è poesia, perché noi vediamo come viene scritta e descritta umanamente un’opera che è umanamente impossibile portare a termine. Continuare una certa opera è dato all’uomo come precetto fondamentale per proseguire la creazione ma, nonostante l’inumanità dell’opera, il testo dà un senso umano a questo compito. L’uomo e la donna si sposano per creare una famiglia, costituiscono una casa in funzione dei bisogni di coloro che verranno dopo il matrimonio, cioè i figli. Dio si prefigge di creare il mondo in funzione dell’essere umano. C’è una teoria cabalistica ebraica in cui si suppone che Dio, dopo aver completato la creazione, avesse bisogno di far posto all’uomo per vivere sulla terra e, quindi, si è ritratto da quella che è la sua onnipotenza. Dio non ha una stasi, può essere immanente e trascendente, può essere presente e può essere presente non essendo presente. Sono tante le caratteristiche, ma non è il caso di soffermarsi su di esse, in questa occasione.
Un’altra grande testimonianza della presenza divina nella poesia la troviamo in quella che è considerata la “poesia” per eccellenza. Nell’ebraico biblico, per tradurre il termine poesia, si usa il termine scir o scirah, molto bello anche come assonanza: ricorda un canto, più che una poesia. In fondo, non dimentichiamo che le poesie sono considerate canti per la loro bellezza lirica. La scirah per eccellenza è quella che il popolo ebraico intonò dopo aver attraversato il mar Rosso e che si trova raccontata nel capitolo XV dell’Esodo. Dopo aver definitivamente abbandonato la schiavitù, una schiavitù che non permetteva di dimostrare le proprie ragioni, di mettere in pratica le proprie tradizioni, dopo aver abbandonato tutto ciò, Mosè e i figli d’Israele intonarono questa cantica. Gli esegeti sostengono che la predisposizione alla cantica è qualcosa che viene naturalmente nell’uomo, in una condizione però diversa da quella che egli vive di consueto. Sostengono che le parole dette nel testo biblico, e che iniziano con il verso precedente all’inizio del capitolo XV, si concludono poi con la cantica in questione: “E il popolo ebbe timore del Signore ed ebbe fiducia nel Signore e in Mosè”. La fiducia in Dio e in colui che è stato scelto per essere il suo condottiero provoca al popolo un’ispirazione particolare, divina.
Un’altra scirah la troviamo nel Libro dei Giudici, intonata dal popolo quando sconfigge finalmente, dopo anni di guerre, i Filistei; è la stessa cantica pronunciata da re David nel Libro di Samuele, nel capitolo XXII, quando sconfigge definitivamente i suoi nemici e riesce a scappare dalle mani di Saul che voleva ucciderlo. Vediamo così che nella cantica all’interno del testo biblico c’è sempre un rapporto con Dio, ma è un rapporto indiretto. Dio non è la causa della cantica, è forse qualcosa che sta all’esterno. Non è Dio, ma l’uomo che combatte la guerra e la vince, può essere una guerra fisica ma anche morale, psicologica, e la vince grazie alla fiducia in se stesso e in Dio. O viceversa: avendo fiducia in Dio ritrova la fiducia in se stesso. C’è un bellissimo episodio, che non è di poesia, della guerra contro Amaleck, che ci fa riflettere. Nel capitolo XVII dell’Esodo, il popolo ebraico viene attaccato da questo esercito, è in una condizione particolare, è stanco, ha appena lasciato l’Egitto. Questo esercito attacca il popolo nelle retrovie, dove ci sono donne, bambini e persone malate. Il popolo comincia a perdere la speranza di vincere questo esercito, di vincere Amaleck, il nemico per eccellenza del popolo ebraico. Poi troviamo una cosa strana, che ha quasi dell’inverosimile: Dio comanda a Mosè di salire in cima a una collina per sorreggergli le braccia tenendole con le sue mani. Quando il popolo, alzando gli occhi, vedeva Mosè con le braccia in alto, sconfiggeva Amaleck; viceversa, quando le braccia di Mosè cadevano per la stanchezza, il popolo perdeva. Non è che le braccia di Mosè avessero una forza particolare. Che cosa significa aver le braccia in alto? Le braccia in alto sono il simbolo della presenza: “Io ci sono, sono presente”. E, quindi, gli uomini ritrovano la fiducia in se stessi attraverso la fiducia in Dio, la fiducia in qualcosa che, anche se non si vede, si percepisce. La presenza di Dio all’interno della vita dell’essere umano fa sì che egli possa acquisire la fiducia in se stesso. Questa fiducia ritrovata viene poi espressa nel migliore dei mezzi che l’uomo possa adottare, quello dello studio, della cultura e, quindi, della poesia. La poesia è il mezzo più bello che si possa comprendere per uno studio, una discussione e tutto ciò che può essere cultura e tradizione.
L’espressione divina all’interno della poesia non è altro che un riconoscimento di colui che imprime la fiducia in noi stessi. Se manca la fiducia in noi stessi non possiamo avere nessun tipo di contatto con la società che ci circonda.
In questo libro ci sarebbero molte altre cose su cui ragionare, cose che possono andare, apparentemente, in contrasto con la tradizione ebraica, ma c’è altrettanto della tradizione biblica, rabbinica, cabalistica all’interno di questa espressione poetica del ritrovare il simbolismo della divinità nella poesia stessa.

N. 12 – Dic. 2004

MARTIN BUBER – LA REALIZZAZIONE DEL REGNO DI DIO

http://www.donboscoland.it/articoli/articolo.php?id=126303

MARTIN BUBER, – LA REALIZZAZIONE DEL REGNO DI DIO

Con « Nessuno può servire due signori » non intese che si potesse servire Dio e Roma. Intendeva che ribellione e rivoluzione sono inutili e sono condannate a consumarsi in se stesse finché non sia nata dal rinnovamento dell’anima una nuova vera forma di convivenza umana.

Il regno di Dio è la ventura società, in cui tutti coloro che hanno fame e sete di giustizia saranno sazi, e che può scaturire non dalla sola grazia divina, ma unicamente dalla sua cooperazione con la volontà umana e dalla misteriosa unione di ambedue. Gesù, per quanto possa in altri punti distaccarsi dalla dottrina tradizionale, vuole, come i profeti d’Israele, non abolire ma compiere la società; egli non vuole fuggire come gli esseni dalla comunità laica, bensì costruire in verità la Comunità vera, spirituale.
Dio vuole essere realizzato nel mondo e nel consorzio laico mediante la loro fiamme a purificazione e la loro perfezione rappresentativa; il mondo è la casa devastata, che deve esser preparata per lo spirito; prima che ciò sia accaduto, lo spirito non ha dove posare il capo: questa sapienza d’abisso è il più profondo ebraismo di Gesù. E nondimeno ci è stata tramandata una parola di lui che sembra esserne il contrasto. È la parola con cui egli risponde a chi gli domanda se si deve dare all’imperatore il tributo: «Date all’imperatore quello che è dell’imperatore, e a Dio quello ch’è di Dio». Qui pare espressa una separazione fra mondo e spirito, fra la realtà corrotta e gigantesca, di cui bisogna accettare l’esistenza, e la pura idealità, per la quale noi siamo redenti; a quella devesi pagare il tributo della vita esterna, a questa appartiene il cuore.
Ma questa separazione è solo apparente. Gesù aveva dinanzi a sé non più uno Stato che si poteva tentare di fondere nella sua totalità, guardando negli occhi il suo dominatore come faceva il profeta di fronte al re di Giuda o d’Israele, non uno Stato che si poteva colpire e vincere con l’idea; era Roma, era il nudo Stato che non conosceva e non riconosceva nulla al di fuori di sé, che neppure gli dei tollerava se non come custodi della sua potenza e della sua legge, quando non preferiva di alzare alla dignità di Dio perfino il suo imperatore; era l’unione coattiva che aveva sostituito ogni associazione naturale; era la violenza legalizzata, il sacrilegio sanzionato, il meccanismo che aveva messo la maschera dell’organico, l’organizzazione con la maschera dello spirito. Di fronte a questa macchina massiccia stava la volontà ebraica di realizzazione, la volontà della vera collettività risuscitata con nuova forza e grandezza, in una triplice forma: col ritirarsi in disparte e col salvare la legge affinché la missione divina che era racchiusa in essa fosse preservata per tempi migliori. [...]
[Gesù] che pronunciò la parola: «Nessuno può servire due signori» non intese che si potesse servire Dio e Roma. Intendeva che ribellione e rivoluzione sono inutili e sono condannate a consumarsi in se stesse finché non sia nata dal rinnovamento dell’anima una nuova vera forma di convivenza umana, che, acquistando sempre più vigore, sia destinata a sconquassare la vecchia compagine obbrobriosa.
Un’altra delle sue parole «Non fate opposizione al male!» significa: opponetevi al male facendo il bene, non colpite il regno del male, ma unitevi subito per il regno del bene; allora verrà il tempo in cui il male non potrà più opporsi a voi, non perché voi lo abbiate vinto, ma perché lo avete redento. Gesù voleva costruire sull’ebraismo il tempio della vera collettività alla cui sola vista le mura del regno di violenza sarebbero dovute crollare.
Ma non così egli fu compreso dalle generazioni seguenti. Una interpretazione enormemente erronea della sua dottrina riempie due millenni della storia spirituale dell’Occidente. La concezione ebraica del mondo unito, vinto dal turbamento e dal disordine, ma che può essere redento da questi suoi mali grazie alla volontà umana che lotta; la concezione secondo cui la volontà umana si eleva in questo processo fino a quella divina, e l’immagine si compie, e si concreta in verità l’eterna nascita di Dio: questa vera concezione ebraica viene sostituita dall’idea di un dissidio di principio insormontabile fra volontà umana e grazia divina.
La volontà decaduta, è vero, ma capace – grazie al mistero della conversione – di forza salvatrice illimitata, e vocata ad un’opera salvatrice illimitata, si trasforma in volontà onninamente cattiva e incapace di sollevarsi con le proprie forze; non essa, in tutta la sua contraddizione e in tutte le sue possibilità, è la via verso Dio, bensì tale è la fede e l’aspettativa nel contatto della grazia. Il male non più «guscio» che deve essere forato, bensì una potenza elementare a cui il bene sta di fronte come un grande avversario. Lo Stato non è più la condensazione della traviata volontà sociale, e perciò penetrabile e redimi bile dalla giusta volontà; ma esso è, come per Agostino, il regno dei dannati in eterno, da cui gli eletti debbono perciò separarsi in eterno; oppure, come per Tommaso, un gradino ed una scuola preliminare della vera collettività, che è una collettività ecclesiastica.
La vera collettività ha da realizzarsi non più nella vita perfetta degli uomini con gli uomini, nella laicità chiarificata, ma nella Chiesa; essa è per principio divisa, come collettività dello spirito, dal consorzio del mondo; come collettività della grazia, da quello della natura. Anche il protestantesimo ha accettato questa divisione; anche per esso la vita è scissa in due regni, quello delle opere e quello della fede; esso vuole l’esistenza della Chiesa accanto allo Stato, non la fusione di ambedue in una unità più alta, quella della vera collettività. Solo nella mistica continuano la loro vita il sentimento dell’esistenza indivisa, l’idea della relatività del male e dell’assolutezza dell’anima umana; ma ad esso manca l’elemento dell’attività nell’assoluto, la tendenza della realizzazione della vita indivisa nel mondo umano, nel mondo della convivenza.
Così i popoli dell’Occidente, accogliendo con la dottrina di Gesù la dottrina ebraica, non ne hanno presa la sostanza; la tendenza alla realizzazione non è penetrata nelle basi spirituali della vita dei popoli. È vero che la loro fiamma divampava sempre nuovamente nella passione delle comunità eretiche e dei settari che volevano iniziare il regno di Dio; ma essa si spense sempre nell’aria che respirano i popoli, nell’atmosfera del compromesso con il dualismo. È l’atmosfera in cui è immerso ancora il nostro tempo, l’atmosfera del dualismo della verità e della realtà, dell’idea e del fatto, della morale e della politica; è l’atmosfera in cui il cristianesimo ha dato per tanto tempo all’imperatore romano quello che era «dell’imperatore», finché non ebbe più nulla da rifiutargli; in cui il cristianesimo per tanto tempo non si è opposto al male, finché fu costretto a riconoscere, quando tentò di resistere ai suoi eccessi più frenetici, che era diventato impotente a qualunque resistenza.
Ma non dimentichiamo che è stato pure un ebreo, un ebreo rappresentativo, colui per la cui opera si produsse questa rifrazione dell’ebraismo nella sua trasmissione ai popoli. Per comprendere giustamente questo violento dominatore dello spirito, bisogna ricercare in lui l’elementare psiche dell’ebreo, dalla quale sorge sempre di nuovo la tendenza alla realizzazione. Questa psiche primordiale ha per centro il sentimento elementare di quel dissidio interno che è proprio, in qualche misura, di tutti gli uomini, ma che gli ebrei però posseggono con una particolare forza, e della volontà di superarlo mediante la realizzazione dell’unità. Saulo, uomo di Tarso, ha espresso questo immanente dissidio in modo talmente rigido e preciso, come nessun altro uomo, nelle fati di che parole che sono un’introduzione all’aeon cristiano: «Poiché non riconosco quello che compio; non quello che voglio io faccio, sì faccio quello che odio».
Ma questa coscienza terribile e paradossale non è per lui quella che fu una volta per l’ebreo e dovrà diventarlo di nuovo: una spinta sovrumana a tentare un assalto che sembra impossibile, a perforare il guscio e, nell’unificazione della propria volontà, realizzare quella divina; essa non è per lui il terreno vacillante su cui può unicamente appoggiarsi la scala che barcolla su ogni terreno fermo, la scala celeste; essa è per lui bensì una rinuncia titanica.
Quest’uomo fa la somma di tutta la delusione immensa che ha prodotto nell’ebraismo fino ai suoi giorni la tendenza alla realizzazione; accanto al calcolo razionale egli fa il calcolo umano e dichiara che non possiamo compiere nulla, nulla da noi stessi, ma unicamente per mezzo della grazia di Dio; oppure ciò che significa per lui lo stesso, facendoci credenti e seguaci di colui in cui è stata visibilmente la grazia, di quell’uno che, come è detto, «non conobbe verun peccato».
Il fatto che allora non si conosceva, come sembra, nulla di preciso dei primi trent’anni di vita di Gesù; che anche la leggenda reca i segni del tempo delle sue lotte e dei suoi superamenti solo per il simbolo della triplice tentazione; questa armonia concretatasi apparentemente senza un precedente dissidio ha agevolato a Paolo la sua ideologia. Egli trasmette la dottrina di Gesù ai popoli dopo averla trasformata alla luce di questa ideologia, porge loro il dolce veleno di una fede che deve sdegnare le opere, dispensare il credente dalla realizzazione e stabilire nel mondo il dualismo. È l’età di Paolo: le cui convulsioni mortali, noi, che viviamo oggi, riguardiamo con occhi di stupore.
Link utili:
http://www.jesuschrist.it
(L’autore) I filosofi e Cristo – autore: Martin Buber

1. LA TORAH SCRITTA E LA TORAH ORALE

http://www.luzappy.eu/ebra/torah.htm

1. LA TORAH SCRITTA E LA TORAH ORALE

(non conosco l’autore, ma sulla Home Page del sito c’è la foto della Sinagoga di Roma)

Due premesse.
a) Una precisazione sul significato di Torah. Il termine ebraico Torah (dal verbo jarah «istruire, ammaestrare») è stato tradotto con il greco nòmos e il latino lex. Non si tratta di una traduzione molto corretta, perché «legge» fa venire in mente qualcosa di negativo, di pesante da mettere in pratica (da qui l’idea del Dio che punisce i trasgressori). Torah significa invece «insegnamento, guida». Non si tratta quindi di leggi fondate giuridicamente, emanate da un sovrano o da un parlamento, ma di istruzioni, norme di vita e di comportamento. In senso teologico, non si tratta di qualcosa di vincolante e schiavizzante, a cui contrapporre un vangelo di liberazione («non sono venuto ad abolire la torah, ma a completarla»); si tratta piuttosto della santificazione della vita umana secondo la volontà di Dio, si tratta di un grande dono di grazia che Dio fa affinché l’uomo possa vivere in un giusto rapporto con lui. Nell’ebraismo, il termine Torah (ammaestramento, conoscenza) può indicare:
· l’istruzione umana così come è data quotidianamente
· la dottrina divina comunicata oralmente
· la dottrina divina fissata per iscritto
· i primi cinque libri della Bibbia ebraica (pentateuco).

b) L’ebraismo è accomunato al cristianesimo e all’islam per il fatto di essere una «religione del libro». Il testo scritto, però, in tutte le culture, è sempre preceduto dalla narrazione orale (si pensi ai poemi omerici), la quale poi dà luogo ad una fissazione per scritto.
Ora, se è vero che anche nell’ebraismo le cose sono andate in questo modo (e la moderna critica biblica lo ha dimostrato chiaramente), è anche vero che nell’ebraismo non si può parlare di testo scritto senza testo orale e viceversa: tra scritto e orale c’è una dialettica continua, perché, se è importante il testo, è forse più importante il commento, come mostra questo racconto tratto dal Talmud:
«Una volta un pagano si presentò davanti a Shammai e gli disse: “Voglio convertirmi a patto di imparare tutta la Torah nel tempo in cui si può stare su un piede solo”. Shammai lo mandò via spingendolo col bastone che aveva in mano. Allora si presentò a Hillel, il quale lo convertì dicendogli: “Ciò che a te non piace, non farlo al tuo prossimo! Questa è tutta la Torah, il resto è solo commento. Va’ e studia”» [Shabbat 31b].
L’esempio mostra come nell’ebraismo la Torah scritta non possa essere separata dalla Torah orale.

1.1. Torah scritta (Torah she-bi-khtav)
Quella che di solito, con termine greco, si chiama Bibbia, gli ebrei la chiamano TaNaK, che è l’acronimo delle tre parti di cui è costituita la Bibbia: Torah, Neviim, Ketuvim.
La Torah comprende cinque libri (Pentateuco): Genesi (bereshit: all’inizio); Esodo (shemòt: nomi); Levitico (wahiqrà: li chiamò); Numeri (ba-midbàr: nel deserto); Deuteronomio (ha-debbarìm: parole).
La Bibbia ebraica distingue tra profeti anteriori (Giosuè, Giudici, 1-2 Samuele, 1-2 Re) e profeti posteriori (15 libri; i più importanti Isaia, Geremia, Ezechiele, Osea, Amos, Giona). Il termine nabi (dal verbo naba «gridare, proclamare») significa all’attivo «colui che proclama» e al passivo «colui che è chiamato».
Gli agiografi (Ketuvin), a differenza dei profeti, sono definiti «parola ispirata», mentre quella dei profeti è definita «parola riferita». Ciò significa che alla base c’è una diversa intensità di ispirazione profetica. Mentre la predicazione di un profeta è il risultato di una comunicazione di Dio al profeta stesso, nei Ketuvin si può e si deve parlare di una ispirazione che fa loro affermare una certa predicazione: si tratta di persone colpite dall’ispirazione e quindi del tutto affidabili, nonostante alcuni di essi risultino piuttosto problematici. Tra i Ketuvim: Salmi (Tehillim «lodi»); Proverbi (meshalim), Giobbe, Cantico dei Cantici (Shir hashirim), Ruth, Qoelet, Ester, Daniele, Ezra, Nehemia, 1-2 Cronache. Cinque Meghillot: Cantico dei cantici a Pesach, Ruth a Shavuot, Lamentazione a Tichah be-Av, Qoelet a Sukkot, Ester a Purim.

1.2. La Torah orale (Torah she-be-al peh)
Partiamo dalla parola lettura. In italiano questo termine ha molti significati: può indicare una lettura silenziosa, mentale, come quella che abitualmente si pratica oggi quando si legge un libro, un giornale, un’insegna, una lettera; oppure una lettura ad alta voce, perché gli altri ascoltino, pur senza avere il testo davanti: è la lettura che si fa nelle assemblee religiose o civili, a scuola, a gente che non sa leggere (gli antichi invece leggevano sempre ad alta voce, anche quando erano soli, quindi il loro leggere era anche un ascoltare); infine, lettura significa modo di intendere e interpretare ciò che si legge.
Ora, quando noi ci occupiamo del modo ebraico di leggere la Scrittura, dobbiamo prima di tutto tener presente che in ebraico la «Scrittura» si dice miqrah, termine che significa «lettura»; esso deriva dal verbo qarah, che significa «leggere, chiamare, gridare, nominare» (dalla stessa radice semitica qr’ deriva, tra l’altro, anche il termine al-quràn, Corano). Come si vede, tutti fatti acustici. Questo ci aiuta a capire che, delle tre modalità di lettura che ho citato prima, per la Bibbia ebraica ce ne sono una che non conta e due che contano: la lettura silenziosa no; la proclamazione ascoltata e l’interpretazione sì.

1.2.1. Modalità di lettura
Uno dei primi esempi di questo tipo di lettura è presente in Neemia 8,1-8. Questa scena, avvenuta verso il 444 a.e.v. o circa cinquant’anni prima (vi sono rilevanti problemi di cronologia), ci rappresenta per la prima volta un culto di lettura. In questo periodo il secondo tempio esisteva già (era stato infatti consacrato nel 515). Qui però avviene qualcosa fuori dal tempio, in piazza, cioè nella situazione primitiva della sinagoga (le più antiche sinagoghe erano le piazze). Infatti ci sono già i due elementi fondamentali della sinagoga: la tribuna alzata e il libro. Il centro di questa solenne seduta non è l’altare, ma il sefer («rotolo») che viene portato con la solennità che si usa quando si estrae il rotolo dall’Arca e lo si porta per la lettura. Questo rotolo contiene la legge di Dio.
Come avviene questa lettura? Prima di tutto, c’è una cerimonia di «onore al libro». Segue una benedizione. Il libro viene letto a sezioni, con l’assistenza di alcune persone. Il brano descrive una collaborazione alla lettura: «Essi leggevano nel libro»; poi si dice: «ne davano il senso per far capire al popolo quello che leggevano». Cosa sarà questo ne davano il senso (terzo significato del termine lettura di cui s’è detto sopra)? Può essere due cose contemporaneamente: facevano il targum, cioè la traduzione in aramaico (perché la gente non capiva più l’ebraico) e, al tempo stesso, ne davano un’interpretazione, una spiegazione.
Analizziamo questa scena visivamente (analizzarla all’interno della sinagoga di sabato al giorno d’oggi sarebbe la stessa cosa). In che modo l’assemblea entra in rapporto con la Scrittura o, per dirla in ebraico, con la miqrà (lettura)? Non è qualcosa di assimilabile ad un sapiente o a un non sapiente che legge e pensa a ciò che lo Spirito gli fa capire. Nell’ebraismo, al contrario, bisogna sempre usare il plurale e parlare di fedeli, di assemblea, perché il libro non può essere estratto dall’Arca e letto se non c’è il cosiddetto miniam, cioè la presenza di almeno dieci uomini. Ora, i fedeli non stanno in rapporto diretto con il Libro. C’è piuttosto una situazione di tipo triangolare: tra l’assemblea e il Libro sta la tradizione, che, in termine tecnico, è chiamata Torah she-be-’al pèh, che significa «la torah che sta sulla bocca». Non solo sulla bocca di chi legge, ma anche sulla bocca di tutte le generazioni che li hanno preceduti.
L’assemblea di ascolto non è altro che l’attualizzazione del momento in cui sul Sinai c’è stato il dono della Torah a Mosè. Secondo Es 20,18-20, la gente non voleva neppure sentire la voce di Dio perché aveva troppa paura ed era Mosè che riceveva e trasmetteva, cioè faceva da mediatore tra Dio e il popolo in ascolto (Esodo 20,18-21). Dunque, nella situazione di lettura della Torah di qualunque secolo, anche di oggi, dobbiamo sempre tener presente che tra l’assemblea e il Libro c’è la tradizione orale.
Il trattato rabbinico Pirqè Avòt («Capitoli dei Padri») comincia con queste parole: «Mosè ricevette (qibbel) la Torah dal Sinai e la trasmise (mesarah) a Giosuè, Giosuè agli anziani, gli anziani ai profeti e i profeti la trasmisero agli uomini della grande assemblea (knesset ha-gedolah). Questi dicevano tre cose: Siate misurati nel giudicare, suscitate molti discepoli e fate una siepe (sejag) intorno alla Torah». Un commentatore medievale, Machazor di Vitry, chiarisce: «La Torah tutta intera, sia quella scritta sia quella orale». E il più antico rabbì Jonà: «Sia la Torah che è stata messa per iscritto (Torah she-bi-khtav) sia la Torah che è sulla bocca (Torah she be-al-peh), perché la Torah è già stata data insieme alle sue interpretazioni».
Tutto ciò che costituisce la Torah orale è anch’esso rivelazione sinaitica, che Mosè non ha messo per iscritto, ma ha trasmesso oralmente. Dal punto di vista ebraico la Torah scritta è come un vascello trasportato da un fiume, che è la Torah orale. E’ quest’ultima la garanzia della Torah scritta, non viceversa.

1.2.2. Il midrash
Perché abbiano effetto, le letture vanno capite e la Torah deve quindi essere spesso tradotta e illustrata in modo che risulti attuale. Il midrash, che nasce come insegnamento orale e diventerà tradizione orale, scaturisce dal bisogno di estrarre dalla fissità della parola scritta lezioni sempre nuove e mutevoli, in modo da tener vivo lo spirito dello scritto in stretta aderenza con i problemi contingenti e cercando di prevenire problemi futuri. Si può dire che il midrash sia il metodo rabbinico di esegesi. Questo spiega perché la teologia ebraica sia una teologia narrativa più che una teologia speculativa.
Il termine midrash viene dalla radice DRSh, «spiegare, interpretare, indagare» (i darshanim sono coloro che si servono del midrash per indagare il testo biblico). I darshanim interpretavano la Torah nel Tempio, attraverso l’omelia. Alla fasce meno colte il testo veniva illustrato attraverso elementi mitologici e folklorici (haggadah). In questo modo si formarono due filoni, distinti e complementari: il midrash haggadah (da lehaghid, «raccontare, spiegare»), di carattere illustrativo-narrativo, e il midrash halakah (dalla radice HLKh, «camminare»), di carattere normativo-giuridico.
L’insegnamento midrashico non è carismatico, ma continuamente dialogico, sta su un piano di parità, senza mai perdere il contatto sia con la Torah sia con la realtà, tanto che spesso per ribadire un principio contenuto nella Torah si porta come esempio un episodio della vita di un maestro, che diventa così esempio vivente. E questi maestri vedevano la Torah come un Pardes, uno speciale giardino percorso da quattro sentieri: Peshat Remez Darash Sod (= PRDS)
Un midrash racconta che quattro maestri vollero percorrere il giardino. Il primo morì fulminato; il secondo fu accecato; il terzo impazzì e diventò apostata; solo il grande rabbi Akiba uscì incolume e anzi padrone di una superiore conoscenza. I nomi dei quattro sentieri hanno questo significato: il peshat è il senso letterale della Scrittura; il remez, «accenno», tende a trovare analogie tra parole ed espressioni uguali in punti diversi del testo e le collega fra di loro al fine di sottolineare l’unità dell’insieme (le parti formano il tutto); il darash (stessa radice DRSh di midrash) è la spiegazione omiletica-allegorica; infine il sod, «segreto», è la mistica della qabbalah [G. Limentani, Il Midrash. Come i Maestri ebrei leggevano e vivevano la Bibbia, Ed. Paoline, Milano 1996, pp. 20-21].

1.2.3. La Mishnah e il Talmud
a) Come si sa, erano due i gruppi di maestri della legge più importanti: i Sadducei (zeduqim), che rifiutavano la Torah orale ed erano per un’interpretazione più rigorosa della Scrittura, e i farisei (perushim), sostenitori della Torah orale e di un’interpretazione più dialettica. Dopo la distruzione di Gerusalemme, i farisei prendono il sopravvento e comincia il periodo dell’interpretazione rabbinica. Senonché, al tempo dell’imperatore Adriano, i Romani vietano lo studio della Torah. Di fronte al rischio della chiusura delle accademie e della dispersione della tradizione rabbì Jehudà ha-Nasì (135-217 e.v.) decide di mettere per scritto non tanto la Torah orale, ma le discussioni fatte dai maestri (tannaim) per ristabilire l’insegnamento originario della Torah orale, dal momento che, a furia di trasmissioni orali e del proliferare di accademie, si erano create delle divergenze di trasmissione. Nasce così la Mishnah. Il termine deriva dalla radice shanah e significa «ripetizione, insegnamento». Nella Mishnah per la prima volta vengono esposti alcuni dei principi ermeneutici, fissati nella Halakhah. Cosa succede, per esempio, quando un insegnamento viene riferito in modo diverso da varie fonti? Nelle accademie vigeva un principio, che noi chiameremmo democratico, secondo il quale prevaleva il parere della maggioranza. Più che sull’amore per la democrazia, questo principio trovava il suo fondamento su di un versetto di Esodo: «Non seguirai la maggioranza nel dare del male; non ergerti in una lite per far piegare la decisione a favore della maggioranza» (23,2). La frase è poco chiara e ci sono varie interpretazioni. Una di queste dice che, laddove c’è una divergenza di opinioni, si segue quella della maggioranza: se infatti così ricorda un maggior numero di persone, è più probabile che sia quella giusta. La Mishnah fu redatta tra il 200 e il 220 e.v.: essa si presenta come una raccolta dei dibattiti e delle discussioni halakiche. La Mishnah fa in modo che la Torah orale diventi, per così dire, la bussola per la vita dell’ebreo.
b) Con il passar del tempo, la Mishnah, da patrimonio da conoscere a memoria e da trasmettere da maestro a maestro, generazione dopo generazione, subì un processo di laicizzazione per effetto del quale divenne un testo scritto che chiunque poteva leggere e conoscere. In seguito, poi, alla diaspora, gli ebrei si trovarono dispersi, chi in Babilonia chi nel vasto impero romano, ma la Mishnah continua ad essere studiata. Ci si accorge che esistevano degli insegnamenti al di fuori della Mishnah, i quali dovevano essere armonizzati con il testo della Mishnah, compito che venne assunto dagli studenti delle accademie. Di fronte al pericolo di chiusura delle accademie, si decise di raccogliere gli appunti di questi allievi (amoraim) che riportavano gli insegnamenti dei vari maestri. Nascono così le ghemarot (ghemarah, termine aramaico, significa «dibattito, approfondimento»). Mishnah e ghemarah insieme formano il Talmud (da lamad, «abituarsi a qualcosa, imparare»), «studio della Torah», il quale è sostanzialmente la ghemarah della Mishnah, cioè il commento della Mishnah. Del Talmud abbiamo due redazioni: quello di Gerusalemme, Talmud Yerushalmi (è più breve; la sua redazione, stabilita da rabbi Yohanan, venne chiusa nel 350 e.v.) e quello di Babilonia, Talmud Babli, nato dalla armonizzazione degli studi delle due maggiori accademie di Babilonia, quella di Sura e quella di Pumbedita, ultima redazione nel 498 e.v. da parte di rabbi Ashi).

 

Publié dans:ebraismo, EBRAISMO: INSEGNAMENTI |on 4 septembre, 2014 |Pas de commentaires »

IL SOGNO DI GIACOBBE (GENESI 28, 10-22)

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IL SOGNO DI GIACOBBE (GENESI 28, 10-22)

(Rav Luciano Meir Caro)

Una delle forme di interpretazione ebraica del testo biblico, in particolare dei libri del Pentateuco, si rifà a un principio fondamentale, per il quale si afferma che i racconti che riguardano i nostri progenitori (Abramo, Isacco, Giacobbe, ecc.), non vanno considerati da un punto di vista storico, perché non è importante come siano andate realmente le cose, se siano accadute in un modo o in un altro; ciò che è importante e di cui bisogna tener conto è che questi fatti sono un segno, un segnale – simàn – per i figli, cioè per noi. Quello che viene descritto a riguardo dei grandi personaggi biblici, non è altro che il nucleo di quello che capiterà a noi in seguito; in queste storie è contenuto tutto lo sviluppo successivo della storia degli ebrei e della storia dell’uomo.
Perciò è importante tener conto di come il testo sacro descrive le cose, per domandarci come ci saremmo comportati noi in circostanze simili a quelle di cui stiamo leggendo.
Una seconda osservazione che tengo a fare è questa. La vicenda che riguarda Giacobbe e di cui ci vogliamo occupare, si trova nel libro della Genesi, il primo dei cinque libri del Pentateuco. Bereshìt o Genesi racconta la creazione del mondo, poi la storia dei patriarchi, fino a concludersi con il racconto della discesa della famiglia di Giacobbe in Egitto. Una delle tante caratteristiche proprie della Genesi è quella di raccontare tantissimi sogni, tanto da essere stato, poi, definito « il libro dei sogni ». Ci sono più di una decina di sognatori che fanno tantissimi sogni, ma che poi scompaiono, dalla fine della Genesi in poi. E’ difficilissimo trovare persone che sognano, anche perché i sogni spesso sono sì considerati come un messaggio di Dio all’uomo, ma ancora più spesso sono considerati come qualcosa di vago, di vacuo, non definibile, cioè qualcosa di cui non si debba tener conto.
Come si può spiegare questo fenomeno? Prima i sogni sono un messaggio preciso di Dio all’uomo e poi pare che questo messaggio si diluisca nel tempo. Qualcuno dice che il libro della Genesi ci presenta una situazione in cui non esisteva ancora una normativa data da Dio al popolo ebraico e, attraverso il popolo ebraico, veicolata agli altri popoli. E’ solo dal libro dell’Esodo che compare la normativa. Questo quasi a sottolineare che la nostra vera vita, quella reale, è quella sotto l’imperio della Legge. Vedete voi se vale la pena accettare o meno questa spiegazione.
Dopo queste due premesse, passiamo a trattare di Giacobbe. Sapete che ha avuto dei contrasti forti col fratello Esaù a proposito della primogenitura, sapete degli imbrogli, organizzati dalla madre Rebecca. Anche il contrasto tra Esaù e Giacobbe sta ad indicare tutti i contrasti tra fratelli che ancora oggi caratterizzano la nostra vita.
In seguito al contrasto con Esaù, la madre manda Giacobbe un po’ lontano da casa, presso il fratello di lei, Labano, in Mesopotamia; il testo le fa dire: « alcuni giorni », ma sappiamo che poi diventano più di 20 anni.
Giacobbe scappa di casa, va in una terra lontana e ignota; pensiamo al disagio che deve aver comportato per lui tutto questo, abituato com’era alla vita di casa, agli agi, alle coccole della mamma, dato che lui era il preferito, perché più tranquillo, meno selvatico rispetto al fratello Esaù.
Esce, così, da Beèr-Shéva e si dirige verso Carràn. Si ferma a pernottare in un posto, dove prende una delle pietre che trovò là e se la pose come guanciale e dormì. Per la prima volta dorme in aperta campagna, lui, abituato alla sua casa. Dice il testo: « E giacque in quel posto ». Sembra pleonastico questo particolare. Come mai il testo, di solito molto conciso, qui si ferma su dei particolari ovvi e inutili? Certo che prende una pietra da quel luogo; se l’era forse portata da casa?
I nostri maestri pongono delle domande, danno delle interpretazioni, a mo’ di provocazione, per aiutarci a tirarci fuori dall’indifferenza. Dicono che l’espressione: « E giacque in quel posto » vuole significare che, in seguito, Giacobbe non è più riuscito a dormire; ha dormito lì e poi non ha più dormito!
Attenzione, il concetto è questo: Dio punisce noi uomini con la stessa moneta con cui noi abbiamo peccato. Giacobbe aveva frodato il padre e il fratello e aveva vissuto una vita di lusso; ora inizia per lui una vita disagiata e complicata. Non è vero che il testo dica questo, ma immaginiamo che cosa sia successo nell’animo e nella vita di Giacobbe, che, nel corso degli anni, subisce delle punizioni per quello che ha fatto, perché Dio non perdona. Non perdona nel senso che ci fa capire dove abbiamo sbagliato, usando gli stessi strumenti che noi prima avevamo usato per il male.
Ma andiamo avanti. Giacobbe, in quella notte passata all’aperto, fa un sogno. Dice il testo:
« Ed ecco una scala era piantata verso terra e la sua cima giungeva fino al cielo ed ecco gli angeli di Dio salivano e scendevano in questa ». Traduco così, ma non sono sicuro che sia la traduzione giusta. Notate che la parola « ecco » ricorre molto spesso, un po’ a rendere il carattere non consequenziale dei sogni, che sono molto spesso a flash, a spezzoni. Ecco, succede una cosa, poi ne succede un’altra all’improvviso, quasi come se fossero dei quadri di un film.
« Ed ecco l’Eterno era piantato, diritto su di lui e gli disse: Io sono l’Eterno, Dio di Abramo tuo padre, Dio di Isacco; la terra nella quale tu giaci la darò a te e alla tua discendenza. La tua discendenza sarà come la polvere della terra: ti spanderai a occidente e a oriente, a nord e a sud e saranno benedette in te tutte le famiglie della terra e nella tua discendenza. E io sono con te, ti custodirò in tutto dove andrai, ti custodirò, ti farò tornare a questa terra, poiché non ti abbandonerò, fino a quando non avrò fatto tutto quello che ti ho detto ». Poi prosegue: « Giacobbe si svegliò dal suo sonno e disse: Veramente c’è l’Eterno in questo posto e io non lo sapevo ».
Notate che ci sono delle parole che ritornano più spesso; qui, per es. la parola « posto », « luogo ». Nell’ebraico posteriore questo termine rimane a significare « luogo », ma diventa anche uno dei nomi di Dio. Il perché non lo so. Forse Dio che ricopre ogni luogo. Non lo so!
Torno al testo: « Temette e disse: Quanto è temibile questo posto! Questa non è altro che la casa di Dio e questa è la porta del cielo. Giacobbe si alzò al mattino, prese la pietra che aveva posto al suo capezzale, la mise come monumento e ci versò dell’olio sopra e dette il nome a quel posto Bet-El. però il nome della città, primitivamente, si chiamava Luz ».
Impariamo, qui, che siamo in una città, mentre forse ci sembrava di essere in aperta campagna. Ancora il testo: « Giacobbe fece un voto dicendo: Se Dio sarà con me e mi custodirà in questa strada che sto percorrendo e mi darà cibo da mangiare e abiti da indossare e tornerò in pace alla casa di mio padre e Dio sarà per me quale Dio, questa pietra che ho posto come monumento, sarà una casa di Dio e tutto quello che mi darai, io te ne verserò una decima ».
Vi invito a leggere, a riprendere questo capitolo 28 della Genesi. Anche perché ci sono delle incongruenze di ogni genere. Per es. possiamo chiederci chi sono questi angeli che vanno e vengono o cosa significa questa scala. Poi Dio si presenta personalmente e fa delle promesse molto precise, che incoraggiano Giacobbe in questa nuova fase della sua vita. E cosa fa Giacobbe? Fa un voto a Dio, condizionando una sua promessa a Dio al comportamento di Dio. Dice: « Se veramente sarà così… se Dio mi custodirà… ». Ha dei dubbi, mentre Dio gli aveva fatto delle promesse gratuite.
Dopo questo Giacobbe parte e compie un viaggio di 500 km, ma su questo la Bibbia non ci dice niente.
Ogni passo va capito, e per cercare di capirlo bene, dovremmo cercare di identificarci con un regista che deve filmare il racconto che leggo. Insomma, cercare di mettersi nei panni dei personaggi.
Un altro particolare: il nome della città. Giacobbe la chiama Bet-El, che vuol dire « casa di Dio », ma prima si chiamava Luz. Cosa c’è di così interessante in questo? Dovrei aprire un lungo capitolo sull’argomento. Però Luz è un nome che ritorna nella storia biblica e poi nella mitologia biblica, la quale dice che in questa città non morì mai nessuno, non esisteva la morte. Pensate cosa vuole insegnarci questa mitologia, che non è supportata da niente.
Quella città, che poi diventa « casa di Dio », era una città dove non esisteva la morte. Ma si racconta che a un certo punto la gente che vi abitava si stancava e quindi usciva dalla città per morire.
Se continuate a leggere la storia di Giacobbe, incontrerete lo zio, più imbroglione di lui; Giacobbe lavora come un dannato, ma viene continuamente preso in giro dal suocero, visto che nel frattempo aveva sposato le due figlie di Labano. Allora a un certo punto cosa fa? Propone di dividere le pecore e lui si sceglie gli animali maculati, mentre quelli a tinta unica sono di Labano. L’indomani Labano porta tutto il gregge alla tosatura, di modo che non si riconoscevano più i differenti colori. Giacobbe viene nuovamente fregato, ma trova la soluzione. Siccome si era accorto che se in certe stagioni dell’anno, quando gli animali andavano in calore, metteva negli abbeveratoi dei rami con la corteccia intagliata, quindi a colori diversi, le pecore poi partorivano animali col pelo maculato. In questo modo Giacobbe si rifà dell’inganno
del suocero. Leggetevi puro tutta la storia; quello che è interessante è che i rami intagliati appartenevano a una pianta chiamata « luz ». Non sappiamo cosa sia, forse mandorlo.
In ogni caso questo nome « luz » richiama la città dove non c’era la morte ed è collegata a questa specie di manipolazione genetica, se vogliamo chiamarla così, collegata col rinnovarsi della vita. C’è tutto un intreccio.
L’ebraismo post-biblico sostiene, poi, che « luz » è una piccolissima parte del nostro corpo, un minuscolo ossicino, presumibilmente situata nella spina dorsale, che ha questa funzione: alla nostra morte, il corpo va in decomposizione e si fonde col terreno circostante. Tutto il nostro corpo torna terra; tutto tranne questo minuscolo ossicino, che sarà il nucleo della resurrezione dei morti. Attorno a questo piccolo seme rinascerà il nostro corpo, chissà quando. Per noi è proibita la cremazione, che significa un suicidio definitivo, perché andrebbe bruciato anche il piccolo luz che abbiamo nella spina dorsale; l’unica cosa che lo può distruggere, infatti, è il fuoco.
Giacobbe ha detto, al suo risveglio: « Questo luogo è terribile, è la porta del cielo ».
Un’altra cosa. Bet-El è il nome di una città, in Israele, che ha avuto nella storia successiva, delle notevoli implicazioni. Pare che fosse sede di un culto simile alla dottrina ebraica, ma differente. Era una città che si era messa in contrapposizione a Gerusalemme.
Questi sono tutti elementi, che facciamo fatica a capire e a mettere insieme, ma non possiamo ignorarli, non tenerli in considerazione.
Ma arriviamo alla scala. Che significato ha? Sono state proposte interpretazioni di vario genere. Qualcuno dice che è il simbolo dell’altare del santuario di Gerusalemme. L’altare serviva per i sacrifici ed era posto in posizione elevata. Gli angeli che salgono e scendono, allora, sono i sacerdoti che celebrano il culto.
Apro una piccola parentesi. Il testo biblico prevede che il culto a Dio sia reso attraverso il sacrificio. Una cosa che a noi, oggi, non dice più niente e lascia alquanto perplessi. Ci viene da chiederci cosa possa interessare a Dio che noi gli offriamo degli animali uccisi.
A noi sembra più logico onorare Dio in altro modo. Ma questa scala di Giacobbe sembra suggerirci un modo diverso di rendere culto a Dio, in quanto è prefigurazione del culto che si sarebbe reso a Dio nel futuro.
Un’altra interpretazione può essere quella che fa riferimento alla ghematrià, cioè quel sistema che lega ogni lettera dell’alfabeto ebraico a un corrispettivo numerico. Secondo la ghematrià la parola « scala » viene scissa nelle varie lettere che la compongono e si calcola la somma del valore numerico di ogni lettera. La parola « scala » – sullàm – ha un valore numerico che corrisponde esattamente a quello della parola Sinài, il monte di Dio. Quindi la scala vista da Giacobbe, con questi esseri che vi salgono e scendono, potrebbe essere una prefigurazione del monte Sinài. In fondo questo monte non è un collegamento tra cielo e terra? E non ci sono, anche lì, al Sinài, delle persone che salgono e scendono? Vi ricordate la descrizione della teofania sul Sinài? Non vediamo forse Mosè che sale e scende più volte con le tavole della Torah?
Qualcuno mette in relazione la parola sullàm con pesel, compiendo una metatesi. Pesel vuol dire « statua ». Vi ricordate il sogno di Nabucodonor, nel libro di Daniele? Il re aveva sognato una grande statua con la testa che arrivava fino al cielo. Vedete? La scala può essere intesa in senso positivo, cioè il collegamento costante tra la terra e il cielo, ma anche un collegamento deformato, quando qualcuno pensa di essere lui stesso la scala e di potersi portare in alto, ma prima o poi crolla certamente.
La parola sullàm corrisponde anche ad altre due parole: oni, cioè povertà e mamòn che vuol dire ricchezza. Cosa potrebbe voler dire, questo? La scala significa la storia degli individui: c’è chi si arricchisce e chi si impoverisce. Ma nessuno deve pensare che la sua condizione sia stabile, perché si sale e si scende. E’ la situazione dell’essere umano.
Anche per Giacobbe è così. Fino a poco prima era in una situazione molto positiva, in casa sua e oggi tutto è cambiato per lui. Non bisogna prendersela: la vita è una scala!
Qualcuno si chiede chi sono questi angeli che salgono e scendono. Il termine qui usato per dire « angelo », malàch, indica un tale che, consapevolmente o inconsapevolmente, sta compiendo una missione per conto di Dio.
Non vi sembra strano che il testo dica che questi esseri salgono e scendono? Se sono mandati da Dio, se sono celestiali, come possono prima salire e poi scendere?
La prefigurazione potrebbe essere quella di Giacobbe come rappresentante del popolo ebraico successivo o di qualunque altro popolo. Ci sono delle potenze che salgono e scendono; potremmo dire, in termini attuali, l’Unione Sovietica, gli Stai Uniti, il Vaticano, il rabbinato, che so io, tutto quello che volete. L’impressione è che salgono, ma sono degli strumenti nelle mani di Dio. Oggi salgono, ma domani scendono. Non bisogna spaventarsi. In fondo è lo stesso messaggio dei profeti nei riguardi dei grandi imperi che sorgevano e sembravano invincibili: prima o poi viene il momento della discesa per tutti.
Qualcuno aggiunge, a questo proposito, che Giacobbe non sale e non scende, quasi a sottolineare che i discendenti di Giacobbe fanno parte di un popolo, di un’etnia che è al di fuori dai parametri della storia. Questo può essere dimostrato dalla storia stessa. Il popolo ebraico avrebbe dovuto sparire dalla faccia della terra da almeno 2000 anni, per una serie di situazioni, di assimilazioni, discriminazioni. E invece siamo ancora qua. Qualcuno dice che è quasi come se Israele fosse condannato a non scomparire mai. Ma questo conferma la tesi che ogni popolo, ogni individuo è strumento nelle mani di Dio.
Un’ultima interpretazione, che desidero farvi conoscere, perché ci riflettiate sopra. I malachìm, questi messaggeri di Dio, sono visti da qualcuno come delle presenze invisibili che ci accompagnano. Ogni essere umano è accompagnato. Ci sono delle situazioni in cui ci sentiamo spinti a fare o non fare qualcosa che non dipende da noi, che si discosta dal nostro modo usuale di agire, che non risponde al nostro carattere; come se, appunto, ci fossero delle presenze, al di fuori di noi, che ci suggeriscono dei comportamenti, in negativo o in positivo, che esulano dal nostro modo usuale di regolarci. Ci si può credere o no. I maestri dicono così. La situazione di Giacobbe è quella di un uomo che sta uscendo dalla terra che Dio gli ha promesso e sta andando all’estero. Questi esseri che salgono e scendono, chi sono? Stanno tornando verso Dio gli angeli che hanno accompagnato Giacobbe finché era nella sua terra e stanno scendendo quelli che devono accompagnarlo all’estero. I problemi dell’ebreo o dell’uomo nella propria terra sono diversi dai problemi che nascono in una terra diversa. Per questo Giacobbe ha bisogno di un altro tipo di protezione, adesso che sta entrando in una terra diversa; come se i malachìm che l’hanno accompagnato fino allora non sono più qualificati. E tutto questo è supportato dal fatto che quando Giacobbe torna a casa sua, dopo 20 anni, si dice, qualche capitolo più avanti, che gli si fecero incontro gli angeli di Dio. Tornano quelli di prima. E Giacobbe dice: « Questa è una stazione divina ». Come se fosse una stazione di confine in cui Dio provvede alle sue necessità. Dice « machanàim », usando una parola al duale, come a dire « le due stazioni », cioè è una stazione di partenza e di arrivo allo stesso tempo. E qui Dio provvede a offrirgli l’aiuto più consono.
Io non voglio lasciarmi trascinare e non voglio trascinare voi, però queste cose sono coinvolgenti. La cosa essenziale è che si legga il testo direttamente.

MARTIN BUBER: IL CAMMINO DELL’UOMO – COMINCIARE DA SE STESSI

http://www.atma-o-jibon.org/italiano3/cammino_uomo4.htm

MARTIN BUBER 

IL CAMMINO DELL’UOMO – COMINCIARE DA SE STESSI

Alcune persone eminenti di Israele erano un giorno ospiti di Rabbi Isacco di Worki. La conversazione cadde sull’importanza di un servitore onesto per la gestione di una casa: « Tutto volge al bene – dicevano – se si ha un buon servitore, come dimostra il caso di Giuseppe, nelle cui mani tutto prosperava ». Ma Rabbi Isacco non condivideva l’opinione generale. « Ero anch’io dello stesso avviso – disse – finché il mio maestro non mi dimostrò che in realtà tutto dipende dal padrone di casa. Da giovane, infatti, mia moglie era per me fonte di tribolazione, e pur essendo disposto a sopportare per quel che riguardava me stesso, mi facevano pena i servitori. Andai allora a consultare il mio maestro, Rabbi David di Lelow, e gli chiesi se dovevo oppormi o meno a mia moglie. ‘Perché ti rivolgi a me? – rispose – Rivolgiti a te stesso!’. Dovetti riflettere a lungo su queste parole prima di capirle, e le capii solo ricordandomi anche delle parole del Baal-Shem: ‘Ci sono il pensiero, la parola e l’azione. Il pensiero corrisponde alla moglie, la parola ai figli, l’azione ai servitori. Tutto si volgerà al bene per chi saprà mettere in ordine le tre cose nel proprio spirito’. Allora compresi cosa avesse voluto dire il mio maestro: che tutto dipendeva da me ».
Questo racconto tocca uno dei problemi più profondi e più seri della nostra vita: il problema della vera origine del conflitto tra gli uomini.
Abbiamo l’abitudine di spiegare le manifestazioni del conflitto innanzitutto con i motivi che gli antagonisti riconoscono coscientemente come origine della disputa, oppure con le situazioni e i processi oggettivi che stanno alla base di questi motivi e nei quali le due parti sono implicate; un’altra pista è invece quella di procedere in modo analitico, cercando di esplorare i complessi inconsci, considerati allora come i danni organici di una malattia di cui i motivi evidenti rappresentano i sintomi. L’insegnamento chassidico si avvicina a quest’ultima concezione in quanto rimanda anch’esso la problematica della vita esteriore a quella della vita interiore. Ma ne differisce in due punti essenziali, uno di principio e l’altro, ancora più importante, di ordine pratico.
La differenza di principio risiede nel fatto che l’insegnamento chassidico non tende a esaminare le difficoltà isolate dell’anima, ma ha di mira l’uomo intero. Non si tratta tuttavia di una differenza quantitativa, ma piuttosto della constatazione che il fatto di separare dal tutto elementi e processi parziali ostacola sempre la comprensione della totalità, e che solo la comprensione della totalità in quanto tale può comportare una trasformazione reale, una reale guarigione, innanzitutto dell’individuo e poi del rapporto tra questi e i suoi simili (o, per usare un paradosso: la ricerca del punto nodale sposta quest’ultimo e fa così fallire l’intero tentativo di superare la problematica). Questo non significa assolutamente che non si debbano prendere in considerazione tutti i fenomeni dell’anima; ma nessuno di essi dev’essere posto al centro dell’esame, al punto che tutto il resto possa esserne dedotto. È invece indispensabile considerare tutti i punti, e non in modo separato ma proprio nella loro connessione vitale.
Quanto alla differenza pratica, consiste nel fatto che l’uomo, invece di essere trattato come oggetto dell’analisi, è sollecitato a « rimettersi in sesto ». Bisogna che l’uomo si renda conto innanzitutto lui stesso che le situazioni conflittuali che l’oppongono agli altri sono solo conseguenze di situazioni conflittuali presenti nella sua anima, e che quindi deve sforzarsi di superare il proprio conflitto interiore per potersi così rivolgere ai suoi simili da uomo trasformato, pacificato, e allacciare con loro relazioni nuove, trasformate.
Indubbiamente, per sua natura, l’uomo cerca di eludere questa svolta decisiva che ferisce in profondità il suo rapporto abituale con il mondo: allora ribatte all’autore di questa ingiunzione – o alla propria anima, se è lei a intimargliela – che ogni conflitto implica due attori e che perciò, se si chiede a lui di risalire al proprio conflitto interiore, si deve pretendere altrettanto dal suo avversario. Ma proprio in questo modo di vedere – in base al quale l’essere umano si considera solo come un individuo di fronte al quale stanno altri individui, e non come una persona autentica la cui trasformazione contribuisce alla trasformazione del mondo – proprio qui risiede l’errore fondamentale contro il quale si erge l’insegnamento chassidico.
Cominciare da se stessi: ecco l’unica cosa che conta. In questo preciso istante non mi devo occupare di altro al mondo che non sia questo inizio. Ogni altra presa di posizione mi distoglie da questo mio inizio, intacca la mia risolutezza nel metterlo in opera e finisce per far fallire completamente questa audace e vasta impresa. Il punto di Archimede a partire dal quale posso da parte mia sollevare il mondo è la trasformazione di me stesso. Se invece pongo due punti di appoggio uno qui nella mia anima e l’altro là, nell’anima del mio simile in conflitto con me, quell’unico punto sul quale mi si era aperta una prospettiva, mi sfugge immediatamente.
Così insegnava Rabbi Bunam: « I nostri saggi dicono: ‘Cerca la pace nel tuo luogo’. Non si può cercare la pace in altro luogo che in se stessi finché qui non la si è trovata. È detto nel salmo: ‘Non c’è pace nelle mie ossa a causa del mio peccato ». Quando l’uomo ha trovato la pace in se stesso, può mettersi a cercarla nel mondo intero ».
Ma il racconto che ho preso come punto di partenza non si accontenta di indicare la vera origine dei, conflitti esterni e di attirare l’attenzione sul conflitto interiore in modo generico. L’affermazione del Baal-Shem che vi si trova citata ci precisa anche esattamente in cosa consiste il conflitto interiore determinante. Si tratta del conflitto fra tre principi nell’essere e nella vita dell’uomo: il principio del pensiero, il principio della parola e il principio dell’azione. Ogni conflitto tra me e i miei simili deriva dal fatto che non dico quello che penso e non faccio quello che dico. In questo modo, infatti, la situazione tra me e gli altri si ingarbuglia e si avvelena sempre di nuovo e sempre di più; quanto a me, nel mio sfacelo interiore, ormai incapace di controllare la situazione, sono diventato, contrariamente a tutte le mie illusioni, il suo docile schiavo. Con la nostra contraddizione e la nostra menzogna alimentiamo e aggraviamo le situazioni conflittuali e accordiamo loro potere su di noi fino al punto che ci riducono in schiavitù. Per uscirne c’è una sola strada: capire la svolta – tutto dipende da me – e volere la svolta – voglio rimettermi in sesto.
Ma per essere all’altezza di questo grande compito, l’uomo deve innanzitutto, al di là della farragine di cose senza valore che ingombra la sua vita, raggiungere il suo sé, deve trovare se stesso, non l’io ovvio dell’individuo egocentrico, ma il sé profondo della persona che vive con il mondo. E anche qui tutte le nostre abitudini ci sono di ostacolo.
Vorrei concludere questa riflessione con un divertente aneddoto antico ripreso da uno zaddik. Rabbi Hanoch raccontava: « C’era una volta uno stolto così insensato che era chiamato il Golem. Quando si alzava al mattino gli riusciva così difficile ritrovare gli abiti che alla sera, al solo pensiero, spesso aveva paura di andare a dormire. Finalmente una sera si fece coraggio, impugnò una matita e un foglietto e, spogliandosi, annotò dove posava ogni capo di vestiario. Il mattino seguente, si alzò tutto contento e prese la sua lista: ‘Il berretto: là’, e se lo mise in testa; ‘I pantaloni: lì, e se li infilò; e così via fino a che ebbe indossato tutto. ‘Sì, ma io, dove sono? – si chiese all’improvviso in preda all’ansia – Dove sono rimasto?’. Invano si cercò e ricercò: non riusciva a trovarsi. Così succede anche a noi », concluse il Rabbi.

Publié dans:ebraismo, EBRAISMO: INSEGNAMENTI |on 22 août, 2013 |Pas de commentaires »

RABBI NACHMAN DI BRESLOV (maestro chasidico)

http://www.cabala.org/articoli/nachman.htm

RABBI NACHMAN DI BRESLOV

Rabbi Nachman è stato uno dei più grandi tra i maestri chasidici di tutti i tempi. La sua vita fu breve e piena di eventi drammatici, ma qualunque cosa gli succedeva serviva unicamente a rafforzare la sua già incommensurabile fede in Dio. Egli era un pronipote dello stesso Baal Shem Tov, il fondatore del Chasidismo. Rabbi Nachman nacque il primo del mese di Nissan dell’anno 5532 (1772). Fin da piccolo fu attratto da particolari vie di contemplazione e di meditazione mistica, che praticava in solitudine nei boschi e sulle montagne, a guisa del suo famoso bisnonno. Sposatosi in età molto giovane (secondo l’abitudine di quel periodo), Rabbi Nachman, date le sue brillanti virtù umane e spirituali, non ebbe difficoltà a radunare intorno a sè un folto numero di discepoli. Gli unici problemi gli venivano dal movimento degli « oppositori » (Mitnagdim), e perfino da alcuni maestri chasidici, forse gelosi dello sviluppo rapidissimo che il suo gruppo di fedeli andava assumendo, attirando a sé anche anziani e quotati rabbini. Molti dei suoi cambiamenti di sede furono proprio dovuti al fatto che Rabbi Nachman rifuggiva le diatribe e gli scontri, e preferiva andarsene piuttosto che causare invidia e inimicizia. Egli ebbe comunque un grande desiderio di viaggiare, che lo portò nella stessa terra d’Israele, per una breve visita. Tuttavia gli spostamenti in quei periodi erano molto difficili, e richiedevano un notevole sforzo fisico. Fu soprattutto ciò che lo portò a contrarre la tubercolosi, la malattia che avrebbe causato la sua morte prematura. Poco tempo prima gli era morta anche la moglie e un figlio in tenera età. Rabbi Nachman lasciò questo mondo durante la festa di Sukkot dell’anno 5571 (1810), all’età di 38 anni.
Furono tuttavia anni intensi e pieni forse quanto intere vite. All’età di 18 anni Rabbi Nachman aveva testimoniato di se stesso di essere già arrivato al livello del santo bisnonno, il Baal Shem Tov. Forse una tale affermazione potrebbe sembrare orgogliosa, ma Rabbi Nachman era la persona più modesta della terra, e quanto diceva era semplicemente vero.
In modo simile a quanto era già successo per il santo Arizal (anch’egli mancato a 38 anni), l’opera di Rabbi Nachman fu registrata e pubblicata dal suo più fedele discepolo, Rabbi Natan. Essa è composta da tre elementi principali. Il primo libro è Likutei Moharan, una collezione dei suoi più importanti insegnamenti. In essi il maestro tesse insieme nozioni profondamente cabalistiche con le loro interpretazioni chasidiche, elementi di racconti o midrashim con altri di carattere morale e psicologico. Poi vi è un’opera in diversi volumi: Likutei Halakhot, dove il maestro spiega il significato interiore e cabalistico delle regole della Halakhà. Si tratta di un’opera preziosissima, che da un’infinito respiro mistico all’altrimenti stretto e difficile mondo dell’Halakhà. Altrettanto importante è il Likutei Etzot ha-Meshulash (Raccolta triplice di Consigli), una raccolta di interpretazioni chasidiche, sistematizzata come una specie di mini-enciclopedia un ordine alfabetico. Infine ci sono diversi racconti o leggende, che Rabbi Nachman raccontò in varie occasioni.
Uno degli elementi centrali del suo insegnamento, tratto tipicamente chasidico, è l’insistenza sul bisogno di essere sempre contenti, di non lasciarsi mai abbattere, di non avere mai paura. Rabbi Nachman spiega che l’unico vero peccato è la tristezza e lo scoramento che gelano il cuore di una persona che ha commesso un’infrazione morale o alla quale è successo qualcosa di brutto (Dio non voglia). La depressione è la radice di ogni peccato successivo, in quanto convince la persona di non essere capace di allontanarsi dalla falsa strada, di non essere capace di fare altro che errori, di non meritare nulla se non disgrazie e punizioni.
Un altro elemento particolare del pensiero di Rabbi Nachman è il suo non aver voluto iniziare una dinastia chasidica, come invece tipico di ogni altro gruppo, nel quale alla morte del Rebbe viene eletto un successore, quasi sempre il figlio di costui. Rabbi Nachman disse ai suoi discepoli che non avrebbero dovuto aspettarsi nessun altro Rebbe se non lo stesso Messia. Tutt’oggi il movimento dei Chasidim di Breslov, diffuso soprattutto in Israele, Stati Uniti e Francia, non ha un maestro-guida, se non lo stesso Rabbi Nachman, vivo più che mai nell’amore e nell’attenzione di quanti seguono la sua via.
Un’altra delle particolarità di Rabbi Nachman fu quella di insegnare tramite racconti dall’aspetto fiabesco e mitico (re, principesse, castelli, ecc.). Si trattava dell’evolversi di una delle caratteristiche presenti nell’insegnamento del suo santo bisnonno: il Baal Shem Tov. I suoi racconti però erano di carattere più popolare e folcloristico, più vicini agli archetipi della cultura ebraico-contadino di Russia e Polonia in quei tempi. Come vedremo dai due esempi che verranno tradotti qui di seguito, le storie di Rabbi Nachman avevano invece un aspetto esteriore quasi vicino agli archetipi dei nobili gentili di quei tempi. Si tratta però di un solo aspetto esterno, poichè le storie di Rabbi Nachman sono in realtà tesori preziosi di sapienza cabalistica, opere altamente creative di un’anima che sapeva trovare scintille di santità ovunque.
Rabbi Nachman aveva una vocazione particolare nell’avvicinare e nel comunicare con gli ebrei dell’ »Hashkalà », l’Illuminismo ebraico, che stava prendendo piede in Europa in quegli stessi anni. Condannati con veemenza da parte del rabbinato ufficiale e benpensante, i maskilim (illuministi) furono gli iniziatori del laicismo ebraico, e sostenevano il diritto di frequentare le scuole e le università degli stati in cui vivevano, e il diritto di seguire valori molto più vicini a quelli dei popoli gentili loro vicini e contemporanei. Ovviamente ciò portava a un notevole indebolimento o alla stessa scomparsa della pratica religiosa ebraica, l’osservanza delle Mitzvot, e ciò segnò anche l’inizio del doloroso fenomeno dell’assimilazione. Vi erano dunque motivi più che sufficienti per preoccupare il mondo ebraico ortodosso.
Ma Rabbi Nachman vedeva molto più in là dei suoi contemporanei: scorgeva nelle anime dei maskilim (gli intellettuali) un’ansia di conoscenza e di progresso che la pur valida vita di osservanza religiosa non riusciva a soddisfare. Inoltre egli scorgeva in essi anche dei potenziali « ba’alei teshuvà » (maestri del ritorno), che sarebbero un giorno ritornati all’Ebraismo con i tesori delle conoscenze prese dall’ambito mondano nel quale si erano a lungo intrattenuti, conoscenze che sarebbero state « rettificate » alla luce dei principi esoterici della Torà. Rabbi Nachman arrivò a dire che la stessa venuta del Messia sarebbe stata annunciata dal fenomeno congiunto di un gran numero di « ba’alei teshuvà » e di « gherei tzedek » (giusti convertiti). Pur se l’Ebraismo è sempre stato e rimane una religione che non cerca proseliti, se questi si avvicinano con intenzioni pure e serie essi sono accolti con grande gioia.
La profezia di Rabbi Nachman si sta avverando proprio nei nostri giorni, nei quali diventa sempre più imponente il numero di ebrei laici che stanno ritornando all’osservanza e allo studio della Torà, specie nelle sue componenti esoteriche. Contemporaneamente, cresce in modo inaspettato il numero di gentili che chiedono di diventare ebrei. Purtroppo il Rabbinato ufficiale, con la stessa mancanza di perspicacia già dimostrata altre volte nel passato, tratta entrambi questi due tipi di persone come dei sottosviluppati mentali, tenendoli lontani dalle conoscenze della parte mistica ed esoterica della Torà, e cercando di dirigerli unicamente verso la sola pratica della parte halakica (delle regole pratiche), pia e devota quanto si vuole, ma senz’altro limitata. Non c’è nessun dubbio che una retta osservanza dei precetti sia la base insostituibile senza la quale non potrebbe esserci né una vera teshuvà, né una sincera conversione, e neppure una genuina comprensione della Cabalà.. Tuttavia i collegi di studi rabbinici, ai quali queste persone vengono indirizzate, non contengono nei loro programmi altro che le istruzioni sul come fare i pavimenti, dimenticandosi di come una casa sia costituita anche da pareti e da tetti. Quello che il Rabbinato non ha ancora capito è che non si tratta di ritornare semplicemente alla situazione esistente prima del diffondersi del laicismo. Ciò è del tutto inconcepibile. Il mondo si muove ad una velocità sempre più elevata, e lo stesso pensare di rimanere fermi nello stesso posto già costituisce un errore madornale, per non parlare del credere di poter ritornare indietro!
I « maestri del ritorno » e i « giusti convertiti » (e qui potremmo anche includere tutti quei gentili che pur non intendendo diventare ebrei si sentono sinceramente attratti dalla sapienza contenuta nella Torà) non ricercano soltanto la parte morale e pratica della Legge ebraica, per quanto profonda e perfetta possa essere. Nella maggior parte dei casi essi desiderano un’esperienza diretta della parte mistica e contemplativa, desiderano gettare uno sguardo dentro le stanze interne della Torà, dove sono custoditi i suoi segreti. Non è un desiderio erroneo o prematuro, come sostengono i rabbini non preparati a condurli all’interno del Palazzo del Re. Una tale opinione negativa è unicamente motivata dai pregiudizi di una mentalità ristretta che ha già fatto il suo tempo, oltre che dalla stessa incapacità, peraltro non ammessa volentieri, di tali rabbini nel condurre altri in luoghi dei quali loro stessi non sono a conoscenza.
Quel che si richiede a tali maestri è un fondamentale atto d’umiltà: è noto che non tutte le anime d’Israele hanno la stessa accesa passione per la parte mistica della Torà. Molte anime sono soprattutto attratte dalla parte più pratica e legale, che peraltro contiene così tanta saggezza da riempire facilmente i giorni e gli anni di chi vi si senta votato. Ma non occorre generalizzare. Succede invece che tali maestri pretendono che i loro interessi diventino una norma per tutti, confinando ogni attrazione verso la parte cabalistica in un angolo a volte definito come accessorio e facoltativo, e a volte definito come inutile, pericoloso o proibito. Non c’è nulla di più falso! La Cabalà. è da sempre l’anima della Torà, così come le regole dell’Halakhà ne sono il corpo. Solo una piena interazione di questi due partner inseparabili è chiamata « vita », e il Dio d’Israele è il Dio della vita. D’altronde sono sempre esistiti, in ogni luogo e in ogni generazione, validissimi maestri, esperti della parte legale e pratica, che hanno scalato anche le vette delle conoscenze esoteriche. Oggi costoro si dichiarano pronti ad insegnare chi gli si avvicina sinceramente, senza porre precondizioni o senza esami introduttivi. Dunque l’unica cosa che viene richiesta ai rabbini delle molte Yeshivot ufficiali, per il momento, è almeno di non interferire in ciò. In un futuro ormai prossimo però si renderà necessario introdurre corsi di Cabalà in ogni programma di studio in yeshivà, a qualsiasi livello, avanzato o introduttivo che sia.
Un altro punto sul quale Rabbi Nachman ci lascia un insegnamento quanto mai attuale è sull’atteggiamento che gli ebrei religiosi dovrebbero tenere nei confronti di quelli non religiosi, specie in paesi come Israele o gli Stati Uniti, cioè dove vi sono forti comunità religiose. Purtroppo non è raro tutt’oggi vedere come l’ebreo ortodosso guardi ai suoi fratelli laici con un malcelato orgoglio e senso di superiorità morale. Non c’è nulla di più errato, dato che solo Dio è in grado di giudicare tutti i meriti e i demeriti di una persona. Rabbi Nachman invece, irradiando simpatia ed interesse umano anche verso il più assimilato degli ebrei, stabiliva subito un canale di contatto, tramite il quale ogni forma di benedizione e di insegnamento poteva passare. Il suo esempio è tutt’oggi centrale nel comportamento dei Chasidim Breslov. Questi sono tra i più aperti e tolleranti degli ebrei ortodossi, e nei loro ranghi vi sono numerosissimi ba’alei teshuvà.

Publié dans:EBRAISMO: INSEGNAMENTI |on 25 avril, 2012 |Pas de commentaires »

COMINCIARE DA SE STESSI; di MARTIN BUBER

dal sito:

http://www.atma-o-jibon.org/italiano3/cammino_uomo4.htm

MARTIN BUBER
 
IL CAMMINO DELL’UOMO

COMINCIARE DA SE STESSI

Alcune persone eminenti di Israele erano un giorno ospiti di Rabbi Isacco di Worki. La conversazione cadde sull’importanza di un servitore onesto per la gestione di una casa: « Tutto volge al bene – dicevano – se si ha un buon servitore, come dimostra il caso di Giuseppe, nelle cui mani tutto prosperava ». Ma Rabbi Isacco non condivideva l’opinione generale. « Ero anch’io dello stesso avviso – disse – finché il mio maestro non mi dimostrò che in realtà tutto dipende dal padrone di casa. Da giovane, infatti, mia moglie era per me fonte di tribolazione, e pur essendo disposto a sopportare per quel che riguardava me stesso, mi facevano pena i servitori. Andai allora a consultare il mio maestro, Rabbi David di Lelow, e gli chiesi se dovevo oppormi o meno a mia moglie. ‘Perché ti rivolgi a me? – rispose – Rivolgiti a te stesso!’. Dovetti riflettere a lungo su queste parole prima di capirle, e le capii solo ricordandomi anche delle parole del Baal-Shem: ‘Ci sono il pensiero, la parola e l’azione. Il pensiero corrisponde alla moglie, la parola ai figli, l’azione ai servitori. Tutto si volgerà al bene per chi saprà mettere in ordine le tre cose nel proprio spirito’. Allora compresi cosa avesse voluto dire il mio maestro: che tutto dipendeva da me ».
Questo racconto tocca uno dei problemi più profondi e più seri della nostra vita: il problema della vera origine del conflitto tra gli uomini.
Abbiamo l’abitudine di spiegare le manifestazioni del conflitto innanzitutto con i motivi che gli antagonisti riconoscono coscientemente come origine della disputa, oppure con le situazioni e i processi oggettivi che stanno alla base di questi motivi e nei quali le due parti sono implicate; un’altra pista è invece quella di procedere in modo analitico, cercando di esplorare i complessi inconsci, considerati allora come i danni organici di una malattia di cui i motivi evidenti rappresentano i sintomi. L’insegnamento chassidico si avvicina a quest’ultima concezione in quanto rimanda anch’esso la problematica della vita esteriore a quella della vita interiore. Ma ne differisce in due punti essenziali, uno di principio e l’altro, ancora più importante, di ordine pratico.
La differenza di principio risiede nel fatto che l’insegnamento chassidico non tende a esaminare le difficoltà isolate dell’anima, ma ha di mira l’uomo intero. Non si tratta tuttavia di una differenza quantitativa, ma piuttosto della constatazione che il fatto di separare dal tutto elementi e processi parziali ostacola sempre la comprensione della totalità, e che solo la comprensione della totalità in quanto tale può comportare una trasformazione reale, una reale guarigione, innanzitutto dell’individuo e poi del rapporto tra questi e i suoi simili (o, per usare un paradosso: la ricerca del punto nodale sposta quest’ultimo e fa così fallire l’intero tentativo di superare la problematica). Questo non significa assolutamente che non si debbano prendere in considerazione tutti i fenomeni dell’anima; ma nessuno di essi dev’essere posto al centro dell’esame, al punto che tutto il resto possa esserne dedotto. È invece indispensabile considerare tutti i punti, e non in modo separato ma proprio nella loro connessione vitale.
Quanto alla differenza pratica, consiste nel fatto che l’uomo, invece di essere trattato come oggetto dell’analisi, è sollecitato a « rimettersi in sesto ». Bisogna che l’uomo si renda conto innanzitutto lui stesso che le situazioni conflittuali che l’oppongono agli altri sono solo conseguenze di situazioni conflittuali presenti nella sua anima, e che quindi deve sforzarsi di superare il proprio conflitto interiore per potersi così rivolgere ai suoi simili da uomo trasformato, pacificato, e allacciare con loro relazioni nuove, trasformate.
Indubbiamente, per sua natura, l’uomo cerca di eludere questa svolta decisiva che ferisce in profondità il suo rapporto abituale con il mondo: allora ribatte all’autore di questa ingiunzione – o alla propria anima, se è lei a intimargliela – che ogni conflitto implica due attori e che perciò, se si chiede a lui di risalire al proprio conflitto interiore, si deve pretendere altrettanto dal suo avversario. Ma proprio in questo modo di vedere – in base al quale l’essere umano si considera solo come un individuo di fronte al quale stanno altri individui, e non come una persona autentica la cui trasformazione contribuisce alla trasformazione del mondo – proprio qui risiede l’errore fondamentale contro il quale si erge l’insegnamento chassidico.
Cominciare da se stessi: ecco l’unica cosa che conta. In questo preciso istante non mi devo occupare di altro al mondo che non sia questo inizio. Ogni altra presa di posizione mi distoglie da questo mio inizio, intacca la mia risolutezza nel metterlo in opera e finisce per far fallire completamente questa audace e vasta impresa. Il punto di Archimede a partire dal quale posso da parte mia sollevare il mondo è la trasformazione di me stesso. Se invece pongo due punti di appoggio uno qui nella mia anima e l’altro là, nell’anima del mio simile in conflitto con me, quell’unico punto sul quale mi si era aperta una prospettiva, mi sfugge immediatamente.
Così insegnava Rabbi Bunam: « I nostri saggi dicono: ‘Cerca la pace nel tuo luogo’. Non si può cercare la pace in altro luogo che in se stessi finché qui non la si è trovata. È detto nel salmo: ‘Non c’è pace nelle mie ossa a causa del mio peccato ». Quando l’uomo ha trovato la pace in se stesso, può mettersi a cercarla nel mondo intero ».
Ma il racconto che ho preso come punto di partenza non si accontenta di indicare la vera origine dei, conflitti esterni e di attirare l’attenzione sul conflitto interiore in modo generico. L’affermazione del Baal-Shem che vi si trova citata ci precisa anche esattamente in cosa consiste il conflitto interiore determinante. Si tratta del conflitto fra tre principi nell’essere e nella vita dell’uomo: il principio del pensiero, il principio della parola e il principio dell’azione. Ogni conflitto tra me e i miei simili deriva dal fatto che non dico quello che penso e non faccio quello che dico. In questo modo, infatti, la situazione tra me e gli altri si ingarbuglia e si avvelena sempre di nuovo e sempre di più; quanto a me, nel mio sfacelo interiore, ormai incapace di controllare la situazione, sono diventato, contrariamente a tutte le mie illusioni, il suo docile schiavo. Con la nostra contraddizione e la nostra menzogna alimentiamo e aggraviamo le situazioni conflittuali e accordiamo loro potere su di noi fino al punto che ci riducono in schiavitù. Per uscirne c’è una sola strada: capire la svolta – tutto dipende da me – e volere la svolta – voglio rimettermi in sesto.
Ma per essere all’altezza di questo grande compito, l’uomo deve innanzitutto, al di là della farragine di cose senza valore che ingombra la sua vita, raggiungere il suo sé, deve trovare se stesso, non l’io ovvio dell’individuo egocentrico, ma il sé profondo della persona che vive con il mondo. E anche qui tutte le nostre abitudini ci sono di ostacolo.
Vorrei concludere questa riflessione con un divertente aneddoto antico ripreso da uno zaddik. Rabbi Hanoch raccontava: « C’era una volta uno stolto così insensato che era chiamato il Golem. Quando si alzava al mattino gli riusciva così difficile ritrovare gli abiti che alla sera, al solo pensiero, spesso aveva paura di andare a dormire. Finalmente una sera si fece coraggio, impugnò una matita e un foglietto e, spogliandosi, annotò dove posava ogni capo di vestiario. Il mattino seguente, si alzò tutto contento e prese la sua lista: ‘Il berretto: là’, e se lo mise in testa; ‘I pantaloni: lì, e se li infilò; e così via fino a che ebbe indossato tutto. ‘Sì, ma io, dove sono? – si chiese all’improvviso in preda all’ansia – Dove sono rimasto?’. Invano si cercò e ricercò: non riusciva a trovarsi. Così succede anche a noi », concluse il Rabbi.

Publié dans:EBRAISMO: INSEGNAMENTI |on 12 novembre, 2011 |Pas de commentaires »

Il dilemma dei Rabbi: uno sguardo ad Isaia 53

dal sito:

http://camcris.altervista.org/ebrisaia.html

Il dilemma dei Rabbi: uno sguardo ad Isaia 53

di Rachmiel Frydland

Questo argomento non è mai stato discusso nella mia scuola ebraica negli anni antecedenti alla guerra, in Polonia. Nell’educazione rabbinica che ho ricevuto, il capitolo 53 di Isaia è stato evitato continuamente in favore di altri argomenti più « importanti » da imparare. Eppure, quando lo lessi, la mia mente si riempì di domande.
Di chi parla questo capitolo? Le parole sono chiare – parla di un Servo del Signore il cui aspetto è sfigurato, ed è afflitto e ferito. Egli non ha meritato dolori o ferite, ma fu ferito per le nostre trasgressioni e colpito per le nostre iniquità, ed attraverso le sue ferite noi siamo stati guariti. Il testo presenta il Servo sofferente del Signore che muore come un korban, una ricompensa per la colpa. Egli è quindi sepolto con il ricco e malvagio, ma risorge gloriosamente alla vita. Dio permette che Egli sia percosso e, alla fine, esalta il Servo che ha patito tale sofferenza per cancellare i peccati di molti.
Ma chi è il Servo? I nostri antichi commentatori d’accordo ritenevano che il testo si riferisse all’Unto del Signore, il Messia. La traduzione Aramaica di questo capitolo, ascritta a Rabbi Jonathan Ben Uzziel, un allievo di Hillel del secondo secolo C.E. riporta questo, e c’è la stessa interpretazione nel Talmud babilonese (Sanhedrin 98b). Allo stesso modo accade nel Midrash Rabbah, in una spiegazione di Ruth 2:14, e nel Midrash Tanhuma, parashà Toldot, fine della sezione. Queste sono solo alcune delle antiche interpretazioni che attribuiscono questo capitolo al Messia.

Rashi (Rabbi Shlomo Itzchaki, 1040-1105) e alcuni dei rabbini seguenti, però, interpretano il capitolo come riferentesi ad Israele. Loro sapevano che le antiche interpretazioni lo riferivano al Messia. Ma Rashi viveva in un tempo in cui era praticata una distorsione medievale del cristianesimo. Egli voleva preservare il popolo ebraico dall’accettare tale fede e, anche se le sue intenzioni erano sincere, altri rabbini e leaders ebrei si resero conto dell’inconsistenza della sua interpretazione. Essi presentano una obiezione basata su tre punti. Primo: le antiche interpretazioni. Secondo: fanno notare che il testo è al singolare. Terzo, notano il versetto 8. Questo versetto presenta una difficoltà insormontabile per quelli che riferiscono Isaia 53 ad Israele (leggere il versetto). E’ forse il popolo ebreo tagliato fuori dalla terra dei viventi? No! In Geremia 31:35-37, Dio promette che noi esisteremo per sempre. Siamo orgogliosi del fatto che Am Yisrael Chai « il popolo di Israele è molto vivo e vitale ». Ed è impossibile dire che Israele soffrì per le trasgressioni del « mio popolo », che chiaramente intende il popolo di Isaia. Il popolo di Isaia non sono i gentili, ma gli ebrei.

Moshe Kohen, un Rabbino spagnolo del 15° sec., spiega questo paragrafo:
« Questo capitolo, spiegano i commentatori, parla della cattività di Israele, nonostante venga usato il singolare. Altri hanno supposto che parli del mondo attuale, in cui siamo tormentati e oppressi…ma altri, alterando il numero dal singolare al plurale, cambiano il senso naturale dei versetti. E ciò che mi sembra, è che abbiano dimenticato la conoscenza dei Savi, e interpretato secondo la durezza dei loro cuori…io sono felice di interpretarlo, in accordo con l’insegnamento dei nostri rabbini, come referentesi al re Messia. »

Per lo stesso motivo il Rabbino Moshe Alsheikh, Rabbino di safed, 16° sec., dice: io sottolineo che i nostri rabbini unanimemente affermano che il profeta stia parlando del Re Messia.
Herz Homberg (1749-1841) dice: secondo l’opinione di Rashi e Ibn Ezra, questo capitolo si riferisce ad Israele alla fine della cattività. Ma se è così, qual’è il significato del versetto « fu ferito per le nostre trasgressioni »? Chi fu ferito? Chi sono i trasgressori? Chi ha portato il dolore e la malattia? Il fatto è che questo capitolo si riferisce al re Messia.
Eliezer HaKalir ha messo in rima il capitolo nel 9° sec., e viene recitato allo Yom Kippur, nella preghiera di Kether.
Le parole del profeta Isaia sono parole di speranza. Abbiamo un glorioso futuro ed un abbondante presente se ci appropriamo della salvezza reas possibile dall’Uno che fu ferito per le nostre trasgressioni e colpito per le nostre iniquità.

In conclusione, io chiedo: ma dove nella Scrittura ebraica è detto che ogni generazione ha il suo Messia? E poi, cos’è un Messia? Un Messia è un Salvatore. Ma da cosa? Dai nemici politici? Davvero un buon governo cambierebbe le cose sulla terra? Le cose cambiano solo se cambia il cuore dell’uomo, e questo solo un Messia spirituale può farlo.
Il punto è se si pensa di dover essere salvati da qualcosa, a livello spirituale. Il discorso è puramente accademico, se si pensa di non avere bisogno di un Salvatore. Se si crede che la propria giustizia sia sufficiente per stare davanti al Santo, non c’è bisogno, ovviamente, di un Salvatore.

Nota aggiunta: Quali rabbini sostengono che Isaia 53 è un capitolo messianico e ha connessioni con Gesù? Daniel Zion, ex rabbino capo della città di Jaffa escluso dal ruolo dopo aver creduto in Yeshua, dà il seguente elenco: Mosheh El Sheikh, Yepheth Ben Ali, Don Ytzchak Abarbanel, lo Zohar, Rabbi Shimon Ben Yohai, Moshe Kohen Ibn Crispin, Rabbi Shlomoh Astric, Sa’adiyah Ibn Donan, Yoseph Albo, Meir Ben Shimon, Rabbi Samuel Lanyado, Midrash Konen, Asereth Memroth, Yakov Yoseph Mordecai Chaim Passami, Ytzchak Troki, Rabbi Naphtal

‘Dal padre si impara ciò che si dovrebbe fare, Dalla madre si impara chi si dovrebbe essere’. (Rav Ronnie)

dal sito:

http://www.pensieriditora.it/index.php/2011/06/senza-fine/

Senza Fine

Posted by Rav Ronnie on 28 giugno 2011

‘Dal padre si impara ciò che si dovrebbe fare, Dalla madre si impara chi si dovrebbe essere’.

Il suo rispetto per le donne è infinito. ‘Qualche volta non si sa se punire un bambino o abbracciarlo. Se lo si punisce quando meriterebbe un abbraccio, si compie un grave errore. Se lo si abbraccia quando meriterebbe una punizione, si sarà solo corso il rischio di portare un po’ di amore in più in questo mondo’. Alla vista dei bambini i suoi occhi si illuminano. ‘Non credo nella filosofia. Credo in idee in grado di cambiare le persone’. I suoi insegnamenti hanno rivoluzionato la vita di innumerevoli persone. ‘A ognuno è dato tutto il necessario per compiere la propria missione in questo mondo. Ogni individuo ha un compito differente ed è dotato di capacità diverse per compierlo. Ai  ‘diversamente abili’, D-o ha dato potenzialità molto più alte delle persone normali. Per compensare ciò che non possiedono fisicamente. Non sono ‘handicappati’. Sono persone speciali’. Queste le parole da lui pronunciate davanti a un soldato israeliano rimasto senza gambe, ‘Per capire se da una cosa scaturirà un vantaggio materiale, bisogna valutare se è spiritualmente corretta. Un business che richiede di infrangere i propri principi morali, non porterà mai a nessun risultato’. Se il mondo del business lo avesse ascoltato molte crisi sarebbero state evitate. ‘Lo stolto pensa che ciò che non è spiegabile razionalmente non esiste. Il saggio sa che l’esistenza stessa non può essere spiegata’. La sua capacità di aprire gli occhi sui miracoli quotidiani, ha trasformato il suo compleanno in Education Day negli Stati Uniti. ‘Ormoni, vitamine, cromosomi, costituiscono solo una minima parte del corpo umano. Eppure, sono elementi cruciali per la vita. Gli ebrei sono la più piccola minoranza di tutte le genti del mondo. Eppure sono gli elementi vitali della storia dell’umanità. Gli ebrei sono il cuore del mondo. Se sono sani, il mondo è sano’. Ogni ebreo possiede un valore intrinseco ai suoi occhi. ‘ Quando conti i gioielli non ti stanchi mai’ è una delle frasi pronunciate dopo un’intera giornata trascorsa in piedi a elargire benedizioni e consigli. Questi sono alcuni estratti del pensiero del Rebbe. Coniugare i verbi al passato parlando di lui sarebbe impossibile. Perché i suoi insegnamenti, le sue parole, la sua saggezza, come ogni cosa spirituale, non avranno mai fine.

Gheula Canarutto Nemni

Publié dans:EBRAISMO: INSEGNAMENTI |on 19 octobre, 2011 |Pas de commentaires »

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