IL PAPA E IL CONTADINO (Giovanni XXIII ed un contadino arabo- palestinese che…)
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L’INTERVISTA – Amos Luzzatto, presidente delle Comunità ebraiche italiane
IL PAPA E IL CONTADINO
di FRANCA ZAMBONINI
«Tra le figure esemplari, che noi chiamiamo « giusti », io metto Giovanni XXIII e l’umile contadino arabo palestinese che sessant’anni fa accolse la mia famiglia a Tel Aviv, pur sapendo di rischiare la vita»: così risponde il professor Luzzatto alla domanda su chi considera santo.
Accadde sessant’anni fa: il 19 novembre 1938, 48.032 ebrei italiani, fino al giorno prima cittadini a pieno diritto, vennero cancellati dal loro Paese in forza dei Regi Decreti per la difesa della « razza romano-italica ». Erano romanissimi-italianissimi da decine di generazioni, ma si ritrovarono fuori. Così riassume Lia Levi nel suo libro Tutti i giorni di tua vita (Ed. Mondadori, 1997): «Fuori dalle scuole alunni e studenti, fuori dall’insegnamento maestri e professori, le maestre d’asilo e i luminari dell’università. Fuori dalle Forze armate. Fuori i medici, i veterinari, le ostetriche, gli avvocati, gli architetti, i chimici, i giornalisti, i ragionieri ebrei. Fuori gli ebrei da proprietà di città e campagna e dalla patria potestà su figli di altra religione… Passerà, passerà, passerà, mormoravano gli ebrei increduli, sbigottiti, ma era solo un modo per tenersi in vita».
Altri provvedimenti seguiranno ai primi: proibito agli ebrei andare negli alberghi, ottenere il passaporto, possedere una radio con più di cinque valvole, avere il nome sull’elenco del telefono, perfino fare un annuncio mortuario. Ed era solo l’inizio della tempesta che si stava addensando. Accadde sessant’anni fa, ma quell’esclusione pesa ancora sugli ebrei italiani.
Dice Clara Sereni, discendente di una famiglia che ha dato molto alla storia e alla cultura italiane, di cui ha raccontato nel suo libro Il gioco dei regni (Einaudi, 1993): «Nei momenti di crisi, la diversità ritorna problematica e insieme scatta una appartenenza. A me è successo con la guerra del Golfo, quando Israele, dove vivono i miei parenti residui, si trovò sotto grave minaccia. È bastato un telegiornale per ripropormi gli incubi, eppure pensavo di essermene liberata per sempre. Mi tornò alla mente una citazione, chissà di chi: « Alcuni mi rinfacciano di essere ebreo, altri me lo perdonano, altri ancora mi lodano per questo, ma tutti ci pensano ». All’epoca delle leggi razziali io non c’ero perché sono nata nel dopoguerra. I miei nonni paterni, Alfonsa e Samuele, conservarono il diritto al passaporto perché il loro figlio era stato un eroe della prima guerra mondiale e ripararono in Palestina. Appartenevano alla prima generazione di ebrei italiani nata fuori dai ghetti, che erano stati chiusi una cinquantina di anni prima. Fuggirono per non vivere dentro un altro ghetto».
Il nuovo presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane è il professor Amos Luzzatto: ha 70 anni, vive a Venezia, è medico chirurgo, scrittore e saggista.
Professor Luzzatto, quando uscirono le leggi razziali lei aveva dieci anni. Cosa ferì di più il bambino che lei era?
«Vivevo a Roma, ero stato promosso brillantemente alla prima ginnasio. Ne venni cacciato, come tutti gli alunni ebrei. La mia mamma cominciò a farmi le lezioni, su una panchina ai giardinetti. Passavano i ragazzi e mi gridavano: « Giudeo ». È questo che mi ha fatto più male. Per i miei compagni, i miei amici, io ero diventato un estraneo da disprezzare. Poi la mia famiglia non poté più restare a Roma, il settimanale Israel diretto da mio nonno venne chiuso, eravamo sotto stretto controllo, i poliziotti davanti al portone. Ci siamo trasferiti in Palestina, a Tel Aviv, dove fummo accolti in casa di un arabo palestinese, povero, ospitale, pietoso».
A sessant’anni di distanza, lei ha digerito l’insulto?
«No, neanche adesso. Né feci in tempo a introiettarlo, perché mi trovai quasi subito dentro la guerra. La Palestina era sotto mandato britannico e quando l’Inghilterra entrò nel conflitto, il 3 settembre del ’39, seguirono subito i razionamenti, le maschere antigas, le bombe su Tel Aviv, la paura. Nel ’42 sembrava che i tedeschi stessero arrivando fino in Palestina. Da Stalingrado veniva la minaccia di una tenaglia verso il Medio Oriente, le valanghe tedesche avanzavano in Egitto. Un vicino di casa ci disse che ognuno di noi ebrei era stato assegnato al proprio sgozzatore…».
Dopo le leggi razziali, avete ricevuto sostegno da parte di vostri amici non ebrei, un po’ di solidarietà, piccoli gesti?
«Gli amici intimi ci dissero timidamente che capivano cosa c’era precipitato sulla testa, e gli dispiaceva. Ma aggiungevano che, se Mussolini aveva deciso così, avrà avuto le sue buone ragioni e bisognava accettarle. Gesti di solidarietà e di aiuto concreto vi furono quando cominciarono le retate, le deportazioni, e divenne chiaro che l’antisemitismo non colpiva solo gli ebrei, ma tutto il Paese».
È difficile oggi vivere da ebreo in Italia?
«Alcuni ambienti ci dimostrano amicizia, adesione. In altri invece sta lentamente crescendo una ostilità, e serpeggiano vecchi pregiudizi, stereotipi come l’ebreo avaro, l’ebreo ricco, l’ebreo superbo. Una volta compare un accenno sul giornale, un’altra volta in Tv e perfino in Parlamento».
C’è una responsabilità anche da parte delle Comunità ebraiche?
«Sicuramente non siamo masochisti. Però riconosco che una responsabilità l’abbiamo, nel senso di una insufficienza didattica. Se tutti noi ci impegnassimo a spiegare noi stessi, forse alcune prevenzioni cadrebbero. Da presidente delle Comunità ebraiche, mi impegno in questo lavoro di presenza, di chiarimenti, scrivo ai giornali, parlo con politici e ministri, come per anni ha fatto egregiamente Tullia Zevi, che mi ha preceduto nell’incarico. Avremmo bisogno di un robusto ufficio stampa, ma il nostro bilancio è in condizioni penose».
Lei ha partecipato a tutti gli incontri del dialogo tra ebrei e cristiani che si tengono ogni anno, alla Mendola o a Camaldoli. Servono questi incontri?
«Sono molto importanti perché ci si conosce, si formano amicizie. Ma è una goccia nel mare. Come si può arrivare dappertutto? Le forze non bastano».
Però ogni tanto buttate una pietra sul cammino del dialogo. Per esempio, l’ambasciatore di Israele presso la Santa Sede, Aharon Lopez, ha chiesto di rinviare di cinquant’anni la beatificazione di Pio XII, finché i documenti sui suoi pretesi silenzi sulla persecuzione nazista contro gli ebrei non siano tutti esaminati.
«Ho parlato con l’ambasciatore Lopez e credo che le sue parole non siano state bene interpretate. Non è nostra intenzione fare battaglie, al contrario. Sommessamente diciamo che le ragioni del famoso silenzio andrebbero approfondite. Pio XII aveva offerto di contribuire alla raccolta dell’oro richiesto dai nazisti per evitare la deportazione del ghetto di Roma; e quando le chiese e i conventi offrirono rifugio agli ebrei, questo non avvenne sicuramente senza un nulla osta del Vaticano. Noi abbiamo espresso subito la nostra gratitudine per questi aiuti. Ma ci chiediamo se non c’erano anche possibilità più forti, interventi preventivi, per evitare la tragedia dell’Olocausto».
Avete sollevato obiezioni anche quando, lo scorso ottobre, è stata fatta santa Edith Stein, l’ebrea divenuta suora cattolica e uccisa in campo di concentramento. Il Papa ha parlato della «testimonianza della Stein come un ponte della reciproca comprensione tra ebrei e cristiani». E voi vi siete inquietati. Forse vi infastidisce la sua conversione?
«Se l’incontro dev’essere quello del martirio, Dio ce ne scampi. Non siamo prevenuti contro la sua conversione al cattolicesimo, la base del dialogo è il rispetto per le scelte, soprattutto per quelle che non condividiamo. Però la Stein non è morta perché era una cristiana votata al martirio, ma è stata uccisa da ebrea perseguitata. E non può essere un ponte, perché la sua scelta di convertirsi fu in realtà un distacco dalla fede dei padri».
Lei, personalmente, chi considererebbe santo?
«Per la nostra religione solo Dio è santo. Gli uomini e le donne di vita esemplare noi li dichiariamo « giusti ». Dunque, tra i giusti del mondo cattolico, metterei per primo Giovanni XXIII. Lo conobbi quando era patriarca di Venezia e mi colpì per la sua grandezza d’animo, la sua semplicità e bontà. Tra i giusti del mondo islamico, darei il primo posto a quell’umile contadino palestinese che ci offrì la sua casa quando riparammo a Tel Aviv, dicendoci che per la sua religione l’ospitalità è sacra. Ci accolse sapendo di rischiare la vita».
Tra gli ebrei che vivono oggi in Israele esistono molte divisioni politiche e religiose. Anche tra gli ebrei italiani?
«Sì, ma più che divisioni le chiamerei articolazioni. Non arriveremo mai alle vite separate, al non guardarci più in faccia, come succede in Israele in alcuni luoghi e in certe circostanze. Queste che chiamo articolazioni rappresentano un bene. La vivacità del confronto è preferibile al sonno dell’abitudine».
Lei è in partenza per Gerusalemme. La saluterà come la città esclusiva di David o anche come il cuore delle tre religioni?
«Non potrei immaginare Gerusalemme senza i cristiani in tutte le loro sfumature, cattolici, armeni, copti, ortodossi, e senza i fedeli islamici. Le sue radici più lontane sono ebraiche, perché altre religioni non c’erano quando David la fece il centro dell’ebraismo più di tremila anni fa. Noi siamo i fratelli maggiori, ma dobbiamo saper convivere con cristiani e musulmani. Altrimenti Gerusalemme verrebbe snaturata, mentre deve restare la casa delle tre grandi religioni monoteiste».
Professore, gli ebrei sono noti per il loro senso dell’umorismo, e penso al successo di Moni Ovadia con i suoi spettacoli di vita ebraica. Lei ha sottomano una storiella, una battuta?
«Ovviamente ne so centinaia, le dico la prima che mi viene in mente. « Perché gli ebrei rispondono sempre a una domanda con un’altra domanda? ». La risposta è, appunto, un’altra domanda: « Perché no? ». C’è una grande filosofia dietro questa storiella. È difficile rispondere alle domande. Ma è ancora più difficile formularle in maniera giusta».
Franca Zambonini
Il rabbino risponde con un sorriso
Un libro che è una lunga intervista, all’insegna della semplicità delle domande e della chiarezza delle risposte: il giornalista Alain Elkann chiede al rabbino capo di Roma, Elio Toaff, qual è il suo pensiero sulla venuta del Messia (da qui il titolo, Il Messia e gli ebrei, Bompiani, lire 26 mila), quale comportamento tenere nei confronti di genitori e figli, come interpretare i testi sacri, qual è il giusto rapporto con il denaro, come affrontare solitudine e vecchiaia, che cosa ricorda della sua vita nel ghetto. E il suo giudizio sulla società d’oggi e sui suoi ideali…
«Nella mia lunga conversazione con il professor Toaff», spiega l’autore nella prefazione, «si capisce dalle prime righe che il Messia è una metafora per parlare di tutto con un uomo molto particolare e profondo che ha attraversato il secolo sempre con un sorriso. Toaff è un ebreo italiano, padre, marito, professore e un uomo di potere, ma è soprattutto un uomo che da tutta la vita obbedisce a Dio, alla sua legge interpretandone il volere».
l.m.