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ROSH HASHANÀ, L’ARTE DELLA PREGHIERA E DELL’ASCOLTO

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ROSH HASHANÀ, L’ARTE DELLA PREGHIERA E DELL’ASCOLTO

DI: DANIELA ABRAVANEL

27/09/2011

Rosh Hashanà è da  molti celebrato come una ‘festa’ e incentrato sulla cena in cui le famiglie si ritrovano in un’atmosfera gioiosa e purtroppo spesso poco consapevole della serietà di quel giorno definito dai maestri come Yom Ha Din, il giorno in cui Dio decide ‘chi vivrà’, chi sarà sano e sereno, chi dovrà perire nella guerra. Non per altro, Rosh Hashana è vissuto dai cabalisti come il giorno di più drammatica rilevanza del calendario ebraico, forse anche più dell’Yom Kippur nel quale Dio invece appare nel Suo volto di compassione e misericordia.
In realtà, anche la cena di Rosh Hashanà dovrebbe essere un vero rito alchemico che ci permette di ‘assaggiare’, di entrare in contatto,  attraverso il cibo, con la ‘Bontà di Dio: non è forse scritto ‘tamu u reu et Hashem ki tov’, assaporate e vedete quanto è buono Hashem ? Di fatto ogni volta che ci nutriamo consapevolmente possiamo entrare in contatto con quell’aspetto di Dio che amorevolmente ci sostiene, ma a Rosh Hashana l’assaporare i ‘simanim’, i cibi rituali, diventa un canale che ci permette di sperimentare la disponibilità di Dio a concederci un anno di bontà, una chance di ricominciare a nuovo, ripuliti dalla memoria dei traumi inscritti nella nostra psiche: di ‘addolcirci’ il palato, con il miele ad esempio, da tutte  le amarezze accumulate nell’anno passato.
Tuttavia affinché il rito possa avere il suo effetto deve essere svolto con vera kavanà: l’atto dell’assaporare deve essere una meditazione, un’operazione alchemica realizzata attraverso il senso del gusto – uno dei dodici hushim, sensi spirituali descritti dal Libro della Formazione. Cosa che difficilmente può avvenire, ovviamente, nell’atmosfera di spensieratezza che caratterizza a volte le cene festive ebraiche.
Non solo. Affinché sia possibile il rinnovamento che il seder di Rosh Hashanà mette in moto, esso deve essere seguito da ore di immersione nella preghiera, nella riflessione, nella teshuvà , ispirate dall’ascolto dello Shofar – il dono divino, il potentissimo strumento dato da Dio al popolo ebraico per risvegliare l’anima,  per darle vigore e direzione, al fine di poter fare le giuste scelte nell’anno a venire.
Troppe persone purtroppo non vivono l’esperienza di risveglio e di rinnovamento procurata dallo Shofar perché non frequentano la sinagoga durante il capodanno ebraico. Infatti la lunghissima liturgia del capodanno, per chi non sa l’ebraico, provoca una resistenza, una demotivazione e un’inevitabile perdita di concentrazione nel vitale lavoro spirituale che dovrebbe avvenire a Rosh Hashanà per tutti gli ebrei, senza esclusione di sorta. Si prega niente meno che per la Vita…in ogni possibile senso…
Per chi decidesse di andare in sinagoga, almeno per ascoltare lo Shofar, vorrei dare un’indicazione importante sulla kavanà da avere durante il suono dello Shofar. All’inizio, quando il suono è strozzato e esce con difficoltà dal corno dell’ariete, lo Shofar ha il potere di riconnetterci a livello superconscio al nostro ‘zar’ personale, alle frustranti ristrettezze emotive, economiche o di salute che sperimentiamo. Attraverso il vissuto consapevole di quel profondo disagio, risvegliato dallo Shofar, possiamo accedere alla spinta trasformativa che deriva proprio dalla nostra personale  sofferenza –rimossa da pesanti strati di inconsapevolezza e  negazione dei bisogni più profondi e  autentici della nostra anima.
Quando finalmente il suono fuoriesce dal corno dell’ariete con tutta la sua potenza, fa riecheggiare in noi il potere della libertà, dell’emancipazione dalle ristrettezze in cui viviamo a causa dei condizionamenti automatici che ci imprigionano. Allora lo Shofar diventa lo strumento di comunicazione, potente e trasformatore del divino che ci parla e ci rivela il nostro percorso personale verso la redenzione, immettendo nel nostro superconscio quel seme che ci porterà  a realizzare la nostra missione unica e personale. Non dimentichiamo, infatti, che il termine Shofar contiene le stesse lettere della parola Shipur, perfezionamento…
Un altro brevissimo consiglio, per chi non sapesse l’ebraico e volesse partecipare alle preghiere in sinagoga, è ricordarsi che il libro di preghiera è stato composto dai maestri affinché fosse una fonte di ispirazione e non una prigione. Così come i maestri hassidici che dimenticavano il testo delle preghiere recitavano l’Alef Bet e chiedevano a Dio di mettere insieme le lettere e comporvi delle preghiere, sono certa che chi saprà pregare dal cuore, dal ‘cuore risvegliato’ dal suono dello Shofar potrà comunque raggiungere con le sue parole, il ‘trono di gloria’.
Per rassicurare chi si sente intimidito ad andare in sinagoga senza conoscere i testi liturgici e a instaurarvi un dialogo personale con Dio,  vorrei proporre alcuni insegnamenti dei più grandi maestri dell’ebraismo riguardo alla preghiera personale e spontanea.

La preghiera personale
Il Talmud ci insegna che gli antichi ebrei meditavano un’ora prima di pregare, per ritrovare se stessi,  per fare heshbon nefesh, un’onesta valutazione delle loro imperfezioni, dei dubbi o dei punti di forza e delle loro priorità esistenziali. Per sentirsi consapevolmente al cospetto di Dio. Poi, dopo la preghiera meditavano un’altra ora per ‘ascoltare’  la ‘risposta’ di Dio: quale era il percorso che la divinità  aveva designato per la loro evoluzione spirituale.
Il Baal Shem Tov era noto per le sue Aliòth, le sue Ascesi mistiche, per il suo prediligere, come il nipote rabbi Nahman, alla frequentazione delle sinagoghe, la preghiera nei boschi, in compagnia degli angeli, l’hidbodedut e la danza sacra.
Oggi, chi osserva con oggettività il mondo ebraico non può far a meno di chiedersi: cosa resta delle ascesi mistiche dei profeti di Israele, cosa resta dell’amore quasi viscerale sperimentato per la Shehinà dai patriarchi? Perché dall’hidbodedut nella natura,  dal dialogo costante e personale con il divino, siamo giunti a una pratica religiosa e a una preghiera organizzata,  rapida e impersonale tra le mura delle sinagoghe ? E ancora: perché anche il Hassidismo è rientrato nei ‘ranghi’ dei conservatorismo, e ha rinunciato al suo carattere innovativo e rivoluzionario?
Oggi è innegabile il fatto che nonostante un ritorno all’osservanza di un gran numero di ebrei che hanno iniziato ad avvicinarsi alla Torà, questa teshuvà assume a volte un carattere esteriore, in quanto non provoca una profonda trasformazione della personalità, il Tikkun ha midot : la riparazione delle emozioni (la rieducazione emozionale tanto evocata anche da Coleman e dai teorici dell’Intelligenza Emotiva) e il superamento dei tratti caratteriali dell’anima animale – la meta principale del ‘ritorno’.
Sia in Israele (dove la discrepanza tra una meticolosa osservanza dei precetti e una sempre più diffusa aggressività, irascibilità ), sia nel resto del mondo ci si trova sempre più spesso di fronte al gap tra una religiosità esteriore e un mondo interiore e psicologico estraniato dall’essenza incontaminata dell’anima – che teoricamente in seguito alla teshuvà dovrebbe prendere il controllo, guidare  la nostra esistenza verso al realizzazione, la gioia, la salute del corpo e dell’anima.
Rav Shlomo Arush, chiedendosi a cosa sia attribuibile tale gap, ha fatto un’ipotesi: forse la mancata purificazione del carattere (considerata come dicevamo da Maimonide, Luzzato e da tutti i grandi saggi l’obbiettivo primo delle mitzvot), dipende da un’ignoranza diffusa della conoscenza della capacità di riflettere e meditare, senza la quale la preghiera rimane un fatto esteriore.
Già Rabbi Nahman nel racconto The Master of Prayers metteva in chiaro come l’unico rimedio all’esilio spirituale e alla mancanza di consapevolezza, fosse la preghiera, una preghiera che emergesse dal profondo del cuore, dalla riflessione (ishuv ha daat), dalla capacità di isolarsi e meditare (hitbodedut), pratica centrale per millenni tra gli antichi ebrei. La preghiera infatti è la manifestazione più elementare della fede.
Se viviamo Dio come  nostro Padre, è ovvio che la prima cosa che dovremmo fare di fronte a un problema è parlarGli, comunicare con Lui. Pregare dal cuore (senza in mano un sidur), significa parlare e comunicare con Dio proprio come faremmo con nostro Padre, con parole autentiche e personali. Tale comunicazione è possibile solo grazie alla percezione che Egli ci è accanto, di fronte, come dice il re David: “Ho posto Dio di fronte a me sempre”. In tale condizione l’assunto cabalistico del ‘Dio è in ogni luogo’ diventa esperienza sensoriale e la teoria della Misericordia divina per le sue creature nella meditazione diventa percezione dell’amorevole vicinanza della Shehinà.
Secondo rabbi Nahman, chi non è capace di stabilire una comunicazione diretta e profonda con il Divino è come un orfano, che non può chiedere aiuto e consiglio a suo Padre.
Vari testi ebraici di maestri, come ad esempio i  ‘Doveri del Cuore’  hanno l’obiettivo di trasformare la fede da teoria metafisica a prassi sperimentale che ci dà la certezza, la sensazione chiara e profonda della vicinanza di Dio, del suo essere a conoscenza di tutti i nostri bisogni, anche di quelli di cui noi stessi non siamo consapevoli.
Il nostro parlare a Dio, sentendoLo presente, è una dichiarazione di fede che supera ogni logica, ogni prova metafisica o spiegazione teologica.  Un vescovo cristiano mi stupì nell’aver intuito il potere della preghiera ebraica quando mi confessò che quando portava i fedeli in pellegrinaggio in Terrasanta li conduceva sulla spianata del Kotel (il Muro del Pianto) e poi ad occhi chiusi li invitava a camminare fino al Muro. Lì dovevano ascoltare la gente semplice che prega, bagnando di lacrime il Muro (come insegnava il re David nei salmi: sciogli come l’acqua il tuo cuore).
Le preghiere quotidiane d’obbligo stabilite dai Saggi devono essere un incentivo, un addestramento alla pratica di parlare e comunicare con Dio, e non la motivazione per la rinuncia al dialogo continuo, intimo e personale con Dio.
Aver disimparato a parlare con Dio dal cuore fa sì che  a parte alcune eccezioni,  anche nelle sinagoghe spesso manchi la kavanà, quel trasporto che per millenni ha caratterizzato la preghiera ebraica. Questo discorso si fa particolarmente serio nelle ezrat nashim (la zona dove pregano le donne) dove chi vorrebbe concentrarsi e pregare, a volte ha difficoltà a evitare di ascoltare lunghe confidenze tra amiche.
In realtà, anche tra gli uomini molti finiscono per ‘recitare’ le orazioni nel modo più veloce possibile – come un dovere di cui disfarsi e non come una preziosa opportunità di connettersi con Dio e con la neshamà, la nostra anima divina.
L’identificazione della preghiera con la lettura e recitazione delle preghiere d’obbligo del siddur ha inoltre fatto sì che la preghiera personale (la preghiera che esce dal profondo del cuore) diventasse una pratica secondaria e facoltativa, mentre per l’Alahà stessa dovremmo rivolgerci a  Dio, con le nostre parole, ogni volta che viviamo una situazione di angustia (zar).  Inoltre la Alahà prevede che nella recitazione dell’Amidà è  bene,  dopo ognuna delle preghiere (meno che nelle tre benedizioni iniziali e finali) inserire delle parole individuali che rendano più autentica e personale la richiesta e l’espressione di gratitudine per i doni ricevuti da Dio. Oggi purtroppo pochi aggiungono preghiere personali nell’Amidà (meno che nella richiesta di guarigione e nello shma colenu) per non restare indietro rispetto al resto del minian.
Credo sia importante chiedersi come mai,  mentre la maggioranza degli ebrei osservanti fa a gara a osservare le mitzvot che riguardano il ‘fare’ (e non l’essere), come ad esempio, la ricerca  meticolosa del più bel Etrog o la costruzione della succà,  o i lunghi viaggi per comprare la carne kasher, quando devono pregare (mitzvà che riguarda il being, l’essere), cercano di farlo rapidamente, come se la preghiera fosse un precetto pesante (e secondario) da assolvere il più velocemente possibile.
Forse la risposta è che la rinuncia a una delle fasi fondamentali delle preghiera (la meditazione, la riflessione e l’introspezione che dovrebbe precedere la preghiera) provoca l’inconsapevolezza e la ‘rimozione’ di quegli aspetti della personalità da rettificare. Una preghiera che si recita correndo dietro ai ritmi affrettati dei minian (a volte scelti proprio perché più ‘veloci’ degli altri)  spesso non ci permette di sperimentare la tefillà come stage per mettersi in discussione e di vivere la preghiera come strumento di trasformazione, come ci insegna il termine ebraico  Leitpalel, che oltre che ‘pregare’ significa ‘giudicarsi’…

Publié dans:Ebraismo : feste |on 4 septembre, 2013 |Pas de commentaires »

ROSH HASHANAH 2013 4- 8 SETTEMBRE – CAPODANNO 5774

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ROSH HASHANAH 2013 4- 8 SETTEMBRE – CAPODANNO 5774

Rosh Hashanah è il capodanno ebraico, una delle festività più sacre tra quelle ordinate dalla Torah.
Anche se il primo mese del calendario è quello in cui si celebra Pesach, cioè Nissan (Esodo 12:2), il capodanno viene festeggiato il primo giorno del mese di Tishrei (in autunno), poichè esso segnava l’inizio dell’anno agricolo, fondamentale nell’antica concezione ciclica del tempo.
Il nome Rosh Hashanah, che significa proprio « capo dell’anno », non compare mai nella Bibbia, dove invece questa festività viene chiamata « festa della raccolta » (Esodo 23:16), e « giorno annunciato dal suono, una santa convocazione » (Levitico 23:24).
Rosh Hashanah ha un significato collettivo che riguarda l’intero Universo poichè, secondo i Maestri, in questo giorno ricorre l’anniversario della Creazione narrata in Genesi, ed è quindi il momento in cui Dio rinnova il Suo sostentamento alla natura segnando un nuovo inizio per tutti.
Ma il capodanno ha anche un significato che riguarda individualmente ogni essere umano, ed è per questo che nella tradizione è chiamato anche « Yom HaDin », cioè « Giorno del Giudizio ».
Infatti, come è spiegato nel Talmud e nei Midrashim, nel giorno di Rosh Hashanah Dio prende in esame le azioni di ogni uomo e stabilisce il Suo Giudizio, che tuttavia viene fissato definitivamente soltanto dieci giorni dopo, in occasione di Yom Kippur. Per questo, nei dieci giorni che separano le due festività, gli uomini hanno ancora la possibilità di ravvedersi rimediando ai propri errori e abbandonando le loro trasgressioni per meritare il perdono Divino.
Il capodanno ebraico è quindi la festa della riflessione sulla propria coscienza, del pentimento e della speranza di riuscire a migliorare sè stessi, non per la paura di essere puniti, ma per amore del Creatore, del prossimo e della giustizia.
Per scuotere gli animi dal torpore spirituale viene suonato lo Shofar, uno strumento musicale costituito dal corno di un animale (di solito un montone), il cui suono nell’antico Israele era un segnale di guerra. Lo Shofar viene utilizzato nelle Sinagoghe per annunciare alcune funzioni religiose, in particolare durante Rosh Hashanah e Yom Kippur.

Shofar
 Nei giorni che precedono Rosh Hashanah vengono recitate delle preghiere penitenziali chiamate selichot, alcune delle quali fanno parte anche della liturgia della festività.
E’ diffusa l’usanza di recarsi in un luogo dove ci sia acqua corrente nel pomeriggio che precede Rosh Hashanah per gettarvi oggetti vecchi ed inutili recitando il verso del profeta Michea: « Tu getterai le nostre colpe nel mare più profondo » (Michea 7:19).
Non bisogna pensare che si tratti di una cerimonia superstiziosa: il lancio degli oggetti non libera davvero gli Ebrei dai peccati, ma rappresenta simbolicamente l’atto del ravvedimento e dell’abbandono di ogni vecchia colpa.
Durante la cena (seder) di Rosh Hashanah, vengono pronunciate benedizioni di ringraziamento e il pane (challah) viene intinto nel miele per indicare l’augurio di un anno dolce e piacevole. Viene inoltre servita una grande quantità di frutta, in particolare il melograno che simboleggia l’idea di abbondanza e quindi di prosperità.
Quando esisteva ancora il Tempio, durante questa festività venivano effettuati particolari sacrifici e offerte oggi sostituiti dalle preghiere (Numeri 29:1-6).

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PURIM – LA FESTA DELLE SORTI

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PURIM – LA FESTA DELLE SORTI

Purim, la più gioiosa tra le festività ebraiche, è la festa più amata dai bambini. Cade a metà del mese ebraico di Adar e ricorda il sovvertimento delle sorti e il conseguente scampato pericolo per il popolo ebraico.
La storia di Purìm (in ebraico Purim significa « sorti ») accaduta circa 2500 anni fa, ci viene raccontata nella Meghillàth Estèr, il Libro di Ester, libro che fa parte del canone biblico e che in questa occasione si legge pubblicamente.
La storia che viene narrata in breve è la seguente: Assuero, re di Persia e di Media, regnava su 127 province, era un sovrano molto potente ed aveva accanto a sé una moglie che però (essendosi rifiutata di partecipare ad un banchetto fatto preparare dal re e a cui erano stati invitati le persone più importanti del regno) venne ripudiata. Vennero quindi convocate le più belle ragazze del paese e fra queste fu scelta una ragazza ebrea, Estèr che andò così in sposa ad Assuero. Ester divenne la nuova regina e nella storia avrà un importante ruolo: difatti Hamàn, primo Ministro del re Assuero, chiese ed ottenne dal re che tutti gli ebrei del regno fossero uccisi, in un giorno che sarebbe stato tirato a sorte (pur). Fu così tirato a sorte il 13 di Adar. Quando Mordekhài, zio della regina lo seppe, si rivolse ad Ester perché intercedesse. Ester informò il re sulle malvagie macchinazioni e supplicò di salvare il suo popolo e lei stessa, in quanto ebrea. Per merito della regina gli ebrei, con l’aiuto del Signore, riuscirono a salvarsi.
Assistere alla lettura del Libro di Ester è uno dei precetti della festa. In questo giorno si devono anche fare doni ai bisognosi, inviare dei cibi a due persone diverse, partecipare ad un banchetto festivo.
Negli anni embolismici (con un mese in più) Purìm viene festeggiato in Adàr Shenì perché l’intervallo, fra questa festa e Pésach, deve essere di circa trenta giorni.
Il giorno 13 è giorno di digiuno in ricordo del digiuno fatto da Estèr per invocare l’aiuto del Signore.
Midrash
« Se anche dovessero essere cancellate tutte le feste dal nostro ricordo, la festa di Purim sarà sempre ricordata. »

Un approfondimento:  » Meghillat Ester: lo svelamento del nascosto. »
di rav Roberto Della Rocca
 » … Questi giorni di Purim non cadranno in disuso tra gli ebrei ed il loro ricordo non cessi in mezzo alla loro discendenza… » (Libro di Ester, 9; 28).
Nella sua grande opera di giurisprudenza ebraica, il Mishnèh Torà, Maimonide (1135-1204) sostiene che nell’era messianica tutti i libri della Bibbia cadranno in disuso tranne il Rotolo di Estèr essendo questo duraturo come i cinque libri della Torà, l’esistenza della quale è eterna e, continua, « …anche se dovesse scomparire il ricordo di tutte le nostre sofferenze, quello di Purim non sarà mai cancellato ».
Ma perché proprio il Libro di Estèr e con esso il ricordo di Purim dovrebbero sopravvivere a tutti gli altri? La Meghillàh (termine che deriva dalla g-l-l, che significa arrotolare, avvolgere, e che indica la lettura su un rotolo di pergamena come il Sefer Torà) è un libro che narra di una comunità completamente assimilata, sradicata dalla sua terra d’origine, lontana, materialmente e spiritualmente, dalla Terra di Israele, di cui, in tutto il racconto, non si fa alcun cenno, né come ricordo né, tanto meno, come mèta di aspirazione. Siamo nel pieno della golàh, dell’ esilio, quindi, al punto che gli ebrei temono addirittura di rivelare la loro identità.
Un altro segno sorprendente è che, contrariamente a quanto si fà durante la festa di Chanukkàh, a Purim non si legge l’ Hallel (lett. lode; è il nome dato ai Salmi 113-118), riservato solo ai miracoli avvenuti in Terra di Israele.
Ciononostante, Estèr ottiene quello che ai valorosi fratelli Maccabei non è stato concesso: non solo il suo libro viene incluso nel canone biblico, ma questo ha dato anche il nome ad un trattato talmudico, chiamato appunto « Meghillàh ».
Ciò che però più sorprende, nel libro di Estèr, è che in tutto il testo non viene mai citato il Nome di Dio, né alcuno dei Suoi attributi. Questa peculiarità della Meghillàh, cioè di essere l’unico libro della Bibbia non solo privo della parola e dell’azione di Dio, ma anche di qualsiasi riferimento a Lui, ha fatto discutere molto i Maestri, prima che si arrivasse alla decisione di inserire anche questo testo nel canone biblico.
La stessa storia di Estèr, sembra essere un concatenarsi di eventi del tutto casuali: ad esempio, il grande banchetto del re Assuero, la decisione di chiamare la regina Vashtì, il rifiuto di questa di presentarsi, la scelta di Estèr, il tentativo del colpo di Stato scoperto casualmente da Mordekhài, l’insonnia del re, l’arrivo di Hamàn e di Assuero proprio in quella notte. Il destino del popolo ebraico sembra completamente abbandonato al caso e alla fatalità.
Il termine Purim, dal persiano pur, designa le sorti che si gettano per fissare una data o per regolare il destino altrui secondo il decreto del solo caso. L’esistenza degli ebrei sembra legata a una partita a dadi e il popolo stesso appare impotente in un mondo mosso dalla sorte, abbandonato a un destino cieco, in un mondo da cui Dio sembra assente o, quantomeno, così ben nascosto che tutto accade come se Egli non esistesse.
I Maestri del Talmùd, ricorrendo ai più originali espedienti interpretativi, si domandano « …dove si parla di Estèr nella Torà… » (Talmùd babilonese; Haghigàh 5, b). I Maestri fingono di non sapere che tra la Torà ed Estèr trascorrono almeno sette, otto secoli.
Per capire il senso della loro domanda bisogna interpretare il testo come segue: in quale punto della Torà si trova un’allusione alla storia di Estèr? Nella Torà, dove è compresa la storia passata, presente e futura del popolo ebraico, deve pur esserci un qualche riferimento al tipo di miracolo che caratterizza Purim e molta parte della storia ebraica. I Maestri leggono quindi nel verso del Deuteronomio 31; 18: « …ed Io continuerò a nascondere il Mio volto in quel giorno… », un preciso riferimento a Estèr e a Purim.
Il Talmùd, quindi, scorge uno stretto rapporto tra il tema del Dio nascosto, che si eclissa, e l’etimologia del nome Estèr, che significa appunto nascosta.
La salvezza del popolo di Estèr e di Mordekhài avviene in modo nascosto e discreto, diversamente da quanto accade per altri miracoli, nei quali Dio si manifesta e opera in forma palese, come, ad esempio, nella liberazione degli Ebrei dall’Egitto.
Ecco perché qualche commentatore ha tentato di trovare un’allusione al Nome di Dio nel verso in cui Mordekhài, spazientito dalle esitazioni di Estèr a presentarsi al re ed intercedere per la salvezza del popolo, dichiara: « … se tu in questo momento taci, liberazione e salvezza sorgeranno da un altro luogo.. » ( Ester 4; 14).
Il termine Maqom, Luogo, designerebbe la stessa residenza divina, conformemente a quanto sostiene la letteratura rabbinica: « Egli è il Luogo del Suo mondo, ma il Suo mondo non è il Suo Luogo », nel senso che Dio è onnipresente anche quando Egli è nascosto.
La parola ebraica che indica il mondo è olam e deriva dalla radice alum, nascosto, forse per significare che l’esistenza di Dio in questo mondo è nascosta e lo scopo dell’ olam, cioè del mondo nascosto, è la ricerca di quella verità, emèt, che secondo il Midràsh al momento della creazione Dio ha gettato a terra, affinché l’uomo la facesse germogliare con i suoi propri strumenti.
Compito dell’uomo quindi, è quello di cogliere l’intervento di Dio non tanto nelle dieci piaghe o nell’aprirsi del mare, quanto piuttosto negli eventi di ogni giorno, poiché un’eccessiva enfasi sull’attività miracolosa di Dio può farci dimenticare che la Sua presenza è in ogni luogo.
Benché altri quattro libri biblici portino il nome di Meghillàh, quello di Estèr è considerato il Rotolo per antonomasia.
Durante il suo srotolamento ci viene gradatamente rivelato ciò che è avvolto e nascosto. Dio si rivela una guida così silenziosa e invisibile, che la Sua reale partecipazione agli eventi dell’uomo può anche essere messa in discussione.
L’abilità, la forza di Israele consiste nel saper srotolare il rotolo, dipanare la matassa: potremmo dire nel saper « meghillare estèr », cioè svelare il nascosto, sollevare il velo dell’ascondimento, saper leggere dietro la maschera dell’apparenza e restituire un significato autentico al volto della maschera, che di umano ha solo la parvenza.
è detto nel Talmùd che nel pasto del giorno di Purim è consuetudine bere tanto vino fino al punto di non saper più distinguere la destra dalla sinistra, di non saper più riconoscere la differenza tra « maledetto Hamàn e benedetto Mordekhài ».
(è notevole tra l’altro che le due espressioni, arur Hamàn e baruch Mordekhài, abbiano lo stesso valore numerico secondo la Ghematrià, regola interpretativa che si basa sul valore numerico delle lettere).
In un universo, quindi, dominato dalla confusione, dove non si discerne il giusto dall’ingiusto, dove la fatalità sembra reggere i due estremi della catena della storia e il mondo rischia di trasformarsi in una gigantesca mascherata, e in una sbornia generale, i Maestri invitano a mantenere quel discernimento che permette di decifrare il senso del trucco universale.
In ebraico la differenza tra golàh, esilio, e gheullàh, redenzione, è data da una sola lettera la a Alef, la prima lettera dell’alfabeto ebraico, la lettera con cui iniziano fra l’altro diversi nomi di Dio, la parola Adàm, uomo, i Dieci Comandamenti, la lettera con cui doveva avere inizio la Torà, ma che ha dovuto lasciare il posto alla b Bet, la seconda lettera dell’alfabeto, forse per insegnare al mondo, simboleggiato dalla dualità della Bet, di tendere alla ricerca dell’Uno.
Se la gheullàh è la condizione ideale a cui deve aspirare il popolo ebraico, ed essa sarà raggiunta con la celebrazione di quel Seder, quell’ordine di tutta l’umanità, la golàh del libro di Estèr, è la condizione reale del mondo, dove tutto è confuso, distorto, disordinato.
Tuttavia la golàh e la gheullàh non sono così distanti fra loro come potrebbe sembrare; infatti negli anni embolismici, quando si aggiunge un tredicesimo mese, Adar , si celebra Purim nel secondo Adar, per avvicinare il più possibile questa ricorrenza alla festa di Pesach. Purim, infatti è la preparazione a Pesach, una preparazione per la completa gheullàh.
Purim, le sorti del popolo ebraico, sono legate alla ricerca e alla riconquista dell’Alef, dell’unicità, dell’identità individuale e collettiva, di quella particella dell’ Unico che è in ognuno di noi e in virtù della quale Gli somigliamo.
è proprio l’assenza dell’ Alef che consente agli Hamàn di ogni tempo di giocare a dadi le sorti del popolo ebraico. La disunione e le scissioni all’interno del popolo ebraico scatenano le forze di Amalek, antenato di Hamàn, prototipo dell’antigiudaismo irrazionale e gratuito di tutte le generazioni destinato a minacciare l’esistenza di Israele in tutti i tempi della storia.
La salvezza nella storia di Purim, giunge viceversa solo quando Estèr rivela ciò che ha tenuto celato: la sua identità, la sua Alef, adempiendo così all’imperativo della Torà
 » …Ricorda ciò che fece a te Amalek..! » (Deuteronomio, 25; 17).
Il digiuno istituito da Estèr per invocare l’aiuto divino contro il decreto di Hamàn diventa, quindi, una premessa a un radicale capovolgimento della situazione. La Teshuvàh, il pentimento, il ritorno, attraverso il digiuno rappresenta l’occasione per scrutare dentro di sé, per riprendere in mano le sorti del proprio destino e per liberarsi da un esilio che non ha una valenza esclusivamente geografica.
La condizione necessaria per passare oltre la golàh e raggiungere la gheullàh è, dunque, l’esperienza della Teshuvàh, così come è detto nel Talmùd « …grande è la Teshuvàh perché avvicina la gheullà…. » ( Jomà 86, b). Forse questo è il senso di ciò che è sostenuto dalla letteratura rabbinica: la parola Purim, sorti, è contenuta dalla parola Kippurim, espiazioni. Le sorti sono dentro le espiazioni, nel senso letterale dell’affermazione, ma si può anche leggere: le sorti sono nella Teshuvàh.
Solo con la Teshuvàh l’ebreo riprende quindi in mano, responsabilmente e coscientemente, le proprie sorti, non consentendo più che il caso decida per lui.
Purim-Kippurim, (in questo caso la k Kaf iniziale potrebbe avere la funzione di « come ») Purim come il giorno del grande digiuno! La vita dell’uomo oscilla tra queste due dimensioni, così diverse, ma al contempo così legate tra loro. Il mascherarsi e lo smascherarsi completamente!
Il digiuno, in fondo, è la necessaria conseguenza di un grande banchetto, e l’introspezione è l’inevitabile reazione a una rumorosa baldoria; talvolta è proprio una sbornia e il travalicamento dei limiti a stimolare un sincero esame di coscienza.
Nella concezione ebraica, il corpo non è scisso dall’anima: la nostra esistenza fisica nel mondo, messa in pericolo a Purim e, quindi, esaltata attraverso un banchetto, è inscindibile dalla nostra esistenza spirituale celebrata nello Jom Ha-Kippurim. Non c’è un Kippurim senza un Purim che lo determini e lo motivi, e non c’è un Purim senza un Kippurim che lo contenga e gli dia senso.
La prima volta che figura la parola estèr nella Torà è in Genesi 4; 14:
 » … Sarò rimosso dal tuo cospetto… ». è Caino che parla: egli teme di essere abbandonato da Dio e non essere considerato più come uomo. Caino, uccidendo suo fratello, tende a restaurare il caos originario dell’universo. Eppure la sua condanna non è la pena capitale, ma l’esilio: il primo assassino gode di una strana immunità, nessuno ha il diritto di imitarlo, grazie a un marchio che Dio incide su di lui. Il primo segno che il Signore pone nel mondo. Secondo un midràsh Adamo incontrando Caino rimane stupito nel trovarlo vivo, tanto da chiedergli: » non hai forse ucciso tuo fratello Abele? » Caino gli risponde:  » Io ho fatto Teshuvàh padre e sono stato perdonato! » nascondendo il volto fra le mani, Adamo, allora, esclama: « tanto grande è il potere della Teshuvàh? … non lo sapevo! ».
Caino, l’uomo del crimine brutale, rappresenta la prova vivente che il perdono è possibile e che la forza della Teshuvàh può far risplendere la luce velata dall’oscurarsi del volto di Dio: la Hastaràt Panim.
« … Se si legge la Meghillat Estèr a ritroso non si è compiuto il proprio obbligo… » (Mishnàh, Meghillàh, 2; 1)
Quale è il senso di questa norma? Chi legge la Meghillat Estèr pensando che gli eventi in essa narrati appartengano solo al passato, « a ritroso », e il miracolo non è rilevante per il presente, non ha compiuto il suo obbligo.
Molti eventi della storia ebraica, anche quelli più recenti sembrano farci rivivere la storia del libro di Estèr, dove Dio sembra essere completamente assente. Per questo motivo i Maestri hanno visto nella storia di Purim, la condizione paradigmatica del popolo ebraico, indicando che sta all’uomo cercare la presenza divina nella storia, anche quando l’oscurità dell’esilio è divenuta più fitta, o quando la disumanità della maschera rischia di trasfigurare il volto umano.
Non dimentichiamoci, infatti, che nella lingua ebraica, l’etimo g-l-h significa « esiliare » e « rivelare » nello stesso tempo.

Publié dans:ebraismo, Ebraismo : feste |on 23 février, 2013 |Pas de commentaires »

LA FESTA DI PURIM Parte prima, parte seconda (Febbraio 24-25 – Adar 14-15)

http://www.messiev.altervista.org/festapurim1.htm

LA FESTA DI PURIM (Febbraio 24-25 – Adar 14-15)

PARTE PRIMA

(ARGENTINO QUINTAVALLE)

La Festa di Purim è la festa che ricorda la liberazione del popolo Giudeo ai tempi di re Assuero di Persia (chiamato ’aḥšwērôš  in ebraico), secondo quanto descritto nel libro di Ester.
Perché studiare questa festa? Innanzitutto perché è nella Bibbia, e quindi è importante. Dobbiamo ricordare che le feste non sono solo giudaiche, ma bibliche, ed hanno un significato per TUTTI  i credenti di tutte le età. La questione non è, “dobbiamo continuare ad osservare la festa oggi?”, ma piuttosto, “c’è qualche lezione che possiamo apprendere da questa festa oggi”?
Il Libro di Ester, che viene letto per intero nelle sinagoghe nel giorno di questa festa, ci parla di una donna ebrea di nome Ester, le cui circostanze la mettono nella condizione di salvare il suo popolo da un malvagio complotto che mirava ad annientare l’intera popolazione giudaica dell’Impero Persiano. La storia è piena di situazioni ironiche e coincidenze straordinarie. Così evidente è la presenza di Dio nel libro di Ester, che molti trovano difficile credere che, a differenza di altri libri della Bibbia, il nome del Dio d’Israele non sia citato neanche una volta. L’intervento di Dio a favore del Suo popolo è così evidente che pervade tutto il libro anche se il Suo nome non appare.
Possiamo anche vedere un tocco d’ironia nella scelta del nome di questa festa. Sembra che il grande nemico del popolo, Haman, sia stato molto superstizioso e per questo si affidò alla sorte (Est.3:7). Gli Ebrei chiamarono questa festa Purim (che è il plurale ebraico della parola persiana Pur, che significa «sorte». L’ebraico «im» è il suffisso del plurale) o festa delle Sorti, la festa che ricorda quando Haman aveva gettato le sorti per accertare quale fosse il giorno favorevole per mettere in atto il suo decreto sanguinario (Est.9:24). Ma, ironicamente, il giorno stabilito dalla sorte per la distruzione del popolo ebraico è diventato il giorno in cui i Giudei celebrano la vittoria sui loro nemici. Questo libro è pieno di ironie. Il principio stabilito in Gen.12:3 è qui visto molto chiaramente: «benedirò quelli che ti benediranno e maledirò chi ti maledirà».
Purim è classificato come una delle feste « minori » perché non è citata nei libri di Mosè, tuttavia questa non era la valutazione dei rabbini antichi. Molti credevano che il libro di Ester fosse stato scritto per insegnare che Dio opera nascostamente dietro le scene. Più di una saggio ha paragonato Purim alla festa “maggiore” di Yom Kippur, il Giorno dell’Espiazione. Gli Hasidim (i pii) hanno considerato Purim come un classico caso di Kiddush Ha-Shem (la Santificazione del Nome) dove ogni singolo Giudeo era disposto a morire piuttosto che ad abbandonare la propria fede. La preservazione del popolo Giudeo sotto gli stenti e sotto le minacce di genocidio è un tema ricorrente nella storia. A Purim, Haman è una metafora del male, come Faraone, Antioco Epifanie e Adolf Hitler. In un discorso del 1944, Hitler disse che se i Nazisti sarebbero stati sconfitti, i Giudei avrebbero potuto celebrare “un secondo trionfante Purim”. Un’altra interpretazione rabbinica di Purim che abbiamo nel libro di Ester è la maledizione degli Amalekiti, che vedremo più avanti. Adesso diamo uno sguardo alla storia.
Questi eventi ebbero luogo in Persia durante il tempo della prima deportazione, a partire dal 519 a.C. Il re di Persia (il moderno Iran) era ’aḥšwērôš. Il suo impero aveva conquistato il decadente impero babilonese. Tra gli abitanti multi-etnici del suo regno c’erano molti ebrei che erano stati deportati. Questa comunità era sopravvissuta e si era stabilizzata, ma durante il regno di Assuero le cose improvvisamente presero una svolta pericolosa.
I due eroi principali della storia sono Ester e Mardocheo. Ester, il cui nome ebraico era Hadassah, aveva perso i suoi genitori sin dalla tenera età e suo cugino Mardocheo l’ha adottata e fatta crescere come se fosse una figlia. Mardocheo aveva un incarico a corte, che gli dava accesso al palazzo ed alla porta del re. Egli non ha mai nascosto la sua origine ebraica, né si è mai vergognato di essa, mentre ha consigliato ad Ester di non rivelare la sua nazionalità. Mardocheo fu quel giusto che si è rifiutato di inchinarsi di fronte ad Haman, perché era Giudeo e doveva rendere onore soltanto a Dio. Questo fatto ha creato le circostanze per il resto della storia.
Assuero aveva organizzato una grande festa. Infatti, la storia si apre con il re che si trova nel mezzo di un grande banchetto. Nell’ultimo giorno della festa, mentre aveva il «cuore allegro dal vino», decise di mostrare a tutti gli ospiti la sua bella moglie Vashti. La regina, che nel frattempo teneva anch’essa un banchetto nel palazzo reale, ma separatamente con le donne, si rifiutò di ubbidire al re. Questo ha comportato la sua messa al bando ed il re, su consiglio dei suoi ministri, ha deciso di indire un bando di “Miss Persia” per scegliere la nuova regina. Ha vinto Ester, che era molto bella, e così divenne la regina della Persia, ma il re non sapeva che era Giudea né che Mardocheo era il suo più stretto parente e tutore. Come già detto, Mardocheo l’aveva istruita a tenere segreta la sua origine.
In seguito, Mardocheo venne a conoscenza di un piano per assassinare il re e lo riferì alla regina Ester, vanificando così il complotto e salvando la vita del re. Il fatto venne registrato nel libro delle Cronache del regno ma ben presto dimenticato. A questo punto entra in scena l’altro personaggio importante della vicenda, Haman, promosso dal re alla più alta carica del regno.
Come Haman ha preso potere, ha subito preteso i dovuti omaggi e, secondo la buona tradizione pagana, tutti i suoi subalterni dovevano inchinarsi davanti a lui. Ma Mardocheo si rifiutava continuamente. Ora, sappiamo che Haman era un Amalekita, e questo ci dà il motivo di quello che potrebbe apparire come una reazione esagerata, da parte sua, quando venne a sapere delle origini di Mardocheo.
L’inimicizia tra i figli d’Israele ed i figli di Amalek risale ai tempi dell’Esodo. Quando Haman ha saputo che Mardocheo era un Giudeo, ha deciso di servirsi della sua influenza sul re per strappargli un decreto nel quale dichiarare “caccia aperta” ai Giudei di tutto l’impero. In questa versione iniziale della «Soluzione Finale» di Hitler, Haman convinse il re che non era suo interesse tollerare il popolo Giudeo e che quindi doveva essere distrutto: «non conviene quindi che il re lo tolleri» (Est.3:8).
Quando Mardocheo viene a sapere del piano, entra in un grande lutto. Ester, venuta a sapere della sua condizione di dolore, gli manda un servitore per scoprire la causa. Mardocheo cerca di convincerla di andare dal re per salvare la sua gente, ma Ester ha paura, perché chiunque si avvicinava al re senza invito veniva messo a morte, anche la regina, a meno che il re non decidesse di stendere il suo scettro come segno di favore. Lei manda a dire a Mardocheo che ha paura, ma a questo punto Mardocheo fece dare la seguente risposta:
«Non ti mettere in mente che tu sola scamperai fra tutti i Giudei perché sei nella casa del re. Poiché se oggi tu ti taci, soccorso e liberazione sorgeranno per i Giudei da qualche altra parte; ma tu e la casa di tuo padre perirete; e chi sa se non sei pervenuta ad esser regina appunto per un tempo come questo?» (Est.4:13,14).
La regina Ester non aveva alcuna scelta oltre che rispondere a questa richiesta. Lei ordinò che tutti i Giudei digiunassero per tre giorni, la stessa cosa avrebbe fatto lei e le sue serve. Quindi, a grande rischio della propria vita, lei si è presentata al re. Assuero, invece di essere arrabbiato, è stato molto lieto di vederla e le ha chiesto cosa voleva, «Quand’anche tu chiedessi la metà del regno, ti sarà data» (Est.5:3). Lei chiese che il re ed Haman fossero presenti  quella sera ad un convito preparato da lei stessa. Quella sera il re rinnova la sua richiesta. Lei risponde dicendo di volere che lui ed Haman venissero ad un altro convito il giorno seguente, durante il quale esprimerà il suo desiderio al re.
Haman fu piuttosto euforico per il fatto che al convito della regina ci fosse soltanto lui, oltre al re. Così, incoraggiato dall’invito, incoraggiato da sua moglie e dai suoi amici e arrabbiato dal rifiuto di Mardocheo d’inchinarsi davanti a lui, ordinò la costruzione di una forca alta cinquanta cubiti, dove aveva previsto di impiccare pubblicamente Mardocheo per “insubordinazione”.
Ora, per ironia della sorte, quella notte il re non riusciva a dormire e chiamò i servitori per farsi leggere il libro delle Memorie. Gli venne rinfrescata la memoria che Mardocheo aveva smascherato un complotto contro il trono ed aveva salvato il re. Si rese conto che Mardocheo non era mai stato ringraziato adeguatamente, ed ha cercato un modo per farlo. Per una straordinaria “coincidenza”, Haman proprio allora era entrato nel palazzo per chiedere l’impiccagione di Mardocheo alla forca che aveva fatto costruire per tale scopo. Ma prima che egli potesse rendere nota la sua richiesta, il re ha iniziato a chiedergli: «che bisogna fare ad un uomo che il re voglia onorare?» (Est.6:6). Essendo un uomo “modesto” e pensando che il re si riferisse a lui, Haman rispose secondo quello che avrebbe gradito per se stesso: «Si prenda la veste reale che il re suol portare, e il cavallo che il re suol montare, e sulla cui testa è posta una corona reale; si consegni la veste e il cavallo a uno dei principi più nobili del re; si rivesta di quella veste l’uomo che il re vuole onorare, lo si faccia percorrere a cavallo le vie della città, e gli si gridi davanti a lui: – Così si fa dell’uomo che il re vuole onorare!» (Est.6:8,9). Sarebbe stato bello poter vedere la faccia di Haman quando venne a sapere che il re stava parlando di Mardocheo.
Haman tornò a casa «tutto addolorato e col capo coperto» (Est.6:12), e pieno di vergogna cominciò a raccontare a sua moglie e ai suoi amici tutto quello che gli era successo. Mentre essi stavano ancora parlando, i servi del re arrivarono per accompagnare Haman al convito della regina. Durante la serata, ancora una volta Assuero chiese ad Ester, «Qual è la tua richiesta?…fosse anche la metà del regno, l’avrai» (Est.7:2). A questo punto Ester rivela che lei ed il suo popolo erano in pericolo di vita ed il responsabile di tutto era Haman. Quando ha sentito questo, il re «tutto adirato si alzò, e dal luogo del convito andò nel giardino del palazzo» (Est.7:7). Mentre egli era uscito Haman si è gettato sullo stesso divano dove stava Ester per chiedere la sua clemenza. Quando il re è rientrato nella sala del banchetto ha trovato Haman vicino alla regina, troppo vicino alla regina, e lo ha fatto appendere sulla stessa forca che era stata preparata per Mardocheo!
Dopo l’esecuzione di Haman, il re ha affrontato il problema della distruzione del popolo Giudeo. Secondo la legge dei Medi e dei Persiani, un decreto reale non poteva essere annullato; però potevano essere fatte delle leggi aggiuntive per eludere la legge precedente. Così il re Assuero ha decretato che se i Giudei venivano attaccati, potevano difendersi con tutti i mezzi a loro disposizione. E così, il giorno scelto per la loro distruzione divenne un giorno di liberazione e di allegria per i Giudei dato che hanno respinto con successo gli attacchi dei loro nemici.
Questa è la storia della festa di Purim, così come è registrata nel rotolo di Ester. Mardocheo ha scritto questi fatti ed ha inviato lettere a tutti i Giudei di tutte le province del regno di Assuero, vicine e lontane, per far loro celebrare ogni anno i giorni quattordici e quindici del mese di Adar (febbraio/marzo) come il tempo quando i Giudei hanno ottenuto riposo dai loro nemici e come il mese in cui il loro dolore è stato trasformato in allegria e il loro lutto in festa. Egli ha scritto loro  affinché facessero di quei giorni dei giorni di conviti e di gioia, nei quali mandarsi dei doni gli uni agli altri e particolarmente ai bisognosi. Perciò quei giorni furono detti di Purim, dal termine Pur (Est.9:20:22,26).
Ora consideriamo la maledizione di Amalek di cui abbiamo accennato. Nel Libro di Ester, Haman è detto essere un Agaghita, un discendente di Agag, re di Amalek. Il primo scontro con gli Amalekiti lo troviamo in Es.17. Gli Israeliti si trovavano ancora nel deserto e gli Amalekiti commisero il triste errore di diventare la prima nazione Canaanita ad attaccarli dopo l’Esodo. Per questo atto di arroganza, gli Amalekiti sono stati puniti con il disprezzo e con la maledizione (Es.17:14-16; Deut.25:17-19).
Come già detto, alla festa di Purim, l’intero rotolo di Ester viene letto. Ogni volta che nella lettura viene pronunciato il nome di Haman, esso viene fischiato con forza e il suo nome viene coperto da suoni di ogni genere, in conformità con l’ingiunzione biblica, «cancellerai la memoria di Amalek». Per tutta la storia, l’idea di nascondere la memoria del nome di Amalek, di cui Haman era un discendente, ha preso molte forme. In Persia ed in  Babilonia veniva bruciata un’effige di Haman. Nel 1800 nell’Europa Orientale, i Giudei scrivevano il nome di Haman sotto le suole delle loro scarpe e quando veniva pronunciato il suo nome, essi battevano i piedi in terra cancellando la scrittura. Oggi viene fatto ogni sorta di rumore, con strumenti di vario tipo ogniqualvolta viene pronunciato il nome di Haman.
Il tema di maledire o cancellare i nomi degli uomini malvagi si trova spesso nelle Scritture. Dobbiamo ricordare che i nomi erano molto più significativi di oggi nei tempi antichi. Essi indicavano chi era una persona e non erano semplicemente uno strumento per chiamare quella persona. Un nome poteva evocare onore, rispetto, paura, pietà, disprezzo o derisione. Ad esempio, quando il nome di Giacobbe è stato cambiato in Israele, egli è stato conosciuto non più come il soppiantatore (colui che ha preso il diritto di primogenitura di suo fratello) ma come colui che ha lottato con Dio ed ha vinto (Gen.25:6; 32:28). Uno degli aspetti più importanti della vita era quello di tramandare un buon nome ai propri discendenti. Un buon nome sarebbe rimasto per tutte le generazioni. Anche dopo la morte, il suo nome avrebbe continuato a vivere nel ricordo; ma un nome disonorato sarebbe stato dimenticato o cancellato.
Considerando questo tipo di cultura, è un po’ più facile vedere la gravità della maledizione di Dio sugli Amalekiti, consegnare il loro nome e la loro memoria all’oblìo in modo che la sola citazione del nome sia sinonimo di disonore e di disgrazia. Eppure, malgrado i tentativi di Israele di dimenticarsi di questa nazione arrogante, il nome di Amalek è ritornato a perseguitarli, alcune centinaia di anni dopo lo scontro di Es.17.
Il problema con gli Amalekiti divenne grave ai tempi di Saul, primo re d’Israele. Benché egli venne accettato da Dio quando il popolo chiese un re che governasse sopra di loro, Saul aveva dei grossi difetti che sono stati la causa di gravi mali per la nazione d’Israele. Un difetto era la sua tendenza a trascurare l’ubbidienza completa verso Dio. Saul ignorò la parola di Dio che gli aveva ingiunto di distruggere tutti gli Amalekiti ed i loro beni. Essi erano i discendenti naturali e spirituali della nazione che era stata maledetta nel deserto. Saul con il suo esercito vinse la battaglia, «ma Saul e il popolo risparmiarono Agag e il meglio delle pecore, dei buoi…e tutto quello che v’era di buono» (1Sam.15:8). Il rifiuto di Saul di eseguire il giudizio di Dio su Agag non solo gli costò il trono, ma portò anche dolore ad una generazione futura d’Israele.
Non solo Haman era un Amalekita, ma nel libro di Ester ci viene detto anche che Mardocheo era della tribù di Beniamino e un discendente di Kis. Anche il re Saul era un Beniaminita e il nome di suo padre era Kis. Possiamo vedere che l’inimicizia tra Mardocheo ed Haman era il punto cruciale di una battaglia che era durata quasi mille anni! Mosè ed Amalek, Saul e Agag, ed ora Mardocheo ed Haman. È a Purim che siamo chiamati, insieme a tutto Israele, di unirci a Mardocheo per cancellare il nome di Haman, e quindi quello di Agag ed Amalek. Come quelli che seguono l’antica tradizione di scrivere il nome di Haman sulle suole delle loro scarpe, cancelliamo il nome che Dio ha maledetto ed ha giudicato. Il nome di Haman è vergognoso e dovrebbe essere cancellato, anche solo simbolicamente, poiché rappresenta il male, l’odio e la ribellione contro il Dio d’Israele.
I fatti di Purim ci ricordano la fedeltà di Dio e il trionfo della vittima sopra il malvagio oppressore. Ma noi conosciamo un Innocente che ha volontariamente preso il posto del colpevole, Gesù il cui nome significa «salvezza». Egli offre vita e pace a tutti, sia Giudei che Gentili, e che hanno fede nel suo nome. E tutti coloro che seguono Gesù, secondo il Nuovo Patto, avranno i loro nomi scritti nel libro della vita, dove non saranno mai cancellati.                                                             

 LA FESTA DI PURIM – PARTE SECONDA

Finora ci siamo concentrati sulla base storica di questa festa, ora daremo uno sguardo agli usi ed alle tradizioni associate a Purim.
Ricordiamo che un intero libro della Bibbia, Ester, è dedicato al racconto degli eventi che hanno condotto a questa festa. L’eccezionale storia viene letta nel servizio della sinagoga alla sera di Purim e di nuovo al servizio della mattina seguente.
Dai tempi di Ester e Mardocheo, il giorno di Purim ha avuto il suo proprio posto nel calendario ebraico. Le date delle feste sono stabilite nel libro stesso. La data scelta da Haman per la distruzione dei Giudei era il 13° giorno del mese biblico di Adar. Per ricordare l’afflizione, la comunità ebraica in quel giorno fa un digiuno, dal tramonto al tramonto. Esso richiama alla memoria anche il digiuno di tre giorni fatto da Ester, Mardocheo e tutto il popolo per cercare la guida di Dio (Est.4:16). In seguito alla potente liberazione avvenuta, la celebrazione gioiosa di Purim inizia al tramonto del 14 di Adar e continua il 15 di Adar. Il secondo giorno è chiamato Shushan Purim perché i Giudei della capitale (Shushan o Susa) hanno chiesto un giorno supplementare per finire di sbarazzarsi di quelli che avevano cercato di annientarli (Est.9:18). Siccome Susa era una città fortificata, è diventata usanza, per altre città fortificate con mura, di celebrare la festa il quindicesimo giorno. Gerusalemme osserva Purim il quindicesimo giorno.
Come il libro di Ester indica, Purim deve essere un tempo di grande gioia dove fare di questi giorni «dei giorni di conviti e di gioia, nei quali gli uni manderebbero dei regali agli altri, e si farebbero dei doni ai bisognosi» (Est.9:22). Ognuna di queste componenti è stata integrata nella moderna  commemorazione di Purim.
La festa viene ricordata per mezzo di un pasto festoso (chiamato Seudah) con famiglia e amici, o alla sinagoga. Questo si svolge nel pomeriggio del primo giorno di Purim, a differenza di altre feste, quando il pasto festoso si tiene all’inizio del giorno (tramonto della sera prima, in conformità con il racconto della Genesi). Lo spirito dei festeggiamenti continua per tutto il tempo.
Come per altri giorni di festa, si prepara per l’occasione un cibo tradizionale, che ha significato simbolico. Nel caso di Purim, ci sono i biscotti hamantashen. Sono triangolari e farciti con marmellata o con qualche altra cosa dolce. Hamantashen, una  parola tedesco/yiddish, può significare le « tasche » di Haman o, come l’ebreo (Ozney Haman) dice, gli « orecchi » di Haman. Questi giorni di intrattenimento ricordano al popolo la vittoria sul terribile nemico. Si usa anche mangiare cibi « dolci e amari », che esprimono la « doppia natura” di Purim – una festa che passa dal digiuno e dal lutto (il 13° di Adar) all’allegria ed al ricordo (il 14° di Adar).
Possiamo vedere altri aspetti di “gioia” a Purim. Un’enfasi particolare viene messa sul servizio della sinagoga. Il rotolo di Ester (Megillah Ester) viene letto, o meglio, recitato, in ebraico. La lettura può essere accompagnata da una certa teatralità, chiamata Purim Shepiel. La gioia viene manifestata con molta forza. Man mano che si procede nella lettura, quando viene letto il nome di Haman, esso viene fischiato con fragore. Per cancellare il suo nome vengono usati vari strumenti che servono per emettere dei suoi assordanti! Per contrasto, ogni citazione dell’eroe Mardocheo, viene accompagnata da un applauso vigoroso.
Purim è una di quelle feste dove nella sinagoga si lascia da parte il normale decoro richiesto per altri giorni, e ci si può dare all’allegria più sfrenata. Attraverso la lettura della Megillah, dello shepiel e dell’atmosfera festosa, si prova un vero senso di allegria. La tradizione rabbinica dice che si può bere fino al punto di non riconoscere più la differenza tra Haman e Mardocheo (Megillot 7b)! Questo atteggiamento è una cosa estrema e certamente non consigliabile, ma illustra la grande allegria associata alla festa di Purim.
Com’è scritto nella Bibbia, Purim deve essere non solo un ricordo della liberazione dei Giudei, ma anche un tempo per inviare doni ai poveri della comunità (Est.9:22). Il termine ebraico mišlôaḥ mānôt è spesso tradotto  šlaḥ mānôs in Yiddish, che significa « porzioni inviate ». Queste scatole di šlaḥ mānôs contengono cibo, dolci e hamantashen. È uno dei modi in cui il popolo Giudeo viene ricordato di aiutare quelli meno fortunati. Questo particolare costume è molto antico. È menzionato in Neh.8:10, dove Esdra istruisce i Giudei a celebrare la lieta occasione della ripresa della lettura pubblica della Torah (dopo un lungo periodo di tempo in cui non s’era più fatto) inviando doni ai bisognosi.
Alcuni rabbini fatto notare un aspetto messianico in questo giorno santo. Essendo un giorno di liberazione e di riposo dai problemi, Purim è stato collegato al più grande giorno di riposo ai tempi del Messia. Così riporta un commento:
Il Patriarca Giacobbe ha desiderato fortemente l’istituzione che ogni giorno della settimana sia come il Sabato dei tempi messianici – totalmente pieno della santità del Sabato – ma non ebbe successo, perché era prematuro. Ma riuscì, tuttavia, ai suoi discendenti di assaporare qualcosa di questo Sabato messianico anche durante i giorni della settimana, e fu a Chanukah ed a Purim (Sefas Emes su Chanukah).
Infatti, Purim è un grande promemoria del piano di Dio e come quel piano sarà realizzato attraverso il Messia!
Il giorno di Purim non viene citato direttamente nel Nuovo Testamento, ma le lezioni di questa festa lo pervadono. La lezione principale è quella legata alla fedeltà di Dio verso il Suo popolo del patto. In Gen.12:3 leggiamo della promessa fatta ad Abrahamo: «e benedirò quelli che ti benediranno e maledirò chi ti maledirà e in te saranno benedette tutte le famiglie della terra». La lezione semplice ma profonda di Purim è che Dio sarà fedele alle Sue promesse. Ogni volta che il Suo popolo è minacciato di distruzione, Dio interverrà. Come Paolo ha detto, «i doni e la vocazione di Dio sono senza pentimento» (Rom.11:29). Forse, se vogliamo riassumere con un parola questo concetto, essa è “protezione”. Inoltre, il messaggio di Purim non deve essere limitato all’antica storia d’Israele. Ogni credente in Gesù ha motivo per fare festa. La protezione di Dio verso il popolo Giudeo dovrebbe dare a tutti i credenti un senso di speranza e sicurezza. Dio mantiene fede al Suo patto, ed è fedele per ogni generazione.
Un’altra importante lezione di questo giorno è la responsabilità che ha l’uomo di compiere la volontà di Dio. Nel libro di Ester non c’è alcun riferimento a Dio; eppure possiamo scorgerlo manovrare gli eventi da dietro le scene. Ma viene anche sottolineato che le persone hanno la responsabilità di agire secondo la volontà di Dio. Quando il malvagio complotto di Haman divenne noto ai Giudei, ci fu una chiamata alla preghiera e al digiuno. Poi ci fu una chiamata all’azione, come Mardocheo ha fatto notare ad Ester:
«Poiché se oggi tu ti taci, soccorso e liberazione sorgeranno per i Giudei da qualche altra parte; ma tu e la casa di tuo padre perirete; e chi sa se non sei pervenuta ad esser regina appunto per un tempo come questo?» (Est.4:14).
Purim dovrebbe essere un sollecito per tutti i credenti. Dio vuole operai disponibili a servire nel Suo regno. Chi sa se non siamo stati messi dove siamo per un tempo come questo? Che possiamo essere tutti degli ambasciatori fedeli del Messia e che portano il messaggio di redenzione a quelli che stanno intorno a noi.
Purim è una delle feste più espressive del calendario biblico. Il decoro normale della sinagoga viene temporaneamente messo da parte per lasciar spazio all’allegra e rumorosa commemorazione. In gran parte delle tradizioni giudaiche possiamo vederci un’espressione messianica. Ad esempio, anche se non ordinato dalle Scritture, il “digiuno di Ester” del 13 di Adar, certamente ci parla dello spirito di preghiera che è anche insegnato nel Nuovo Patto. I credenti potrebbero scegliere questo giorno per intercedere per Israele (vedi Rom.10:1).
Alla fine del digiuno, il primo giorno di Purim inizia con il servizio in sinagoga e con la lettura della Megillah. Tutti i partecipanti sono incoraggiati ad indossare un costume (biblico o no) per rendere più folcloristici i rumori che verranno fatti. Molti si vestono da Ester e Mardocheo, altri più sfrontati da Haman. È anche una buona occasione per non avere inibizioni, perciò ci si può vestire da chiunque, dal presidente degli Stati Uniti a Topolino! Purim diventa una festa in costume santificata da un messaggio importante.
I credenti in Gesù possono apprezzare il significato di questa usanza, che altro non è che gioia nella giustizia e nella protezione di Dio. Significa celebrare Dio che opera dietro le scene, Dio che è fedele alle Sue promesse, Dio che libera e protegge.

Publié dans:Ebraismo : feste |on 21 février, 2013 |Pas de commentaires »

Chanukkah – (8-16 dicembre per il 2012)

http://it.wikipedia.org/wiki/Chanukk%C3%A0

Chanukkah

Da Wikipedia, l’enciclopedia libera.

Significato Festa dell’Inaugurazione

Inizio 25 di kislev
Fine 2 o 3 di tevet

(8-16 dicembre per il 2012)

Oggetti liturgici Hanukkiah, Sevivon, Sufganiot
Festività ebraiche
 Per approfondire, vedi la voce Berakhah.
Chanukkah o Chanukkà (in ebraico …….anukkah) è una festività ebraica, conosciuta anche con il nome di Festa delle Luci. In ebraico la parola chanukkah significa « inaugurazione » o « dedica » e infatti la festa commemora la consacrazione di un nuovo altare nel Tempio di Gerusalemme dopo la libertà conquistata ai Greci. Al regno dei quali apparteneva Eretz Israel nel II secolo a.C.. Il dominatore greco riteneva di far scomparire la specificità giudaica proibendo la pratica della Legge, ma una rivolta armata guidata da Mattatia, un anziano sacerdote della famiglia degli Asmonei, di Modin, cittadina a nord-ovest di Gerusalemme, permise – secondo Zc 4,6 – la vittoria dello spirito sulla forza brutale che minaccia Israele nella sua vita religiosa e spirituale. La festività dura 8 giorni e la prima sera, chiamata Erev Chanukah, inizia al tramonto del 24 del mese di kislev. Secondo il procedere del calendario ebraico, quindi, il primo giorno della festa cade il 25 di kislev. È l’unica festività religiosa ebraica che si svolge a cavallo di due mesi, inizia a kislev e finisce in tevet. In particolare se kislev dura 29 giorni finisce il 3 tevet, mentre quando kislev ha 30 giorni finisce il 2 tevet. È, assieme a Purim, la seconda delle feste stabilite per decreto rabbinico, ovvero delle feste stabilite dopo il dono della Torah.
La storia di Chanukkà non è inclusa nel libro del Tanach, ma appare nel primo e nel secondo libro dei Maccabei. I libri, sebbene non facciano parte della Torah, sono parte del complesso deuterocanonico. Questo complesso pur non essendo stato codificato per l’ebraismo come parte del testo sacro, lo divenne per la Chiesa cattolica e per la Chiesa ortodossa.

Storia
Seconda notte di Hannukah, mura ovest di Gerusalemme
Intorno al 200 a.C., Gli ebrei vivevano in terra di Israele, in quel tempo sotto il controllo della dinastia seleucide stabilitasi in Siria. Il popolo ebraico pagava le tasse alla Siria e ne accettava l’autorità legale e per lungo tempo fu libero di seguire la propria fede, di mantenere i propri lavori e di prendere parte ai commerci.
Nel 180 a.C. Antioco IV Epifane ascese al trono succedendo al fratello Seleuco IV, assassinato. Sotto il suo regno, gli ebrei vennero gradualmente forzati a violare i precetti della propria fede. Il Tempio di Gerusalemme fu profanato, spogliato delle sue ricchezze, e utilizzato per il culto pagano e le cerimonie ellenizzanti che Antioco fece organizzare in tutto il suo impero. La forzatura alla trasgressione dei precetti, le profanazioni e la pretesa di ellenizzare la cultura dell’intero impero portò alla rivolta di una parte della popolazione ebraica.
Nel 167 a.C., in particolare, Antioco consacrò a Zeus Nikeforos Keraunios, la divinità protettrice dinastica di Antioco IV Epifane-Nikeforos, un altare costruito nel Tempio di Gerusalemme. Mattatia, un Cohen, e i suoi cinque figli Giovanni, Simone, Giuda, Elazar e Gionata guidò la ribellione contro Antioco. Giuda divenne noto come Giuda Maccabeo (in ebraico significa Giuda il martello). Nel 166 a.C. Mattatia muore lasciando la guida al figlio Giuda. Nel 165 a.C. la rivolta ebraica contro la monarchia seleucide giunse a successo. Il Tempio di Gerusalemme venne liberato e riconsacrato.
La festa di Chanukkà venne istituita proprio da Giuda Maccabeo e dai suoi fratelli per celebrare questo evento (Maccabei I, 4;59). Dopo la riconquista di Gerusalemme e del Tempio, Giuda ordinò che il Tempio fosse ripulito, fosse costruito un nuovo tempio e che le luci del Candelabro venissero riaccese, venne ripristinata l’Arca dell’alleanza. Quando la luce venne riaccesa sul Candelabro, la riconsacrazione dell’altare venne celebrata per otto giorni con sacrifici e canti (Maccabei I 4;36).
Un certo numero di storici ritiene che il motivo per gli 8 giorni di durata della festa sia da riferirsi ad un tardivo festeggiamento dei Sukkot. Durante la guerra gli ebrei non furono in condizioni di celebrare Sukkot come prescritto. Anche Sukkot dura otto giorni ed è una festività nella quale l’uso delle luci ha un ruolo preminente durante l’era del Secondo Tempio. Le luci venivano accese anche nelle abitazioni e da qui la festa viene spesso indicata con il nome Festa delle Luci.

Nel Talmud
Il miracolo di Chanukkà è narrato nel Talmud, ma non nel libro dei Maccabei. La festa celebra la sconfitta, per mano di Giuda Maccabeo, dei Seleucidi e la successiva riconsacrazione del Tempio. La festività, durante gli otto giorni, è caratterizzata dall’accensione dei lumi di un particolare candelabro ad otto braccia chiamato chanukiah.
La storia, riportata nel Talmud, racconta che dopo la riconquista del Tempio, i Maccabei lo spogliarono di tutte le statue pagane e lo sistemarono secondo gli usi ebraici. Scoprirono, inoltre, che la gran parte degli oggetti rituali era stata profanata. Secondo il rituale, la menorà del Tempio doveva essere illuminata in permanenza con olio di oliva puro. Nel Tempio però trovarono olio sufficiente solamente per una giornata. Lo accesero comunque mentre si apprestavano a produrne dell’altro. Miracolosamente, quel poco olio durò il tempo necessario a produrre l’olio puro: otto giorni. Per questo motivo gli ebrei accendono ogni giorno della festa una candela in più rispetto al giorno precedente.
Nel Talmud sono presentati due pareri. Uno indica come nel primo giorno si accendano tutte le otto luci della chanukiah e ogni giorno se ne accenda una in meno rispetto al precedente. L’altro parere, al contrario, prescrive di accendere solo la prima candela nel primo giorno e aumentare di una candela ogni giorno successivo. I seguaci di Shammai seguono il primo parere, quelli di Hillel il secondo (Talmud, trattato dello Shabbath 21b). Giuseppe ritenne che le luci fossero simbolo della libertà ottenuta dal popolo ebraico nei giorni che Chanukkà commemora.

Origine del « Dreidell »
Il Dreidell, in lingua italiana trottola, veniva utilizzato dai bimbi ebrei che, quando studiavano nascostamente la Bibbia ebraica della tradizione, non appena colti dai soldati ellenici (cfr Ghiur) che ne avevano impedito in parte l’adempimento, improvvisamente fingevano di giocarvi per non essere catturati.

Chanukkà oggi
La vetrina di una pasticceria con le sufganiot esposte
Prima del XX secolo questa veniva considerata una festa minore. Con la crescente popolarità del Natale come maggiore festività del mondo occidentale e l’istituzione delle accensioni pubbliche della chanukkià, Chanukkà cominciò a rappresentare sia una celebrazione della volontà di sopravvivere del popolo ebraico, sia una festività che marchi il dominio della luce sull’oscurità, ciò che acquista un significato particolare in corrispondenza con l’inizio dell’inverno e durante il periodo dell’anno in cui le giornate sono più corte.
Al giorno d’oggi, durante le sere di Chanukkà, c’è l’uso promosso dal movimento Chabad, presso numerose comunità in tutto il mondo, di celebrare l’accensione delle candele in maniera pubblica. Numerose persone si ritrovano in una piazza centrale della città dove è stata installata una grande chanukkià. Il presidente della comunità o il rabbino capo, tengono un breve discorso, recitano la beracha (benedizione) sulle candele e inaugurano la festa. I presenti solitamente intonano inni gioiosi ed eseguono tipici balli ebraici. Dolce tipico della festa è una sorta di bombolone chiamato sufgagnà che, essendo fritto nell’olio, vuole ricordare l’olio consacrato che tenne in vita la luce del Tempio.

Publié dans:Ebraismo : feste |on 5 décembre, 2012 |Pas de commentaires »

Rosh haShana 5773 (Capodanno ebraico, domani vigilia, 17-19)

http://it.wikipedia.org/wiki/Rosh_haShana

Rosh haShana 5773 (Capodanno ebraico, domani vigilia, 17-19)

Da Wikipedia, l’enciclopedia libera.

Rosh haShana (in ebraico …, letteralmente capo dell’anno) è il capodanno religioso, uno dei tre previsti nel calendario ebraico.
Rosh haShana è il capodanno cui fanno riferimento i contratti legali, per la cura degli animali e per il popolo ebraico. La Mishnah indica in questo capodanno quello in base al quale calcolare la progressione degli anni e quindi anche per il calcolo dell’anno sabbatico e del giubileo.
Nella Torah vi si fa riferimento definendolo « il giorno del suono dello Shofar » (Yom Terua, Levitico 23:24). La letteratura rabbinica e la liturgia descrivono Rosh haShana come il « Giorno del giudizio » (Yom ha-Din) ed il « Giorno del ricordo » (Yom ha-Zikkaron).
Nei midrashim si racconta di Dio che si siede sul trono, di fronte a lui i libri che raccolgono la storia dell’umanità (non solo del popolo ebraico). Ogni singola persona viene presa in esame per decidere se meriti il perdono o meno.
La decisione, però, verrà ratificata solo in occasione di Yom Kippur. È per questo che i 10 giorni che separano queste due festività sono chiamate i 10 giorni penitenziali. In questi 10 giorni è dovere di ogni ebreo compiere un’analisi del proprio anno ed individuare tutte le trasgressioni compiute nei confronti dei precetti ebraici. Ma l’uomo è rispettoso anche verso il proprio prossimo. Ancora più importante, allora, è l’analisi dei torti che si sono fatti nei confronti dei propri conoscenti. Una volta riconosciuto con se stessi di aver agito in maniera scorretta, occorre chiedere il perdono del danneggiato. Quest’ultimo ha il dovere di offrire il proprio perdono. Solo in casi particolari ha la facoltà di negarlo. È con l’anima del penitente che si affronta lo Yom Kippur.
La festa dura 2 giorni sia in Israele che in diaspora, ma è una tradizione recente. Esistono infatti testimonianze di come a Gerusalemme si festeggiasse solo il primo giorno ancora nel XIII secolo. Le scritture recano il precetto dell’osservanza di un solo giorno. È per questo che alcune correnti dell’ebraismo, tra le quali i Karaiti, festeggiano solo il primo. L’ebraismo ortodosso e quello conservativo, invece, li festeggiano entrambi.

La tradizione
Una delle caratteristiche peculiari di Rosh haShana è il suono dello shofar. In alcune comunità viene suonato tutte le mattine del mese di Elul, l’ultimo prima del nuovo anno. Il significato di questa usanza è quello di risvegliare il popolo ebraico dal torpore e ricordargli che sta per avvicinarsi il giorno in cui verrà giudicato (Maimonide, Yad, Leggi della penitenza 3:4).
Nei giorni precedenti, vengono recitate le selichot (preghiere penitenziali). A seconda della tradizione delle varie correnti, la recitazione delle selichot inizia in momenti diversi, dai 30 ai 10 giorni prima della festività di Rosh haShana.
Queste composizioni poetiche sono talmente importanti che nel giorno stesso della festività, alcune di queste, chiamate piutim, sono inserite all’interno della normale liturgia.
Nel pomeriggio che precede l’inizio della festività si usa fare il tashlich, un lancio di oggetti presso uno specchio d’acqua (anche una fontana va bene) per liberarsi di ogni residuo di peccato.

Il Seder
La cena della prima sera di Rosh haShana è detta Seder di Rosh haShanà; durante questa cena, assieme alla recitazione di piccole formule di preghiera, si usa consumare sia qualcosa di dolce (tipica la mela intinta nel miele), sia cibi che diano l’idea di molteplicità, come il melograno, per augurarsi un anno dolce e prospero.
Tra i vari piatti che si servono durante questa cena, differenti nelle varie tradizioni, è una costante la presenza di qualche parte di animale che faccia parte della testa, a simboleggiare il capo dell’anno. Solitamente viene portata in tavola anche una forma di pane (challa) tonda, a simboleggiare la circolarità dell’anno.
Nel pasto della seconda sera, col secondo Seder come il primo, vengono servite più varietà possibili di frutta, perché vengano incluse nella benedizione di shehecheyanu (la benedizione che si recita la prima volta che si assaggia qualcosa nell’anno).

Nella Bibbia ebraica
Nell’antichità, l’anno ebraico aveva inizio in autunno seguendo il ciclo dei campi: semina-crescita-raccolto. Seguendo questo stesso ordine, si presentano le principali festività ebraiche: la festa del pane azimo; la festa della mietitura (primizie dei cereali), sette settimane più tardi, e la festa del raccolto o dell’immagazzinamento al termine della stagione, che segna anche il termine del calendario ebraico (Esodo 23:14-17, Deuteronomio 16:1-16). È probabile che quest’ultima festa sia stata celebrata nell’antichità in modi particolari.
Il primo riferimento agli usi della festa è, probabilmente, di Ezechiele (Ezechiele, XL 1). Nel Levitico (23:9) si dice che il giubileo, che inizia nello stesso giorni di Rosh haShana, venne accolto con il suono di trombe. Secondo la traduzione dei settanta del libro di Ezechiele, sacrifici specifici venivano offerti sia nel primo giorno del primo mese (Nisan), sia il primo giorno del settimo mese (Tishri). Il primo giorno del settimo mese viene indicato come « giorno del suono delle trombe ». Si teneva una convocazione sacra. Nessun lavoro doveva essere eseguito e speciali sacrifici dovevano essere offerti (Levitico, 23:23-25; Numeri 29:1-6). Non viene ancora chiamato espressamente capodanno, ma veniva già osservato come tale dagli ebrei del tempo.

Publié dans:Ebraismo : feste |on 15 septembre, 2012 |Pas de commentaires »

Pesach 5772 (7-14 aprile) – Rav Di Segni – Rabbino Capo di Roma “Messaggio unico e ancora rivoluzionario”

http://moked.it/blog/2012/04/06/pesach-5772-rav-di-segni-messaggio-unico-e-ancora-rivoluzionario/

Pesach 5772 (7-14 aprile) – Rav Di Segni  – Rabbino Capo di Roma “Messaggio unico e ancora rivoluzionario”

In momenti di grave crisi e di turbamento collettivo, come possono essere anche questi giorni, in cui si cerca e ci si illude che una leadership forte possa risolvere tutti i problemi, si può rimanere vittime di personaggi affascinanti che conquistano le masse con le loro parole.
Se si pensa alla storia di Pesach, in cui la liberazione è stata condotta da Moshè, vediamo che lo scenario è completamente differente. C’era una situazione insostenibile, un grido disorganizzato di sofferenza, ma il leader che arriva è un balbuziente, una persona che ha serie difficoltà di parlare in pubblico. Questo leader, Moshè, che riesce ad abbattere la più grande potenza dei suoi tempi, questa sera, nella cerimonia in qualche modo a lui dedicata, verrà citato una sola volta. Sono belle stranezze. Ma Pesach è strano in tutti i suoi aspetti. Viene ogni anno a tirarci fuori dalla dimensione privata delle attività e delle grandi preoccupazioni quotidiane per immergerci in una dimensione differente: quella della storia e dell’identità collettiva ebraica, che ci unisce nel tempo e nello spazio cancellando distanze di migliaia di anni e di chilometri. Potrebbe essere una bella storia di liberazione politica, ma non è solo quella, è la rivelazione divina nella storia. Pesach-Pasqua ebraica è un modo del tutto speciale per unire un gruppo umano e portare un messaggio unico e ancora rivoluzionario. La fedeltà ebraica a questo messaggio ha fatto sì che nel corso dei secoli il tempo della Pasqua sia diventato una delle occasioni più drammatiche di confronto tra diverse visioni del mondo (e della Pasqua).
Come per altre feste ebraiche, ma più di ogni altra, Pesach è la festa dei miracoli, del miracolo dell’esistenza di Israele che resiste alla storia. Ogni dettaglio rituale serve a trasmettere questo messaggio. Per questo il primo augurio di questi giorni è di un Pesach kasher, conforme al regole, perché sono proprio queste regole che ci salvano come ebrei e che portano redenzione al mondo.
Pesach kasher, ma anche sameach.

Rav Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma

28/29 SETTEMBRE 2011 – ROSH HASHANA’

dal sito:

http://www.nostreradici.it/Rosh-haShana.htm#rosh

28/29 SETTEMBRE 2011 – ROSH HASHANA’       

Il nome più noto della festa è sicuramente Rosh HaShanà, capodanno.

Rosh… la memoria della conclusione della creazione del mondo: il venerdì della creazione compiuta nella dimensione materiale (manca il sabato). Facendo memoria della creazione dell’uomo, si contempla il vero inizio del tempo nella sua percezione umana, cioè il momento « zero » dell’esistenza dell’uomo nella realtà.
Per noi che vogliamo vivere questo ricordo significa « tornare in una situazione nella quale il peccato non c’è ». In realtà noi siamo esseri fortemente temporali; è una valenza positiva, ma ci condiziona il fatto che è difficile scardinare l’oggi: « sono così perché ieri ero così ». Invece questo tornare al momento 0 rompe il legame del nesso logico di causa-effetto; il che impedisce che diventiamo il prodotto di un determinismo spaventoso che ci fa rimanere schiavi di ciò che siamo stati e rende vana la redenzione.
Il procedimento non è semplice e non esauribile in toto in un solo momento; ma esso dura tutta la vita e fa sì che il passato, pur restando presente, cambi di segno.
Questo nome della festa dipende da vari motivi. Innanzi tutto, è il momento dell’anno in cui D-o inizia a giudicare l’uomo per le proprie azioni, come afferma il Talmùd Babilonese: Nel capodanno ogni uomo passa davanti a D-o come gli animali del gregge davanti a un pastore. Ossia, così come un pastore fa sfilare le sue pecore una per una davanti a sé per farle entrare nell’ovile, così D-o, guardando il destino di ogni uomo, fa passare davanti a Sé le azioni compiute da ogni persona. In questo modo Egli può giudicare l’operato di ogni persona per sapere in quale libro scrivere il suo nome. Disse, infatti, rabbi Kruspedaì a nome di rabbi Yochanàn:
Tre libri sono aperti davanti a D-o nel giorno di Rosh Hashanà: uno per i giusti (Tzaddìkim) completi, uno per i malvagi (Reshaìm) completi e uno per quelli che stanno a metà strada, che non sono, cioè, né totalmente giusti, né totalmente malvagi (Benonìm). I giusti vengono iscritti immediatamente nel libro della vita, mentre i malvagi vengono iscritti immediatamente nel libro della morte. Per coloro, invece, che sono Benonim D-o attende a dare il giudizio fino al giorno di Yom Kippùr e se avranno fatto teshuvà (penitenza) nei giorni che vanno da Rosh Hashanà a Yom Kippùr, allora verranno iscritti nel libro della vita; altrimenti verranno iscritti nel libro della morte.
Il giudizio implica il peso delle azioni umane, che vale sia per il singolo che per la collettività e, in definitiva, per l’intera umanità. Giudizio rigoroso, che si dipana nei giorni successivi della teshuva.
Ciascuno, cambiando il peso delle proprie azioni, può cambiare il mondo.
Norme rabbiniche precise per la celebrazione di Rosh Hashanà prescrivono il suono dello shofar (corno di ariete) che non a caso ricorre anche a Kippur. L’ariete ricorda la legatura di Isacco. (cfr. approfondimenti in Yom teruà)
Vi riconosciamo l’aspetto collettivo di chiamare alla riunione e invitare al pentimento tutta la comunità ed ogni persona.
Ma lo shofar è anche una citazione della creazione: il primo vero shofar è Adamo (quando Dio gli ha inalato la ruah), il primo che suona lo shofar è D-o. Vi leggiamo la riproposizione delle modalità di rapporto tra materia e spirito. Noi prendiamo da dentro il fiato da insufflare, Dio lo prende da sé. Lo shofar ricorda l’impasto costitutivo dell’essere dell’uomo
.

Publié dans:ebraismo, Ebraismo : feste |on 30 septembre, 2011 |Pas de commentaires »
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