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DIMANCHE 20 OCTOBRE – COMMENTAIRES DE MARIE NOËLLE THABUT: 2 TIMOTEO 3, 14-4, 2

http://www.eglise.catholique.fr/foi-et-vie-chretienne/commentaires-de-marie-noelle-thabut.html

DIMANCHE 20 OCTOBRE : COMMENTAIRES DE MARIE NOËLLE THABUT

SECONDA LETTURA – 2 TIMOTEO 3, 14-4, 2

(traduzione dal francese di un Gadget di Google)

Domenica scorsa, si legge nella seconda lettera a Timoteo, un inno in onore di Cristo: « Ricordati che Gesù Cristo, risorto dai morti. » Oggi, potremmo dire che si legge un inno in onore della Scrittura. Cerchiamo di essere chiari, ciò che St. Paul chiama la Scrittura, è ciò che noi oggi chiamiamo l’Antico Testamento. Più volte, in lettere a Timoteo, abbiamo indovinato un conflitto persistente nella comunità di Efeso, dove Timoteo, ed è anche a causa di questo conflitto che Paolo chiede a Timoteo di rimanere in Efeso, egli essere in grado di contare su di fedeli custodi della Parola. Le prime righe di testo di oggi « , è necessario attenersi a ciò che vi è stato insegnato » implica che gli altri non rimangono fedeli agli insegnamenti ricevuti e vanno fuori strada . altro
 Così possiamo riassumere il passaggio in tre frasi: in primo luogo, si deve ricaricare nella Scrittura. In secondo luogo, dobbiamo proclamare la Parola. In terzo luogo, questa dichiarazione deve essere effettuata al fine di costruire la comunità. In primo luogo, abbiamo bisogno di rilassarsi nelle Scritture, nel vero senso della parola « ricaricare » la Scrittura è la nostra origine, la nostra traduzione dice: « è necessario attenersi a ciò che vi è stato insegnato, » ma possiamo lì per ascoltare una raccomandazione di fissità, che non è affatto di Paul. La parola per parola come « rimane in quello che hai imparato » la fede non è un oggetto ma ha un supporto vitale, una « casa » ai sensi di San Giovanni.
 Timoteo ha colpito in questa fonte di Scrittura dalla sua infanzia: il padre era greco e pagano, ma sua madre, Eunice, e la nonna materna, Lois, erano ebrei: essi hanno introdotto nel Vecchio Testamento, e quando sua madre convertito al cristianesimo, non ha smesso di frequentare il corso di Scrittura. Altri maestri iniziati Timoteo e Paolo sottolinea questo aspetto della comunità l’accesso alla Scrittura. Uno non scopre la sola Bibbia, ma nella Chiesa. Ancora una volta, troviamo in Paolo il tema della trasmissione della fede, quello che viene chiamato in teologia « Tradizione »: tradere, in latino, significa « passaggio »: « Vi ho dato quello che ho ‘ anch’io ho ricevuto « (nel senso non ho inventato nulla) Paolo dice nella lettera ai Corinzi, l’ apostolo è inviato al servizio di una parola che non è la sua. In fede, nessuno di noi è un fondatore, un innovatore, noi siamo anelli di una catena. Ovviamente, è fondamentale che questa trasmissione è fedele. Poco prima, nella stessa lettera, Paolo disse a Timoteo: « Che cosa hai udito da me in presenza di molti testimoni affidano a uomini fedeli che a loro volta in grado di insegnare di nuovo in d altra. . « (2 Tm 2, 2)
 che segue è molto importante: Paolo dice: « Le Scritture hanno il potere di comunicare a voi la sapienza che conduce alla salvezza mediante la fede che abbiamo in Gesù Cristo »: è dire con questo che l’Antico Testamento conduce direttamente a Gesù Cristo. Per Paolo, come per i primi apostoli , Gesù ha reclutato tra gli ebrei, era una bazzecola. Si ricorda che durante il suo processo a Gerusalemme, Paolo ha sostenuto che proprio perché era un Ebreo era diventato un cristiano.
 Paolo continua: « tutte le Scritture sono ispirate da Dio »; prima di essere un dogma affermato dalla Chiesa, questa frase era quindi già la fede di Israele. Questo spiega il rispetto è sempre circondato i libri sacri in ogni sinagoga.  » Grazie alle Scritture, l’uomo di Dio saranno ben armati, che sarà dotato di tutto il necessario.  » Così l’attrezzatura del cristiano: Scrittura nella fedeltà all’insegnamento ricevuto, « Bisogna attenersi a ciò che vi è stato insegnato, avete riconosciuto come vero, sapendo quali sono i maestri hai insegnato.  » L’attrezzatura del cristiano, quindi è Scrittura e la Tradizione per essere in grado di trasmettere a sua volta. Per passare, e questa è la seconda scheda di Paolo a Timoteo, dobbiamo avere il coraggio di annunciare la Parola, questo è il primo, forse l’unico compito di un dirigente della Chiesa. Il problema è grave e Paolo impiega formula quasi incredibile: « Davanti a Dio e davanti a Cristo Gesù che verrà a giudicare i vivi ei morti, vi chiedo solennemente, a nome della sua manifestazione e il suo regno: la proclamazione della Parola. ..  »
 Ancora una volta, Paolo si riferisce alla manifestazione di Cristo, e il suo regno: il compimento del piano di Dio è veramente l’anno in cui Paolo non ha mai lasciato gli occhi. E altrove in greco, Paolo dice: « Proclamate il Logos », la parola in Giovanni è il Verbo, Gesù stesso. Tradurre, se prendiamo sul serio l’evento e il Regno di Cristo, dobbiamo instancabilmente proclamare la Parola. Corso della vita di Paolo, dopo la sua conversione, è stata dedicata a questo compito: « Annunciare il Vangelo è un dovere per me: guai a me se non predicassi il Vangelo ! . « (1 Cor 9, 16)
 Ma ci vuole coraggio per annunciare la Parola, dobbiamo accettare di essere ben accolto, « intervenire in tempo e contro il tempo, denunciare il male, biasimo incoraggia » c vale a dire, non esita a giudicare ciò che si vede … Egli conclude in quello del clima che si deve fare (e questo è il terzo punto): con grande pazienza e la voglia di imparare. Anche in questo caso troviamo un sempre presente enfasi in Paolo, la preoccupazione che costituisce la comunità, è l’unica cosa che conta.

SAPIENZA 9,13-18B – (testo della prima lettura di domenica e commento)

http://www.nicodemo.net/NN/commenti_p.asp?commento=Sapienza%209,13-18

BRANO BIBLICO SCELTO

SAPIENZA 9,13-18B

1 Quale uomo può conoscere il volere di Dio? Chi può immaginare che cosa vuole il Signore?
14 I ragionamenti dei mortali sono timidi e incerte le nostre riflessioni, 15 perché un corpo corruttibile appesantisce l’anima e la tenda d’argilla grava la mente dai molti pensieri.
16 A stento ci raffiguriamo le cose terrestri, scopriamo con fatica quelle a portata di mano; ma chi può rintracciare le cose del cielo?
17 Chi ha conosciuto il tuo pensiero, se tu non gli hai concesso la sapienza e non gli hai inviato il tuo santo spirito dall’alto?
18 Così furono raddrizzati i sentieri di chi è sulla terra; gli uomini furono ammaestrati in ciò che ti è gradito; essi furono salvati per mezzo della sapienza.

COMMENTO
Sapienza 9,13-18

Il dono della sapienza
Nella seconda sezione del libro (Sap 7,1 – 10,21) è riportata una presentazione ampia e articolata della sapienza in rapporto sia con l’individuo che con il popolo. Questa sezione si divide in tre parti: elogio della sapienza (7,1 – 8,21); preghiera di Salomone per ottenere la sapienza (9,1-18); l’opera della sapienza nella storia di Israele (10,1-21). La preghiera di Salomone termina con il brano, ripreso dalla liturgia, riguardante l’inaccessibilità della sapienza (9,13-18).
Il primo versetto contiene due domande parallele: «Quale uomo può conoscere il volere di Dio? Chi può immaginare che cosa vuole il Signore?» (v. 13). Dal caso particolare di Salomone, si passa all’universalità della natura umana. L’autore si esprime retoricamente con il pronome interrogativo tis,  chi, rafforzato da anthrôpos, uomo, e ripetuto poi da solo (cfr. nuovamente i due tis dei vv. 16 e 17). La domanda riguarda la condizione umana nella sua più ampia universalità. Essa verte sulla possibilità di conoscere (gnôsetai, conoscerà, futuro gnomico) la volontà (boulên) di Dio. La boulê di Dio appare sufficientemente determinata dal parallelismo con il successivo: «ciò che Dio vuole», vale a dire la sua volontà, espressa nella legge. L’uomo è troppo limitato nelle sue possibilità (cfr. vv. 5-6) per essere in grado di penetrare il mistero di Dio, e poterne scoprire e comprendere i disegni, anche dopo che sono stati rivelati.
Il versetto successivo contiene invece due affermazioni parallele: «I ragionamenti dei mortali sono timidi e incerte le nostre riflessioni (v. 14). I «mortali» sono gli uomini; nella Bibbia greca il termine è usato solitamente al singolare. Nella letteratura greca si contrappone agli «immortali», che sono gli dèi. L’idea dell’autore riguardo alle nostre possibilità di conoscere la verità nell’ambito morale è piuttosto pessimistica: l’uomo, abbandonato a se stesso, cammina nelle tenebre dell’ignoranza e dell’insicurezza. Nella terminologia platonica si direbbe che, a causa della sua natura materiale, l’uomo non può arrivare più in là delle opinioni.
L’autore passa poi a indicare il motivo della limitatezza umana: «perché un corpo corruttibile appesantisce l’anima e la tenda d’argilla opprime una mente piena di preoccupazioni» (v. 15). L’autore si mantiene fedele alla dicotomia corpo-anima (cfr. 1,4; 8,18-20; 15,8.11.16). La mente (nous) è l’anima stessa in quanto principio pensante. Che il corpo mortale influisca sulla vita psichica dell’uomo è patrimonio comune di tutte le scuole filosofiche; ogni tendenza pura, o pensiero elevato, spiritualizzante, è sempre stato attribuito all’anima umana, e ogni moto legato al mondo materiale è stato imputato al corpo corruttibile. La vita dell’uomo si sviluppa in una continua dialettica fra «il corpo» e «l’anima». Il termine «tenda» è una metafora è tratta dalla vita nomade per indicare ciò che è passeggero, e dunque adatta al corpo corruttibile (cfr. Is 38,12; Gb 4,19-21; 2Cor 5,4; 2Pt 1,13-14). L’aggettivo «d’argilla» è un’allusione all’origine del corpo secondo Gen 2,7 (cfr. Gen 3,19; Sap 15,8): il corpo, radicato nella terra, solidale con i beni puramente terreni, temporali, transitori, frena il volo della mente verso ciò che è spirituale, celeste, immortale.
Il limite della creatura umana si manifesta nella sua incapacità di conoscere: «A stento immaginiamo le cose della terra, scopriamo con fatica quelle a portata di mano; ma chi ha investigato le cose del cielo?» (v. 16). Come nel v. 14, l’autore adduce la realtà della nostra esperienza (prima persona plurale), che è al tempo stesso universale. L’espressione «le cose della terra» indica ciò che accade sulla terra, ciò che l’uomo può verificare e controllare; essa designa le cose che sono a portata di mano, tangibili, sperimentabili direttamente, visibili, vale a dire ciò che non supera la normale capacità dell’uomo terreno, tutto ciò che dovrebbe essere trasparente e ovvio per lui. Tutte queste cose dovrebbero essere conosciute facilmente. Tuttavia, non è così: solo con notevole sforzo riusciamo ad appropriarci delle cose, dominandole appena con le nostre imperfette capacità. La verità è che ogni giorno sperimentiamo che la realtà ci sfugge di mano. La domanda finale del versetto mette in luce l’impossibilità di investigare, conoscere «le cose del cielo». Che cosa esse siano si può comprendere da Gb 38 o da 4 Esd 4,21 («Gli abitanti della terra possono conoscere soltanto quanto è sopra la terra, gli abitanti del cielo, invece, ciò che è nell’ alto del cielo»). Nel linguaggio biblico il cielo è metaforicamente la dimora di Dio (cfr. v. 10a). Le cose del cielo sarebbero dunque quelle che appartengono all’ambito divino.
Alla debolezza umana però Dio supplisce mandando la sapienza: «Chi avrebbe conosciuto il tuo volere, se tu non gli avessi dato la sapienza e dall’alto non gli avessi inviato il tuo santo spirito?» (v. 17). In questo versetto, nel quale convergono quasi tutti i temi toccati dall’autore durante la preghiera, si trovano tre dei grandi temi trattati dal giudaismo postesilico: la volontà di Dio, la sapienza e lo spirito. Il volere di Dio non è altro che la volontà divina, ciò che Dio vuole relativamente all’uomo, e che si può conoscere soltanto se Dio liberamente si rivela o manifesta (cfr. Dt 30,12), e se il Signore concede all’uomo il dono della sapienza (cfr. Bar 3,29): è stato, questo, il leitmotiv di tutto il cap. 9, ma al termine l’autore lo proclama più solennemente, poiché oltre alla sapienza richiede il «santo spirito del Signore». È la prima e l’unica volta che nella preghiera di Salomone appare questa espressione. Secondo il parallelismo, santo spirito equivale alla sapienza del Signore. Già nei precedenti capitoli il rapporto fra sapienza e spirito è stato frequente ed intimo, fino a giungere, almeno in parte, all’identificazione (cfr. 1,5-7; 7,7.22). L’autore riecheggia una tradizione antica in Israele, che passa attraverso i profeti e viene raccolta dai saggi.
Il brano termina con un versetto che si collega strettamente con quello precedente e con l’inizio della preghiera di Salomone: «Così vennero raddrizzati i sentieri di chi è sulla terra; gli uomini furono istruiti in ciò che ti è gradito e furono salvati per mezzo della sapienza» (v. 18). I tre verbi di questo periodo sono all’aoristo con valore gnomico, in quanto il v. 18 conferma la preghiera di Salomone («solo così…»), ma conservano anche il loro valore storico di passato, come dimostrano gli esempi del cap. 10. Gli aoristi sono al passivo, che deve essere inteso come un passivo teologico, dato che in ultima analisi esprimono l’azione di Dio per mezzo del suo spirito e della sua sapienza. Quest’azione di Dio è una forza morale che fa sì che gli uomini camminino rettamente, una luce interiore per cui scoprono quel che è gradito al Signore, quel che Dio si attende da loro e per cui sono infine salvati. Il verbo «salvare» (sôzein) ha qui il significato di liberazione da qualsivoglia pericolo naturale imminente. Esso è sinonimo dei verbi che significano protezione, ecc. (cfr. Sap 10,1.4.5.6.9.12-14). Il termine assume qui però un significato più spirituale, in quanto allo stesso attributo divino, la sapienza, vengono attribuite la creazione (cfr. 7,21; 8,6) e la salvezza. Essa quindi riassume i due aspetti fondamentali dell’unica azione potente e amorevole di Dio, che si manifesta meravigliosamente agli inizi e nella reale storia dell’umanità fin dai suoi inizi.

Linee interpretative
L’autore di questo brano concepisce l’uomo, alla luce della filosofia greca, come un composto di anima e corpo. È al corpo soprattutto che attribuisce il suo limite e la sua incapacità di conoscere le cose di Dio. Per lui il corpo si identifica con quanto che si potrebbe chiamare vita istintiva, forze irrazionali che intorbidano la mente, oscuri impulsi del subconscio, non chiariti o mal razionalizzati. L’anima, identificata con la ragione, è invece il principio spirituale che dà vita al corpo e si eleva spontaneamente al mondo superiore.
Questa visione pessimistica dell’uomo non esclude però un messaggio di speranza, che deriva dal fatto che, nonostante la debolezza dell’uomo, Dio manda su di lui la sapienza, che gli indica il giusto cammino o il modo di vivere conforme alla sua volontà. È quindi mediante la sapienza che si compie nella storia il piano salvifico di Dio. Essa ammaestra non soltanto gli israeliti o i patriarchi, ma anche tutti gli uomini che per suo mezzo acquistano la salvezza e la liberazione, soprattutto dalla morte nel suo significato non solo fisico ma anche spirituale (cfr. Sap 2,24

SALMO 28 (29) PROCLAMAZIONE DELLA SOVRANITÀ DEL SIGNORE

http://www.perfettaletizia.it/bibbia/salmi/Salmo28.htm

SALMO 28 (29)  PROCLAMAZIONE DELLA SOVRANITÀ DEL SIGNORE

SALMO. DI DAVIDE

Date al Signore, figli di Dio,
date al Signore gloria e potenza.
Date al Signore la gloria del suo nome,
prostratevi al Signore nel suo atrio santo.
La voce del Signore è sopra le acque,
tuona il Dio della gloria,
il Signore sulle grandi acque.
la voce del Signore è forza,
la voce del Signore è potenza.
La voce del Signore schiantai cedri,
schianta il Signore i cedri del Libano.
Fa balzare come un vitello il Libano,
e il monte Sirion come un giovane bufalo.

La voce del Signore saetta fiamme di fuoco,
la voce del Signore scuote il deserto,
scuote il Signore il deserto di Kades.
La voce del Signore provoca le doglie alle cerve
e affretta il parto delle capre.
Nel suo tempio tutti dicono: “Gloria!”.
Il Signore è seduto sull’oceano del cielo,
il Signore siede re per sempre.
Signore darà potenza al suo popolo,
il Signore benedirà il suo popolo con la pace.

Commento
Il salmista si rivolge ai figli di Dio (Cf. Gn 6,2) agli Israeliti, a quelli che hanno cedimenti con gli idoli e perso la speranza nel Dio d’Israele. Il testo ebraico ha: “figli degli dei”, per dire che sono diventati figli degli idoli; si tratta indubbiamente di una provocazione al ritorno.
I santi ornamenti sono gli abiti casti, lindi, coi quali il popolo deve prostrasi dinanzi a Dio, ornamenti che non dichiarino l’appartenenza agli idoli.
Il salmo con grande probabilità risale al tempo dei Giudici quando molti Israeliti si contaminarono con i culti cananei. A loro sembrava che le promesse di Dio di un’immediata conquista della terra promessa si fossero esaurite, da qui il salmista che richiama all’unico e vero Dio. Gli idoli cui gli Israeliti cedevano erano i Baal. Baal era il dio della vegetazione e della pioggia; era rappresentato in statuette con in mano una folgore.
Il salmista proclama che il vero e unico sovrano della tempesta è il Signore.
Dio afferma la sua parola potente, sovrana, nel turbinio di un diluvio. All’uragano si accompagna il terremoto per questo il Libano e il Sirion, nome fenicio dell’Hermon sono scossi: “Fa balzare come un vitello il Libano, e il monte Sirion come un giovane bufalo”. Un vento impetuoso estende la nuvolaglia nera verso il deserto di Kades e schianta a terra con la sua forza i cedri del Libano, denudando così le foreste.
I fulmini poi scuotono le terre pianeggianti della steppa, mentre le cerve terrorizzate partoriscono anzitempo. E’ una teofania impressionante di Dio “seduto sull’oceano del cielo”, inattaccabile nel suo essere il Re: “Il Signore siede re per sempre”.
“Nel suo tempio tutti dicono: <Gloria!>”, cioè nel tempio celeste dove tutti gli angeli osannano Dio.
Il salmista nella composizione del salmo probabilmente guardò alla teofania del Sinai estendendola a tutta la Palestina; ma non si può escludere che descriva un evento atmosferico e tellurico realmente accaduto. Una teofania simile, con diretta regia di Dio, Elia la visse sull’Oreb (il Sinai) (1Re 19,11).
Il salmista afferma così che Dio non ha perso né di potenza né di gloria, e che aiuterà il suo popolo contro coloro che lo credono ormai assorbito dai loro costumi. E Dio darà pace al suo popolo. E questa pace avrà un nome: Cristo.

OMELIA SU 1RE 17,17-24: LA FARINA E L’OLIO

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/16590.html

OMELIA SU 1RE 17,17-24

DON MARCO PRATESI

LA FARINA E L’OLIO

« Non ci sarà rugiada né pioggia in questi anni, se non alla mia parola » (17,1): sono parole di Elia al re Acab che, spinto dalla moglie Gezabele, ha organizzato in Israele il culto di Baal (= »Signore »), Dio siro-fenicio e cananeo della tempesta e quindi della fertilità (cf. 16,32-33). Il senso del gesto di Elia è chiaro: vediamo chi ha davvero in mano la pioggia, la fertilità, la vita! Siamo dunque in tempo di siccità e carestia. Per mettersi al sicuro, Elia si rifugia presso il torrente Cherith (cf. 17,2-6), ma quando anch’esso secca, riceve l’ordine di andare fuori da Israele, in Fenicia: qui Dio ha dato disposizione per il suo sostentamento. A chi? A una vedova, che a malapena riesce a provvedere a sé e al figlio. Scelta singolare! La vedova, pagana, è invitata a un atto di fede nella parola del Signore (che evidentemente le è stata rivolta prima) e del suo profeta (che ora le chiede da mangiare e da bere). Deve pensare prima all’uomo di Dio e solo dopo a sé e al figlio. Mentre il popolo di Dio non si fida del suo Signore e si affida a déi stranieri, questa donna straniera si fida del Signore e rischia tutto sulla parola del profeta (in analogo senso universalistico Gesù richiamerà questo passo, provocando una reazione di rigetto, cf. Lc 4,25-26). L’atto di fede produce il suo effetto, ma notiamo: la vedova non si trova in casa una montagna di farina né un orcio traboccante d’olio. Le rimane sempre e solo quel pugno di farina e quel po’ di olio, che però non si esauriscono. Ella – con lei il profeta – dipende momento per momento dalla provvidenza di Dio, senza potersi mai sentire garantita dal possesso di un’abbondante scorta.
L’idolatria produce sterilità, la fede vita, anche in situazioni difficili. Che cosa mi assicura la vita? A chi mi affido per sfuggire alla morte? Su questo si gioca la partita della vedova, di Elia, di Acab e di ogni uomo. Occorre imparare a fidarsi, a dipendere, non solo da Dio ma anche, in subordine a lui, dagli uomini. Esiste una dipendenza dagli uomini che è idolatria, ne esiste una che è fraternità. Se doveva operare un miracolo, Elia non avrebbe potuto provvedere da sé al proprio sostentamento? Ma gli uomini di Dio non fanno miracoli a proprio vantaggio. Egli deve dipendere dalla vedova e dal suo atto di fede e di amore. E per quale motivo Dio deve andare a chiedere aiuto proprio a una vedova nullatenente piuttosto che a un ricco? Ella deve imparare a fidarsi di Dio e della sua parola, di cui il profeta è portatore, dando così una severa lezione a Israele, che invece va a cercarsi Baal come protettore. La vera fecondità, la vitalità piena, si dà solo nel dono, che si esprime prima di tutto attraverso la fiducia accordata al Signore; e che si concretizza a sua volta nell’accettazione della dipendenza dagli altri come strumenti della cura di Dio, e nella disponibilità a essere di quella medesima cura strumento per gli altri.

Commento su Atti 1,11: Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo?

http://www.qumran2.net/parolenuove/commenti.php?mostra_id=22740

Commento su Atti 1,11

Eremo San Biagio 

Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo?

Come vivere questa Parola?

Quest’oggi, solennità dell’ascensione di Gesù, gli sguardi sono sollecitati a volgersi verso un cielo che sembra averci sottratto la sua presenza, proprio come riferiscono gli Atti degli apostoli circa i primi discepoli, protagonisti diretti dell’evento. Ma a riscuoterci ecco la sollecitazione angelica: « Perché state a guardare il cielo? ».
Quel Gesù che « una nube sottrasse ai loro occhi » (At 1,9) si era da loro congedato con una promessa più che rassicurante: « Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo » (Mt 28,20). Non si tratta allora di una separazione, ma di una modalità diversa di rendersi presente, adombrata proprio in quella nube a cui accennano gli Atti.
In tutta la Sacra Scrittura, infatti, la nube indica sempre la presenza misteriosa e operante di Dio. Il richiamo ad essa sta quindi a ricordare che il Risorto è ormai totalmente immesso nella sfera del divino che sfugge alla percezione immediata dei sensi, ma non per questo è meno reale.
Cercarlo in un cielo lontano e astratto non ha senso: Dio è ovunque e con la sua presenza raggiunge e avvolge anche la mia vita. È qui, in quest’oggi che sono chiamato a vivere non fuggendo da una storia che con i suoi chiaro-scuri può crearmi difficoltà, ma immergendomi in essa per illuminarla con il gioioso messaggio di cui sono depositario e testimone.
Forte di questa certezza, voglio far mia la sollecitazione angelica a non cercare Dio lontano da me, ma nell’appello del quotidiano che reclama la mia dedizione. A questo penserò nel mio odierno rientro al cuore.
Insegnami, Signore, ad amare la mia storia, luogo concreto in cui ti posso incontrare quale compagno di viaggio e Maestro che mi indica la via dell’impegno, fuori da ogni sviante spiritualismo.

La voce del Papa

Il Gesù che si congeda non va da qualche parte su un astro lontano. Egli entra nella comunione di vita e di potere con il Dio vivente, nella situazione di superiorità di Dio su ogni spazialità. Per questo « non è andato via », ma, in virtù dello stesso potere di Dio, è ora sempre presente accanto a noi e per noi.

Benedetto XVI

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