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METTERSI IN ASCOLTO DELLA PAROLA – OMELIA XV DOMENICA DEL T.O.

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padre Antonio Rungi

METTERSI IN ASCOLTO DELLA PAROLA

Viviamo in un mondo, dove tutti vogliono parlare e solo pochi sanno ascoltare. In realtà dovrebbe essere il contrario. Ascoltare molto e parlare poco, perché le nostre parole spesso sono vuote ed insignificanti o addirittura fanno disastri, offendono, mistificano e creano seri problemi di comunicazione interpersonale.
Al centro della liturgia odierna c’è appunto l’importanza dell’ascolto della parola di Dio, dell’efficacia della stessa e dei frutti che produce in modo diversificato in chi è disponibile a lasciarsi toccare nel cuore da questa parola.
Partendo dalla prima lettura, tratta dal profeta Isaia, cogliamo in essa tutta l’importanza ed il valore della parola assimilata alla pioggia che cade dal cielo e che irriga e fa germogliare ogni cosa. Quanto più è predisposta e dissodata ed accogliente questa terra, che è il cuore e la mente dell’uomo, tanto più la parola di Dio fa effetto e produce frutti, espressi in opere di bene e di santità.
Le varie immagini tratte dalla natura e dall’ambiente di vita quotidiana ci aiutano a capire, secondo quando scrive il profeta Isaia, come bisogna rapportarsi alla Parola di Dio, che esce dalla sua bocca e non vi ritorna senza aver prodotto ciò per cui l’ha inviata. Qui è chiaro il riferimento alla Parola di Dio per eccellenza, che è Gesù Cristo, il Verbo Incarnato che viene in questo mondo e salva l’uomo dalla schiavitù del peccato, per poi ritornare al Padre, dove aver ultimato la sua missione di redentore e salvatore. In questa Parola dobbiamo riscoprire il valore e il significato di ogni altra parola di Dio o dell’uomo. Nella misura in cui ci confrontiamo con Cristo, parola di Dio rivelata a noi, noi possiamo comprendere il linguaggio stesso di Dio, che è il linguaggio dell’amore, della misericordia e del perdono.
Per questa parola, che ci ha preso il cuore e la vita, bisogna sapere soffrire ed accettare ogni cosa nella nostra esistenza terrena, senza mai abbattersi, scoraggiarsi, demotivarsi; ma guardando avanti nel segno di questa parola che è vita, gioia, speranza e risurrezione. Se non avessimo fiducia nella parola del Signore, ogni cosa che facciamo come cristiani perderebbe di senso e prospettiva. E’ proprio questa fiducia nella parola del Signore che ci fa operare, agire, sperare e soffrire per amore e con amore, come Cristo ha fatto per noi.
L’apostolo Paolo sottolinea questo aspetto nel brano della seconda lettura di questa domenica, tratto dalla celebre Lettera ai Romani. Nel tempo noi gemiamo, soffriamo, patiamo, ma in questo nostro tempo che il Signore ha consegnato nella consistenza e nella qualità a ciascuno di noi, noi costruiamo quello che sarà il senza tempo, sarà l’eternità, sarà Dio per sempre con noi e per noi. Infatti, « noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo ». E’ questa visione di beatitudine piena e definitiva che predispone il nostro cuore ad accogliere la parola e in nome di questa parola affrontare ogni prova della vita.
In questa logica di accoglienza si comprende benissimo la bellissima ed espressiva parabola detta da Gesù in persona ai tanti suoi amici fedeli che lo seguivano. E’ la parabola del Seminatore. Gesù siede e spiega. La gente è sulla spiaggia ed ascolta. Quale migliore ambiente per rivivere questa parola, oggi, in tempo di ferie estive, per chi se le può permettere, che fare una catechesi in riva al mare, come Gesù osava fare. Catechesi fatte bene, con la calma, nel silenzio, nel raccoglimento. Erano altri tempi, altre spiagge, altri ascoltatori quelli del tempo di Gesù. Oggi le nostre spiagge sono ben altra cosa che luoghi di ascolto della natura e della voce di Dio e dei fratelli. Sono spiagge che svuotano l’esistenza umana perché la riempiono di cose materiali e la svuotano di Dio e della sua parola di vita.
Vorrei che ognuno, a conclusione dell’itinerario spirituale compiuto oggi ascoltando le tre letture bibliche ed il salmo responsoriale, facesse un bell’esame di coscienza. Tra chi mi collocherei oggi tra gli esempi che Gesù esamina e pone come metro di paragone per accogliere in modo più o meno ampio e duraturo la sua parola? Siamo la strada, siamo il terreno sassoso, siamo rovi, siamo il terreno buono? In base alla nostra attuale condizione spirituale possiamo dare la nostra risposta. Anzi nel rileggere la nostra vita e la nostra storia ed esperienza di fede possiamo rispondere con maggiore cognizione di causa e precisione. Forse spesso siamo stati tra coloro che hanno solo ascoltato, ma mai messo in pratica; qualche volta abbiamo ascoltato e messo in pratica. Forse raramente abbiamo ascoltato e messo in pratica dando i massimi frutti, compatibili con la nostra persona e la nostra fragilità.
Ecco il cammino della parola chiede a tutti noi, fratelli e sorelle, una vera conversione, un cambiamento di rotta, una cambiamento di mentalità che è possibile nella misura in cui ascoltiamo Gesù, la Chiesa, il Papa, i Vescovi, i nostri pastori e non ascoltiamo noi stessi, pensando che noi e soltanto noi siamo fonte di verità e coerenza massima nelle nostre attività, fossero anche quelle più eccelse in campo spirituale ed ecclesiale.
Signore donaci l’umiltà del cuore per capire i nostri sbagli e rettificare la nostra vita sulla tua parola di vita. Continua a seminare nella nostra vita la gioia e la speranza che va oltre i confini del tempo e si colloca nella gioia eterna del santo Paradiso. Amen.

Publié dans:DOMENICA: COMMENTI BIBLICI |on 11 juillet, 2014 |Pas de commentaires »

1 PIETRO 3,15-18 – COMMENTO BIBLICO

http://www.nicodemo.net/NN/commenti_p.asp?commento=1%20Pietro%203,15-18

BRANO BIBLICO SCELTO

1 PIETRO 3,15-18

Carissimi, 15 adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi.
Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto, 16 con una retta coscienza, perché nel momento stesso in cui si parla male di voi rimangano svergognati quelli che malignano sulla vostra buona condotta in Cristo. 17 E’ meglio infatti, se così vuole Dio, soffrire operando il bene che facendo il male.
18 Anche Cristo è morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti, per ricondurvi a Dio; messo a morte nella carne, ma reso vivo nello spirito.

COMMENTO
1 Pietro 3,15-18

La fortezza nella persecuzione
La Prima lettera di Pietro è uno scritto cristiano della fine del I secolo che si presenta come opera del grande apostolo di cui porta il nome, ma che secondo gli studiosi moderni è una raccolta di tradizioni che al massimo potrebbero risalire in qualche modo a Pietro o al suo ambiente. Essa non è una lettera vera e propria, ma un’omelia a sfondo battesimale. Essa si apre con l’indirizzo e una benedizione iniziale (1,1-5) a cui fa seguito il corpo della lettera che si divide in tre parti: 1) Identità e responsabilità dei rigenerati (1,6 – 2,10); 2) I cristiani nella società civile (2,11 – 4,11); 3) Presente e futuro della Chiesa (4,12 – 5,11). Nella seconda di queste tre parti l’autore, dopo aver dato direttive a ogni categoria di cristiani, suggerisce il comportamento da tenere nelle persecuzioni (3,13-18). Quest’ultimo brano è introdotto da una beatitudine rivolta a coloro che soffrono per la giustizia e da una esortazione a non avere paura dei persecutori (vv. 13-14); esso prosegue poi con alcune direttive (vv. 15-18) che sono riprese dalla liturgia.
La persecuzione non può non suscitare paura e sgomento; ma di fronte ad essa il credente deve assumere un atteggiamento positivo: «Adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi (v. 15a). Il miglior antidoto nei confronti della paura consiste nel mantenere fermo il rapporto con Cristo. È soprattutto nei loro cuori che i credenti devono «adorare» (hagiazein, santificare) Cristo, riconoscendogli il compito di guida e maestro interiore. Così facendo essi daranno un senso alla loro vita, che si manifesterà in atteggiamenti di fiducia e di speranza. Vivendo in questo modo essi saranno preparati a dare una risposta convincente a coloro che, vedendo la loro speranza, pongono delle domande circa la sua origine. In altre parole, i cristiani non devono prendere l’iniziativa di dichiarare la loro fede: è sufficiente infatti che manifestino una speranza che susciti degli interrogativi, ai quali potranno rispondere indicandone l’origine nel messaggio evangelico. La testimonianza della vita deve dunque precedere quella verbale, che ha semplicemente la funzione di esplicitare ciò che in essa è implicito.
La risposta del cristiano alle domande che gli vengono fatte non deve però venir meno a precise esigenze di comportamento: «Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza, perché nel momento stesso in cui si parla male di voi rimangano svergognati quelli che malignano sulla vostra buona condotta in Cristo. È meglio infatti, se così vuole Dio, soffrire operando il bene che facendo il male» (vv. 15b-17). Un atteggiamento fatto di dolcezza (praütês, mitezza, non violenza), di rispetto (phobon, timore) e di «buona coscienza», cioè determinato da un’intenzione retta, senza secondi fini, è l’unico in grado di sconfessare quanti mettono in dubbio la rettitudine del loro comportamento «in Cristo», cioè della loro vita cristiana. È importante che alle parole corrispondano le opere, le quali soltanto sono veramente convincenti. Se poi, nonostante tutto, non si è capiti e si viene fatti oggetto di vessazioni, non bisogna sentirsi delusi perché, dovendo comunque soffrire, è meglio che ciò avvenga avendo fatto il bene piuttosto che il male.
Infine, nei momenti di difficoltà il cristiano deve sempre rifarsi all’esempio di Cristo: «Anche Cristo è morto una volta sola per i peccati, giusto per gli ingiusti, per ricondurvi a Dio; messo a morte nella carne, ma reso vivo nello spirito» (v. 18). L’efficacia della sofferenza di Cristo è vista nel fatto che egli è morto «una sola volta» (apax) «per i peccati» (peri hamartiôn), cioè a motivo dei peccati, che ha eliminato una volta per tutte. L’idea di fondo è quella del Servo di JHWH il quale, prendendo su di sé le conseguenze dei peccati del popolo, ha rotto la spirale della violenza rendendo possibile la riconciliazione del popolo. L’autore sottolinea che Cristo, accettando volontariamente la sua morte, ha dimostrato di essere un giusto in quanto ha operato «per» (hyper) gli ingiusti, cioè ha messo un argine alla loro ingiustizia. E per questo motivo è morto sì «nella carne», cioè nel suo corpo mortale, ma è stato vivo «nello spirito» (pneumati), cioè ha dimostrato di essere portatore della potenza stessa di Dio, al quale ha ricondotto l’umanità peccatrice.

Linee interpretative
Le direttive contenute in questo brano rivelano una situazione in cui i cristiani sono fatti oggetto di vessazioni, se non di aperte persecuzioni. La preoccupazione più grande dell’autore è quella di prevenire lo scoraggiamento che potrebbe minare la loro fede. Egli perciò raccomanda di mantenere vivo il rapporto interiore con Cristo, dal quale soltanto scaturisce quella speranza che consiste nel dare un significato alle scelte quotidiane della vita. Questo modo di reagire alla persecuzione non solo darà loro la possibilità di mantenersi fedeli a Cristo, ma susciterà delle domande nei loro avversari, alle quali essi dovranno saper rispondere in modo sincero e spontaneo, indicando qual è la sorgente della loro speranza, cioè la fede in Cristo.
L’autore si preoccupa anche che i cristiani non cadano in un’autodifesa arrogante e aggressiva, che li metterebbe sullo stesso piano dei loro avversari. Essi devono saper evitare ogni tipo di violenza, anche solo verbale. In loro non deve esserci alcun senso di rivalsa, anzi devono imparare da Cristo che, soffrendo senza avere fatto nulla di male, collaborano con lui nella sua lotta contro il peccato e aprono agli altri la via verso Dio. In questa prospettiva anche la sofferenza più grande, quella della morte, non è poi una disgrazia così terribile, perché riguarda, come per Cristo, soltanto il corpo fisico, mentre in realtà rappresenta una vittoria dello Spirito sul potere del male.

ATTI 2,14.22-33 COMMENTO

http://www.nicodemo.net/NN/ms_pop_vedi1.asp?ID_festa=37

ATTI 2,14.22-33 COMMENTO

Nel giorno di Pentecoste, 14 Pietro, levatosi in piedi con gli altri Undici, parlò a voce alta così:
22 « Uomini d’Israele, ascoltate queste parole: Gesù di Nazaret — uomo accreditato da Dio presso di voi per mezzo di miracoli, prodigi e segni, che Dio stesso operò fra di voi per opera sua, come voi ben sapete — 23 dopo che, secondo il prestabilito disegno e la prescienza di Dio, fu consegnato a voi, voi l’avete inchiodato sulla croce per mano di empi e l’avete ucciso.
24 Ma Dio lo ha risuscitato, sciogliendolo dalle angosce della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere. 25 Dice infatti Davide a suo riguardo: « Contemplavo sempre il Signore innanzi a me; poiché egli sta alla mia destra, perché io non vacilli. 26 Per questo si rallegrò il mio cuore ed esultò la mia lingua; ed anche la mia carne riposerà nella speranza, 27 perché tu non abbandonerai l’anima mia negli inferi, né permetterai che il tuo Santo veda la corruzione. 28 Mi hai fatto conoscere le vie della vita, mi colmerai di gioia con la tua presenza » .
29 Fratelli, mi sia lecito dirvi francamente, riguardo al patriarca Davide, che egli morì e fu sepolto e la sua tomba è ancora oggi fra noi. 30 Poiché però era profeta e sapeva che Dio gli aveva giurato solennemente di far sedere sul trono un suo discendente, 31 previde la risurrezione di Cristo e ne parlò: « questi non fu abbandonato negli ìnferi, né la sua carne vide corruzione ».
32 Questo Gesù, Dio l’ha risuscitato e noi tutti ne siamo testimoni. 33 Innalzato pertanto alla destra di Dio e dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo che egli aveva promesso, lo ha effuso, come voi stessi potete vedere e udire ».

COMMENTO
Atti 2,14.22-33
L’annunzio missionario di Pietro

La discesa dello Spirito santo sui discepoli rappresenta la cornice in cui Luca situa il primo dei discorsi kerygmatici di Pietro (2,14-41; cfr. 3,12-26; 4,8-12; 5,29-32; 10,34-43). Sebbene sia rivolto primariamente a un pubblico giudaico, esso assume, esattamente come quello pronunziato da Gesù a Nazareth (Lc 4,16-19), il ruolo di discorso programmatico, in cui sono fissati per sempre i contenuti dell’annunzio cristiano. La Pentecoste appare così come l’occasione in cui i discepoli di Gesù escono allo scoperto e danno inizio all’evangelizzazione di Gerusalemme.
Nell’introduzione (vv. 14-21) Pietro esordisce riferendosi ai fatti che hanno provocato l’assembramento della folla. Egli smentisce che gli apostoli siano ubriachi e spiega che quanto è accaduto non è altro che l’attuazione di ciò che era stato detto dal profeta Gioele (Gl 3,1-5a), il quale aveva preannunziato per la fine del mondo una grandiosa effusione dello Spirito. È significativo il fatto che la citazione di Gioele arrivi fino al v. 5a, dove la salvezza è presentata in chiave universalistica, mentre nella seconda parte del versetto viene limitata ai superstiti del popolo di Israele; inoltre si afferma che, per ottenerla, è necessario «invocare il nome del Signore». E di fatti al termine del discorso Pietro affermerà che la salvezza è offerta anche ai lontani e si ottiene mediante il battesimo nel nome di Gesù Cristo, il quale prenderà così il ruolo che in Gl 3,5a spetta al «Signore» (cfr. At 2,38-39).
Dopo questa introduzione, tralasciata nel testo liturgico, l’apostolo sviluppa cinque punti fondamentali del kerygma: vita terrena di Gesù (v. 22), la sua morte e risurrezione (vv. 23-24), argomentazione scritturistica (vv. 25-31), testimonianza apostolica (v. 32), esaltazione di Gesù (33-36).

Vita terrena di Gesù (v. 22)
Pietro inizia il corpo del discorso con un breve accenno all’esperienza storica di Gesù. A questo proposito egli ricorda solo le opere straordinarie che l’hanno caratterizzata. Queste vengono designate col termine «miracoli» (dynameis, potenze), spesso usato nei vangeli (cfr. Mc 6,2.5.14; Mt 7,22; 11,20-23; 13,54.58; 14,2) e con il binomio «prodigi (terata) e segni (sêmeia)». Questo binomio si trova nei vangeli solo in Gv 4,48 e in Mt 24,24; Mc 13,22: in questi ultimi due testi però si tratta dei miracoli compiuti dai falsi cristi e dai falsi profeti prima della parusia. Negli Atti invece è usato spesso per indicare le opere straordinarie compiute dai primi predicatori cristiani (At 2,43; 4,30; 5,12; 6,8; 14,3; 15,12). È chiaro dunque che per Luca i miracoli compiuti da Gesù sono all’origine di quelli della prima comunità cristiana.
I miracoli di Gesù sono presentati da Pietro come opere compiute da Dio stesso, il quale se ne è servito per mostrare che egli era da lui «accreditato» (apodedeigmenon), cioè per presentarlo come suo rappresentante presso gli uomini. Pietro non insiste ulteriormente sull’attività di Gesù durante la sua vita terrena perché suppone che essa sia conosciuta dai suoi ascoltatori. Maggiori dettagli sono contenuti nel discorso a Cornelio (At 10,36-38) il quale, essendo un gentile e vivendo lontano da Gerusalemme, non era forse del tutto al corrente della vita e dell’opera di Gesù.

Morte e risurrezione di Gesù (vv. 23-24)
Pietro passa poi immediatamente al ricordo della morte di Gesù (v. 23). Egli la presenta come un crimine di cui sono responsabili i suoi stessi ascoltatori, i quali lo hanno compiuto con la collaborazione di uomini empi, cioè dei romani. Si noti che Pietro non vuole addossare la responsabilità della morte di Gesù a tutti i giudei, ma solo agli abitanti di Gerusalemme, ai quali è rivolto il discorso (cfr. v. 14). L’apostolo sottolinea che la morte di Gesù non è stata qualcosa di imprevisto, ma è avvenuta in base ad un progetto prestabilito da Dio. Le ragioni di questa affermazione non sono indicate, ma il participio «consegnato» (ékdoton), con cui viene fatta allusione al tradimento di Giuda, sembra riferirsi a Is 53,12 e più generalmente ai carmi del Servo di JHWH. Alla luce di questi testi appare chiaro che Dio stesso ha voluto la morte di Gesù per esprimere l’amore infinito che lo spingeva a salvare uomini violenti e peccatori. Il fatto di essere stati inconsciamente strumenti del piano di Dio non esclude però la piena responsabilità degli abitanti di Gerusalemme.
Senza soffermarsi ulteriormente sulla morte di Gesù, Pietro passa immediatamente all’annunzio della sua risurrezione (v. 24). Egli si limita ad enunciare il fatto, spiegandolo con l’espressione «sciogliendolo dai dolori della morte». Questa espressione è presa dal Sal 18,6 dove il salmista esalta Dio poiché lo ha liberato «dai lacci dello Sheol», cioè dai pericolo di morte a cui era sottoposto; nei LXX si parla invece di «dolori dell’Ade». Ispirandosi a questa versione, Pietro legge nel salmo la liberazione non da un semplice pericolo di morte, ma da una morte già avvenuta. Egli prosegue affermando che «non era possibile» (ouch ên dynaton) che la morte tenesse Gesù in suo potere: Dio aveva infatti deciso in partenza che le cose andassero diversamente. Secondo la mentalità dei giudei, ai quali l’apostolo si rivolge, nulla ha valore salvifico se non è stato già voluto e preannunziato da Dio nelle sacre Scritture. Perciò Pietro, dopo aver fatto allusione al piano divino, passa a darne una più dettagliata illustrazione.

Argomentazione scritturistica (vv. 25-31)
Pietro interpreta la risurrezione di Gesù alla luce del Sal 16,8-11 (vv. 25-28). In esso il salmista, in un momento di grande pericolo, si dichiara sicuro che Dio non lo lascerà andare nel sepolcro e non gli lascerà vedere la fossa. Si tratta dunque della fiducia di sfuggire con l’aiuto di Dio un pericolo mortale. Ma la traduzione dei LXX sostituisce nei vv. 9-10 il termine «sicurezza» con «speranza», «sepolcro» con «Ade» e «fossa» con «corruzione», dando così l’impressione che il salmista parli della propria liberazione da una morte già avvenuta. In tal modo il testo, che Pietro legge appunto nella traduzione greca, può venire facilmente usato per indicare la risurrezione di Gesù.
Alla citazione biblica Pietro fa seguire il suo commento (vv. 29-30). Davide, ritenuto autore del salmo, è morto e ha visto la corruzione, come risulta dal fatto che esiste ancora la sua tomba. Egli perciò non poteva parlare di se stesso, ma doveva riferirsi ad un altro. Ora, in forza della profezia di Natan (2Sam 7,12 citato nella forma di Sal 132,11-12), Dio aveva promesso con giuramento a Davide che un suo lontano discendente si sarebbe seduto sul suo trono. Da ciò egli conclude che la Scrittura aveva preannunziato la risurrezione del Cristo (v. 31), il messia discendente di Davide, che per Pietro è chiaramente Gesù. Pietro lo afferma rileggendo in chiave cristologica la finale del salmo appena citato (Sal 16,10): questi (Cristo) non fu abbandonato negli inferi, né la sua carne (invece di «anima», per sottolineare la corporeità della risurrezione) «vide» (nuovamente al passato) la corruzione.
Questo modo di argomentare presuppone l’interpretazione messianica del Sal 16, che risulta solo in modo indiretto nella versione greca dei LXX e la convinzione che Gesù sia veramente il Cristo. Più che dare una vera prova biblica, Pietro rilegge il concetto di risurrezione in un testo che aveva originariamente un significato diverso, presentando così questo evento come il compimento del piano salvifico di Dio.

Testimonianza apostolica (v. 32)
Dopo aver dimostrato che la risurrezione di Gesù è stata preannunziata dalle Scritture, Pietro riprende l’affermazione iniziale (cfr. v. 24) e la convalida mediante la testimonianza sua e degli altri apostoli: «Questo Gesù, Dio lo ha risuscitato e noi tutti ne siamo testimoni» (v. 32). Questa testimonianza diretta è il vero argomento in favore della risurrezione (cfr. Lc 24,48; At 1,8.22; 3,15; 5,32 ecc.). Gli apostoli annunziano ciò che hanno visto e sperimentato. Avendo provato che ciò corrisponde al piano divino delineato nell’AT, Pietro è ora sicuro che nessuno potrà negare o mettere in questione la sua testimonianza.

Esaltazione di Gesù (vv. 33-36)
L’annunzio della morte e risurrezione di Gesù lascia ora il posto alla proclamazione della sua gloria attuale: «Innalzato pertanto alla destra di Dio e dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito santo che egli aveva promesso, lo ha effuso, come voi stessi potete vedere e udire» (v. 33). In questo versetto si intrecciano alcune importanti allusioni all’AT. Il participio «innalzato» (hypsôtheis) si rifà a Is 52,13, dove si parla dell’esaltazione del Servo di JHWH dopo la sua esperienza di dolore e di morte; con l’accenno al dono dello Spirito Pietro si rifà al testo di Gl 3,1-2, già citato all’inizio del discorso. L’espressione «alla destra (têi dexiâi) di Dio» allude, nel contesto specifico, a due testi biblici. Il primo è il Sal 68,19, dove si dice: «Sei salito in alto conducendo prigionieri, hai ricevuto uomini in tributo: anche i ribelli abiteranno presso il Signore Dio»; il secondo è il Sal 118,16 dove, in riferimento all’azione meravigliosa di Dio, si dice: «La destra del Signore si è innalzata»; ma i LXX traducono: «La destra del Signore mi ha esaltato». Alla luce di questo testo è probabile che secondo Luca Pietro volesse affermare che Gesù è stato esaltato, non «alla destra» ma «dalla destra» di Dio, perché potesse dare lo Spirito a quelli che credevano in lui.
La glorificazione di Gesù viene infine convalidata con un’ulteriore citazione: «Disse il Signore al mio signore: siedi alla mia destra, finché io ponga i tuoi nemici come sgabello ai tuoi piedi» (vv. 34-35 = Sal 110,1). In questo testo spesso utilizzato dai primi cristiani (cfr. per es. Mc 12,35-37 e par.), il salmista descrive l’intronizzazione del re di Giuda («il mio signore») come una partecipazione al potere regale di Dio («Signore» = JHWH), e vede in essa una garanzia di vittoria sui suoi nemici. Pietro applica questo brano alla glorificazione di Gesù, ricavandone una prova della sua sovranità universale e della vittoria sulle potenze avverse a Dio, prolungata nella storia mediante l’opera dei suoi discepoli. Il discorso termina con un invito a tutta la casa di Israele perché riconosca che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che essi hanno crocifisso (v. 36).

Linee interpretative
L’annunzio di Pietro prende le mosse dalla vita terrena di Gesù e dalla sua predicazione, mettendo però al primo posto l’evento della sua morte e risurrezione, convalidato quest’ultima dalla testimonianza degli apostoli e dalla prova scritturistica. La lunghezza del discorso e il contesto in cui è posto mostra chiaramente che Luca ha voluto presentarlo come la sintesi più completa della fede cristiana, come il messaggio che sta alla base dell’annunzio evangelico in tutte le generazioni e in tutti i popoli. La chiesa è legata per sempre non solo ai contenuti, ma anche alla forma di questo discorso. Essa è tenuta ad annunziare non un sistema filosofico o teologico, ma un insieme di eventi che hanno operato e ancora operano per la salvezza di tutto l’uomo e di tutti gli uomini.
Nelle parole di Pietro la preoccupazioni fondamentale è quella di affermare la continuità della fede cristiana con l’esperienza storico-salvifica del popolo di Israele. I testi biblici che sono citati a questo scopo non hanno quel carattere probativo che Pietro attribuisce loro. Egli infatti non ha timore di rileggere un’idea, che sente in sintonia con tutto il messaggio dell’AT, in un testo particolare, attribuendogli un significato che originariamente non aveva. Questo procedimento era largamente diffuso nel mondo giudaico, per il quale la Bibbia era un testo vivo, che bisogna rileggere continuamente in funzione delle nuove situazioni in cui la comunità viene a trovarsi (midrash). Per i primi cristiani ciò risultava più facile in quanto la traduzione greca della Bibbia, detta dei Settanta (LXX), da essi comunemente utilizzata, rifletteva già una mentalità più evoluta e sensibile ai temi che costituivano il fondamento dell’annunzio evangelico. Per Luca il collegamento con le sue radici giudaiche è dunque essenziale per capire e annunziare il vangelo. L’esperienza di duemila anni ha dimostrato come la perdita di questo aggancio abbia portato a volte la teologia cristiana sulla via di grossi malintesi che ancora oggi pesano sulla comprensione e sull’annunzio del vangelo.
Il discorso programmatico di Pietro, così profondamente radicato nel mondo biblico-giudaico, è chiaramente rivolto a un pubblico giudaico. Ciò non è per nulla casuale. Luca infati vuole sottolineare che il vangelo, la buona notizia del regno, che scaturisce dall’esperienza religiosa di Israele, è rivolto in primo luogo a questo popolo che ha tutti i numeri per capirlo e accoglierlo. Ciò non valeva soltanto per la chiesa delle origini, ma è valido anche oggi. Il confronto con Israele, anche se non tutto questo popolo ha accettato Gesù come il messia promesso dai profeti, resta essenziale per la comprensione che la chiesa ha di se stessa e del proprio ruolo nel mondo. In altre parole una chiesa che non verifica continuamente il suo messaggio, pur nell’ottica di Cristo, sull’esperienza religiosa di Israele, deve dubitare fortemente della sua autenticità: per questo le Scritture di Israele sono anche le Scritture cristiane. Volente o nolente, la chiesa non può fare a meno di Israele, che resta nei secoli la pietra di paragone dell’esistenza cristiana e della sua fedeltà al rabbi di Nazareth, riconosciuto e proclamato come Messia dai suoi discepoli.

LA LETTERA AI ROMANI – COMMENTO SU 8,1-11

http://proposta.dehoniani.it/txt/romani.html

LA LETTERA AI ROMANI – COMMENTO SU 8,1-11

(Pedron Lino)

8) Il dono dello Spirito (8,1-11).

1Non c’è dunque più nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù. 2Poiché la legge dello Spirito che dà vita in Cristo Gesù ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte. 3Infatti ciò che era impossibile alla legge, perché la carne la rendeva impotente, Dio lo ha reso possibile: mandando il proprio Figlio in una carne simile a quella del peccato e in vista del peccato, egli ha condannato il peccato nella carne, 4perché la giustizia della legge si adempisse in noi, che non camminiamo secondo la carne ma secondo lo Spirito.
5Quelli infatti che vivono secondo la carne, pensano alle cose della carne; quelli invece che vivono secondo lo Spirito, alle cose dello Spirito. 6Ma i desideri della carne portano alla morte, mentre i desideri dello Spirito portano alla vita e alla pace. 7Infatti i desideri della carne sono in rivolta contro Dio, perché non si sottomettono alla sua legge e neanche lo potrebbero. 8Quelli che vivono secondo la carne non possono piacere a Dio.
9Voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene. 10E se Cristo è in voi, il vostro corpo è morto a causa del peccato, ma lo spirito è vita a causa della giustificazione. 11E se lo Spirito di colui che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi.

Il Cap. 8 è dominato totalmente dal pensiero dello Spirito (O. Kuss).
Il contenuto di questo capitolo rappresenta il vertice e la controparte del Cap. 7.
V. 1 – Paolo afferma anzitutto che ora non c’è più nessuna condanna per coloro che sono in Cristo Gesù. La nuova condizione dell’umanità, il nuovo modo di essere del cristiano (in Cristo Gesù!) sono la conseguenza di quella giustizia di Dio manifestatasi in Gesù Cristo e che è accessibile mediante la fede e il battesimo. Nella sfera del Cristo, nell’ambito della sua potestà salvifica, ora non vi è più alcuna condanna.
V. 2 – Non vi è alcuna condanna per coloro che vivono in Cristo Gesù, perché lo Spirito ci ha liberati dal peccato e dalla morte. Lo Spirito ci ha liberati dall’ordinamento del peccato stabilito in noi dalle due potenze che ci dominavano: il peccato e la morte. Il nuovo regime instaurato dallo Spirito della vita ha sostituito e abrogato il regime del peccato e della morte.
V. 3 – In questi primi tre versetti abbiamo i seguenti enunciati: ora non vi è più nessuna condanna per coloro che sono in Cristo Gesù perché lo Spirito ci ha liberati dal regime del peccato e della morte. Infatti Dio ha mandato il Figlio suo per condannare il peccato nella carne. La condanna di questa potenza del peccato da parte di Dio è avvenuta nella carne, cioè nell’ambito in cui essa regna. La potenza del peccato è stata colpita là dove ha sede, cioè nell’esistenza carnale decaduta e asservita a quella potenza. Nelle sue pretese e nelle sue brame, nelle sue tensioni e nei suoi trascendimenti la carne ha sempre di mira se stessa, è rivolta alla autosoddisfazione: si tratta dell’egoismo di ogni specie, quello materiale e sensibile e ancor più quello spirituale che si esplica soprattutto nell’assolvimento della legge con opere che dovrebbero garantirci e promuoverci al cospetto di Dio mediante la nostra giustizia (Rm 10,3; Fil 3,3 ss.) o anche nella fiduciosa sicurezza di appartenere alla progenie del popolo di Dio (Fil 3,3 ss.), nel vanto e nell’autoedificazione attinta dalla sapienza o dai carismi (1Cor 1,26; 2Cor 11,18; ecc.). In quanto tale, la carne tende alla morte (Rm 8,26).
Infatti essa è, in tutto il suo atteggiamento, ostile a Dio e ribelle alla norma stabilita da lui. Della carne il peccato si serve in tutto e per tutto come di suo strumento; in lei dimora il peccato per dominarla. È proprio su questa potenza del peccato, che dimora e agisce nella carne, che si è abbattuta ora la condanna di Dio. Tale condanna, che colpisce il peccato dimorante nella carne e che risparmia la dannazione a quelli che sono in Cristo Gesù, si è attuata col fatto che Dio ha inviato il Figlio suo nella carne. Il modo in cui Dio ha condannato il peccato nella carne è stato l’invio del Figlio suo nella carne.
Lo spodestamento della potenza del peccato, compiuto da Dio mediante suo Figlio, viene contrapposto all’impotenza della legge: quanto alla legge era impossibile fare, Dio l’ha fatto per mezzo di suo Figlio. La legge, incapace di annientare il peccato, non era debole in se stessa, ma a motivo della carne. La carne, in quanto realtà dominata dal peccato, rende la legge così debole perché la intende come un incitamento all’egoismo di ogni sorta (Rm 7,7 ss.; Gal 2,16; ecc.). La debolezza per cui la legge non procura la salvezza, ma è addirittura una maledizione, si deve alla carne, alla condizione carnale dell’uomo, dominata dal peccato. La legge, che è in sé santa, giusta e buona, suscita, mediante la carne, l’egoismo e la ricerca di una autoedificazione nell’ingiustizia o nella propria giustizia, ossia nei peccati o nelle opere buone fatte per la propria gloria.
V. 4 – Mediante il Figlio suo, Dio ha condannato la potenza del peccato, affinché noi potessimo compiere gli atti di giustizia richiesti dalla legge e così facessimo la giusta volontà di Dio da cui dipende la nostra vita. La potenza del peccato è stata infranta da questo intervento di Dio in Gesù Cristo. E il fine di ciò era che la giusta volontà di Dio venisse di nuovo osservata da noi.
Ora noi, nella fede in virtù dello Spirito santo, e quindi liberi dall’egoistico attaccamento a noi stessi, liberi di attaccarci solo a Dio, pratichiamo o vogliamo praticare la legge.
Il camminare è vocabolo frequente negli scritti di Paolo e indica una certa condotta di vita. I cristiani non impostano la loro vita secondo le inclinazioni e le pretese della carne, ma assumono come norma di vita, lo Spirito.
Vv. 5 – 8 – La carne è ciò a cui tende l’uomo per sua natura. Essa fa sì che l’uomo prenda le sue parti, partecipi alle sue aspirazioni e pensi al modo suo. Ma un discorso analogo può farsi anche per coloro che vivono sotto il potere dello Spirito, ossia per coloro che sono in Cristo Gesù.
Essi prendono partito a favore dello Spirito e dei suoi doni, e ciò si rivela nel frutto dello Spirito di cui si parla, ad esempio, in Gal 5,22-23. Ma se è vero che coloro che recano l’impronta della carne fanno gli interessi della carne e coloro che vivono nello Spirito sostengono la causa dello Spirito, ne consegue che gli scopi degli uni e degli altri e i risultati a cui approdano sono del tutto contrari. Infatti le aspirazioni della carne conducono alla morte, quelle dello Spirito alla vita e alla pace. La carne porta alla morte perché non si sottomette a Dio e alla legge in cui si esprime la sua volontà dispensatrice di vita. E non è disobbediente solo di fatto, ma per sua natura, in quanto dominata dalla potenza del peccato, in quanto venduta in potere del peccato di Adamo (7,14). Coloro che sono nella carne non possono piacere a Dio. Ma ciò significa la morte.
V. 9 – Voi però non siete nella carne, ma nello Spirito. Paolo si rivolge ai suoi lettori applicando a loro ciò che sta scrivendo. Il tempo in cui i cristiani conducevano la loro vita secondo la carne è passato. Ora vivono nello Spirito. Lo Spirito dimora in loro per mezzo del battesimo. Lo Spirito si è impossessato di loro, si è appropriato della loro esistenza. Essi quindi vivono nell’ambito, sotto il dominio dello Spirito. Il nostro essere nello Spirito è il suo essere in noi, e viceversa.
L’inabitazione dello Spirito in noi coincide con la nostra inabitazione nello Spirito. Lo Spirito di Cristo, che è lo Spirito di Dio, ci fa sperimentare Cristo come nostro Signore. Noi siamo sua proprietà.
V. 10 – Se Cristo (mediante il suo Spirito) abita in noi, ne consegue che:
1. il corpo è morto per quanto concerne il peccato. Se Cristo abita in noi, la nostra realtà di uomini ribelli a Dio è morta per effetto del battesimo che l’ha distrutta.
2. Invece lo Spirito è vita che fa sorgere in noi la giustizia di Dio, quella che è presente in lui. Lo Spirito è vita eterna e con ciò e in ciò è giustizia.
V. 11 – Se lo Spirito è vita, tale si manifesterà anche in noi, cioè nella risurrezione dai morti. Lo Spirito viene qui chiamato e definito come la potenza che Dio ha dimostrato nella risurrezione di Gesù Cristo. Questo Spirito si è impossessato di noi e noi siamo nella sfera della sua potenza. Di questo Spirito, che già si è rivelato in Cristo come Spirito della vita, noi facciamo la norma della nostra vita. Il nostro corpo, tramite il battesimo, per l’inabitazione dello Spirito, è sottratto al peccato e alla morte. Di questo corpo si prende cura lo Spirito che dà la vita che già ci ha concesso la vita di Dio nella forma della giustificazione. Lo Spirito – se rimane in noi e ci lasciamo guidare da lui – concederà anche la vita escatologica ai nostri corpi mortali.

 

EZECHIELE 37,12-14 – LA RISURREZIONE DI UN POPOLO

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EZECHIELE 37,12-14 – LA RISURREZIONE DI UN POPOLO

12 Così dice il Signore Dio: Ecco, io apro i vostri sepolcri, vi risuscito dalle vostre tombe, o popolo mio, e vi riconduco nel paese d’Israele. 13 Riconoscerete che io sono il Signore, quando aprirò le vostre tombe e vi risusciterò dai vostri sepolcri, o popolo mio.
14 Farò entrare in voi il mio spirito e rivivrete; vi farò riposare nel vostro paese; saprete che io sono il Signore. L’ho detto e lo farò.

COMMENTO
Ezechiele 37,12-14

La risurrezione di un popolo
Il libro di Ezechiele contiene due raccolte di oracoli, quelli composti prima della caduta di Gerusalemme (cc. 1-24) e quelli posteriori ad essa (cc. 33-39). Tra queste due raccolte si situano gli oracoli contro le nazioni (cc. 25-32). Al termine viene posta una sezione chiamata «Torah di Ezechiele» (cc. 40-48), dove sono descritte le istituzioni future. Gli oracoli posteriori alla caduta di Gerusalemme hanno come tema la conversione e il ritorno degli esuli nella loro terra. I temi svolti in questa raccolta sono i seguenti: il ruolo del profeta (Ez 33), JHWH unico pastore di Israele (Ez 34), la rinascita del popolo (Ez 35-37), la vittoria finale sui suoi nemici (Ez 38-39). Nella sezione in cui si parla della rinascita di Israele, questa viene presentata come effetto di un dono dello Spirito (Ez 36,24-32), al quale viene poi attribuita la risurrezione di un popolo ridotto a una distesa di ossa inaridite (Ez 37,1-10). Il brano liturgico rappresenta la conclusione di quest’ultimo testo, di cui spiega il significato.
In 37,1-10 Ezechiele descrive una distesa immensa di ossa disseccate, sulle quali egli, per comando divino, invoca la venuta dello Spirito. Allora le ossa si rivestono di carne e di nervi e ritornano ad essere un esercito sterminato. Al termine della descrizione JHWH parla a Ezechiele e gli spiega che tutte le ossa che ha visto rappresentano gli israeliti in quanto essi vanno dicendo: «Le nostre ossa sono inaridite, la nostra speranza è svanita, noi siamo e perduti» (v. 11). È questo un grido di disperazione che sale da una popolazione che nell’esilio ha perso la sua identità e si è dispersa in mezzo a nazioni straniere. Da questa sconsolate constatazione ha preso origine l’immagine delle ossa disseccate che ritornano a essere persone vive. Adesso JHWH spiega, per bocca del profeta, come questa visione si applichi alla situazione futura del popolo.
L’interpretazione della visione viene fatta mediante una promessa di liberazione: «Ecco, io apro i vostri sepolcri, vi risuscito dalle vostre tombe, o popolo mio, e vi riconduco nel paese di Israele» (v. 12). L’immagine della distesa di ossa inaridite lascia qui il posto a quella di un grande cimitero con una moltitudine di tombe in cui sono sepolti gli israeliti. Questa immagine supplementare richiama lo she’ol, il regno dei morti, nel quale il popolo è precipitato. Da esso ora JHWH lo fa risalire per condurlo nella terra di Israele. Con questa espressione si evoca l’uscita dall’Egitto, che rappresenta il prototipo di ogni liberazione, e il successivo ingresso nella terra promessa. In altre parole Dio promette un nuovo esodo che, dopo la catastrofe dell’esilio, assume i connotati di una risurrezione.
La liberazione dall’esilio comporterà una nuova presa di coscienza da parte del popolo: «Riconoscerete che io sono il Signore, quando aprirò le vostre tombe e vi risusciterò dai vostri sepolcri, o popolo mio» (v. 13). Il nuovo intervento di JHWH farà sì che il popolo lo conosca. Il verbo «conoscere» non indica qui, come in genere nel linguaggio biblico, una conoscenza puramente teorica e astratta, ma un nuovo rapporto amicizia basato sul compimento della volontà di JHWH contenuta nella sua legge. Si attua così quanto era stato promesso da Geremia nella profezia della nuova alleanza: «… tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande» (cfr. Ger 31,34).
La promessa viene poi ripetuta secondo il linguaggio tipico di Ezechiele: «Farò entrare in voi il mio Spirito e rivivrete; vi farò riposare nel vostro paese; saprete che io sono il Signore. L’ho detto e lo farò. Oracolo del Signore Dio» (v. 14). Il dono dello Spirito, già preannunziato in 36,27, rappresenterà una dotazione stabile per Israele che, in forza del suo influsso vivificante, ricomincierà a vivere in modo pieno. Dio lo «farà riposare» nel suo paese, come aveva fatto riposare Adamo nel giardino dell’Eden (cfr. Gn 2,15). È in forza di questa esperienza che gli israeliti «sapranno» (sperimenteranno) che «Io (sono) il Signore» il quale realizza quello che ha promesso: come garanzia del suo intervento Dio dà il suo nome, JHWH, che significa la sua presenza costante accanto al popolo per salvarlo (cfr. Es 3,14). In forza del suo nome JHWH non potrà non realizzare le sue promesse.

Linee interpretative
In questo testo Ezechiele si serve del linguaggio della risurrezione per spiegare la liberazione del popolo dall’esilio. Non si tratta certo di una risurrezione in senso proprio, ma del ritorno a una vita piena dopo l’esperienza di una sofferenza che a buon diritto è considerata come una morte. Senza libertà la vita non è degna di essere vissuta. La liberazione promessa è un dono gratuito di Dio, che ha certo una componente politica, ma in ultima analisi si identifica con la ripresa di un rapporto con JHWH che comporta una fedeltà costante a lui. È proprio nel riconoscere in Dio il garante della sua liberazione che il popolo eviterà di cadere schiavo di potenze straniere, anche quando sarà politicamente sottomesso ad esse.
Pur non riferendosi alla risurrezione individuale dopo la morte, l’immagine usata da Ezechiele ha posto le premesse per il successivo sviluppo della fede di Israele. Quando la restaurazione del popolo apparirà come un evento che si attuerà alla fine dei tempi, sorgerà il problema del destino di coloro che sono morti prima che questo evento si realizzasse, e soprattutto dei martiri che hanno dato la vita perché si attuasse la gloria finale del popolo. È allora che l’immagine della risurrezione sarà utilizzata per indicare la partecipazione di tutti i defunti alla beatitudine finale di Israele. Alla fine tutti i giusti torneranno in vita per entrare nella beatitudine del regno di Dio.

BRANO BIBLICO SCELTO – 1 SAMUELE 16,1B.4.6-7.10-13A

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BRANO BIBLICO SCELTO

1 SAMUELE 16,1B.4.6-7.10-13A

In quei giorni, il Signore disse a Samuele: 1 « Riempi di olio il tuo corno e parti. Ti ordino di andare da lesse il Betlemmita, perché tra i suoi figli mi sono scelto un re ». 4 Samuele fece quello che il Signore gli aveva comandato. 6 Quando Iesse e i suoi figli gli furono davanti, egli osservò Eliàb e chiese: « È forse davanti al Signore il suo consacrato? ».
7 Signore rispose a Samuele: « Non guardare al suo aspetto né all’imponenza della sua statura. Io l’ho scartato, perché io non guardo ciò che guarda l’uomo. L’uomo guarda l’apparenza, il Signore guarda il cuore ». 10 Iesse presentò a Samuele i suoi sette figli e Samuele ripeté a Iesse: « Il Signore non ha scelto nessuno di questi ».
11Samuele chiese a lesse: « Sono qui tutti i giovani? ». Rispose Iesse: « Rimane ancora il più piccolo che ora sta a pascolare il gregge ». Samuele ordinò a lesse: « Manda a prenderlo, perché non ci metteremo a tavola prima che egli sia venuto qui ». 12 Lo mandò a chiamare e lo fece venire. Era fulvo, con begli occhi e gentile di aspetto.
Disse il Signore: « Alzati e ungilo: è lui! ». 13 Samuele prese il corno dell’olio e lo consacrò con l’unzione in mezzo ai suoi fratelli, e lo spirito del Signore si posò su Davide da quel giorno in poi.

COMMENTO
1 Samuele 16,1-13
Unzione di Davide

Il primo libro di Samuele si può dividere in tre grandi parti. La prima consiste nel ciclo che ha come protagonista Samuele, il personaggio dal quale lo scritto prende nome (1Sam 1-7); nella seconda parte (1Sam 8-15) si narra l’introduzione della monarchia, con la quale è strettamente collegata la storia del primo re, Saul. La terza parte del libro (1Sam 16-31; 2Sam 1) racconta le vicende che hanno portato Davide sul trono di Giuda e di Israele. Questa parte ha inizio con l’unzione di Davide come re successore di Saul, ormai rifiutato da Dio (1Sam 16,1-13). La liturgia propone questo brano con qualche taglio che lo rende più breve e scorrevole.
Il Signore dice a Samuele di non preoccuparsi più di Saul e gli ordina di riempire d’olio il suo corno e di recarsi da un certo Iesse, residente a Betlemme, per ungere come re uno dei suoi figli (v. 1). In questo contesto Iesse è un personaggio sconosciuto, che nel libro di Rut è presentato come un discendente di Giuda, figlio di Obed e padre di Davide (Rt 4,17-22; cfr. Is 11,1.10). Di fronte a questo ordine Samuele è perplesso perché teme che Saul si insospettisca e lo uccida. Dio allora gli suggerisce di prendere occasione da un sacrificio per presentarsi a Betlemme e incontrare la famiglia di Iesse; Dio stesso si incaricherà di fargli conoscere chi è colui che dovrà ungere come re.
Samuele fa quello che il Signore gli aveva comandato e va a Betlemme; gli anziani della città gli vengono incontro trepidanti e gli chiedono: «È pacifica la tua venuta?» (v. 4). La domanda degli anziani presuppone che il profeta possa portare l’annunzio non solo di qualche evento favorevole (shalom, pace) ma anche di qualche sventura che si sarebbe abbattuta sulla popolazione. Samuele li rassicura e dice che è venuto per un sacrificio, al quale invita anche Iesse e i suoi figli (v. 5).
Inizia qui la procedura per scoprire quale dei giovani sia stato scelto da Dio. Il primo, Eliab, ha tutte le caratteristiche che, umanamente parlando, dovrebbero essere proprie di un re (v. 6). Samuele pensa subito che si tratti della persona scelta da Dio, ma questi lo smentisce con queste parole: «Non guardare al suo aspetto né alla sua alta statura. Io l’ho scartato, perché non conta quel che vede l’uomo: infatti l’uomo vede l’apparenza, ma il Signore vede il cuore» (v. 7). Si suppone che il giovane fosse di bel aspetto e di alta statura, ma queste caratteristiche non sono tali da farne l’eletto di Dio. Il criterio della scelta divina sembra qui in contrasto con quello adottato per Saul, il quale era un uomo di alta statura (1Sam 10,23-24) e un valoroso soldato (9,2): si può supporre che siano state proprio le sue eccellenti caratteristiche a farlo inorgoglire a causarne la caduta. Ora Dio prende invece come criterio della sua scelta il cuore dell’uomo. È dal cuore che provengono le scelte e le decisioni fondamentali della vita: per questo l’israelita deve amare Dio con tutto il cuore (Dt 6,5). Solo Dio, che conosce il cuore dell’uomo (cfr. Gb 10,4; Sal 147,10-11; Pr 15,11; Ger 11,20), potrà indicare chi è l’eletto.
Viene poi presentato a Samuele il secondogenito, poi il terzogenito, ma ambedue sono scartati (vv. 8-9). Lo stesso si verifica anche per gli altri fratelli (v. 10). Samuele chiede allora a Iesse: «Sono qui tutti i giovani?». Iesse risponde: «Rimane ancora il più piccolo, che ora sta a pascolare il gregge». Sembra che per Iesse questo ragazzino non sia neppure da prendere in considerazione. Ma Samuele gli dice: «Manda a prenderlo, perché non ci metteremo a tavola prima che egli sia venuto qui» (v. 11). Egli lo manda a chiamare, e il narratore lo descrive così: «Era fulvo, con begli occhi e bello di aspetto». Allora il Signore dice a Samuele: «Alzati e ungilo: è lui!». Il racconto termina così: «Samuele prese il corno dell’olio e lo unse in mezzo ai suoi fratelli, e lo Spirito del Signore irruppe su Davide da quel giorno in poi. Samuele si alzò e andò a Rama» (vv. 12-13). L’unzione era il rito con il quale venivano intronizzati i re di Israele. In forza dell’unzione il re riceveva l’appellativo di «Messia», unto, in greco Christos, appellativo che dopo l’esilio sarà riservato al re degli ultimi tempi. Lo Spirito era una prerogativa dei Giudici (cfr. Gdc 3,10) e del primo re Saul (cfr. 1Sam 10,6), ma in questi casi si trattava di una presenza solo temporanea. Ora invece Davide riceve il dono della Spirito in modo continuativo in quanto per tutta la sua vita godrà del favore di JHWH.

Linee interpretative
L’unzione ufficiale di Davide come re di Giuda e poi di tutto Israele avverrà successivamente (2Sam 2,4; 5,3). Questo racconto, che con ogni probabilità risale alla redazione finale del libro, ha invece lo scopo di mettere tutta la vicenda di Davide sotto il segno dell’elezione divina. Ciò era particolarmente importante per un personaggio che si è fatto avanti in contrasto con il re legittimo e poteva essere considerato come un usurpatore. Ciò che egli compirà in seguito, anche se poco raccomandabile dal punto di vista della morale jahwista, apparirà quindi come parte di un piano provvidenziale in forza del quale egli sarà il capostipite della dinastia regale di Giuda e il progenitore del Messia.
Spesso si trova nella Bibbia, soprattutto nei racconti riguardanti i patriarchi, l’idea secondo cui Dio antepone il secondogenito al primogenito, capovolgendo così i criteri umani che riservavano al primogenito particolari privilegi. Davide invece non viene scelto perché è l’ultimogenito, ma perché il suo cuore è fedele a Dio. Egli infatti sarà qualificato come colui che è stato fedele a Dio con tutto il cuore (cfr. 1Re 3,6; 14,8; 15,3). Egli dunque rappresenta un ideale di sovrano che in seguito non ha trovato imitatori, se non in qualche misura Ezechia e Giosia. Per la sua fedeltà a Dio, Davide diventa figura del Messia, cioè dell’Unto di Dio che sarà inviato negli ultimi tempi per portare la salvezza definitiva al suo popolo.

COMMENTO ROMANI 5,1-2.5-8

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COMMENTO ROMANI 5,1-2.5-8

1 Fratelli, giustificati per la fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo; 2 per suo mezzo abbiamo anche ottenuto, mediante la fede, di accedere a questa grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo nella speranza della gloria di Dio. 5 La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito santo che ci è stato dato.
6 Infatti, mentre noi eravamo ancora peccatori, Cristo morì per gli empi nel tempo stabilito. 7 Ora, a stento si trova chi sia disposto a morire per un giusto; forse ci può essere chi ha il coraggio di morire per una persona dabbene. 8 Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi.

COMMENTO
Romani 5,1-11
La speranza cristiana
L’appartenenza Rm 5 alla prima parte della lettera (cc. 1-4), in cui si tratta il grande tema della giustificazione mediante la fede, è molto probabile. Sembra infatti che l’apostolo porti qui a termine il discorso riguardante appunto la giustificazione, riservando ai capitoli seguenti la soluzione di alcuni problemi che questa dottrina solleva. In Rm 5,1-11 l’apostolo mette in luce la prospettiva escatologica della giustificazione, mentre nei versetti successivi tratta il tema della vittoria sul peccato che essa comporta. Nella prima parte del capitolo egli sostiene anzitutto che di fronte alle dolorose tribolazioni della vita il credente è sostenuto oltre che dalla fede, anche dalla speranza e dall’amore (vv. 1-5). In un secondo momento mostra come l’esperienza attuale della riconciliazione con Dio sia garanzia della salvezza finale (vv. 6-11).
Le tre virtù “teologali” (vv. 1-5)
La giustificazione mediante la fede non è una semplice teoria, ma ha un profondo impatto nella vita di coloro che l’hanno ottenuta: «Giustificati dunque per la fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo» (v. 1). La frase inizia con il participio aoristo passivo «giustificati» (dikaiôthentes), con cui si indica chiaramente un evento avvenuto nel passato e ormai acquisito: per i destinatari della lettera, così come per lo stesso Paolo, la giustificazione mediante la fede rappresenta ormai un dato di fatto che ha cambiato radicalmente la loro vita. Egli prosegue perciò affermando che ormai «siamo in pace» (eirênên echomen, abbiamo pace) nei confronti di (pros) Dio. Questa frase potrebbe anche essere intesa come un’esortazione: ma da tutto il contesto risulta che con essa si vuole semplicemente sottolineare la nuova realtà che si è verificata nel credente.
Il termine «pace» indica l’esatto opposto della situazione che precede la giustificazione, quella cioè caratterizzata dalla manifestazione dell’ira di Dio. Nel linguaggio biblico la pace rappresenta un’armonia profonda dell’uomo con Dio, che comporta la pienezza di tutti i beni materiali e spirituali. Alla fine dei tempi il pellegrinaggio di tutti i popoli al monte del tempio del Signore alla ricerca della parola di JHWH comporterà l’eliminazione della guerra e una pace universale (Is 2,2-5). Questa pace viene presentata come opera di un discendente di Davide, il quale verrà a consolidare e rafforzare il regno con il diritto e la giustizia (Is 9,5-6). Non solo l’umanità, ma anche tutto il cosmo sarà coinvolto in essa (Is 11,6). Infine è significativo che la pace, strettamente collegata con la giustizia, sia presentata come un dono dello Spirito (Is 32,15-17). Per l’apostolo questa pace è il dono più grande di Cristo.
La pace che i credenti hanno ottenuto porta con sé altri doni: «Per suo mezzo abbiamo anche ottenuto, mediante la fede, di accedere a questa grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo nella speranza della gloria di Dio» (v. 2). La grazia (charis) a cui hanno accesso i credenti è Dio stesso in quanto si è donato pienamente a loro in Cristo. A differenza di quanto accadeva al sommo sacerdote, il quale solo una volta all’anno poteva venire a contatto con Dio quando entrava nel Santo dei santi in occasione della festa dell’Espiazione (Kippur), essi sono sempre al cospetto di Dio. La giustificazione, è vero, non ha ancora conferito il pieno possesso di quella «gloria di Dio», di cui l’umanità era stata privata a causa dei suoi peccati (cfr. Rm 3,23), ma dà la «speranza» (elpis) di poterla conseguire un giorno. Di questa speranza possono «vantarsi» (kauchaomai), perché si tratta di un dono di Dio, mentre non possono vantarsi delle opere della legge intese come mezzo per diventare giusti (cfr. 3,27; 4,2). Il «già» e il «non ancora» caratterizzano dunque l’esistenza terrena del credente.

Il credente si vanta non solo della sua speranza, ma anche di realtà che solitamente non sono collegate con essa: «E non soltanto questo: noi ci vantiamo anche nelle tribolazioni, ben sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza» (vv. 3-4). Paolo si riferisce alle «tribolazioni» (thlipseis) della vita, che ora non sono più ostacoli da evitare, ma momenti di crescita e di maturazione nella fede. La tribolazione volontariamente accettata produce infatti la «pazienza» (ypomonê), cioè la capacità di resistere coraggiosamente ai colpi destabilizzanti della prova; questa pazienza si trasforma in una «virtù provata» (dokimê), la quale non è altro che la capacità ormai consolidata di far fronte alle difficoltà della vita, senza perdere l’orientamento verso la meta finale. Da questa virtù provata, o meglio in sintonia con essa, si sviluppa una «speranza» ancora più forte. Il venir meno dei puntelli umani fa sì che il credente riponga sempre più la sua speranza in Dio.
La speranza comporta ulteriori sviluppi nella vita del credente: «La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (v. 5). La speranza non può deludere perché non si limita a provocare l’attesa delle realtà future, ma ne dà un’esperienza anticipata mediante l’esercizio dell’«amore» (agapê) che lo Spirito santo «riversa» (ekcheô) nei loro cuori. Nella Bibbia l’amore è anzitutto un attributo di Dio in forza del quale egli sceglie Israele come suo popolo, liberandolo dai suoi nemici e introducendolo nella terra promessa (cfr. Os 11,1; Dt 7,7-8); in forza dell’alleanza Dio esige che Israele lo ami con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze (Dt 6,5), lasciandosi così coinvolgere pienamente nel suo progetto di salvezza (clausola fondamentale). Ciò comporta che ogni israelita sia disposto ad «amare il prossimo suo come se stesso» (Lv 19,18), osservando i comandamenti del decalogo che riguardano la pratica della giustizia nei rapporti vicendevoli.
Ma siccome il cuore degli israeliti si è indurito, diventando incapace di amare, Dio promette di intervenire su di esso per trasformarlo e rinnovarlo. Secondo le profezie escatologiche Dio scriverà su di esso la sua legge (Ger 31,33), sostituirà il cuore di pietra con un cuore di carne e porrà dentro di esso il suo Spirito affinché possano osservare le sue leggi (Ez 36,27); infine applicherà sul loro cuore il segno della circoncisione affinché possano amare il loro Dio (Dt 30,6). L’apostolo si serve di queste profezie, fondendo insieme soprattutto Ez 36,27 e Dt 30,6, per delineare una prerogativa essenziale dei credenti. L’«amore di Dio» che lo Spirito Santo effonde nei cuori è l’amore con cui Dio ama, operando nel cuore del credente la risposta dell’amore, che necessariamente avrà come termine Dio stesso e il prossimo. In questo brano l’espressione «amore di Dio» è dunque molto ricca, perché indica un amore che, una volta donato e ricevuto, non può che diventare il principio di una vita vissuta nell’amore. Il ruolo che in questo processo compete allo Spirito verrà illustrato successivamente (cfr. 8,1-27).

La riconciliazione (vv. 6-11)
Nella seconda parte del brano Paolo esordisce richiamando ai romani l’opera compiuta da Cristo per i credenti: «Infatti, mentre noi eravamo ancora peccatori, Cristo morì per gli empi nel tempo stabilito. » (v. 6). Cristo dunque è morto per persone che non meritavano nulla. Essi infatti erano «peccatori» (astheneis, deboli): con questo termine egli indica qui non i fratelli ancora legati all’osservanza delle norme rituali giudaiche (cfr. Rm 14,2), ma coloro che sono sotto il dominio del peccato. Essi erano non solo deboli, ma anche «empi» (asebeis), cioè privi di un rapporto vitale con Dio. Ma proprio per essi Cristo morì nel tempo stabilito.
Egli commenta quanto ha appena affermato mettendo in luce il carattere straordinario della morte di Cristo: «Ora, a stento si trova chi sia disposto a morire per un giusto; forse ci può essere chi ha il coraggio di morire per una persona dabbene. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» (vv. 7-8). A volte può capitare che un uomo sia disposto a morire per una persona giusta: non sono infrequenti i casi in cui la dedizione verso una persona amata (figlio, coniuge o amico) spinge fino al sacrificio della vita. Ma Cristo ha fatto una cosa che, umanamente parlando, è inconcepibile: egli è morto per noi proprio mentre eravamo ancora peccatori. E in questo gesto supremo si è manifestato l’amore di Dio per tutti noi.
Infine l’apostolo fa un ragionamento a fortiori: «A maggior ragione ora, giustificati per il suo sangue, saremo salvati dall’ira per mezzo di lui» (v. 9). Se Dio è giunto al punto di dimostrare mediante Cristo un amore così grande per noi quando eravamo ancora peccatori, a maggior ragione ora che siamo giustificati ci salverà per mezzo di Cristo dall’ira finale.
L’apostolo ripete poi lo stesso ragionamento introducendo il concetto di riconciliazione: «Se infatti, quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita (v. 10). Egli sottolinea dunque che Dio, avendoci dato la riconciliazione mediante la morte di Cristo quando eravamo nemici, non potrà non condurci alla salvezza finale ora che siamo stati riconciliati.
Nel linguaggio comune il verbo «riconciliare» (katallassô) indica la pacificazione che avviene tra due persone o nazioni nemiche. Essa è il risultato della riparazione offerta alla parte innocente da colui che si ritiene o è considerato colpevole; nel caso di parti ugualmente colpevoli, essa è il frutto di un onorevole compromesso. L’iniziativa della riconciliazione è presa dunque dal colpevole oppure dalle due parti in causa. Nei rapporti tra Dio e l’uomo invece è Dio stesso che riconcilia con sé coloro che a causa del peccato sono diventati suoi nemici: la riconciliazione dunque, non diversamente dall’espiazione, non è un atto dell’uomo che «placa» Dio, facendogli cambiare atteggiamento nei propri confronti, ma un atto di Dio che trasforma l’uomo, liberandolo dal suo peccato e stabilendo con lui quella pace di cui l’apostolo ha parlato all’inizio (5,1; cfr. 2Cor 5,18-21).
La riconciliazione rappresenta il primo passo verso la salvezza, che viene indicata con un verbo al futuro (sôzêsometha, saremo salvati): con esso l’apostolo vuole sottolineare che la salvezza definitiva, che consiste nell’incontro personale con Dio, è una realtà escatologica, ma al tempo stesso imminente, perché gli ultimi tempi sono già iniziati (cfr. Rm 13,11). Mentre la riconciliazione ha avuto luogo «per mezzo della morte del Figlio suo», la salvezza finale si attuerà «mediante la sua vita»: la morte di Cristo ha messo dunque in moto un processo che egli stesso, ormai vivo in forza della sua risurrezione, porterà un giorno a compimento facendo sì che i credenti diventino partecipi della sua nuova vita.
Infine Paolo conclude: «Non solo, ma ci gloriamo pure in Dio, per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo, dal quale ora abbiamo ottenuto la riconciliazione» (v. 11). In forza della riconciliazione così ottenuta, il credente può ora «gloriarsi» in Dio. Paolo ritorna qui al tema del vanto in Dio, che spetta a chi ha ottenuto la giustificazione e accetta con coraggio le tribolazioni della vita (cfr. vv. 2-3). Mentre esclude qualsiasi tentativo di gloriarsi davanti a Dio a causa delle proprie opere buone (cfr. 4,2), Paolo trova del tutto logico che il credente si vanti in Dio a motivo di quanto è stato compiuto in lui per mezzo di Gesù Cristo (cfr. 1Cor 1,29.31).

Linee interpretative
Dio poteva pretendere una pesante riparazione da parte dell’uomo peccatore, invece è intervenuto lui stesso per riconciliarlo gratuitamente con sé, trasformandolo da nemico in amico. Il dono più grande che la giustificazione comporta è proprio questa trasformazione interiore, che pone l’uomo in un rapporto nuovo non solo con Dio, ma anche con i suoi simili. La vita del credente è così caratterizzato da un dinamismo interiore che si manifesta come fede vissuta, che genera speranza e amore. Con questa ricca dotazione il credente può camminare spedito verso il compimento finale, senza perdersi d’animo a motivo delle tribolazioni che ancora lo aspettano. Su ciò si basa la fiducia che deve accompagnare il credente nella sua nuova vita: egli infatti può ormai vantarsi non solo in Dio, ma anche nelle tribolazioni che lo attendono, in quanto già fin d’ora assapora in modo anticipato la gloria stessa che un giorno Dio gli conferirà in modo pieno.
La forza del messaggio cristiano sta per Paolo soprattutto nella sua capacità di toccare il cuore dei credenti, trasformando i loro sentimenti, desideri e aspirazioni, in pratica tutta la loro visione del mondo e della vita. L’uomo non diventa giusto per una costrizione esterna o per una decisione personale, ma perché è trasformato interiormente dalla grazia di Dio. I suoi doni non presuppongono la buona volontà dell’uomo che per definizione è peccatore, ma la creano, dandogli così la possibilità di vivere spontaneamente secondo la sua volontà. Colui che è stato giustificato va verso una pienezza di gioia e di realizzazione personale di cui fin d’ora percepisce i segni anticipatori. La speranza cristiana non si basa infatti su un fideismo cieco, ma sulla gioia interiore che emerge quotidianamente nel confronto con le tribolazioni e nell’esercizio di un amore che sgorga spontaneamente dal cuore.
La salvezza viene presentata in questo testo come una grande opera di riconciliazione. Si tratta di un movimento che parte direttamente da Dio quando l’uomo è ancora lontano e incapace di riconciliarsi con lui. Senza far leva su nessun merito da parte di un’umanità ancora immersa nel peccato, Dio si china su di essa e, per mezzo del suo Figlio, la chiama a sé. In questa opera di salvezza si mostra tutta la sua condiscendenza e il suo amore gratuito per le sue creature. Il ruolo storico di Gesù è quello del mediatore tra Dio e l’uomo. La sua opera raggiunge il suo culmine nella morte in croce, quando egli manifesta fino in fondo di essere dalla parte dell’umanità peccatrice, senza l’attesa di alcun ritorno da parte sua. È proprio sulla croce che Gesù appare come il riconciliatore per eccellenza, il quale offre agli stessi crocifissori la possibilità di ritornare sui loro passi.
La riconciliazione dell’umanità peccatrice con Dio comporta necessariamente la riconciliazione tra le persone e i gruppi che ne fanno parte. Di fatto il nuovo rapporto con Dio attuato da Gesù diventa visibile ed efficace nella misura in cui ciascuno è capace di stabilire nuovi rapporti con chiunque, nonostante le divergenze e le perdite materiali cui potrebbe andare incontro. In pratica l’opera compiuta da Dio per mezzo di Cristo appare in tutta la sua ricchezza quando persone diverse instaurano un rapporto di vera fraternità e solidarietà. La giustificazione non è quindi solo un movimento verticale, con risvolti che si potranno cogliere unicamente nell’altra vita; essa è invece una spinta al rinnovamento che si esercita nei rapporti tra persone. Solo se dà origine a una vita riconciliata la giustificazione acquisita mediante la fede diventa motore efficace di salvezza.
Il cristianesimo non consiste dunque in un complesso di dogmi o di norme morali da accettarsi ciecamente, ma è piuttosto una scuola di vita in cui l’uomo è educato, mediante la fede, all’amore e alla speranza. Il titolo più grande che compete a Gesù è dunque quello di «Maestro». Un Maestro che, sebbene fisicamente assente, porta continuamente a termine la sua opera mediante lo Spirito santo, che rappresenta la personificazione di quella potenza divina che sgorga dal suo esempio e porta i discepoli ad immedesimarsi con lui.

TRASFIGURAZIONE DEL SIGNORE

http://www.tanogabo.it/religione/trasfigurazione.htm

TRASFIGURAZIONE DEL SIGNORE

La manifestazione particolare della sua vera identità, identità divina, identità gloriosa, identità che Gesù, anzi che Dio stesso concede oggi ai discepoli, ai tre discepoli più vicini a lui, gli apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni, e grazie a loro anche a noi…
Una celebrazione allora che ha come suo fondamento un avvenimento storico, una cosa realmente accaduta, un miracolo della vita pubblica di Gesù, prima della sua Pasqua, prima della sua morte e della risurrezione gloriosa, prima di questi ma che racchiude in sé significati profondi, significati che vanno al di là di questa sua morte e della risurrezione, perché il Signore si mostra, si fa vedere così come è veramente, glorioso.
Un punto fondamentale di questo evento, un punto che la caratterizza questa festa, che la caratterizza in modo particolare, univoco è la Teofania. Che cosa significa questa parola?

Teofania è la manifestazione, manifestazione di Dio, ma una manifestazione solenne, grande…

Nell’Antico Testamento abbiamo molti esempi, molti casi delle manifestazioni di Dio. Dio appariva spesso al popolo eletto. Lo sapevano vedere, riconoscere gli israeliti, forse più di noi… Uno dei segni della sua presenza, di Dio, era la nube, la nube che sia alzava sopra la tenda, nel deserto. O roveto ardente, o terremoto, o la vittoria miracolosa sui nemici… Erano tutte le manifestazioni, teofanie appunto di Dio che voleva essere vicino all’uomo, vicino a noi.
Ma tutte queste manifestazioni veterotestamentarie erano solo un anticipo, una preparazione alla manifestazione definitiva, alla manifestazione massima, la manifestazione della redenzione, della venuta del Signore Gesù Cristo, nato, vissuto tra noi, morto e risuscitato; Gesù, Uomo – Dio. Anche se noi aspettiamo ancora un’altra manifestazione del Signore, l’ultima manifestazione di Gesù, quella della fine dei tempi. Quando ritornerà il Signore con le schiere degli angeli, quando dividerà i buoni dai cattivi.
La manifestazione dunque… la teofania sul Monte, la conferma da parte di Dio Padre, della missione del Cristo della missione che Gesù ha da compiere nel mondo… «Questi è il mio figlio prediletto, ascoltatelo» è il massimo della Teofania. Dio Padre, in presenza dei profeti antichi, di Mosé, di Elia, dei profeti, coloro che hanno preparato la venuta del Messia; in presenza poi dei discepoli, degli Apostoli, dei testimoni prescelti… ecco Dio Padre proclama Cristo suo Figlio, anzi, Figlio prediletto, in cui egli si compiace…
C’è però un’altra parola che non vorrei ci sfuggisse. Questo è il Figlio prediletto, dice, ma dice anche: «Ascoltatelo». Il Padre ci dà un ordine preciso, l’ordine di ascoltare il messaggio del Figlio, di ascoltare Gesù. Anche la Madonna Ss.ma alle nozze di Cana, lei che «ascoltava, meditava e portava le parole di Dio nel proprio cuore, dice ai servi: ascoltatelo, «fate quello che vi dirà». Che significa dunque ascoltare Gesù? Ascoltare… non sentire…! Ascoltare è compiere i suoi comandamenti e particolarmente il primo dei comandamenti, quello dell’Amore. Ascoltare il Signore è comportarsi come egli si è comportato, come lui è vissuto sulla terra, vivere dall’esempio che Gesù ci ha lasciato… E lui ha trascorso tutta la sua vita facendo la volontà di Dio, facendo del bene a tutti, aiutando i bisognosi, sanando i malati, predicando la Buona Novella del Regno di Dio.
Tanti parteciperanno all’Eucaristia oggi. L’Eucaristia è la manifestazione, la nostra teofania di Dio. Non le accompagnano né terremoti, né nubi o saette. Qui però abbiamo tra noi, nelle nostre mani Dio stesso, Dio che si lascia pregare, sentire, toccare, gustare, perfino mangiare… Dio che mangiato nel pane inizia in noi l’opera sua, inizia in noi la nostra trasfigurazione, entra dentro di noi e ci trasfigura, trasforma dal di dentro, quasi dall’interno… Ecco la festa della trasfigurazione, di Dio, di Gesù, ma anche la festa della nostra trasfigurazione, la profezia di ciò che dobbiamo diventare noi.
E quando scenderemo dal monte, quando torneremo a casa nostra, ai nostri impegni, dopo l’Eucaristia, possiamo continuare ad essere trasfigurati, luminosi, bianchi, per contagiare con la nostra esperienza, con il nostro esempio anche gli altri.
Il Signore ce lo conceda. 

IL SIGNORE NON DIMENTICA

http://www.ilfaro-it.net/Brevi%20meditazioni%20bibliche%20Manuguerra1.htm

IL SIGNORE NON DIMENTICA              

« Ma Sion ha detto: ‘L’eterno m’ha abbandonata, il Signore m’ha dimenticata!’. Una donna dimentica ella il bimbo che allatta, cessando d’aver pietà del frutto delle sue viscere? Quand’anche le madri dimenticassero, non io dimenticherò te. Ecco, io t’ho scolpita sulle palme delle mie mani; le tue mura mi stanno del continuo davanti agli occhi. I tuoi figliuoli accorrono; i tuoi devastatori, i tuoi visitatori s’allontanano da te. Volgi lo sguardo all’intorno, e mira: essi tutti si radunano, e vengono a te. Come è vero che io vivo, dice l’Eterno, tu ti rivestirai d’essi come d’un ornamento, te ne cingerai come una sposa. »(Isaia 49:14-18)

Il primo pensiero che affiora nel testo biblico appartiene a Sion: « Ma Sion ha detto: ‘L’Eterno m’ha abbandonata, il Signore m’ha dimenticata!’ « . Il secondo è quello di Dio: « Quand’anche le madri dimenticassero, non io dimenticherò te ». Questi due punti esprimono la natura umana, rappresentata qui da Sion, che tende al lamento, poi la natura di Dio che esalta la Sua perfezione mostrando a Sion il proprio amore. Nella Sacra Scrittura il nome Sion è riferito a Gerusalemme, perché tale era il nome di una delle colline sulle quali era stata edificata la città di Gerusalemme. Non soltanto, questo nome è usato nel Nuovo Testamento per indicare la Gerusalemme celeste, quindi la Chiesa dei primogeniti « voi vi siete invece avvicinati al monte Sion, alla città del Dio vivente, la Gerusalemme celeste, alla festante riunione delle miriadi angeliche, all’assemblea dei primogeniti che sono scritti nei cieli, a Dio, il giudice di tutti,… » (Ebrei 12: 22-23). Sion che parla è la Gerusalemme credente. Questo linguaggio è spesso sulla bocca del credente. Quando attraversa circostanze non facili e poco felici. Allora la fede è colpita da un terribile male, il dubbio, che rende debole e fragile il nostro rapporto con Dio. Siamo convinti che Dio si sia dimenticato, che abbia cancellato dalla Sua mente la nostra esistenza. La Sua Parola assicura al nostro cuore che Dio non dimentica: « Quand’anche le madri dimenticassero non io dimenticherò te ». Perciò, la Parola di Dio diventa la medicina essenziale per curare una fede colpita dal dubbio: « Così la fede viene da ciò che si ascolta, e ciò che si ascolta viene dalla Parola di Cristo » (Romani 10:17). Il Signore assicura che la Sua memoria è ancora attiva perché Egli è amore.

L’amore affettuoso di Dio La mente dell’uomo dimentica con facilità, soprattutto quelle cose che non suscitano alcun interesse affettuoso. Dio non può dimenticare l’uomo, in quanto oggetto del Suo amore. La prova di questo amore è nel gesto compiuto da Dio verso il genere umano: « Perché Iddio ha tanto amato il mondo che ha dato il Suo unigenito Figlio, affinché chiunque crede in Lui non perisca, ma abbia vita eterna » (Giovanni 3:16). Dio prende come punto di paragone l’amore materno per far comprendere a Sion il Suo profondo amore: « Quand’anche le madri dimenticassero non io dimenticherò te ». Anche nella nostra società odierna quando si parla di amore, viene preso come paragone l’amore paterno. Perché, ogni madre farebbe di tutto per il proprio figlio. Eppure, il Signore assicura che se l’amore di una madre dovesse venire meno, il suo amore non viene mai meno. Dalle notizie dei mass-media veniamo a conoscenza del costante abbandono di neonati per le strade o nei bidoni delle immondizie. Questi fatti testimoniano che l’amore materno è finito, limitato ed imperfetto. L’amore di Dio  è immutabile, eterno e perfetto. La natura di Dio è amore. Dio non ama perché compie delle azioni, Dio ama perché la Sua essenza è amore: « Chi non ama non ha conosciuto Iddio; perché Dio è amore » (1 Giovanni 4:8). Le Sue opere sono l’espressione di un amore grande ed eterno, che non sbiadisce con il passar dei secoli, perché Gesù è lo stesso ieri, oggi ed in eterno.

L’amore protettivo  Dio non dimentica il credente perché il Suo amore è intento a proteggerlo. Come prova di un amore protettivo il Signore assicura a Sion che la sua esistenza non può sfuggire dal Suo sguardo, perché: Io t’ho scolpita sulle palme delle mie mani; le tue mura mi stanno del continuo davanti agli occhi ». Dio utilizza un linguaggio comprensibile perché Sion possa capire facilmente e considerare la posizione privilegiata che possiede. Sion si trova nelle mani di Dio, « Io t’ho scolpita sulle palme delle mie mani »  e sotto lo sguardo continuo del Signore, « le tue mura mi stanno del continuo davanti agli occhi ». Non esiste migliore posizione che trovarsi nelle mani di Dio. Nelle mani di Dio troviamo consolazione, salvezza, amore, benignità, pace, conforto, protezione e benedizione. Questo amore protettivo di Dio non si esaurisce soltanto con una carezza o una pacca sulle spalle ogni tanto,cioè quando capita o quando si ricorda. Infatti, il testo rafforza questo concetto della perfetta memoria di Dio con l’espressione, « t’ho scolpita ». Dio ha inciso nelle palme delle Sue mani Sion e nemmeno il tempo potrà cancellarla dalla mente di Dio. Chissà quante volte a scuola abbiamo scritto sulle palme delle nostre mani il nome di un personaggio della storia, della letteratura oppure una formula matematica. Però, nel momento in cui abbiamo lavato le mani, il nome di quel personaggio è scomparso e non è rimasto nemmeno un alone. Il verbo scolpire indica che è stata compiuta un’opera. La punta di uno scalpello è penetrata nelle mani di Dio per incidere il nome di Sion. Nelle palme delle mani di Gesù troviamo scolpiti i segni dei chiodi della croce. Dio si ricorda di ogni credente per le sofferenze, per il sangue versato e per i segni che Gesù ha riportato. Per questo motivo Dio non dimentica. Il Signore assicura a Sion che il Suo sguardo è costantemente rivolto su di essa: « Le tue mura mi stanno del continuo davanti agli occhi ». Da queste parole appare la figura di una sentinella. Il Signore è per Sion una fedele sentinella, che vigila notte e giorno. Le mura di una città erano le prime ad essere soggette agli attacchi dell’esercito nemico. Per Sion non v’è alcun timore, Dio vigila sulle sue mura con molta attenzione. Il Signore è una sentinella che veglia costantemente sulla via dei suoi figli: « L’Eterno è colui che ti protegge; l’Eterno è la tua ombra; Egli sta alla tua destra » (Salmo 121:5).

L’amore attivo di Dio Dio non dimentica perché il Suo amore è sempre attivo verso i Suoi figli. E’ pronto ad intervenire in favore di Sion, « I tuoi distruttori, i tuoi devastatori si allontanano da te ». Dio è pronto ad operare per Sion, Egli non permetterà che Sion perisca. Dio è colui che trasforma le circostanze negative in positive: « Volgi lo sguardo all’intorno, e mira; essi tutti si radunano, e vengono a te. Come è vero che io vivo, di ce l’Eterno, tu ti rivestirai d’essi come d’un ornamento, te ne cingerai come una sposa » (Isaia 49:18). La prima prova dell’amore attivo di Dio è la Sua natura perfetta. Dio parla al cuore di Sion chiedendo di confidare nella Sua esistenza: « Come è vero che io vivo ». La seconda prova è di confidare nella Sua Parola fedele, « … dice l’Eterno ». La terza prova è la Sua Potenza illimitata, « Volgi lo sguardo all’intorno », il Signore chiede a Sion di confidare nella Sua opera potente e di osservare le meraviglie che compirà verso di lei. Dopo secoli lo stesso discorso è trattato ai credenti di Filippi dall’apostolo Paolo nell’avere fiducia in Dio, « avendo fiducia in questo:che Colui che ha cominciato in voi un’opera buona, la condurrà a compimento fino al giorno di Cristo Gesù » (Filippesi 1:6). Dio non dimentica i Suoi figli, anche quelli che sono già deceduti. Infatti, l’Onnipotenza di Dio, al rapimento della chiesa, sarà manifestata prima verso i credenti trapassati e poi ai viventi, è scritto: « Perché il Signore stesso, con potente grido, con voce d’arcangelo e la tromba di Dio, scenderà dal cielo, ed i morti in Cristo risusciteranno i primi; poi noi viventi, che saremo rimasti, verremo insieme con loro rapiti sulle nuvole, ad incontrare il Signore nell’aria » (1 Tessalonicesi 4:16,17). Confidiamo nel Signore che non dimentica i Suoi figli! Il Suo amore continua ad essere ogni giorno affettuoso, protettivo ed attivo verso tutti coloro che fondano nel Signore la propria fede.  

 di  Antonino Manuguerra Pubblicato da Cristiani Oggi

SAPIENZA 11,22-12,2 (prima lettura di domenica 31ma T.O.)

http://www.nicodemo.net/NN/ms_pop_vedi1.asp?ID_festa=252

SAPIENZA 11,22-12,2

22 Signore, tutto il mondo davanti a te, è come polvere sulla bilancia,
come una stilla di rugiada mattutina caduta sulla terra.

23 Hai compassione di tutti, perché tutto tu puoi,
non guardi ai peccati degli uomini, in vista del pentimento.

24 Poiché tu ami tutte le cose esistenti
e nulla disprezzi di quanto hai creato;
se avessi odiato qualcosa, non l’avresti neppure creata.
25 Come potrebbe sussistere una cosa, se tu non vuoi?
O conservarsi se tu non l’avessi chiamata all’esistenza?

26 Tu risparmi tutte le cose,
perché tutte son tue, Signore, amante della vita,
12,1poiché il tuo spirito incorruttibile è in tutte le cose.

2 Per questo tu castighi poco alla volta i colpevoli
e li ammonisci ricordando loro i propri peccati,
perché, rinnegata la malvagità, credano in te, Signore.

COMMENTO
Sapienza 11,23 – 12,2

La misericordia di Dio
Il libro alessandrino della Sapienza si divide in tre parti. Nella prima si presenta la sapienza come speranza del giusto (1,1-6,25); nella seconda si descrive la natura della sapienza (7,1-10,21); infine nella terza si racconta l’opera della sapienza nella storia della salvezza (11,1–19,22). Quest’ultima parte è una riflessione (midrash) sulle vicende riguardanti l’uscita degli israeliti dall’Egitto, così come sono narrate nel libro dell’Esodo. Dopo un’introduzione (11,1-3) nella quale si indica il tema dell’assistenza prestata dalla sapienza agli israeliti «per mezzo di un santo profeta», Mosè, l’autore elabora sette dittici, in cui contrappone il comportamento di Dio nei confronti degli israeliti a quello da lui riservato agli egiziani. Nel primo dittico (11,4-14), dopo aver enunciato il principio generale secondo il quale Dio punisce i malvagi servendosi degli stessi elementi con cui viene in aiuto ai giusti, la sua attenzione si focalizza sul primo tema, quello dell’acqua che, trasformata in sangue per punire gli egiziani, è fatta scaturire dalla roccia per dissetare gli israeliti. A questo punto si inseriscono due digressioni riguardanti rispettivamente il modo di agire di Dio nella storia (11,15 – 12,27) e l’assurdità dell’idolatria (13,1 – 15,19). Infine l’autore riprende la serie dei dittici riguardanti i fatti dell’esodo (16,1-19,9). Il midrash termina alcune riflessioni conclusive (19,10-21).
Nella prima digressione successiva al primo dittico l’autore mette in luce la moderazione di Dio nei confronti degli egiziani (11,15 – 12,2) e dei cananei (12,3-18). Alla fine dal comportamento divino si ricava una lezione di vita per Israele (12,19-27). Il testo liturgico riporta gli ultimi versetti riguardanti la moderazione di Dio verso gli egiziani. In essi l’autore esprime il suo pensiero rivolgendosi direttamente a Dio in forma di preghiera. Si noti che la liturgia segue la numerazione latina, che è superiore di un numero a quella greca.
Nei versetti precedenti (11,18-22) l’autore aveva sottolineato come, in forza della sua onnipotenza, Dio avrebbe potuto colpire a suo piacimento i peccatori. Il potere divino che si estende a tutte le cose, viene da lui sintetizzato nella prima frase del testo liturgico: «Tutto il mondo infatti davanti a te è come polvere sulla bilancia, come una stilla di rugiada mattutina caduta sulla terra» (11,23). Ma in contrasto con tutto ciò, egli afferma che Dio agisce, sì, ma con misericordia: «Hai compassione di tutti, perché tutto puoi, chiudi gli occhi sui peccati degli uomini, aspettando il loro pentimento» (11,24). Dio compatisce tutti (cfr. Sir 18,13) proprio perché è onnipotente (cfr. Sap 12,16). L’amore di Dio verso la creazione, si manifesta soprattutto nei confronti degli esseri umani. Egli infatti chiude gli occhi sui loro peccati, cioè li perdona: solo chi detiene il potere può esercitare la grazia del perdono. Lo scopo di tale amore è quello di portare l’uomo peccatore alla conversione (cfr. Ez 33,11; 2Pt 3,9; Rm 2,4).
Dopo aver affermato in via di principio la compassione divina, l’autore ne spiega il motivo: «Tu infatti ami tutte le cose che esistono e non provi disgusto per nessuna delle cose che hai creato; se avessi odiato qualcosa, non l’avresti neppure formata» (11,25). L’unico movente della creazione è stato la bontà di Dio: il suo amore perciò si esercita verso tutti gli esseri così come essi sono, escludendo qualsiasi tipo di odio, avversione, disprezzo e indifferenza. E questo fin da prima della creazione, poiché se Dio avesse avuto avversione per qualcosa non l’avrebbe neppure creata.
L’argomentazione procede poi con due domande retoriche: «Come potrebbe sussistere una cosa, se tu non l’avessi voluta? Potrebbe conservarsi ciò che da te non fu chiamato all’esistenza?» (11,26). Naturalmente la risposta è negativa. Gli esseri di questo mondo non esisterebbero se Dio non li avesse creati e non potrebbero sussistere se Dio non avesse cura di loro. L’amore di Dio per le sue creature non è dunque un amore statico, che si è manifestato una sola volta, nel passato, o che si ferma unicamente alla contemplazione della sua opera; al contrario, l’amore di Dio è attuale, in quanto si rivela in una creazione continua. Il fatto che le creature permangano nell’esistenza, e che si conservino nella loro molteplicità in modo attivo e misterioso, è la prova più tangibile dell’amore continuo di Dio. Ciò dimostra la radicale e continua dipendenza delle creature dal loro Creatore; la sua sovranità e il suo influsso non annullano proprietà e leggi della natura, né le rendono divine nel senso panteistico, bensì le fanno essere ciò che sono.
Lo stesso principio dell’amore di Dio per le sue creature è ripetuto subito dopo con espressioni diverse: «Tu sei indulgente con tutte le cose, perché sono tue, Signore, amante della vita (11,27). Torna qui il tema della clemenza (cfr. 11,24); questa volta, però, oggetto della bontà, della cura o del perdono divino sono tutte le cose, proprietà di Dio. Il fondamento di questa affermazione è stato dato nei versetti precedenti: Dio è creatore di tutto, è il Signore. Egli si qualifica perciò come «amico della vita»: nel linguaggio comune questa espressione si riferisce a colui che ama la propria vita, in senso piuttosto peggiorativo, in quanto implica la paura di morire. Applicato a Dio, ha qui il senso di amore per la vita degli altri, cioè di tutti gli esseri viventi.
Un’altra ragione dell’amore di Dio per tutte le creature è indicata nel versetto seguente: «Poiché il tuo spirito incorruttibile è in tutte le cose» (12,1). Lo spirito o soffio divino, incorruttibile e imperituro come Dio stesso, è presente in tutti e in tutte le cose. L’autore aveva già affermato l’idea della presenza vivificante di Dio in tutte le cose per mezzo del suo spirito, identificato con la sapienza (cfr. Sap 1,7; 7,22.24 e 8,1). Il principio della vita, il soffio vitale, viene da Dio; il suo spirito anima ogni vivente: se Dio lo ritira, tutto perisce (cfr. Gn 2,7; 6,3; Gb 27,3; 33,4; 34,14-15; Qo 12,7). Il salmista estende l’azione dello spirito a tutte le cose (cfr. Sal 104,29-30). Nell’ambiente alessandrino questo modo di pensare non poteva destare meraviglia, poiché era nota la concezione stoica di Dio come anima del mondo, come spirito che tutto penetra. L’autore sa cogliere l’aspetto positivo delle dottrine contemporanee, liberandolo dalla loro connotazione panteistica e servendosene per arricchire il pensiero biblico.
La riflessione giunge a termine con una considerazione sulla pedagogia divina nei confronti dei peccatori: «Per questo tu correggi a poco a poco quelli che sbagliano e li ammonisci ricordando loro in che cosa hanno peccato, perché, messa da parte ogni malizia, credano in te, Signore» (12,2). Certamente Dio punisce coloro che sbagliano, li ammonisce con prove e sofferenze, ma non lo fa tutto d’un colpo, bensì a poco a poco, in modo da dare loro la possibilità di rendersi conto dei loro sbagli e di cambiare vita; il tema è quello della pazienza divina che sa attendere e da tempo al peccatore perché possa giungere alla conversione. In Dio quindi il castigo è sempre medicinale, tende alla salvezza e non alla preservazione dell’ordine costituito e tanto meno alla vendetta. Nella sua pedagogia, Dio vuole staccare il peccatore dalla sua malvagità, conquistarne nuovamente la fiducia, e portarlo alla dedizione totale e assoluta verso di sé, cioè alla fede. La pericope termina con il vocativo «Signore», invocazione rispettosa e fiduciosa nei confronti di colui che è creatore e che tutto può, ma che è anche misericordioso.

Linee interpretative
In questo brano si sviluppa il secondo polo del binomio onnipotenza-misericordia di Dio. L’autore parla con Dio, in stile dialogico, dei motivi della sua benignità che si manifesta nel suo modo di agire verso tutti gli uomini. Egli vuole mostrare come la benevolenza di Dio non è effetto di debolezza, ma si basa sulla sua stessa onnipotenza. Un potente di questo mondo è ingiusto perché ambisce maggior potere, teme di perderlo, è dominato dall’avidità, dal timore; è rigido perché non ama il colpevole, teme che gli sfugga. Soprattutto la giustizia umana tende alla conservazione dell’ordine stabilito, colpendo con una pena vendicativa colui che lo trasgredisce.
Dio invece ha il potere supremo non teme nulla, non deve render conto a nessuno, ama i colpevoli, ha tempo, non sbaglia mai. Questi versetti sono un libero commentario alla professione liturgica: «Dio è clemente e compassionevole, paziente e misericordioso» (Es 34,6; Sal 86,15; 103,8; Nm 14,18). Da questo brano emerge dunque un insegnamento positivo e ottimistico. I giudizi storici hanno già reso testimonianza alla volontà salvifica di Dio, che solo in ultima istanza dà luogo al castigo finale. Ciò che l’autore afferma per l’umanità del suo tempo vale anche per quella di oggi: nella sua misericordia Dio vuole la salvezza di tutti e dà a tutti la possibilità di salvarsi. L’elezione di Israele e della Chiesa deve quindi essere vista sempre nel contesto di una salvezza messa a disposizione di tutti, senza eccezioni.

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