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LA SOFFERENZA – COSA DICE LA BIBBIA SULLA SOFFERENZA DEGLI INNOCENTI?

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LA SOFFERENZA – COSA DICE LA BIBBIA SULLA SOFFERENZA DEGLI INNOCENTI?

L’obiezione di Ivan Karamazov, nel celebre romanzo di Dostoievski, resta per molti il più grande ostacolo alla fede in un Dio d’amore: ci si può fidare di Dio in un mondo dove dei bambini sono torturati? Se Dio è buono, come può permettere la sofferenza degli innocenti? Testimone della ricerca spirituale dell’uomo lungo i secoli, la Bibbia stessa è alle prese con questa domanda. I salmi ci presentano lo smarrimento dei fedeli di fronte alla felicità dei malvagi e all’infelicità dei giusti: «Invano dunque ho conservato puro il mio cuore e ho lavato nell’innocenza le mie mani, poiché sono colpito tutto il giorno, e la mia pena si rinnova ogni mattina… Ma io a te, Signore, grido aiuto, e al mattino giunge a te la mia preghiera. Perché, Signore, mi respingi, perché mi nascondi il tuo volto?» (Salmo 73,13-14; 88,14-15). Chiaramente, la vecchia spiegazione che fa della pena una conseguenza del peccato non funziona sempre, esistono innumerevoli casi in cui la sofferenza non è la conseguenza di un’esistenza lontana da Dio. Nelle Scritture ebraiche, la figura di Giobbe è l’esempio tipico che suscita questo interrogativo. Uomo giusto e pio attraversa molte prove, ma rifiuta di abbandonare sia l’affermazione della sua innocenza sia la sua relazione con il Signore. Restando unito sino alla fine a questi due poli, Giobbe vede la sua lotta con il Signore sfociare in una nuova scoperta. Non si tratta di una spiegazione intellettuale, come di una giustificazione della sofferenza, cosa mostruosa che Dio non può mai dare, ma è piuttosto la rivelazione di un contesto dove tutto cambia di prospettiva. Giobbe comprende che il tentativo di gettare su Dio la responsabilità della sofferenza porta a un vicolo cieco, all’errore più grande. Scartata questa falsa pista, il campo è ormai libero per una comprensione più vera. Infatti questa visione è presente sin dall’inizio della rivelazione biblica. Il primo innocente che incontriamo nelle pagine della Bibbia è Abele, ingiustamente ucciso da suo fratello Caino. A questo proposito l’autore della Genesi scrive delle parole stupefacenti: «Il Signore disse a Caino: Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo!» (Genesi 4,10). Nella Bibbia il sangue è la vita (vedi Levitico 17,11.14), e questa vita annientata dalla malvagità umana ritrova paradossalmente una voce. Lungi dall’essere soffocato dalla violenza degli uomini, il desiderio di vita che abita il cuore della vittima è liberato attraverso la sua innocenza ferita. Il suo grido giunge fino a Dio e provoca il suo intervento. Questa stessa dinamica è presente nella storia della salvezza, nel racconto dell’Esodo. Quel che fa scendere Dio sulla terra non è qualche atto di prodezza o di dedizione da parte degli esseri umani, ma piuttosto il grido che nasce dalla loro oppressione. I lamenti degli schiavi mettono in moto un vasto processo di liberazione nel quale Dio si fa presente ( vedi Esodo 2,23-25). Con i profeti d’Israele, si fa un ulteriore passo in avanti. Essi sperimentano fin nella loro carne che Dio, l’Innocente per eccellenza, è rifiutato da un popolo che si crede autosufficiente. Come Osea costretto a sopportare con pazienza il tradimento della sua amata, immagine della fedeltà di Dio con il suo popolo infedele. Come Geremia esposto all’esclusione e alla persecuzione, «uomo di litigio e di contrasto per tutto il paese», condannato a rimanere solo con una «piaga incurabile» (Geremia 15,10.17-18). Occorrerebbe del tempo per comprendere che quegli uomini ci danno, in effetti, un’idea del cuore stesso di Dio, quando soffrono per non essere ascoltati né capiti. Se la vita dei profeti rivela che la sofferenza degli innocenti non solo spinge Dio all’azione per ristabilire la giustizia ma è anche il luogo privilegiato in cui gli esseri umani possono entrare nel suo mistero, una figura misteriosa che troviamo in Isaia 40-55 esprime questa verità molto chiaramente. Si tratta di un essere umano, descritto come l’ultimo degli ultimi, «oggetto di disprezzo», che ama e così prende su di sé tutta la malvagità degli altri trasformandola in sofferenza (vedi Isaia 53). Ed ecco che quest’uomo apparentemente respinto è effettivamente il Servo di Dio, cioè qualcuno che realizza sulla terra la volontà divina di salvezza. Se «al Signore è piaciuto prostrarlo con la sofferenza» (Isaia 53,10), è per esaltarlo davanti a tutti, affinché tutti vedano in lui l’attività di Dio stesso: Dio riconcilia a sé coloro che lo rifiutano, prendendo su di sé le conseguenze della loro infedeltà. La vita di Gesù ci dice qualcosa di più? Non è un caso che i primi cristiani si siano soffermati su questi capitoli d’Isaia, quando cercavano nelle Scritture delle luci per comprendere la sorte del loro maestro, Gesù. Le guarigioni che egli compie testimoniano già la sua volontà di prendere su di sé per amore le sofferenze degli altri (vedi Matteo 8,16.17). Però è soprattutto il suo modo d’affrontare una morte atroce che rompe il cerchio infernale del male. La condanna di un giusto che risponde con il perdono (vedi Luca 23,17.34) permette l’adempimento del disegno di Dio che è quello di rendere giuste le moltitudini (vedi Isaia 53,10-11). In altre parole, la sofferenza di un innocente vissuta fino in fondo dona a tutti gli esseri umani la leggerezza di un’innocenza ritrovata. Il sangue di Gesù è «più eloquente di quello di Abele» (Ebrei 12,24) perché suscita la venuta di Dio sulla terra come sorgente inesauribile di una nuova vita. L’ultimo libro della Bibbia, l’Apocalisse di san Giovanni, presenta questo processo al capitolo 6, attraverso la sua visione sullo svolgimento della storia umana. Si tratta di un libro chiuso da sette sigilli. I primi quattro descrivono l’umanità abbandonata a se stessa, come una curva inesorabile che discende verso la morte. Con il quinto sigillo entriamo nel movimento inverso, l’attività salvatrice di Dio. E questa comincia giustamente con il grido delle «anime che furono immolate…» (Apocalisse 6,9-11), in cui bisogna vedere non solo i martiri cristiani, ma «tutto il sangue innocente versato sopra la terra, dal sangue dell’innocente Abele» (Matteo 23,35; vedi Apocalisse 18,24). In Dio, il sangue degli innocenti diviene portatore di un dinamismo che contrasta gli effetti distruttori della violenza. La loro apparente sconfitta inaugura un movimento di liberazione che culmina nella croce di Cristo. È ciò che è manifestato dall’apertura del sesto sigillo, dove si parla del «grande giorno dell’ira dell’Agnello» (Apocalisse 6,17). L’«ira di Dio» è la parola caratteristica utilizzata nella Bibbia per esprimere la sua risposta al peccato, risposta che tende a ristabilire la giustizia disprezzata. Qui, si riferisce all’atto con il quale Gesù prende su di sé tutto il male umano, subendone le conseguenze fino all’estremo, nel suo stesso corpo (vedi 1 Pietro 2,21-24). Donando la sua vita fino in fondo, Gesù condivide la sorte di tutte le vittime innocenti e così assicura che la loro pena non è stata vana. Porta le loro sofferenze all’interno della propria relazione con colui che chiama Abbà, Padre, e poiché il Padre lo ascolta sempre (vedi Giovanni 11,42), noi abbiamo la certezza che questa sofferenza non va perduta. Essa conduce alla scomparsa dell’antico ordine mondiale segnato dall’ingiustizia, e all’apparizione «di nuovi cieli e di una nuova terra, dove la giustizia abiterà» (2 Pietro 3,13). Ecco la risposta definitiva, frutto di una vita vissuta, data a Ivan Karamazov e a Giobbe. Lungi dal tollerare anche solo per un istante la sofferenza degli innocenti, nel suo Figlio unigenito Dio beve con loro quel calice amarissimo e, così facendo, la trasforma in una coppa di benedizione per tutti.

Publié dans:BIBBIA, DOLORE E SOFFERENZA |on 23 mai, 2016 |Pas de commentaires »

TESTIMONI – NEL MISTERO DEL DOLORE

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IL GRIDO E LA GRAZIA -

Alessandra Stoppa

TESTIMONI – NEL MISTERO DEL DOLORE

L’ha chiamata:?«La scienza cristiana». L’unica capace di rispondere davvero alla sofferenza. Nel discorso (passato in sordina) agli operatori sanitari, Benedetto XVI spiega perché la fede cura «senza illusioni». E come i malati salvano il mondo. Qui padre ALDO TRENTO si confronta con le sue parole

Quando si avvicina ai loro letti, ora che la bellezza nel dolore è così trasparente per lui, non gli resta che baciarli. «Dio mio», dice piano: «Ti bacio».
Non riesce più ad inginocchiarsi come prima, come vorrebbe, paziente per paziente, ma la sua giornata è per loro, fin dalle prime ore. Ormai ne ha accolti più di mille. Nella sua clinica per malati terminali ad Asunción, in Paraguay, padre Aldo Trento vive nella sofferenza da anni. La conosce molto bene. È ciò che ha scavato di più nella sua umanità l’apertura al Mistero. Per questo lo commuove sentire le parole del Papa sul dolore e sulla malattia. È un discorso passato un po’ sottotraccia, che Benedetto XVI ha tenuto alla conferenza internazionale del Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari, il 17 novembre. Ha parlato degli ospedali come «luoghi privilegiati di evangelizzazione».
«È vero», dice padre Aldo: «Vivere con i malati ha evangelizzato me».
A undici anni salta su un trattore per fuggire in seminario, attraversa una vocazione irrequieta, sofferta, per poi lasciarsi rifare la vita dall’abbraccio di don Giussani. Nello statuto della clinica si legge in filigrana tutto il suo cammino. Fatto di grido e grazia. «Il cuore dell’uomo è nostalgia di infinito e di eternità. Questa casa esiste perché a noi è stata data la grazia di chiedere, di mendicare, di amare e desiderare la verità». Qui padre Aldo si confronta con il fatto che il Papa parli della fede come la grande scienza che cura, riprendendo le parole del Concilio Vaticano II alle persone sofferenti: «Non siete né abbandonati, né inutili. Uniti alla croce di Cristo, contribuite alla sua opera salvifica». Padre Aldo lo vede accadere: «I miei malati mi salvano e salvano tutto il mondo». Quando è nata la clinica, nel 2004, non viveva la pienezza di adesso: «L’ho imparata stando con loro, fianco a fianco, ogni giorno. Mi sono reso conto che sono la risorsa più grande che mi è data per prendere sul serio me stesso. Davanti a loro le preoccupazioni non ci sono, la mia vita diventa un’occupazione grandiosa: vivere di fronte al Mistero».
Non siete inutili, ricorda il Papa. «È questo che distrugge: l’inutilità di qualcosa. Non il dolore in sé. Penso a tutti i miei malati che sono andati in cielo con il sorriso sulla bocca». In quanti gli hanno detto: «Padre, senza questo cancro non sarei qui e non avrei incontrato Gesù». Una grazia che vale di più di come va la vita e di quanto dura. Li vede portare i dolori terribili del cancro o la vergogna dell’Aids con una «ragione». Non è più un’ingiustizia che li mette all’angolo. È l’esperienza di un’eternità in cui nulla va perso. «Stanno nel letto, nessuno li conosce. Ma loro si sentono partecipi della morte e della risurrezione di Gesù».
Ai medici e agli infermieri, Benedetto XVI ha ricordato che nel loro lavoro sono chiamati a dare «un sollievo senza illusioni». Cosa significa per te? «C’è una sola illusione, che si porta dietro tutte le altre: non comunicare il fatto di Cristo». Infatti, il Papa riprende le parole del Concilio: «Non è in nostro potere procurarvi la salute corporale, né la diminuzione dei vostri dolori fisici… Abbiamo però qualche cosa di più prezioso e di più profondo da darvi». E continua: «Cristo non ha soppresso la sofferenza, nemmeno ha voluto svelarcene interamente il mistero: l’ha presa su di sé, e questo basta perché ne comprendiamo tutto il valore».
Padre Aldo cammina in questo mistero che resta mistero, innanzitutto per la sua propria sofferenza. Negli ultimi tempi si è fatta più acuta, per i dolori fisici, la durezza di alcune vicende. «Padre, animo. Offriamo il nostro dolore a Gesù per te», gli dicono i pazienti. «La sofferenza sarà per sempre mistero. Ma come lo è l’amore. Non è che non lo vedi, non è che non si svela: lo vivi, ti cambia, ma resta mistero». Perché è mistero tutto ciò che ci salva. «La scelta del metodo di Dio». Un uomo gli ha rinfacciato: «Dio è cattivo perché è solo un atto di egoismo volerci salvare attraverso la croce e la morte di suo figlio». «Ma per un padre vero è più difficile accettare la morte di un figlio o la propria?», dice lui: «L’esperienza indica che Dio ci ama tanto da darci ogni giorno suo figlio. Cristo è il vertice dell’amore all’uomo del Padre. Ed è un mistero come lo è nella vita tutto quello che ci porta verso di Lui».
Per questo cambia anche la sua sofferenza personale. «Il mio dolore acquista una dimensione non più di paura, ma di preghiera. Signore, sei Tu che mi dai questa cosa, e mi parli. Mi dici che io devo vivere solo in Te, con Te e per Te. Come diciamo nella messa. Diventa un passo continuo alla conversione». Qualcosa di più profondo e prezioso dell’alleviare il dolore.

La verifica della fede. «Il volto del sofferente è il Volto di Cristo», continua il Papa. «In quei letti non c’è il segno di Cristo», dice padre Aldo: «C’è Cristo ». Questo per lui, «per grazia della Madonna», è stato chiaro fin dall’inizio. «Loro non sono un segno. Lo dice Gesù nel Vangelo: “Avevo fame”. “Avevo sete”. “Ero abbandonato”. È proprio Lui». Vedere in loro la presenza fisica del Mistero gli fa venire da inginocchiarsi. Baciarli. Racconta di Victor, il primo bambino che ha accolto. La testa grande, il corpo da neonato, ha vissuto in silenzio segnando per sempre lui e chi lo ha conosciuto. «È sconvolgente. Ma non puoi capirlo se non lo sperimenti. Perché la verifica della fede è rendersi conto che Cristo è un fatto. È talmente un fatto che tu vedi quel bambino e vedi in lui vibrare la vibrazione dell’Essere. C’è. E se lui c’è, c’è! Ti amo e ti adoro, perché ci sei».
Nella clinica non ci sono immagini del Crocifisso, solo di Maria. «Il Crocifisso è nei letti». I malati, i primi evangelizzatori. Lo riscopre negli infermieri e nei medici. C’è chi chiede di sposarsi in clinica, perché è il luogo dove ha incontrato la fede. «Non è mica per le mie prediche. Ma per la testimonianza silenziosa dei pazienti».

«Padre, guarda il mio dito!». Nel suo discorso il Papa fa dei nomi precisi. Santi. Giuseppe Moscati, Gianna Beretta Molla, Anna Schäffer, Jérôme Lejeune e Riccardo Pampuri, a cui la clinica è dedicata. «È bellissimo che ce li indichi. Il vero “prendersi cura” è venuto sempre da gente che viveva un innamoramento completo a Cristo. Non c’è un santo, anche se di clausura, che non abbia sentito il bisogno di offrire la propria malattia». Per te, cos’è la malattia? «È un terremoto. Che sveglia l’intelligenza e il cuore a riconoscere che c’è qualcosa di più grande». E quindi chiede una cura grande. Chiede che in riunione, passando in rassegna i malati, il medico non dica solo se uno mangia o va di corpo. «Ma come sta, tutto. E come stiamo noi davanti a lui». Nella clinica c’è la sala per la fisioterapia. Gli danno del matto: cosa serve la ginnastica a uno che sai che muore? «Vuol dire non aver capito che cos’è un ospedale. È importante che i medici comprendano cosa dice il Papa: l’approccio clinico non basta. È il rovescio di ciò che si pensa: la professionalità non è un progetto. Più guardo Cristo, più divento bravo a fare il mio lavoro, più cresce l’ardore di impegnarmi. E se posso pagare il fisioterapista perché il paziente mi dica: “Padre, guarda il mio dito!”, lo faccio».
Una cura grande. Nelle terapie, nella bellezza del luogo, nei gesti che scandiscono i giorni. La gente che va in clinica, anche solo di passaggio, è bloccata da una domanda: cosa c’è qui? Perché questa intensità nel vivere le cose? «Risveglia il bisogno d’infinito». Anche nei medici che, dopo anni, gli chiedono di poter fare la catechesi. «Questa è l’evangelizzazione e la fanno gli ammalati». Una volta, c’era in visita un amico dall’estero: «Quel giorno ero giù, perché pioveva». Un paziente, che non vedeva più e non poteva muoversi, dice: «Quando piove cresce l’erba fresca, le mucche la mangiano e noi beviamo il latte». Da quel momento, l’amico che lo accompagnava ha riaperto la propria domanda sulla fede, senza che nessuno gli chiedesse nulla.
«Propter salutem nostram, per noi e per la nostra salute discese dal Cielo», ricorda padre Aldo: «La salute. Non è una cosa escatologica. È adesso. Ci abbraccia tutti interi». Come continua Benedetto XVI: «Oggi aumenta la capacità di guarire fisicamente chi è malato, ma la scienza medica rischia di dimenticare la sua vocazione: servire ogni uomo e tutto l’uomo». E fa un richiamo: «Ora più che mai la nostra società ha bisogno di buoni samaritani, dal cuore generoso e dalle braccia spalancate a tutti».

L’energia che nasce. È facile pensare che solo dove sta padre Aldo, in quella clinica piena di grazie, ci sia la possibilità di vivere e lavorare così. Al centro è esposto il Santissimo, le giornate sono attraversate dalla preghiera, c’è la catechesi, e via dicendo. «La gente pensa che sono fortunato perché sono qui. Si possono pensare un sacco di cose, ma sono false. Chi non può vivere quello che vivo io? Ecco, appunto, il problema è l’io. Se coincido con Cristo, perché mi ha preso, ho mille, infiniti modi per annunciarLo. Ma l’io deve accadere, deve formarsi». Parla del cammino proposto da don Julián Carrón, di vivere intensamente la vita, come una chiamata dentro le circostanze. «Aiutarci a fare i conti con la realtà, piano piano, volendoci bene, è questo che toglie le illusioni e lascia posto ad un lavoro personale. Del medico. Del malato. Mio. Non dipende dal luogo in cui sei: dipende solo dall’energia che nasce da Cristo per cui vivi».

Publié dans:DOLORE E SOFFERENZA |on 1 octobre, 2015 |Pas de commentaires »

G. RAVASI “NEL DOLORE È DEPOSTO UN SEME DI ETERNITÀ”

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G. RAVASI “NEL DOLORE È DEPOSTO UN SEME DI ETERNITÀ”

Aprile 7th, 2010

Dall’”Ossservatore Romano” del 10.02.2010

L’11 febbraio di 25 anni fa Giovanni Paolo II pubblicava la lettera apostolica Salvifici doloris, contenente una vasta e appassionata trattazione di uno dei temi più laceranti dell’esperienza umana, quello della sofferenza. I 31 paragrafi di quel documento erano intessuti di rimandi alla Bibbia, “il libro della storia dell’uomo” e quindi “il grande libro sul dolore”, delineato in tutte le sue iridescenze oscure ma anche nei suoi squarci di luce e di speranza.
Certo, come affermava Thomas S. Eliot nei suoi Quattro quartetti: “people change, and smile: but the agony abides” (”la gente cambia, riesce a sorridere, ma l’agonia-lotta della sofferenza permane”). Essa è simile a una roccia contro la quale è facile anche sfracellarsi. Georg Büchner, uno dei più intensi scrittori dell’Ottocento tedesco, nel suo dramma La morte di Danton (1835) si chiedeva: “Perché soffro?”. E concludeva: “Questa è la roccia dell’ateismo”. Uno degli approdi estremi a cui può condurre l’esperienza del dolore, soprattutto del dolore innocente, è appunto quello della ribellione, dell’apostasia, del rifiuto di Dio e dell’uomo. Chi non ricorda quel passo dei Fratelli Karamazov dove Dostoevskij s’interroga: “Se tutti devono soffrire per comprare con la sofferenza l’armonia eterna, che c’entrano i bambini? È del tutto incomprensibile il motivo per cui dovrebbero soffrire anche loro e perché tocchi pure a loro comprare l’armonia con la sofferenza”.
Per millenni l’umanità ha cercato di scalare o spianare quella roccia. Già l’antica sapienza egizia registra la sconfitta della ragione con le emozionanti righe del “papiro di Berlino 3024″ (2200 prima dell’era cristiana), significativamente intitolato dagli studiosi Dialogo di un suicida con la sua anima, dialogo che ha come approdo solo la morte vista come liberazione, guarigione, profumo di mirra, brezza dolce della sera, fior di loto che sboccia. L’accanimento della teodicea, cioè del tentativo di difendere Dio dall’attacco dell’”ateismo” che fa leva proprio sul dolore, ha dovuto sempre confrontarsi con le alternative lapidarie del filosofo greco Epicuro, così come ce le ha trasmesse lo scrittore cristiano Lattanzio nella sua opera De ira Dei (c. 13): “Se Dio vuol togliere il male e non può, allora è impotente. Se può e non vuole, allora è ostile nei nostri confronti. Se vuole e può, perché allora esiste il male e non viene eliminato da lui?”.
È proprio attorno a questi dilemmi e soprattutto quando si entra nella regione tenebrosa della sofferenza personale che si confrontano le religioni e gli agnosticismi. Emblematica è l’affermazione del pensatore ateo francese Jean Cotureau: “Non credo in Dio. Se Dio esistesse, sarebbe il male in persona. Preferisco negarlo piuttosto che addossargli la responsabilità del male”. E proprio per difendere Dio da questa accusa infamante, si è fatto di tutto nella storia dell’umanità, ricorrendo appunto a quella “teodicea” a cui sopra si accennava, percorrendo le strade più disparate, talvolta quasi impraticabili. Si è, così, ricorso al dualismo, introducendo – accanto al Dio buono e giusto – un’altra divinità negativa e ostile, un dio del male. Si è appellato alla cosiddetta “teoria della retribuzione”, per altro ben attestata anche nella Bibbia: il binomio delitto-castigo ci invita a scoprire in ogni dolore un’espiazione di colpa, se non personale, almeno altrui (e così si cercherebbe di giustificare anche la sofferenza dell’innocente). Si riconoscerebbe, in tal modo, una sorta di funzione catartica al dolore. Per dirla con lo scrittore americano Saul Bellow, nel suo romanzo Il re della pioggia (1959), “la sofferenza è forse l’unico mezzo per rompere il sonno dello spirito”.
Per altri sarebbe, invece, da imboccare la via pessimistica radicale: la realtà è strutturalmente negativa proprio per il suo limite creaturale (da spiegare sarebbe eventualmente la felicità!). Nel Mito di Sisifo (1942) lo scrittore Albert Camus osservava: “C’è un solo problema importante per la filosofia, il suicidio. Decidere, cioè, se metta conto di vivere o no”. Per contrasto, non è mancata anche una lettura ottimistica altrettanto radicale della realtà per cui il male è solo un non-essere, un dato concettuale, un’apparenza da superare scoprendo la serenità profonda dell’essere. In questa luce si pongono le visioni panteistiche. In questa linea si collocano anche certe concezioni evoluzionistiche che considerano il dolore come il residuato di un mondo ancora imperfetto e in costruzione.
Anche la Bibbia si trova di fronte a questo mostro proteiforme che in tutte le culture, pur essendo tematizzato in modo astratto, è declinato soprattutto a livello esperienziale, individuale, sociale, cosmico. Sempre in agguato è il rischio della semplificazione teoretica o del dogmatismo ideologico, come è ben attestato dalla polemica di Giobbe nei confronti degli amici “teologi”, capaci solo di “raffazzonare menzogne” intonacando i muri delle loro costruzioni ideali (13, 4), pronti a elaborare innocui “decotti di malva” (6, 6) e a rivelarsi come “consolatori fastidiosi” (16, 2). Proprio per questo la Bibbia non offre mai una teoria definitiva, unitaria e sistematica sul tema del male ma cerca di gettare luce su questo groviglio oscuro e soprattutto di individuare qualche itinerario di senso e di redenzione.
Proprio in capite alle Scritture c’è subito una considerazione che ribalta la tradizionale impostazione della teodicea. Prima di interpellare Dio per le sue “responsabilità”, i capitoli 2-3 della Genesi ci invitano a interrogare l’uomo, la sua libertà e coscienza perché un’ampia porzione del male disseminato nella storia ha una precisa sorgente umana. In quelle due pagine, costruite a dittico, da un lato si delinea il progetto della creazione e della storia secondo il Creatore: armonia dell’umanità con Dio nel dialogo e nel comune “respiro” interiore (nishmat hajjim di 2, 7 è, di per sé, non tanto l’alito vitale ma la coscienza morale), armonia dell’umanità con le altre creature, simboleggiate negli animali, armonia dell’uomo col suo simile, incarnato nella donna, “carne della mia stessa carne” (2, 23).
D’altro lato, nel capitolo 3, ecco apparire il progetto alternativo ordito dall’uomo che ha deciso di definire in proprio “la conoscenza del bene e del male”: Dio diventa un estraneo, relegato nel suo Eden trascendente; la terra è devastata e, ridotta a deserto, produce solo “spine e cardi” (3, 18); la donna, cioè il prossimo, è “dominata” dall’uomo che prevarica su di essa (3, 16). Le scelte libere umane, quando si pongono in contrasto con la morale trascendente, generano sofferenza, morte e male. È per questo che i sapienti di Israele ribadiscono con chiarezza la tesi della responsabilità umana: ”Non dire: Mi sono ribellato per colpa del Signore, perché ciò che egli detesta non devi farlo (…) Egli da principio creò l’uomo e lo lasciò in balìa del suo volere (…) Egli ti ha posto davanti il fuoco e l’acqua: là dove vuoi stenderai la mano. Davanti agli uomini stanno la vita e la morte: a ognuno sarà dato ciò che a lui piacerà” (Siracide, 15, 11-17).
Similmente il libro della Sapienza non esiterà ad affermare che “Dio non ha creato la morte e non gode della rovina dei viventi. Egli infatti ha creato tutto per l’esistenza; le creature del mondo sono sane, in esse non c’è veleno di morte, né gli inferi regnano sulla terra” (1, 13-14).
Delineato questo primo percorso nell’orizzonte del male, non si può, però, ignorare un fatto che il filosofo francese Philippe Nemo ha definito come “l’eccesso del male”: c’è, infatti, un male che “eccede” la pura e semplice responsabilità umana individuale e sociale. È significativo che questa locuzione sia stata coniata dal filosofo per un suo libro su Giobbe. Questo celebre personaggio biblico, protagonista di una delle opere più alte della stessa letteratura universale, si scontra appunto con un male assurdo, che non può essere riportato alle deviazioni morali dell’uomo né che può essere annullato nella tesi che gli “amici” – incarnazione della teologia tradizionale – gli oppongono come spiegazione risolutiva. Si tratta di quella “teoria della retribuzione” a cui sopra si è accennato e che altro non è che un ricorso al giudizio divino sulla responsabilità peccaminosa dell’uomo e, quindi, un rientro per altra via nel percorso precedentemente descritto.
Certo, arduo è definire quale sia il tracciato ideale di Giobbe il cui discorso procede in modo ramificato, poetico e simbolico. Ma è indubbio che egli, in pagine grondanti ribellione, protesta e interrogazione, dichiara che non è sufficiente l’uomo a spiegare un certo tipo di male: egli vuole, infatti, coinvolgere Dio in modo diretto nella soluzione del male enigmatico ed eccedente la ragione. E Dio accetta di deporre in questa sorta di processo al quale la vittima del male ha voluto fosse convocato. C’è un aspetto rilevante del male che non può essere “razionalizzato” e quindi Giobbe ha ragione nel protestare (si veda 42, 7): il male urla con tutto il suo scandalo contro la mente dell’uomo, il suo scandalo è accecante. Ma Dio rivela (è, quindi, frutto di una conoscenza che avviene su un altro “canale” di intuizione) all’uomo che esiste una ‘esah (38, 2), cioè un “progetto”, una razionalità trascendente, da mistero, superiore e totalizzante.
Giobbe, a questo punto, è contemporaneamente teso verso la rivolta e la disperazione a cui lo conduce “logicamente” la sua intelligenza di fronte all’”eccesso del male”, ma è spinto anche verso la speranza e l’inno di lode a cui lo conduce “misticamente” la rivelazione divina, cioè la conoscenza di fede. È in questo territorio nuovo che può essere introdotto un altro percorso, quello che è aperto da una figura emblematica, il “Servo del Signore”, presente nel libro di Isaia, in particolare nel capitolo 53, e ripreso dal Nuovo Testamento in chiave cristologica. C’è un male-dolore che piomba sul giusto – e qui siamo nell’ambito stesso di Giobbe – ma questa irruzione diventa sorgente di liberazione, vita e salvezza per gli altri: “Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti” (53, 5).
È interessante citare al riguardo un passo delle Considerazioni sul peccato, il dolore, la speranza e la vera via di Franz Kafka perché illustra in modo “laico” questa comunione nel dolore come via per la crescita comune e la trasformazione solidale dell’umanità. “Tutte le sofferenze che sono attorno a noi dobbiamo patirle anche noi. Noi non abbiamo un solo corpo, ma abbiamo una crescita, e questo ci conduce attraverso tutti i dolori, in questa o quella forma. Come il bambino si evolve, attraverso tutte le età della vita, fino alla vecchiaia e alla morte (e ogni singolo stadio appare fondamentalmente irraggiungibile al precedente, sia nel desiderio che nella paura), così ci evolviamo anche noi (legati all’umanità non meno profondamente che a noi stessi) attraverso tutte le pene di questo mondo”.
La strada di solidarietà delineata dal Servo del Signore ci prepara ad accostarci al Nuovo Testamento, in particolare ai Vangeli, ove il male sembra incombere come una presenza drammatica ma non tragica. Mai come in questo caso dobbiamo segnalare i limiti di questa nostra analisi che vuole solo indicare un tracciato da seguire poi all’interno dei testi e attraverso una ricerca ben più ampia e sistematica. È significativo un fatto: gli esegeti sono convinti che uno dei “protovangeli”, cioè dei primi testi codificati – a noi non pervenuti ma ai quali attinsero gli evangelisti al punto tale da intravederne una presenza in filigrana ai loro racconti – dalla tradizione cristiana delle origini fu proprio una narrazione della passione e morte di Cristo. Il male fisico e morale, la morte e lo scandalo della sofferenza furono subito considerati centrali nell’annunzio cristiano, anche se illuminati dal fulgore della Pasqua. Diversamente dalle cosiddette “Vite degli eroi”, molto popolari nel mondo greco-romano, il cristianesimo ha dato una prevalenza sorprendente proprio alla sconfitta del suo fondatore sotto l’impeto del male prima ancora di celebrarne i successi.
Questo aspetto è capitale all’interno della teologia dell’Incarnazione. L’Incarnazione è, infatti, la scelta di Dio – che per sua natura è oltre la morte, il dolore, il male – di penetrare e assumere in sé la sarx, cioè la “carne”, il limite creaturale, così da condividerla e redimerla dall’interno. In Cristo, Dio e uomo, non si ha tanto la giustificazione o la decifrazione dello scandalo del male in un sistema ideologico o etico coerente. Si ha, invece, la condivisione per amore, che non è però una mera adesione eroica che ha come sbocco l’immolazione della croce, ultimo e conclusivo approdo. Proprio perché Cristo non cessa di essere Figlio di Dio, egli assumendo il male, il dolore e la morte lascia in essi un seme di divinità, di eternità, di luce, di salvezza. L’amore divino non ci protegge “da” ogni male ma ci sostiene “in” ogni male facendocelo superare.
L’esperienza del male rimane angosciante come un carcere. L’ingresso del Figlio di Dio in quel carcere segna una svolta: esso non è sbarrato per sempre, in un’immanenza che si consuma in se stessa, ma viene aperto per un “oltre”. Questo “oltre” è illustrato in modo nitido sia attraverso i miracoli compiuti da Cristo sia attraverso la sua Pasqua. La Pasqua è l’inaugurazione di questo riscatto che dovrà distendersi passo per passo durante tutto l’itinerario della storia così da redimerla e far sì che il duello col male e la morte sia condotto a termine (1 Corinzi, 15, 54-57) e “Dio sia tutto in tutti” (15, 28). Alla meta della storia il cristianesimo pone la Pasqua universale umana e cosmica. Essa è stata inaugurata da Cristo con la sua sofferenza, morte e Pasqua. Allora si compirà quello che l’Apocalisse delinea nel suo affresco della Gerusalemme nuova e perfetta: “Non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno perché le cose di prima sono passate” (21, 4). Mentre cammina nella storia, il cristiano non ignora il male e il dolore ma sa che in esso Dio – attraverso l’incarnazione del Figlio suo – ha deposto un seme di eternità e di salvezza che cresce silenzioso, per diventare “stelo, spiga e chicco pieno di spiga” (Marco, 4, 28).
Noi, però, vorremmo ora – molto più modestamente – indicare due conclusioni sulla base delle considerazioni finora sviluppate, pur consapevoli comunque del mistero che la sofferenza coinvolge. Eschilo nei Persiani pone l’eterna domanda che sale dal respiro di dolore dell’umanità: “Io grido in alto le mie infinite sofferenze, dal profondo dell’ombra chi mi ascolterà?” (v. 635). La prima considerazione vuole porre l’accento sulla simbolicità del dolore. Come è noto, il termine “simbolo” deriva dal greco syn-ballein, cioè “mettere insieme”: è il tentativo di unire in sé più significati nella stessa realtà. Ebbene, la sofferenza è di sua natura simbolica; è, come dice il titolo di una suggestiva opera autobiografica della scrittrice americana Susan Sonntag, la metafora di un’esperienza più alta (Illness as metaphor, 1978). È indice di un “male oscuro” e radicale, per usare il titolo di un romanzo del nostro Giuseppe Berto (1964).
Kafka nei suoi Diari annotava: “Sono arrivato alla convinzione che la tubercolosi non sia una malattia particolare, un male degno di questo nome, ma soltanto una maggiore intensità del germe generale della morte, la mia ferita, della quale la lesione ai polmoni è solo un simbolo”. Similmente, anche se con maggior enfasi, Gabriele D’Annunzio nel suo Libro segreto (1935) dichiarava: “So che le cause del mio male sono nell’oscurità del mio spirito che a poco a poco io rischiaro guarendomi. V’è, se io sono infermo, un fallo di armonia non solo nella mia carcassa ma nella mia anima. Ho in mente che qualcuno abbia considerato la malattia come un problema musicale. Ma forse son io quegli”. La sofferenza non è mai solo fisica, ma coinvolge “simbolicamente” corporeità e spiritualità, la “carcassa” e l’”anima”.
Essa può contemporaneamente generare disperazione e speranza, tenebra e luce; può essere distruzione e purificazione; riduce alla bestialità ma può anche trasfigurare, “distillando” come in un crogiuolo le capacità più alte, divenendo luminosità interiore e catarsi. Il grande mistico medievale Meister Eckhart (1260 ca.-1327) affermava che “nulla sa più di fiele del soffrire, nulla sa più di miele dell’aver sofferto; nulla di fronte agli uomini sfigura il corpo più della sofferenza, ma nulla di fronte a Dio abbellisce l’anima più dell’aver sofferto”.
Proprio per questa dimensione simbolica del soffrire umano, l’approccio nei confronti del malato e del sofferente in genere non può essere parziale. Da un lato, è indubbia la necessità della terapia medica: dopo tutto, quasi metà del Vangelo di Marco è un racconto di guarigioni operate da Cristo al punto tale che un teologo, René Latourelle, ha scritto che “i Vangeli senza miracoli di guarigione sono come l’Amleto di Shakespeare senza il principe”. D’altro lato, la pura biologicità e la tecnica asettica sono insufficienti ed esigono un incontro, un dialogo, un supplemento di umanità. Mai come nel dolore ci si accorge di non “avere” un corpo ma di “essere” un corpo che è segno di una realtà interiore più profonda. Sono suggestive dal punto di vista simbolico le citate narrazioni evangeliche delle guarigioni dei lebbrosi: come si diceva, contravvenendo tutti i divieti rituali e sanitari del tempo, Gesù “li tocca” e con questo gesto vuole quasi assumere su di sé il male, condividendone il peso e l’amarezza.
Mai come nel dolore l’uomo s’accorge della falsità delle parole di conforto dette in modo estrinseco e senza autentica partecipazione. Anzi, il malato scopre che, alla fine, egli rimane solo col suo male. È lo stesso Giobbe a descrivere in modo pittoresco e persino barocco questo isolamento quando scopre che “a mia moglie ripugna il mio alito, faccio schifo ai figli del mio ventre” (19, 17). Nel tempo del dolore la verità non riesce a patire contraffazioni.
È, allora, in questo momento che deve scattare una specie di alleanza tra paziente e medico – infermiere, parente, assistente, cappellano e così via – tra chi soffre e chi lo vuole sostenere. È questa la seconda considerazione che vogliamo proporre. Nel racconto biblico della creazione della donna si dichiara che l’uomo supera la sua solitudine solo quando trova “un aiuto che stia di fronte” (ke-negdô), che sappia quindi avere gli occhi negli occhi dell’altro, che non troneggi sopra la creatura come una divinità ma che non sia neppure inferiore e inetto come un animale.
Questa solidarietà è difficile da creare ma è indispensabile. La conoscenza tra chi cura e chi è curato dev’essere meno fredda e distaccata di quanto spesso accade: dev’essere fatta di comunicazione genuina, di dialogo, di ascolto, di verità detta con partecipazione. Il sofferente deve sentirsi rispettato anche nel momento della debolezza, quando il pianto inonda le sue guance ed è noto che esiste sempre un pudore nel mostrare le lacrime. Dev’essere aiutato a liberarsi dei condizionamenti di una cultura della “forza”, di un “maschilismo” vanamente eroico e ad accettarsi anche nel tempo della prova, come affermava Baudelaire: “Signore, la migliore testimonianza che noi possiamo dare della nostra dignità è questo ardente singhiozzo che rotola di età in età e viene a morire ai bordi della tua eternità”.
Anche Cristo di fronte alla notte della passione implora di essere liberato dal calice della sofferenza (Marco, 14, 36) e confessa di avere “l’anima triste fino alla morte” (Marco, 14, 34), scoprendo però con amarezza di non avere accanto la solidarietà affettuosa dei suoi discepoli: “Così non siete stati capaci di vegliare una sola ora con me?” (Matteo, 26, 40). Bisogna, allora, ribadire una parola tanto abusata ed equivocata, la cui vera declinazione nell’esistenza è sempre ardua, cioè l’amore. Solo se circondato d’amore, il malato riesce ad accettarsi e a superare anche il pudore che è la consapevolezza – come affermava il filosofo Max Scheler – di “un certo squilibrio, di una certa disarmonia tra il significato e le esigenze della sua persona spirituale, da una parte, e i suoi bisogni corporei, dall’altra”.
In questa luce ci sembra suggestiva una parabola che vorremmo porre a suggello di queste riflessioni molto limitate su un orizzonte immenso e incandescente, incapaci di fissare in un profilo sintetico il volto proteiforme del male. Anche per il credente, il dolore rimane una cittadella il cui centro non può essere completamente espugnato. Come diceva il poeta cattolico francese Paul Claudel, “Dio non è venuto a spiegare la sofferenza, è venuto a riempirla della sua presenza”. A questo proposito ci affidiamo a una figura “laica” come lo scrittore Ennio Flaiano (1910-1972).
A lui era nata nel 1942 una figlia, Luisa, che già a otto anni aveva iniziato a rivelare un’encefalopatia epilettoide e che è vissuta fino al 1992, curata amorosamente dalla madre, Rosetta Flaiano. Ebbene, lo scrittore abruzzese nel 1960 aveva pensato a un romanzo-film di cui è rimasto solo l’abbozzo. In esso si immaginava il ritorno di Gesù sulla terra, infastidito da giornalisti e fotoreporter ma, come un tempo, attento solo agli ultimi e ai malati. Ed ecco, ”un uomo condusse a Gesù la figlia malata e gli disse: io non voglio che tu la guarisca ma che tu la ami. Gesù baciò quella ragazza e disse: “In verità, quest’uomo ha chiesto ciò che io posso dare”. Così detto, sparì in una gloria di luce, lasciando la folla a commentare i suoi miracoli e i giornalisti a descriverli”.
La scena, come è evidente, si carica di tutta la tenerezza che, con pudore e amore, lo scrittore aveva riversato sulla sua creatura sofferente. In quell’uomo Flaiano vedeva se stesso che s’accostava a Gesù per chiedere non il prodigio ma il dono altissimo della condivisione e della comunione nella sofferenza. E forse, quando in una notte terribile dovette ricoverare la figlia tormentata dagli “orribili assalti del male che la torcevano e la irrigidivano, con una mano tesa verso l’alto”, Flaiano padre implorò quel bacio sulla sua figlia, un bacio che certamente non fu negato.

IL MISTERO DEL DOLORE NELLA LUCE DELLA REDENZIONE

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IL MISTERO DEL DOLORE NELLA LUCE DELLA REDENZIONE

di P. Stefano M.Manelli

Il dolore e la sofferenza rimangono ancora oggi degli interrogativi profondi, a volte angoscianti. Si è davanti ad uno dei misteri della vita. Molto spesso il dolore è così scandaloso – vorremmo solo il bene, la salute e invece si sperimenta spesso il loro contrario – che ci porta alla negazione di Dio. Ma ancora una volta si è testimoni, così facendo, che il dolore è un mistero grande che ci conduce a Dio, almeno a porcene il problema.
Magari lo si ingiuria, lo si combatte, ma pur sempre si è convinti che il dolore è un interrogarsi su Dio. Non si darà allora una risposta soddisfacente a questo mistero se non partendo dal mistero di Dio, dal mistero della vita come dono di Dio. Oggi capita spesso, a volte a livello teologico, a volte pastorale, d’essere troppo frettolosi nell’assolvere Dio dal mistero della sofferenza e così facendo non ci si accorge che si banalizza il problema facendolo ricadere solo sull’uomo. Quello che poteva essere un nexus per ritrovare il Dio della vita e dell’amore, diventa invece un assurdo ancora più as-surdo. Nel 1998, l’allora Card. Ratzinger, in un colloquio critico col teologo Johann Baptist Metz, sottolineava proprio che dimenticare la presenza attiva ed operante di Dio nella storia, sempre, alla fin fine riconduce ad un’idea deista di Dio con le conseguenze atroci di un ripiegamento sull’uomo solo, soggetto assoluto di una storia orribile: «…se alla fine – diceva – non avvertiamo più che Dio entra real-mente nella storia e che, malgrado tutte le leggi di natura e tutto quello che noi possiamo sapere e fare, rimane il soggetto della storia e agisce in essa, se lo trasformiamo in un orizzonte indeterminato che in qualche modo fa fare una bella fine al tutto, allora siamo soltanto noi i soggetti della storia. Allora il peso intero del bene e del male pesa interamente sulle nostre spalle» (in P. TIEMO RAINERS – U. CLAUS [a cura di], La provocazione del discorso su Dio, Queriniana, Brescia 2005, p. 77, orig. ted. Ende der Zeit? Die Provokation der Rede von Gott, Matthias–Grünewald Verlag, Mainz 1999).
Il dolore non può sfuggire a Dio perché Dio lo ha redento. La nostra risposta ad esso è Cristo redentore e Maria corredentrice. Il dolore può redimere perché è stato redento. Solo in Gesù e Maria il dolore acquista un senso bello anche se pur sempre terribile: diventa sofferenza redentrice per la vita eterna.
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Sempre inquietanti si presentano gli interrogativi sul mistero del dolore e sulla problematica della sofferenza che agita perenne-mente gli uomini su questa terra di «triboli e spine» (Gn 3,18).
Se Dio è buono, perché permette la sofferenza? Se Dio è onni-potente, perché non distrugge il dolore? Se Dio ama gli uomini, perché li lascia soffrire?
Sono questi gli interrogativi che si pone l’uomo della strada di ogni tempo e luogo. Non c’è bisogno di essere pensatore o filosofo, socio-logo o psicologo, giovane o adulto, per porsi questi interrogativi.
Ma quale può o deve essere la risposta a questi interrogativi? Al di là delle possibili e ipotetiche risposte, noi diciamo subito che l’unica risposta valida e sicura a questi interrogativi ci viene dalla visione cristiana della vita. È la fede cristiana la grande Maestra della vita, e il suo insegnamento è questo: l’uomo è fatto per la fe-licità eterna, la vita terrena è preparazione alla felicità eterna, la grazia e le virtù sono i valori autentici per la realizzazione del fine, ossia della beatitudine nell’eternità del Regno dei cieli, con Cristo e per Cristo Crocifisso.
Illuminante può essere questo significativo episodio doloroso: «Il ministro di Dio, Milton Galimason, negro, racconta che un gior-no il figlio d’uno dei suoi parrocchiani andò a finire sotto le ruote di un veicolo, morendo fra atroci sofferenze. In preda alla più viva di-sperazione, il padre del giovinetto si precipitò all’ufficio parrocchiale, singhiozzando: “Ecco cosa fa il tuo Dio tanto buono! Come ha potu-to lasciar morire così un figlio caro come il mio? Come Dio può es-sere tanto misericordioso e giusto, come tu affermi? Dov’era questo tuo Dio nel momento della disgrazia?”.
La risposta venne dolce e triste: “Egli era là, dove si trovava, quando il Figliuolo suo fu ucciso sulla Croce!”» .
Questa è la visione cristiana della vita e del dolore dell’uomo. Senza questa visione cristiana, al problema angoscioso del dolore e ai suoi laceranti interrogativi non resta altra risposta che la dispe-razione dell’ateo e dell’esistenzialista, non resta altra soluzione che l’indifferentismo dei libertini e degli scettici, con il loro atteg-giamento teoretico e pratico in balia, di fatto, dell’incoscienza e dell’irriflessione senza sbocco alcuno .
Il “mistero intangibile” della sofferenza
La sofferenza, infatti, è un «mistero intangibile» della vita uma-na; un mistero presente e operante sul cammino di ogni uomo. La realtà del male, della sofferenza, del dolore, in effetti, è esperienza concreta nella vita di ogni uomo sulla terra. I mali fisici (malattia, morte), i mali intellettuali (ignoranza, errore), i mali morali (peccato, corruzione), sono patrimonio stabile dell’umanità, purtroppo.
Secondo la visione cristiana, però, i mali fisici, intellettuali e mo-rali sono legati al peccato voluto e commesso dall’uomo. «Di que-sta connessione – ha scritto Franco Amerio – abbiamo, se non una prova, certo almeno un’illustrazione anche nell’esperienza quotidiana: quanti mali sono conseguenza dei peccati, dei nostri singoli peccati attuali! Le cronache nere e meno nere dei nostri giornali sono il documento inoppugnabile e spaventoso della triste fecondità della colpa: quante sofferenze per tutti nascono da am-bizioni, egoismi, crudeltà, lussurie… quante sofferenze per il pec-catore: sofferenze di corpo e di anima: alterazioni del fisico, malat-tie, deperimenti, morte…; alterazioni psicologiche fino all’ine¬beti¬mento, all’insensibilità che conduce ai più assurdi delitti, matricidio, infanticidio… In fondo, basterebbe togliere il peccato dal mondo, perché l’umana convivenza venisse profondamente risanata» .
Qual è, tuttavia, la radice “prima” di tutti i peccati degli uomini, e quindi di tutte le sofferenze dell’umanità? Sappiamo già la risposta dal Catechismo e dalla Teologia: è il peccato originale dei nostri progenitori, Adamo ed Eva (cf. Gn 3,1–7). È quella colpa primige-nia che fin dagli inizi ha ridotto l’intera umanità nella condizione di peccato e di peccabilità, rovinando quella felicità originaria che Dio aveva donato ai nostri progenitori, Adamo ed Eva, e che, senza la rovinosa caduta nella colpa originale, sarebbe stata trasmessa per via di generazione a tutta la discendenza umana.
«L’atto di nascita del dolore – ha scritto in bella e rapida sintesi il Pederzini – si identifica con quello delle origini dell’uomo. Il primo uomo, creato libero di accettare o non, la sua dipendenza dal Cre-atore, liberamente si rifiutò, preferendo perdere per sé e per i suoi discendenti l’ordine fisico e morale legato a questa sottomissione.
Questo atto di superbia, suggerito e condiviso da Satana, fu un peccato che coinvolse tutta la discendenza. Fu un peccato univer-sale, cioè esteso nel tempo e nello spazio e nessuno ne fu o ne sarà esente, tranne la Vergine immacolata» .

La Redenzione e le nostre sofferenze
Viene da chiedersi, tuttavia: ma se Dio poteva creare un’uma¬nità libera e senza peccato, perché non lo fece? E ancora: perché l’umanità si è venuta a trovare con la terribile responsabilità del peccato che pesa su di essa e inesorabilmente la ferisce? E non po-teva la Redenzione essere tale da risparmiarci poi ogni sofferenza?
Non abbiamo la risposta a questi interrogativi. Nessuno potreb-be darla, perché è molto al di sopra delle nostre facoltà. Anche il papa Benedetto XVI, nella sua prima Enciclica Deus caritas est, per rispondere alla domanda sul dolore rivolta a Dio, si rifà a sant’Agostino il quale «dà a questa nostra sofferenza la risposta della fede: “Si comprehendis, non est Deus” – Se tu lo comprendi, allora non è Dio» . La vera risposta sta racchiusa interamente nel mistero di Dio: e il mistero di Dio, lo sappiamo, è luce abbagliante che costringe a tenere chiusi gli occhi .
La luce di questo doloroso mistero, tuttavia, traluce, potrebbe dirsi, da un volto divino, ossia da quel mistico Volto di Cristo soffe-rente, dal Volto di colui che è stato definito «l’Uomo dei dolori» (Is 53,3), Gesù Cristo, del quale, a nostro particolare conforto e so-stegno, conosciamo i tratti del Volto dalla vetusta e preziosa reli-quia della santa Sindone (che si conserva e si venera a Torino) .
Nel Volto sofferente di Cristo Crocifisso, infatti, contemplato nel-la santa Sindone, a noi è dato di leggere qualcosa del mistero del peccato e del dolore dell’umanità intera, del peccato e del dolore di ogni singolo uomo segnato dalla colpa adamitica. Nella sua com-postezza, nella sua dolorosa ma nobile espressione, l’immagine della sofferenza che si guarda e si contempla nel Volto di Gesù della santa Sindone sembra richiamare d’un subito alla realtà del peccato e della morte che all’uomo si presentano ogni volta con il loro sinistro potere di turbamento e di dolore.
Nella visione cristiana del dolore si può scoprire una sorta di al-chimia della grazia divina che sa operare la trasformazione della sofferenza e della penitenza nel valore positivo della purificazione dalle passioni e dalle colpe degli uomini, e nel valore ancor più po-sitivo della elevazione degli uomini sugli altipiani delle vette asceti-che e mistiche che avvicinano a quel Regno dei cieli nel quale sol-tanto si trova la piena e perenne felicità secondo il progetto d’a¬more di Dio che aspetta tutti i “redenti” nel Regno dei risorti e che fece esclamare a san Pietro d’Alcantara, apparso, dopo la sua be-ata morte, alla sua grande figlia spirituale, santa Teresa d’Avila: «Oh felice penitenza che mi ha meritato tanta gloria!» .
E proprio la nobiltà austera e serena del Volto sindonico di Gesù Crocifisso sembra illuminarci e dirci con forza che la comunione dell’uomo con Dio si restaura molto meglio, si ricompone più age-volmente, si armonizza e si corona in pieno con la beatitudine della risurrezione nell’aldilà del Paradiso, in nessun’altra maniera che at-traverso la sofferenza accettata e offerta, voluta e amata nel suo sa-lutare mistero. Per questo, dai veri cristiani, come dice il papa Paolo VI, il dolore «non è più respinto come un assurdo nemico della no-stra vita, ma stoicamente, eroicamente, accolto come un fattore di perfezionamento morale e come un valore di mistico significato» .

L’esperienza di Giobbe
Non è forse questa, infatti, la sostanziosa e convincente con-clusione del libro di Giobbe, un testo biblico dell’Antico Testamento che ha fatto versare fiumi di inchiostro nei più vasti commentari bi-blici di ieri (quello di san Gregorio Magno, ad esempio) e di oggi (quelli di D. Ruotolo e di G. Ravasi)?
L’errore fondamentale di Giobbe sofferente, infatti, non consi-stette nel valutare e reagire negativamente al dolore che si presen-tava come ingiusto e che sembrava colpirlo senza ragione alcuna, ma consistette nel non comprendere «come il dolore fosse un mezzo per entrare in una comunione più intima con Dio» , secon-do un disegno divino che trascende l’uomo chiuso nei limiti ristretti del suo creaturale pensare e ragionare.
Le parole finali di Giobbe, infatti, sono queste: «Ho esposto dunque senza discernimento cose troppo superiori a me, che io non comprendo… Io ti conosco per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono. Perciò mi ricredo e ne provo pentimento sopra polvere e cenere» (Gb 42,3,5–6). E «con le sue parole finali – è stato scritto – Giobbe riconosce all’Altissimo la possibilità di avere un disegno che sorpassa le capacità umane di comprensione. Disegno che l’uomo deve accettare con fiducia, speranza e adorazione» .
Ovviamente ciò non può e non deve significare supina accetta-zione del dolore tout–court. Non si può mai dimenticare che il dolo-re, in effetti, è, entitativamente, privazione di un bene, e quindi ne-gativo, da rimuovere dunque (come fa il medico che, asportando un ascesso, ridona la sanità al corpo che geme) .
D’altra parte, però, è vero che oggi la società del consumismo e la civiltà del benessere sono schiavizzate dall’edonismo a piano inclina-to, dall’edonismo in ogni cosa e a tutti i costi, respingendo qualsiasi disagio e rammollendosi nello strame dei piaceri al punto tale da mi-sconoscere e anche annullare la capacità dell’uomo «di affrontare impegni difficili, privandolo così delle soddisfazioni più autentiche e durature» . La società del consumismo e la civiltà del benessere, in questo senso e a tal proposito, meritano soltanto disprezzo, e da es-se bisogna stare in guardia e difendersi lottando .
Come ha bene scritto l’Amerio, «Sembra proprio che senza dolo-re nulla di grande si produca nel mondo. Lo stigma del genio sembra essere il dolore, tanto esso suole accompagnarne la vita, le vicende, i trionfi. Nel dolore si maturano gli uomini. [… ] Piacere e gioia troppo spesso rendono egoisti e crudeli. Dolore e sofferenza invece aprono l’animo verso gli altri ed affratellano» . E lo Chaffanion scriveva a sua volta: «Nulla di grande che non sia sormontato dalla Croce. È la nostra storia, la storia di tutte le nazioni, di tutti i secoli; sia delle na-zioni e dei secoli cristiani, che hanno vere creazioni sublimi; sia delle nazioni e dei secoli non cristiani, che alle sublimità cristiane non han-no nulla da contrapporre, nulla che neppur lontanamente le rivaleggi. La grande linea di demarcazione tra i popoli della terra non è fatta dai mari o dai monti, dalle foreste o dai fiumi. [… ] La vera luce della civil-tà intima del pensiero, della educazione, dell’anima dei popoli, è de-terminata dall’ombra della Croce» .
Per questo il papa Giovanni Paolo II esorta tutti, e specialmente i giovani, ad allenarsi al regime austero per affrontare la vita che comporta lotte e rinunce, «coscienti che il valore dell’uomo – com-menta padre Zangheratti – non si colloca in ciò che ha, ma in ciò che è. Tale coscienza viene completata proprio dalla sofferenza, che trae il proprio valore principale dall’essere “luogo” privilegiato (almeno uno dei luoghi) in cui l’uomo può trascendersi, sino ad in-contrare Dio, causa e fine del nostro essere ed esistere» .

Conformità a Cristo Crocifisso
Il Volto sindonico di Gesù Crocifisso – ma anche il Volto appas-sionato di Gesù Crocifisso del Velasquez e quello trasfigurato della “Pietà” di Michelangelo – si presenta già a prima vista come un vetto-re alla grandezza del valore della sofferenza colta quale “mistero” che trasfigura l’uomo nel passaggio doloroso dall’essere un semplice uo-mo all’essere un uomo santificato, divinizzato, cristificato.
Nel Volto di Cristo, infatti, scopriamo la luce, mite e soffusa, del mistero della sofferenza che fa entrare l’uomo in Dio attraverso la conformita all’umanità deificata di Cristo Crocifisso, Uomo–Dio. E solo nella conformità piena all’immagine del Figlio di Dio fatto car-ne crocifissa, l’uomo può realizzare la propria felicità, secondo il progetto voluto da Dio, per tutti e per ciascuno, in Cristo Morto e Risorto.
Nel Volto sindonico di Gesù Crocifisso si può dire che risplenda in altezza e profondità il mistero del dolore più radicale e acuto che trans–umanizza, trasfigura e divinizza l’uomo. Fu chiesto un giorno a sant’Ignazio di Loyola quale fosse il cammino più breve per arriva-re a Dio e unirsi a Dio, e il Santo rispose con voce grave ma decisa: «È il cammino nel quale si soffrono molte e grandi avversità» .
Nella vita cristiana vissuta in pienezza di conformità a Cristo, quin-di, dolore e divinizzazione fanno unità in sinergia di dinamismi analo-ghi a quelli che avvengono fra il seme e la terra che lo accoglie nel suo grembo: il sotterramento e la macerazione del seme ad opera della terra, infatti, è immagine del dolore che si presenta, all’appa¬renza, come una disfatta del seme, mentre opera la sua trasmutazio-ne, invece, e lo porta, dinamicamente, alla trans–elevazione in una spiga dorata, in una rosa di Engaddi, in un cedro del Libano . Quale processo segreto di trasformazione avviene in esso!
Con una bella e delicata immagine, il Pederzini spiega come la sofferenza possa trasformarsi in una salutare e preziosa realtà, scrivendo che l’uomo «è come l’incenso: deve essere bruciato per far sentire il suo profumo» . Anche l’ardente santa Caterina da Siena – colei che fu vista avere talvolta l’identico Volto di Gesù – ha lasciato scritto un pensiero che ha la vaghezza della poesia più alta del dolore in chiave tutta mistica: «Nel dolore l’anima mia gode perché, fra le spine, sente l’odore della rosa che sta per schiuder-si»; e san Francesco Saverio, l’intrepido missionario nelle terre dell’Asia, arrivò a battezzare con il nome di Isola delle Consolazio-ni l’isola di Noro, perché ivi egli aveva molto patito .
Il Calvario e il Tabor
Si potrebbe pensare anche al suggestivo richiamo dei due mon-ti biblici, di cui ci parla il Vangelo: il Calvario e il Tabor. Su questi due monti Gesù è stato protagonista dei due fatti straordinari, os-sia della sua Crocifissione e morte, e della sua Trasfigurazione. Unico era il Volto di Gesù sul monte Calvario e sul monte Tabor: ma sul monte Calvario era il Volto dell’umanità sfigurata e crocifis-sa; sul monte Tabor era il volto dell’umanità trasfigurata e diviniz-zata. Crocifissione e trasfigurazione: il rapporto è stretto, è intrin-seco. La crocifissione prepara e garantisce la trasfigurazione, e perciò non può darsi trasfigurazione se non come frutto e gloria della crocifissione.
Nella Teologia spirituale vastissimo è il campo dell’agiografia in cui si ritrova la compresenza attiva e feconda di sofferenza e santi-tà. In questa compresenza si scopre che il dolore apre alla santità, mentre la santità cresce e si potenzia nel dolore. In termini di Teo-logia ascetica, il dolore si chiama purificazione (con i suoi termini equivalenti: rinnegamento, mortificazione, penitenza); in termini di Teologia mistica, la santità si chiama cristificazione o unione pie-na, sponsale con Dio (con i suoi termini equivalenti : trasfigurazio-ne, conformità, identificazione con Cristo, matrimonio mistico).
La Teologia spirituale, nel suo impianto fondamentale, tratta della sofferenza che santifica e trasforma attraverso le fasi cruciali delle cosiddette “purificazioni”, nei riguardi di ogni uomo che voglia santificarsi, rinnegando «l’uomo vecchio con la condotta di prima, l’uomo che si corrompe dietro le passioni ingannatrici» (Ef 4,22). Le “purificazioni attive” dei sensi esterni, dei sensi interni e dello spirito, e le “purificazioni passive” dei sensi e dello spirito, sono una scuola di sofferenza trasformatrice e santificatrice che, per gradi, ascende sempre più in alto, fino alla kenosis dell’io, potreb-be dirsi, nella “notte” dello spirito, da san Giovanni della Croce de-finita la “notte orrenda”, ma nello stesso tempo la “notte” più fe-conda della santità, più sublime nell’unione trasformante e consu-mante .
San Paolo di Tarso e san Francesco d’Assisi, santa Caterina da Siena e santa Veronica Giuliani, santa Gemma Galgani e san Pio da Pietrelcina: sono alcuni fra i molti Santi nei quali, lungo i due millenni di Cristianesimo, s’è avuta l’evidenza solare, potrebbe dir-si, del valore ascetico–mistico della sofferenza di Cristo che, ac-cettata e condivisa volontariamente, purifica e santifica la creatura umana, riuscendo ad elevarla e a trasfigurarla fino alla più sublime cristificazione, anche fisica .

«Chi è costui?… È Francesco d’Assisi?…»
Questo è il mistero di grazia del Volto di Cristo Crocifisso, che si rinnova nelle membra più elette del Corpo Mistico, che si prolunga nella vita dei Santi, a volte anche in maniera così straordinaria che nelle cronache dei primi tempi del francescanesimo, ad esempio, ci è stata tramandata la relazione del frate minore che fu presente, in visione, all’entrata di san Francesco d’Assisi in Paradiso.
Racconta il frate che quando san Francesco d’Assisi, subito dopo la morte, si presentò nell’aldilà ed entrò in Paradiso, gli abitanti del cielo, Angeli e Santi, nell’accoglierlo, lo guardavano stupiti e si do-mandavano l’un l’altro: «Ma chi è costui?… È frate Francesco d’Assisi… No, è il nostro Signore Gesù… No, è frate Francesco d’Assisi…». Non si accordavano tra di loro, perché era davvero diffici-le distinguere il volto di san Francesco d’Assisi dal Volto di Gesù, per la perfetta conformità di amore e di dolore che li aveva plasmati am-bedue .
È molto significativo, poi, che la più piena somiglianza del Volto di Gesù si abbia nei Santi più sofferenti, più piagati e sanguinanti, come i martiri, gli stimmatizzati, le vittime. È una conferma superla-tiva, questa, della preziosità della sofferenza di Cristo che, vissuta e amata dai Santi, diventa vettore di grazia alla più totale trasfor-mazione in Cristo, alla somiglianza più suggestiva con il Volto di Cristo, alla cristificazione più piena e perfetta, che è l’ideale arden-te e appassionato di tutti i Santi. «Sono anime elette, – scrive il beato Colomba Marmion – sono anime–vittime, vittime di espia-zione e di lode. Queste anime fanno molto per la gloria di Dio e per la salute delle anime, e sono care a Gesù più assai di quanto pos-siamo immaginare. Egli fa la sua delizia il trovarsi in esse» .
È un vero peccato, per questo, che pressoché tutti gli uomini, cir-condati e colpiti da tante sofferenze, anziché valorizzarle, abbrac-ciandole con l’amore di Cristo, le fuggano, con fretta e premura, le respingano, le disprezzino, le maledicano… Ignorano, e vogliono ignorare, che ogni croce, se all’esterno è di legno duro, all’interno è di oro puro. Ed è soltanto sulla Croce che si può scorgere il Volto d’amore doloroso del Redentore, come affermava la grande anima di Leon Bloy scrivendo che «Solo l’oscurità di un Calvario spirituale diffonde sulle nostre anime, la soave chiarezza del volto del nostro mirabile Salvatore!» .
San Giovanni Bosco, ad esempio, sapeva ben dimostrare il va-lore delle sofferenze che aveva e che erano tali da mettere a dura prova la virtù della fortezza: emottisi frequenti, artritismo costante e doloroso, vene varicose che rendevano faticoso il camminare, malattia agli occhi fino a ridurlo alla cecità, nevralgie così lancinan-ti ai denti da sentirsi scoppiare la testa: eppure, egli era sempre «il prete sorridente e amabile con tutti – scrive il Vivoda – come se godesse la più florida salute. Sorrideva, perché mentre il mondo ammirava la grandezza delle sue opere, egli pensava, con san Bonaventura, esservi maggior perfezione nel sopportare con pazienza le avversità» .

Santa Liduina, beata Alexandrina, venerabile Giacomo GaglioneColoro che compresero e vissero fino in fondo il valore prezioso della sofferenza, fra i molti “eletti” di Dio che l’agiografia ricorda, furono certamente, tre grandi vittime, di cui una è vissuta a cavallo tra XIV e XV secolo, le altre due del secolo ventesimo: santa Li-duina da Schiedam, olandese, la beata Alexandrina Da Costa, spagnola, il venerabile Giacomo Gaglione, italiano. Tutti e tre, per cause e modi diversi, sono stati paralizzati per decenni. Basti qui riferire soltanto qualche particolare significativo della loro vita di martirio continuo.
Santa Liduina da Schiedam si può dire che sia passata alla sto-ria come un “emblema” per la sua vita di vittima davvero straordi-naria nel soffrire tali e tanti travagli da stupire quanti ne venivano a conoscenza e la avvicinavano. A vederla, non si poteva non rico-noscere che per quella vittima c’era un disegno tutto particolare di Dio, un piano di immolazione che la ridusse a un mosaico di malat-tie e di sofferenze strazianti, senza poter spiegare come ella po-tesse ancora vivere e non morire dall’età di quindici anni, per ven-totto anni di seguito. Ma ella accettò di diventare vittima espiatrice per le cattiverie degli uomini, e chiedeva ella stessa al Signore le malattie più terribili per espiare, sapendo soffrire in modo edifican-te, sostenuta da esperienze mistiche eccezionali (particolarmente con gli Angeli) che la animavano a liberare il prossimo dalle soffe-renze trasferendole su di sé .
La beata Alexandrina Da Costa, nella sua paralisi, soffriva dolo-ri lancinanti e trafiggenti ad ogni minimo movimento anche solo del capo. Aveva il volto stremato dal dolore, e chiunque la vedeva non poteva trattenere le lacrime di commozione e di compassione. Ma alla Beata dispiaceva moltissimo che i visitatori dovessero andare via piangendo, e pregò quindi Gesù di donarle la forza di sorridere, pur tra quei dolori lancinanti. Gesù l’esaudì e, senza toglierle i do-lori, le diede la forza di sorridere ai visitatori, così che questi anda-vano via consolati, pensando che Alessandrina, sorridente, davve-ro non soffrisse molto. Alexandrina, silenziosamente, chiamava quei sorrisi i “sorrisi traditori”: erano i sorrisi dell’amore crocifisso .
Il venerabile Giacomo Gaglione era talmente paralizzato che poteva muovere soltanto le dita di una mano: ed egli si servì di queste dita, fino alla morte, per recitare incessantemente la corona del santo Rosario, da solo e con gli altri, di giorno e di notte, sem-pre sulla croce della sua paralisi totale. Egli appariva realmente come un crocifisso, e quella corona fra le dita della mano era il ri-chiamo vivo della Madonna vicina a Gesù Crocifisso e vicina a questo novello “crocifisso”. Ma non era affatto triste, questa vitti-ma! Al contrario, aveva sempre il volto sereno e con la vivacità de-gli occhi esprimeva anche la sua gioia per la preziosità del dolore offerto con amore. Tra l’altro, egli arrivò a voler festeggiare ogni anno il giorno anniversario della sua paralisi, fra la commozione di tutti. Anche in lui il Volto redentore di Cristo irradiava dolore e a-more inseparabili .

«Non peccare perché non ti capiti di peggio»
Che cosa dire, invece, di quanti fanno del dolore soltanto un ve-leno di morte, una sciagura senza scampo, una iattura da maledi-re? Nessuno sembra volersi rendere conto che se si valorizzasse, in Cristo Crocifisso, l’immenso peso della sofferenza nel mondo, i cristiani finirebbero col gridare con san Paolo: «Sovrabbondo di gioia nella mia tribolazione» (2Cor 7,4), esultando come gli Apo-stoli, i quali, imprigionati, malmenati e flagellati dai sinedristi, «se ne andavano dal sinedrio lieti di essere stati oltraggiati per amore del nome di Gesù» (At 5,41).
D’altra parte è purtroppo vero che agli uomini riesce anche diffi-cile saper cogliere la connessione interna che quasi sempre inter-corre fra le proprie sofferenze e i propri peccati; connessione da Gesù stesso manifestata e insegnata quando al paralitico guarito miracolosamente disse la severa ammonizione: «Non peccare più, perché non ti abbia ad accadere qualcosa di peggio» (Gv 5,14).
Su questo punto, in realtà, c’è da dire che la nostra natura, con il suo innato istinto di conservazione, reagisce sempre con imme-diatezza respingendo ogni dolore come inaccettabile, bloccando anche, con facilità, ogni riflessione dello spirito che pur dovrebbe rendersi conto delle proprie miserie e peccati, da cui proviene quel dolore che serve appunto alla giusta riparazione ed espiazione delle colpe.
Esempio luminoso scritto nel Vangelo, su questo punto, è quel-lo dei due “ladroni” crocifissi con Gesù sul Calvario, di cui uno si rende chiaramente conto del suo dover patire, giustamente, la pe-na meritata per le innumerevoli colpe e delitti, e si affida, per que-sto, alla misericordia di Gesù; l’altro ladrone, invece, comincia solo a imprecare con la cecità e la rabbia dell’odio, senza affatto rico-noscere le colpe e i delitti con cui ha meritato quella giusta pena (cf. Lc 23,39–43).
Ogni peccato, infatti, è una violazione dell’ordine stabilito da Dio, e per questo si contrae un debito con la giustizia divina. Lo di-ceva bene, con una sola espressione Napoleone Bonaparte, allor-ché, sconfitto e condannato, dovette intraprendere l’umiliante viag-gio verso l’esilio di sant’Elena: «Tutto si paga!» . In tal modo, la giustizia ristabilisce l’ordine delle cose, perché «chi ha cercato il peccato attraverso il piacere – spiega l’Amerio – attraverso il dolo-re espierà il peccato» .
Ed è il Signore che vuole farci pagare il fio delle nostre colpe perché siamo suoi figli. Come ha scritto molto bene il Pederzini, infatti, «Nella Bibbia si legge che il Signore corregge coloro che gli sono cari e usa la sferza con ogni figlio che riconosce come suo. Ci castiga per le nostre ingiustizie e ci conserva per la sua bontà (cf. Tb 13,16)» .

Una pagina mirabile del papa Pio XII
C’è una celebre pagina scritta dal Sommo Pontefice Pio XII, in uno dei suoi magnifici discorsi agli ammalati, nel quale egli ha tratteggiato con raffinata maestria, unita a estrema delicatezza, lo stato d’animo drammatico di chi si autocostringe a soffrire ama-ramente e ciecamente, non aprendosi alla luce della fede che, sola, può illuminare sul perché del dolore e può sostenere quindi nel travaglio.
«Ci pare di vedere là, in quella corsia – dice il papa Pio XII –, un giovane che soffre, e soffrendo impreca. Un giorno era forte, era bello; formava l’orgoglio dei genitori, i quali ora hanno lo schianto nel cuore, perché temono di perderlo, minato da un male che non perdona. E il giovane sente quasi sfuggire da lui la vita: addio salute, addio vigore; addio fremiti di speranza; addio progetti accarezzati con l’entusiasmo di un fanciullo; addio amore. E il gio-vane si ribella: “Perché, perché? Non ha anch’io diritto alla vita? E può un Dio buono lasciarmi tanto soffrire, lasciarmi morire? Che ho fatto di male?”.
Quanti siete, o figliuoli, o figliuole? Quanti avete contraffatto il volto e fremete con l’ira nel cuore e avete l’imprecazione sulle lab-bra? A voi specialmente vorremmo accostarci, vorremmo posare dolcemente la Nostra mano sulle fronti bruciate dalla febbre. Vor-remmo, con infinita tenerezza, sussurrare a ciascuno di voi: O a-nima angosciata, perché ti ribelli? Lascia cadere nel tetro mistero del dolore i raggi di luce che promanano dalla Croce di Gesù! Che aveva fatto Egli di male? Vedi, forse sul tuo lettuccio, nella tua cor-sia vi è l’immagine della Madonna. Che male aveva Ella fatto? “O anima desolata, perché oppressa dal male, ascolta: Gesù e la sua Madre hanno sofferto, certamente non per propria colpa; ma vo-lenterosamente e con piena conformità al disegno divino. Ti sei mai chiesto perché?
Forse ti è accaduto di fare il male. Ripensaci. Forse hai offeso Dio tante volte e in tante maniere. Tu sai che una colpa grave fa meritare alle anime l’eterna dannazione; tu invece sei ancora in vi-ta, sotto lo sguardo misericordioso di Dio, tra le braccia amorevoli di Maria”» .
Se si riflettesse, guardando e pregando Gesù Crocifisso, si po-trebbe tutti scoprire che nella sofferenza è presente, sia pure na-scosta, la Grazia di Dio che fa espiare e purifica, che ripara e rin-nova, che sostiene e conforta. E allora, come ammoniva sapien-temente sant’Anselmo, dovremmo saper ricevere tutti i dolori di questa vita con la stessa devozione con la quale riceviamo i Sa-cramenti .
Se i Sacramenti, infatti, ci configurano a Gesù, anche «le malat-tie, sopportate con pazienza per la salvezza delle anime, – scrive il Vivoda – ci rendono simili a Gesù Crocifisso. Quelle febbri che ci logorano, quelle sofferenze che ci opprimono, quegli spasimi che ci straziano, quelle operazioni che ci tormentano, quello stato d’inazione che ci annoia sono gli strumenti di cui si serve Iddio per scolpire in noi l’immagine del suo Divin Figliuolo in Croce» .
Per questo sarà sempre vero che chi non ha la visione della fe-de cristiana, se si trova davanti al letto di un canceroso incurabile, dirà che sarebbe meglio la sua morte per cessare di soffrire e di far soffrire, ragionando solo umanamente (come fanno oggi, del resto, i sostenitori dell’eutanasia); chi è Santo, al contrario, consi-glierà al malato di continuare a soffrire per conformarsi a Gesù, per dimostrargli il suo amore, per salvare le anime, ragionando so-prannaturalmente, alla luce della fede in Cristo Crocifisso.

Guardare Gesù Crocifisso
Guardare il Crocifisso, dunque. Gesù, infatti, è sulla Croce per-ché volontariamente ha voluto che Dio lo trattasse «da peccato in nostro favore» (2Cor 5,21). Si potrebbe anche dire, forse, che sulla Croce Gesù ha voluto avere il volto del “peccato” e del “dolore” per noi peccatori da salvare, espiando per amore nostro tutte le offese fatte da noi al Padre. Per amor nostro: così dice espressamente san Paolo scrivendo che «Egli mi ha amato e ha immolato se stesso per me» (Gal 2,20) . E tutto Egli ha voluto soffrire per ob-bedienza e amore al Padre, il quale «ha tanto amato il mondo da mandare il suo Figlio unigenito» (Gv 3,16). Gesù stesso, del resto, al tempo stabilito, disse agli apostoli di voler andare al luogo della passione perché «bisogna che il mondo sappia che io amo il Pa-dre e faccio quello che il Padre mi ha comandato» (Gv 14,31).
La Croce si eleva in verticale e si allarga in orizzontale: in verti-cale si può dire che la Croce simboleggi l’amore di Gesù per il Pa-dre e «le cose di lassù» (Col 3,1); in orizzontale, invece, la Croce simboleggia l’amore di Gesù per gli uomini, l’amore che fa aprire le braccia a Gesù Crocifisso per abbracciare tutti gli uomini da salva-re, spingendoli a portare la loro croce.
Nella vita di san Giovanni Maria Vianney, il Santo Curato d’Ars, leggiamo che, in un periodo in cui egli «si sentì perseguitato da più violente contraddizioni, decise di scrivere al Vescovo per mettere in chiaro varie cose, e dare le dimissioni da parroco. Difatti si se-dette al suo scrittoio, prese un foglio e vergò una riga dopo l’altra. Ma, giunto al punto di mettere la firma, alzò la penna, stette un po’ pensieroso, e poi si disse: «Ma oggi è venerdì! È il giorno in cui Nostro Signore ha portato la sua croce!…». Allora stracciò la lette-ra in mille pezzetti, e concluse: «Anch’io, dunque, debbo portare la mia croce. Accanto a Lui mi sarà meno pesante e meno amara» .
Nell’arte statuaria dei Crocifissi vi sono due diversi e significativi particolari riguardanti il Volto di Gesù Crocifisso. In alcuni crocifissi il Volto di Gesù è rivolto verso l’alto; in altri crocifissi è rivolto verso il basso. Nei primi si può contemplare Gesù che muore per amore del Padre; nei secondi si contempla Gesù che muore per amore degli uomini.
È soltanto l’amore, in effetti, che può sagomare gli atteggiamen-ti del Volto di Cristo, coniugando tutte le sofferenze della sua Pas-sione e Morte, realizzando quindi quel «più grande amore», da Gesù stesso proclamato nel Vangelo: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13). La crocifissione è l’amore più grande per la gloria massima che il Verbo Incarnato e Redentore offre al Padre salvando le anime, e che Lui solo può offrire in misura tutta infinita perché Lui è Dio.
«La Croce è dunque – scrive Massimiliano Zangheratti – la massima e perfetta glorificazione che l’universo può dare a Dio, in quanto Colui che su di essa amorosamente soffre è il Verbo fatto uomo» .

I sentimenti e le fattezze di Cristo Crocifisso
Se i redenti sono stati da Dio «predestinati a diventare conformi all’immagine del Figlio» (Rm 8,29), la conformità sarà tanto più piena e perfetta quanto più riproduce al vivo “l’immagine del Fi-glio”, sul quale e per il quale i redenti sono stati voluti e fatti da Dio. E l’”immagine del Figlio” è appunto Gesù, Verbo Incarnato e Re-dentore, il quale «solo dà al Padre la “gloria” proporzionata alla di-vinità e a lui assolutamente necessaria» .
Le stesse fattezze e sembianze del Volto di Cristo, che fanno unità con «gli stessi sentimenti di Cristo» (Fil 2,5), debbono quindi configurare la “conformità” a Cristo di ogni vero redento. E in que-sta “conformità”, precisamente, non può non essere presente la Croce, «mediante la quale – insegna il papa Giovanni Paolo II – si è compiuta la redenzione». Riflettendoci, si comprende bene come ogni redento «è chiamato a partecipare a quella sofferenza, per mezzo della quale ogni umana sofferenza è stata redenta» , per mezzo della quale viene eliminata la separazione dell’uomo da Dio, che è stata opera del peccato, e tutto può diventare, – spiega con chiarezza il Papa – «fonte di gioia, innestata armonicamente in quel messaggio di gioia che è il Vangelo» .
La Croce diventa, in tal modo, tutta la filosofia e la teologia del cristiano, diventa la sua etica e la sua politica, come si espresse il papa san Pio X, agli inizi del suo pontificato, quando ci fu chi gli chiese quale sarebbe stata la sua “politica” nel governo della Chie-sa, e il papa, alzando gli occhi e tendendo la mano ad un Crocifis-so che gli stava dinanzi, rispose senza esitazione: «Questo è la mia politica!» . E la vitalità piena della parola salvifica della Croce si attua concretamente nella vita di ogni redento, come insegna ancora il papa Giovanni Paolo II, «man mano che egli stesso di-venta partecipe delle sofferenze di Cristo», il quale, appunto, «in-dica all’uomo sofferente un posto vicino a sé» .
Questa vicinanza a Cristo Redentore tende poi a diventare sempre più unione e assimilazione del redento con Lui, e può cre-scere al punto tale che il redento arriverà a chiedere, a desiderare e a bramare la Croce e la crocifissione di Lui. Così si legge, con commozione, del serafico Padre san Francesco d’Assisi, il quale, pochi anni prima della sua morte, stando in ritiro quaresimale sul monte della Verna, nell’intensità crescente della sua meditazione ardente sulla Passione e Morte di Gesù, arrivò a chiedere a Gesù Crocifisso, con passione incontenibile, due grazie speciali: «La prima, che in vita mia io senta nell’anima e nel corpo mio, quanto è possibile, quel dolore che tu, dolce Gesù, sostenesti nell’ora del tua acerbissima passione; la seconda, si ch’io senta nel cuor mio, quanto è possibile, quello eccessivo amore del quale tu, Figliuolo di Dio, eri acceso a sostenere volentieri tanta passione per noi peccatori» . E venne esaudito con il dono mistico della stimmatizzazione.

Una pagina dei “Fioretti” di san Francesco
Non si può non leggere con edificazione e commozione, inoltre, la mirabile pagina dei “Fioretti” nella quale san Francesco d’Assisi insegna come il vero redento non soltanto non respinge nè rifugge la sofferenza, ma, al contrario, sa apprezzarla, sa desiderarla e sa chiederla trasformandola e trasfigurandola in “perfetta letizia” per amore di Cristo Crocifisso. Suggestivo è anche il linguaggio antico del celebre racconto della “perfetta letizia”, che rende più genuino e significativo il contenuto dell’episodio a edificazione, istruzione e sostegno di quanti hanno da superare difficoltà e amarezze di ogni genere nella vita di ogni giorno, per nulla avara di incomprensioni e contrasti .
«Venendo una volta santo Francesco da Perugina a santa Ma-ria degli Angioli con frate Lione a tempo di verno, e ‘l freddo gran-dissimo fortemente il crucciava, chiamò frate Lione il quale andava innanzi, e disse così: “Frate Lione, avvegnadiochè li frati Minori in ogni terra dieno grande esempio di santità e di buona edificazione; nientedimeno scrivi e nota diligentemente che non è quivi perfetta letizia”.
E andando più oltre santo Francesco, il chiamò la seconda vol-ta: “O frate Lione, benché il frate Minore allumini li ciechi e disten-da gli attratti, iscacci le simonia, renda l’udire alli sordi e l’andare alli zoppi, il parlare alli mutoli e, ch’è maggiore cosa, risusciti li morti di quattro dì; iscrivi che non è ciò perfetta letizia”.
E andando un poco, santo Francesco grida forte: “O frate Lio-ne, se ‘l frate Minore sapesse tutte le lingue e tutte scienze e tutte le scritture, sì che sapesse profetare e rivelare, non solamente le cose future, ma eziandio li segreti delle coscienze e delli uomini; iscrivi che non è in ciò perfetta letizia”. […]
E andando ancora un pezzo, santo Francesco chiamò forte: “O frate Lione, benché ‘l frate Minore sapesse sì bene predicare, che convertisse tutti gli infedeli alla fede di Cristo; iscrivi che non è ivi perfetta letizia”.
E durando questo modo di parlare bene di due miglia, frate Lio-ne con grande ammirazione il domandò e disse: “Padre, io ti prie-go dalla parte di Dio che tu mi dica dove è perfetta letizia”. E santo Francesco sì gli rispose: “Quando noi saremo a santa Maria degli Agnoli, così bagnati per la piova e agghiacciati per lo freddo e in-fangati di loto e afflitti di fame, e picchieremo la porta dello luogo, e ‘l portinaio verrà adirato e dirà: Chi siete voi e noi diremo: Noi sia-mo due de’ vostri frati; e colui dirà: Voi non dite vero, anzi siete due ribaldi ch’andate ingannando il mondo e rubando le limosine de’ poveri; andata via; e non ci aprirà, e faracci stare di fuori alla neve e all’acqua, col freddo e colla fame infino alla notte; allora se noi tanta ingiuria e tanta crudeltà e tanti commiati sosterremo pa-zientemente senza turbarcene e senza mormorare di lui, e pense-remo umilmente che quello portinaio veramente ci conosca, che Iddio il fa parlare contra a noi; o frate Lione, iscrivi che qui è perfet-ta letizia.
E se anzi perseverassimo picchiando, ed egli uscirà fuori turba-to, e come gaglioffi importuni ci caccerà con villanie e con gotate dicendo: Partitevi quinci, ladroncelli vivissimi, andate allo spedale, chè qui non mangerete voi, né albergherete; se noi questo soster-remo pazientemente e con allegrezza e con buono amore; o frate Lione, iscrivi che quivi è perfetta letizia.
E se noi pur costretti dalla fame, dal freddo e dalla notte più pic-chieremo e chiameremo e pregheremo per l’amore di Dio con gran-de pianto che ci apra e mettaci pure dentro, e quelli più scandolez-zato dirà: Costoro sono gaglioffi importuni, io li pagherò bene come son degni; e uscirà fuori con un bastone nocchieruto, e piglieracci per lo cappuccio e gitteracci in terra e involgeracci nella neve e batteracci a nodo a nodo con quello bastone: se noi tutte queste cose sosterremo pazientemente e con allegrezza, pensando le pene di Cristo benedetto, le quali dobbiamo sostenere per suo amore; o fra-te Lione, iscrivi che qui e in questo è perfetta letizia» .

L’amore del buon Samaritano
Nei Santi, in ogni Santo, all’unione d’amore con Cristo Crocifisso fa seguito, connaturalmente, potrebbe dirsi, la dedizione al bene dei fratelli che costituiscono il “Corpo di Cristo”, come si esprime san Paolo quando scrive ai Colossesi: «Sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai pa-timenti di Cristo, in favore del suo corpo che è la Chiesa» (Col 1,24).
Come spiega bene il papa Giovanni Paolo II, «la redenzione operata in forza dell’amore soddisfattorio, rimane costantemente aperta ad ogni amore che si esprime nell’umana sofferenza. In questa dimensione – nella dimensione dell’amore – la redenzione già compiuta fino in fondo, si compie, in un certo senso, costante-mente» . Su questa onda dell’amore doloroso, infatti, che “costan-temente” espia per i fratelli e redime le anime si pongono i Santi con l’offerta volontaria delle loro sofferenze di ogni genere (males-seri e fatiche, incomprensioni e maltrattamenti, insuccessi e per-secuzioni…) per ottenere la conversione e la salvezza eterna dei fratelli peccatori, degli uomini senza Dio .
Infatti, come scrive l’Amerio, «bene spesso quel dolore, quell’in¬successo, quella malattia, per cui gli altri ti giudicano infelice sono stati invece l’inizio della tua salvezza, la ragione delle tue vittorie, la benedetta occasione di arricchimento spirituale e religioso. Non si tratta certo di successi esteriori, di vittorie o di trionfi documentabili con le statistiche dei calcoli umani» . Ma è proprio vero che l’amore dei Santi, imitatori dell’evangelico “Buon Samaritano”, ha riempito volumi e volumi di agiografia, di secolo in secolo, a edifi-cazione della santa Chiesa, a sostegno e conforto dei sofferenti di ogni specie.
Basterebbe ricordare qui gli ultimi grandiosi esempi dei Santi mirabili che si chiamano san Giuseppe Benedetto Cottolengo, san Luigi Orione, i beati Don Guanella e Bartolo Longo, san Massimi-liano Maria Kolbe, la beata Alexandrina Da Costa, e molti altri; e che cosa dire di san Pio da Pietrelcina e della beata Teresa di Calcutta? San Pio da Pietrelcina, oltre l’offerta delle lancinanti sof-ferenze personali patite nella cinquantennale e sanguinosa stim-matizzazione, ha voluto creare un’opera grandiosa per chi soffre, l’Opera chiamata appunto, molto significativamente, “Casa sollievo della sofferenza”; la beata Teresa di Calcutta, poi, ha fondato un intero istituto religioso con un esercito di consacrate, votate all’assistenza dei più poveri e sofferenti, le Suore Missionarie della carità, sparse già in tutto il mondo in aiuto dei più miseri accattoni e “narboni”. Ma si sa bene che tutta la bimillenaria Storia della Chiesa è una galleria di questi Santi che hanno fatto dell’espe¬rienza del Buon Samaritano la loro forma di vita edificante e labo-riosa, luminosa di carità e di sacrificio senza misura.
Essi hanno voluto vivere in solido, potrebbe dirsi, la virtù della carità descritta nella mirabile parabola evangelica del buon Sama-ritano, praticando concretamente e su misura gigante l’amore di-sinteressato, come ricorda ancora la Salvifici doloris , ossia quell’amore provocato appunto dalla sofferenza che illumina tutta la realtà del dolore in maniera tale «da poter dire – scrive lo Zan-gheratti – che essa è giustificata anche per questa capacità di far sbocciare tale amore dal cuore dell’uomo» . E in questo senso, la sofferenza offerta diventa «un bene, – continua il papa Giovanni Paolo II – dinanzi al quale la Chiesa si inchina con venerazione in tutta la profondità della sua fede nella redenzione» .

La regina nel giudizio finale: la carità
Lo scenario della sofferenza redentiva che assimila a Cristo, configurando direttamente al suo Volto, diventa infine grandioso in quel Giudizio finale di tutti e di ciascuno che ci sarà alla fine dei tempi nella «Valle di Giosafat» (Gl 3,12) e che si svolgerà alla luce radiante delle parole divine di Gesù, Giudice supremo, il quale chiamerà tutti i salvati nel Regno dei Cieli, giudicandoli direttamen-te sulla carità e dicendo loro così: «Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fonda-zione del mondo. Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visi-tato, carcerato e siete venuti a trovarmi. […] In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,34–36,40).
Io, Gesù: ero affamato, assetato, forestiero, nudo, malato, car-cerato. Gesù ha dunque un volto particolare per essere riconosciu-to: ha il volto dell’affamato, dell’assetato, del forestiero, del nudo, del malato, del carcerato. È possibile a tutti, quindi, vedere il Volto redentore di Gesù in chi soffre, anche se peccatore (“carcerato”). Perciò, non abbiamo da ricercare chissà dove il Volto di Cristo per poterlo vedere. Gesù ha assimilato il suo Volto redentore a quello stesso dei poveri e sofferenti, dei diseredati ed emarginati. La con-clusione che si trae dalla mirabile parabola evangelica è appunto questa: il Volto redentore di Gesù è davanti a noi soprattutto nel sofferente, nell’affamato, nell’assetato, nel forestiero, in chi è nudo, in chi è ammalato e carcerato.
A noi cristiani, dunque, è stato concesso questo potere, è stato affidato questo dovere: possiamo e dobbiamo saper vedere il Volto di Gesù in tutti i poveri e sofferenti che incontriamo. E non era for-se questa la visione di fede che i Santi avevano nel guardare ai poveri e ai sofferenti? Non era forse questo lo sguardo del Serafi-co Padre san Francesco rivolto ai lebbrosi, trattandoli come imma-gini viventi di Cristo Crocifisso? E il beato Damiano Veuster, mera-viglioso apostolo dei lebbrosi, non guardava forse così i suoi leb-brosi nell’isola–lebbrosario dove visse e operò da missionario, mo-rendo anch’egli, alla fine, da lebbroso? E la beata Teresa di Cal-cutta, ai nostri giorni, con quali occhi guardava i suoi poveri accat-toni in fin di vita, i “barboni” derelitti e abbandonati da tutti, i mille e mille poveri, ammalati e disperati che incontrava e curava in ogni luogo della terra?
Questi sono gli occhi della carità cristiana che vedremo splendentissimi nel giudizio finale in tutti coloro che hanno saputo guar-dare con amore il Volto dolorante di Cristo nei fratelli, specialmen-te nei più poveri e sofferenti, leggendo il mistero del dolore alla lu-ce radiante della fede, divina maestra della verità nell’insegnare che la sofferenza trasfigura il povero e derelitto in Cristo, lo confi-gura misteriosamente a Lui, lo fa partecipe del suo Volto divino–umano, del suo Volto mite e sofferente, di quel Volto che è tutto dolore perché è tutto amore.

Coniugare l’amore con il dolore
Questo discorso di fede si presenta sublime agli occhi dei veri credenti, facendo capire e vedere che il mistero del dolore si co-niuga con il mistero dell’amore divino e fa quindi unità con il miste-ro della salvezza eterna. Ma per i non credenti, per il mondo ateo e pagano, per i libertini e i dissoluti, il dolore resta solo un mistero–orrore che sconvolge e opprime senza scampo, così come il miste-ro della Croce è soltanto un assurdo tetro, una vera follia, contro la quale si scatena la reazione con la ricerca avida del piacere di qualsiasi genere e del godimento a qualunque prezzo, magari an-che fino al prezzo del suicidio (leggi overdose…) .
Tutto ciò è stato già detto e scritto a lettere di fuoco anche da san Paolo apostolo quando afferma, appunto, che il mistero della Croce è «scandalo per i giudei, follia per i pagani» (1Cor 1,23). Non si poteva e non si può comprendere, e ancor meno accettare, la verità e la real-tà della Croce su cui Cristo è stato crocifisso, che si presenta, agli oc-chi profani, soltanto come un supplizio orrendo e una morte così in-famante da ridurre realmente l’essere umano a «un verme e non più uomo» (Sal 21,7) e da giustificare quel versetto biblico che dice: «Ma-ledetto colui che pende dal legno» (Dt 21,23) .
Ed è vero il contrario, invece, come spiega ancora san Paolo con le sue parole di luce: «per coloro che sono stati eletti», il mi-stero della Croce «è potenza e sapienza di Dio» (1Cor 1,24), per-ché la Croce, di fatto, è la chiave che apre la porta del Paradiso ai Santi, avendo Dio «nascosto per noi, in una Croce, davanti alla quale tremiamo, tutta la luce del Paradiso», come ha ben scritto il cardinale Journet .
Quanto Gesù Crocifisso rispose al buon Ladrone – anch’egli crocifisso sul Calvario – : «Oggi, tu sarai con me in Paradiso» (Lc 23,43), fa ben intravedere, che, pur fra gli strazi della crocifissione, c’è già, in semine, la presenza e il possesso del Paradiso, a con-ferma sicura e garanzia precisa che se il legno della croce all’esterno è legno duro e aspro, all’interno, invece, è tutto oro che brilla prezioso e splendente.
Qui è la Teologia più solida che ci aiuta a scoprire la radice più segreta da cui germoglia, in Gesù Crocifisso, la gioia paradisiaca coniugata con la sofferenza più atroce della Passione e Morte; ci aiuta a scoprire, cioè, la verità secondo cui, in Gesù Crocifisso, sono misteriosamente compresenti la Visione beatifica e gli strazi amarissimi della crocifissione e morte sul Calvario, come insegna il Dottore Angelico, san Tommaso d’Aquino , e con lui tutta la sana e perenne Teologia della Chiesa.
Per questo, a buon diritto, si può dire, con lo Zangheratti, che «la sofferenza, pur in tutta la sua crudezza, ha già nel suo cuore il paradiso, come testimoniano le esperienze di molti cristiani, sia santi canonizzati che non» .
«Tanto è il bene che mi aspetto…»
Riflettendo in profondità su queste verità che sono patrimonio della nostra fede, si può comprendere da tutti quell’espressione così semplice e vivace del Serafico Padre san Francesco d’Assisi che dice: «Tanto è il bene che mi aspetto, che ogni pena mi è di-letto», come è riportato nel libro dei “Fioretti” .
Queste parole molto significative acquistano un valore eccezio-nale se si riflette che chi le pronuncia, san Francesco d’Assisi, sof-ferente e piagato dalle cinque stimmate sanguinanti, oltre che da una serie impressionante di malattie fisiche, si presenta come il Santo più conforme a Gesù in tutta la sua vita , configurato anche nel volto al Volto di Cristo (così da essere confuso con Cristo, al suo ingresso in Paradiso) , l’unico, fra tutti i Santi, che la Chiesa stessa, nella Liturgia della santa Messa, definisce espressamente come «perfetta immagine di Gesù Crocifisso» .
È chiaro che il Santo, ogni Santo, nell’assimilarsi a Cristo, vuole assimilarsi alla sua gioia ineffabile così come al suo dolore marti-rizzante. Ma sappiamo anche, dall’agiografia, che la più vitale gioia del Santo consiste proprio nell’assimilarsi a Gesù puntando parti-colarmente alla partecipazione viva dei suoi dolori, giacché è sem-pre vero che chi ama sino in fondo potrebbe forse non curarsi mol-to delle gioie dell’amato, ma è impossibile che non si curi e non voglia sempre condividere ogni sofferenza dell’amato.
Così diceva e faceva, ad esempio santa Gemma Galgani, ver-gine lucchese, dolce e serafica, stimmatizzata, morta agli inizi del secolo ventesimo. Per lei tutta la gioia più vera e più pura consi-steva nello scoprire il Volto e il Cuore di Gesù, nel farlo regnare nella propria anima, e soprattutto nel partecipare misticamente e fisicamente a tutti i suoi dolori, assimilandosi al vivo alla sua cro-cifissione e nascondendosi interamente in Lui “Crocifisso”. Ella stessa, difatti, così si esprime appassionatamente e sublimemen-te in questa sua preghiera estatica di assimilazione totale al Cro-cifisso: «Signore mio Gesù, quando le mie labbra si avvicineran-no alle tue per baciarti, fammi sentire il tuo fiele. Quando le mie spalle si appoggeranno alle tue, fammi sentire i tuoi flagelli. Quando la carne tua si comunicherà alla mia, fammi sentire la tua Passione. Quando la mia testa si avvicinerà alla tua, fammi sentire le tue spine. Quando il mio costato si accosterà al tuo, fammi sentire la tua lancia» .
Bisogna davvero arrivare sugli altipiani dell’amore estatico cro-cifisso per poter dire cose come queste che trasfigurano il dolore più acuto nelle note più alte e sublimi di quell’amore ardente che si fa incontenibile nell’unificare l’amante alle sofferenze dell’amato. Questa è anche la testimonianza di tanti mistici di ogni tempo e luogo, che hanno arricchito la Chiesa lasciando un patrimonio di scritti mirabili e di esperienze preziosissime.
Si comprende, allora, donde scaturisce l’amore appassionato dei Santi rivolto all’immagine del Crocifisso, da essi venerato e a-dorato. E molti di essi volevano il Crocifisso di grandi proporzioni. Grandi, infatti, erano «i Crocifissi di S. Tommaso d’Aquino, di S. Franceco d’Assisi, di S. Bernardo, di S. Filippo Neri, di S. Giovanni della Croce, di S. Camillo de Lellis, di S. Girolamo Emiliani, di S. Gemma Galgani… Specie nel ‘600 troviamo grandiosi Crocifissi, in cui il Cristo è raffigurato nel tormento spasmodico della sua stra-ziante agonia, grondante sangue. Così bisogna guardare Gesù Appassionato, come veramente fu sul Calvario, morente per i pec-cati nostri, per la nostra Redenzione!» .

Volto di Gesù, Volto di Maria
Se può esser vero che il volto di un figlio riflette sempre, molto o poco, lo stesso volto della madre che lo ha generato, per Gesù ciò non potè non esser vero in maniera davvero superlativa e del tutto straordinaria. Perché? Perché Gesù è figlio esclusivo della verginità della Madre Maria, con l’assenza totale del padre terreno. Di fatto, sappiamo che è stata Lei, Maria, la Vergine di Nazaret, che, verginalmente, ha concepito, ha fatto e ha generato Gesù. Vergine sempre intatta nell’anima e nel corpo, Ella, resa divina-mente “vergine feconda” dallo Spirito Santo, ha concepito e parto-rito Gesù: «factum ex muliere», scrive san Paolo, quasi scolpendo l’origine terrena del Verbo Incarnato da Maria Vergine (Gal 4,4).
Il Volto di Gesù, dunque, è stato fatto da Lei, da Maria Vergine; è stato tornito con il sangue verginale di Lei, ed è diventato il ri-flesso diretto del Volto di Lei, della Semprevergine. Il Volto di Ge-sù, quindi, non poteva non essere un volto tutto verginale, tutto materno, tutto mariano. E chiunque riproduce il Volto di Gesù, – ossia i Santi – non può non riprodurre quello stesso Volto tutto di Maria, tutto mariano. Ogni cristiano che si santifica, perciò, acqui-sta via via la stessa fisionomia del Volto tutto mariano di Cristo.
E anche il Volto sofferente di Cristo Redentore non può non a-vere il suo riflesso più radioso nel Volto di Maria Corredentrice. Si può anzi dire con sicurezza che il Volto di Gesù Redentore e il Vol-to di Maria Corredentrice apparivano come un unico e identico Vol-to, paragonabile in certo modo al volto dei gemelli monovulari. La dimensione mariana del Volto di Gesù affonda le sue radici nella genetica soprannaturale che ha reso Maria di Nazaret sua genitri-ce unica, tutta immacolata e semprevergine.
Ci si potrebbe chiedere, a questo punto, come mai Maria San-tissima abbia dovuto patire l’incommensurabile sofferenza della redenzione universale, dal momento che, predestinata Madre di Dio e concepita per questo immacolata, si è ritrovata nello stato della giustizia originale, arricchita, ancor più, di una tale sovrab-bondanza di doni e carismi celesti da non poter avere l’eguale né in una né in tutte le creature celesti e terrestri messe insieme: non avrebbe ella dovuto vivere già sulla terra, come scrive il Vivoda, «perennemente avvolta in un nembo di gioia celeste?» Ma la vita di Maria era legata a quella del Verbo Incarnato, suo Figlio, in forza di «un unico e identico decreto» di Dio, come ha scritto il papa Pio IX nella Bolla di definizione dogmatica dell’Im¬macolata Concezione . Insieme a Gesù, Ella fu predestinata al compimento della redenzione universale per la salvezza di tutti. Per questo anch’Ella ha vissuto i suoi anni di vita terrestre nell’a¬marezza continua dell’immolazione, salendo infine sul monte Cal-vario insieme al Figlio per essere immolata con Lui. «Per decreto divino – scrive ancora il Vivoda – come un uomo e una donna ci hanno perduti, così un Uomo e una Donna ci hanno salvati. Non l’Uomo solo, né la Donna sola: l’Uno con l’Altra. L’umanità è stata redenta dal sangue di Cristo e dal pianto di Maria. Con il cerchio di sangue redentore, che splende dalla Croce per lavare tutti i pecca-ti del mondo, splende anche l’onda di questo pianto verginale. […] Quando il nostro sguardo si incontra con quello della Vergine Cor-redentrice noi sentiamo meno ripugnanza a bere il calice di salute che contiene l’amara pozione del dolore» .
Ma se Maria ha dato il suo Volto a Gesù, che è il «Primogenito fra molti fratelli» (Rm 8,29), vuol dire che lo ha donato anche ai “fratelli” del Primogenito, che siamo noi, i “secondogeniti”, da Lei concepiti misticamente all’Annunciazione perchè costituiamo quel “Corpo” di cui Cristo è il “Capo”. La dimensione mariana del Volto redentore di Cristo, dunque, non può non ritrovarsi anche nelle membra del “Corpo Mistico” di Cristo che costituisce la Chiesa di cui Maria è la “Madre amantissima” .
Il Volto sofferente di Gesù Redentore e il Volto sofferente dell’Addolorata Corredentrice, poi, sono lo specchio del volto del cristiano che è chiamato a santificarsi, ossia a cristificarsi nel grem-bo e nel cuore della Divina Madre. Ciò avviene particolarmente per mezzo della consacrazione “illimitata” all’Immacolata, insegnata da san Massimiliano Maria Kolbe, il quale afferma splendidamente che «nel grembo di Maria l’anima rinasce nella forma di Gesù Cristo» : è soprattutto in Lei, nella divina Madre, quindi, che si può arrivare ad avere la stessa «faccia ch’a Cristo più si somiglia», secondo il celebre verso dantesco , perché Lei è la divina “matrice” del Verbo Incarnato, il “Primogenito”, e dei suoi fratelli.

L’unico “Volto” amato da Dio
È sempre questo il cammino ascetico–mistico del cristiano che vuole diventare Santo, conforme a Cristo. Egli, figlio di Maria, at-traverso le diverse tappe del dolore purgativo, illuminativo e uniti-vo, è chiamato a scalare coraggiosamente il Calvario per raggiun-gere il Tabor, configurandosi prima a Gesù sofferente per assimi-larsi quindi a Gesù Crocifisso; trasfigurandosi, poi, in Gesù Risor-to, per raggiungere infine il Regno dei Cieli e la beatitudine della visione eterna di Dio Amore. Dal Volto sofferente di Gesù Crocifis-so al Volto trasfigurato di Gesù Risorto: in questo passaggio è sempre il Volto di Gesù la carta d’identità del vero cristiano.
E se è vero che il Volto sofferente di Gesù, per primo, si impri-me nel volto di ogni sofferente che lo accetti per cristificarsi, confi-gurandosi quindi gradualmente a Lui, lo sviluppo e la maturazione di tale configurazione cristica, tuttavia, sta nelle mani di Colei che è la Madre di Cristo e dell’umanità, che è la Tesoriera e la Media-trice di tutte le grazie necessarie alla salvezza e alla santificazione degli uomini. Ella, infatti, è la Madre dei Santi, è la formatrice, quindi, dell’immagine luminosa di Cristo in ogni redento che tenda alla perfezione cristiana nella Chiesa che è “una, santa, cattolica e apostolica”, come ci insegna il Catechismo .
E dall’esperienza non comune di un mistico francescano come il beato Jacopone da Todi possiamo tutti imparare che la via «più breve, più rapida e più sicura» , come diceva san Massimiliano M. Kolbe, per conformarsi perfettamente a “Cristo povero e crocifis-so” , come voleva san Francesco d’Assisi, è l’assimilazione ai do-lori di Maria Santissima Madre e Corredentrice nostra .
Questa immagine, questo Volto di Cristo – si rifletta bene – è di fatto l’ideale che ogni cristiano deve realizzare e avere in sè per compiere la Volontà di Dio, come insegna l’Apostolo: «Que-sta è la volontà di Dio: la vostra santificazione» (1Ts 4,3). Soltan-to realizzando questa Volontà di Dio, infatti, si può arrivare a vi-vere quelle parole di san Paolo che dicono: «Vivo io, sì, ma non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me» (Gal 2,20). E questo ideale – è necessario saperlo – è appunto l’ideale di Dio stesso, come spiega bene il padre Royo Marin scrivendo così: «Non dimentichiamo che l’Eterno Padre, in realtà, non ha che un solo amore e una sola preoccupazione eterna – se così è lecito esprimerci – : il suo Verbo. Nulla lo interessa fuori di lui, e se ci ama infinitamente, è «perché noi amiamo Cristo e abbiamo cre-duto che è uscito da Dio». Cristo stesso ce l’ha detto: «Ipse enim Pater amat vos quia vos me amasti set credidisis quia ego a Deo exivi» (Gv 16,27). Sublime mistero che dovrebbe fare del nostro amore a Cristo l’unica vera preoccupazione della nostra vita, co-me lo è dell’eterno Padre e come lo fu e lo sarà sempre di tutti i Santi!» .
È fondamentale questo pensiero–ideale, questo progetto–vita dell’eterno Padre. Da esso si può capire come il Volto di Cristo, in sostanza, sia l’unico Volto che Dio Padre conosce ed ama. Quanto più ci si identifica con questo Volto, dunque, – come Maria Santis-sima, prima di tutti e sopra tutti, senza confronto; come i Santi die-tro di Lei, e come tutti i poveri e gli infermi, i sofferenti e i tribolati – tanto più si entra nell’amore del Padre, nel Suo interesse e nella Sua preoccupazione eterna. È grandiosa questa visione di grazia del Volto di Cristo nel quale certamente non si ritrovano i benpen-santi e gli autosufficienti, i gaudenti e i possidenti, ma soltanto i bi-sognosi e i sofferenti di ogni razza e qualità, nei quali il Volto di Cristo è presente in prima persona: Io, Gesù, ero affamato, Io ero assetato, Io ero nudo, Io ero ammalato, Io ero forestiero, Io ero carcerato…

Il Crocifisso e il Cero pasquale
Per questo la devozione al Volto sofferente di Gesù Crocifisso, nell’antica e salutare devozione al Crocifisso, resta di primaria im-portanza e di eccezionale valore per i cristiani che vogliano impa-rare a donarsi, nel sacrificio di se stessi, ai fratelli più bisognosi e sofferenti, nei quali rivive il Volto doloroso di Cristo. Giustamente il padre Bevilacqua esorta soprattutto i pastori delle anime a farsi promotori della devozione al Crocifisso, scrivendo con premura e vigore: «Facciamoci apostoli del Crocifisso, dei grandi Crocifissi medioevali dei nostri altari, nelle nostre chiese e cattedrali. La do-lorosa mancanza di spirito di sacrificio nel nostro popolo cristiano, anche nei piccoli paesi una volta tanto religiosi e pii, lo si deve al fatto che, noi sacerdoti, abbiamo sostituito la devozione al Croci-fisso con altre devozioni belle e sante, ma non efficaci come quella che emana dal Cristo agonizzante. Mettiamo ancora sugli altari i nostri grandi e paurosi Crocifissi; guardando quelli, il nostro popolo ricomincerà a capire che la vita cristiana è, principalmente, vita di sacrificio» .
Uno degli errori più devastanti della fede ai nostri giorni, infatti, è certamente l’errore teologico e sociologico di quei tali – non pochi purtroppo – che, fuori e dentro la Chiesa, non solo hanno neutraliz-zato il valore della Croce esautorandone ogni potere per la salvezza degli uomini, ma vogliono cancellarla del tutto dalla vita cristiana (togliendo il Crocifisso anche dagli ospedali, scuole, fabbriche, indu-strie ed enti pubblici…), giacché l’inferno ormai “è chiuso”, si dice, o non esiste affatto! – dicono – e non c’è più nessun bisogno di sacri-fici e di rinnegamenti, dunque, per vivere da cristiani e andare in Pa-radiso: ormai, si è già tutti … condannati inesorabilmente al Paradi-so, buoni e cattivi, santi e assassini, onesti e disonesti, corrotti e corruttori, cacciando eventualmente all’inferno solo la… giustizia!
Eppure si dovrebbe ben sapere che Gesù attira e attirerà tutti a sé proprio dalla Croce e sulla Croce, come Egli disse espressa-mente ai discepoli: «Quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me» (Gv 12,32); e per questo la Croce è la chiave di volta dell’universo che in Cristo e per Cristo si trasfigura nella salvezza dell’umanità per la somma ed eterna gloria di Dio Uno e Trino. La Croce è sempre fissa, mentre il globo continua a girare, dice un’antica scritta sul portale di una Certosa: «Stat Crux dum volvitur orbis terrarum».
Per questo il Crocifisso è anche il compagno inseparabile del sofferente che a Lui ricorre, sorgente perenne di aiuto e di conforto ai tribolati che a Lui si rivolgono, unico pegno di speranza viva per la salvezza eterna ai moribondi che molto spesso restano soli e ab-bandonati, come ci fanno sapere le cronache nere di ogni tempo.
Nella vita di san Giuseppe Cafasso si legge che «una ragazza povera, chiudendo nel fiore degli anni una vita di disordini, non riu-sciva a darsi pace dell’abbandono in cui era lasciata in quelle e-streme ore, da quanti un giorno l’avevano illusa, sfruttandola.
“No, non è sola; un altro amico le rimane al mondo” – le disse san Giuseppe Cafasso, presentandole il Crocifisso –. “Mentre gli altri fuggono, questo si fa avanti, e non l’abbandonerà; ma sarà con lei finchè la vedrà salva in Paradiso”.
L’infelice ragazza fissò gli occhi sul Volto sofferente di Gesù, diede in uno scoppio di pianto, coprì di baci il Crocifisso, lo strinse al petto, e spirò nel suo amplesso» .
Un altro dei segni liturgici più espressivi della nostra morte e resurrezione in Cristo Crocifisso e Risorto, inoltre, è certamente il Cero pasquale. Bello e luminoso, posto sul presbiterio, accanto all’altare, il Cero pasquale ci parla del mistero della morte di Cristo, consumandosi; ci parla della vita risorta di Cristo, ardendo della fiamma viva e radiosa. Consumarsi e ardere: tale dovrebbe esse-re, in effetti, la più vera vita cristiana che si consuma nel sacrificio di sé, ardendo perennemente viva per Cristo e con Cristo morto e risorto.
«Un santo sacerdote novarese – scrive Fratel Remo di Gesù – Don Silvio Gallotti, amava ripetere ai suoi discepoli: «Vedete come è bello il Cero Pasquale! Dovremmo essere tutti d’un pezzo: bru-ciare così, nella letizia della Risurrezione.
Ma – aggiungeva –, non facciamo come si usa oggi: lasciare in-tatto il cero, e far bruciare un moccolo, un rimasuglio che viene in-filato con finzione alla sommità del largo cero, inghirlandato e ben dipinto, che non si consuma mai…
Immagine parlante delle anime che danno a Dio un moccolo, un rimasuglio della vita, che cerca altrove il suo ideale, la sua fe-licità…» .

Il Volto del dolore salvifico per amore
C’è una pagina magistrale del papa Paolo VI che può degna-mente concludere queste riflessioni sul “Mistero del dolore nella luce della Redenzione”, sintetizzando splendidamente i contenuti di valore primario del Volto sofferente di Cristo, che capovolge i poveri criteri di valutazione umana della sofferenza, presentando l’ideale della “vocazione” al dolore che salva e santifica. Il vero ideale santo e sublime della vocazione cristiana, soprattutto delle “vittime”, dei sofferenti e dei tribolati di ogni specie, è quello di ar-rivare alla configurazione di sé e di ogni anima al Volto redentore di Cristo, a quel Volto divino che è il Volto del dolore salvifico per amore.
Scrive il papa Paolo VI: «…Una volta – e ancora, per chi di-mentica di essere cristiano – la sofferenza appariva pura disgrazia, pura inferiorità, più degna di disprezzo e di ripugnanza, che meri-tevole di comprensione, di compassione, di amore. Chi ha dato al dolore dell’uomo il suo carattere sovrumano, oggetto di rispetto, di cura e di culto, è Cristo paziente, il grande fratello di ogni povero, di ogni sofferente. Vi è di più: Cristo non mostra soltanto la dignità del dolore, Cristo lancia una vocazione al dolore. Questa voce è tra le più misteriose e le più benefiche che abbiano attraversato il quadro della vita umana. Gesù chiama il dolore a uscire dalla sua disperata immobilità e a diventare, se unito al suo, fonte positiva di bene, fonte non solo delle più sublimi virtù che vanno dalla pazien-za all’eroismo alla sapienza, ma altresì alla capacità espiatrice, re-dentrice, beatificante propria della Croce di Cristo.
Il potere salvifico della passione del Signore può diventare uni-versale e immanente in ogni nostra sofferenza, se – ecco la condi-zione – accettata e sopportata in comunione con la sua sofferenza. La compassione da passiva si fa attiva: idealizza e santifica il dolore umano, lo rende complementare a quello del Redentore…» .
A conferma delle parole del papa Paolo VI possiamo richiama-re alla memoria, qui, il capitolo ammirabile della vita apostolica di san Giovanni Crisostomo, uno dei Santi Padri dei primi secoli († 407), ritenuto “grande” nell’agiografia per la sua opera compiuta fra le più amare sofferenze. In lui fu davvero ardente la brama di assimilarsi a Cristo Crocifisso senza riserve né misure, ritenendo ogni sofferenza un tesoro d’inestimabile valore per configurarsi a Lui. Egli stesso scrisse questi sublimi pensieri nei quali sembrano scolpite la sua anima e la sua vita: «Io non stimo tanto Paolo per il rapimento al terzo cielo, quanto per la dura prigionia che patì. E, se mi venisse proposto: Vuoi essere collocato in cielo, tra gli Angeli, o stare in carcere con Paolo? Io eleggerei piuttosto que-sto che quello. Se dovessi scegliere di essere Pietro in catene o l’Angelo che lo sciolse, io, sinceramente, eleggerei più volentieri di essere il primo che il secondo» .
Questa è la visione cristiana della sofferenza scolpita nel Volto divino di Gesù Redentore e nel volto umano di ogni sofferente che voglia vivere santamente la vocazione di membro del Corpo Misti-co di Cristo, inserito in Gesù vitalmente come il tralcio alla vite (cf. Gv 15,5), a Lui unito strettamente nel portare con generosità la croce quotidiana lungo il cammino e l’erta che menano al Regno dei Cieli (cf. Mt 7,14).
Un altro modello esemplare, a noi più vicino, in questo “cristifi-carsi”, è stato certamente san Pio da Pietrelcina, il santo stigma-tizzato del Gargano, vittima di sangue per cinquant’anni (dal 1918 al 1968), che nella sua anima e nel suo corpo ha prolunga-to la Passione di Cristo mostrandone alle moltitudini di gente il volto di dolore e di amore, quel volto sofferente segnato, non ra-ramente, da bagliori di resurrezione. Molto bene ha detto di lui il papa Giovanni Paolo II con queste parole dell’Omelia durante la Messa della Beatificazione di Padre Pio: «Chi si recava a San Giovanni Rotondo per partecipare alla sua Messa, per chiedergli consiglio o confessarsi, scorgeva in lui un’im¬magine viva del Cri-sto sofferente e risorto. Il suo corpo segnato dalla “stimmate” mostrava l’intima connessione tra morte e resurrezione, che ca-ratterizza il mistero pasquale. Per il Santo di Pietrelcina la condi-visione della Passione ebbe toni di speciale intensità: i singolari doni che gli furono concessi assieme alle sofferenze interiori e mistiche che li accompagnavano gli consentirono di vivere un’esperienza coinvolgente e costante dei patimenti del Signore, nell’immutabile consapevolezza che “il Calvario è il monte dei Santi”».

Publié dans:DOLORE E SOFFERENZA, Teologia |on 28 mai, 2014 |Pas de commentaires »

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