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PROFEZIA E SAPIENZA. LA TESTIMONIANZA DI DIETRICH BONHOEFFER
Alberto Gallas
Il primo grande volume dedicato a Bonhoeffer in Italia, firmato da Italo Mancini, apparve nella collana ‘I nuovi padri’ dell’editrice Vallecchi nel 1969, lo stesso anno in cui uscirono – presso un editore ‘laico’ come Bompiani – le traduzioni italiane di Resistenza e resa e dell’Etica. Parlare, a quel tempo, di Bonhoeffer come di un ‘nuovo padre’, poteva essere azzardato. Con questa locuzione si veniva infatti a dire che la sua opera era talmente importante da costituire una ricchezza per la cristianità nel suo complesso, al di là delle divisioni confessionali, e talmente profonda da preparare l’avvenire della chiesa, oltre che delle chiese: un’opera dunque al di sopra delle mode, capace di diventare un ‘classico’.
Oggi quella definizione appare meno azzardata. La fortuna di Bonhoeffer ha conosciuto varie fasi, periodi di una certa popolarità (se di popolarità in questo contesto si può parlare) e altri di una certa dimenticanza. Anche se la sua opera più famosa, Resistenza e resa (dove sono raccolte le lettere scritte dal carcere berlinese di Tegel), è stata pubblicata postuma solo meno di cinquant’anni fa, si possono già contare almeno tre stagioni nella recezione del suo pensiero: la stagione della secolarizzazione e della morte di Dio (con al centro le lettere dal carcere), la stagione della spiritualità (con al centro Sequela e Vita comune); la stagione dell’etica politica (con al centro l’azione e la riflessione sulla pace, la questione ebraica, la resistenza al nazismo). Ma il susseguirsi di stagioni diverse nella fortuna di un’opera e l’emergere di sempre nuovi approcci di lettura – ancorché, talvolta, parziali e selettivi – sono appunto il segno distintivo di un classico. Se Bonhoeffer può esser considerato tale, molto più dunque che un autore semplicemente ‘ancora’ attuale, è perché il suo pensiero non si adegua a schemi, ambiti e definizioni consolidatesi nel tempo, ma li mette in questione e li supera. Non annullandoli, ma semplicemente ponendo i problemi con un nuovo rigore, scavando fino ad arrivare a quella profondità dove si impongono nuovi parametri di giudizio, dove gli spiriti si dividono ma anche emergono radici comuni e punti di convergenza fra tradizioni diverse.
Tutto questo in Bonhoeffer non avviene solo sul piano della teoria e della riflessione teologica. Ogni lettore che si avvicini a lui resta colpito dal legame che collega la sua teologia alla sua biografia e dall’integrazione tra pensiero e vicende personali. Ma, di più, la teologia di Bonhoeffer è legata alla storia, al contesto culturale in cui egli è vissuto, perché è una teologia responsabile e concreta, e non una dottrina astratta costruita su princìpi atemporali. D’altra parte, non si tratta affatto di una teologia estemporanea legata a mode o fenomeni di breve periodo. Bonhoeffer si misura con le emergenze del suo tempo scavando nella tradizione e nel passato, alla ricerca delle radici del credo cristiano da un parte e della cultura occidentale dall’altra. In questo modo la storia stessa acquisisce una rilevanza teologica. Dio è entrato nel mondo con l’incarnazione; ha conferito alla realtà delle strutture profonde con la creazione. Non la superficie dei fenomeni, ma la loro logica profonda rappresenta un dato che il teologo non può ignorare. Bonhoeffer chiama questa logica profonda ‘l’esser reale della realtà’: essa può essere individuata solo dallo sguardo penetrante del sapiente che contempla le opere di Dio in tutta la loro estensione, anziché limitarsi alla relazione individualistica tra Dio e l’anima, cioè a quella che nelle lettere dal carcere viene criticamente definita come dimensione ‘religiosa’ dell’esistenza.
A questa logica l’uomo di fede ubbidisce. Nella sequela, secondo Bonhoeffer, il credente segue Gesù fin sul calvario, e proprio in questo modo conforma la propria vita alla struttura profonda della realtà, per quanto ciò possa apparire paradossale. Di conseguenza, se è possibile usare questa espressione, la profezia di Bonhoeffer è una profezia sapienziale.
Prima di sviluppare più ampiamente questo argomento, conviene però soffermarsi su alcuni temi dove il lascito di Bonhoeffer è particolarmente fecondo.
1. Pace e guerra
Proprio perché così strettamente legato alla storia il pensiero di Bonhoeffer conosce varie tappe. Esso evolve con l’evolvere delle situazioni, e questo è visibile soprattutto nella sua riflessione su pace e guerra, dove vanno distinte tre fasi principali.
Nella prima – risalente alla fine degli anni Venti – Bonhoeffer affronta la guerra come eventualità teorica e accoglie la soluzione classica: il comandamento di non uccidere e il Discorso della montagna insegnano sì che non si deve resistere al male inflitto alla nostra persona, ma non che non si possa e non si debba resistere al male che viene inflitto al nostro prossimo. La stessa guerra d’aggressione può essere giustificata, se risponde ai bisogni primari di un popolo (teoria dello ‘spazio vitale’).
Nella seconda – intorno alla metà degli anni Trenta – egli affronta il problema quando la minaccia di una guerra europea si profila già all’orizzonte ma appare ancora evitabile: in questa fase formula la soluzione più radicalmente nonviolenta, contrapponendo pace e sicurezza (‘Non c’è modo di giungere alla pace per via della sicurezza… per la pace si deve rischiare, è una grande temerarietà… Pace è il contrario di sicurezza’), e invocando un concilio ecumenico della pace (allocuzione di Fanø, 28 agosto 1934). A questa allocuzione si è richiamato Carl Friedrich von Weizsäcker nel famoso appello per un ‘concilio della pace’ lanciato al ‘Deutscher Evangelischer Kirchentag’ del 1985, che ha contribuito ad accelerare il movimento conciliare sfociato nelle assemblee di Basilea e di Graz.
Nella terza fase – anni Quaranta – Bonhoeffer affronta la guerra come fatto ormai inevitabile, ed ammette la legittimità, a determinate condizioni, di una partecipazione del cristiano alla guerra, nonché del ricorso alla resistenza attiva per abbattere il tiranno. La posizione della seconda fase viene così superata, ma senza per questo tornare alle posizioni iniziali. Allora, infatti, Bonhoeffer aveva giustificato l’uso della forza quando esso avviene in ‘difesa dei miei’ e del ‘mio popolo’. Ciò significa che la parte lesa in soccorso della quale è lecito intervenire è identificabile a priori in base ai vincoli di sangue, alla storia, alla nascita di ciascuno. La situazione concreta in cui secondo Bonhoeffer si deve valutare la legittimità del ricorso alla violenza, per non dare del quinto comandamento un’interpretazione astratta, è dunque solo apparentemente una situazione aperta. Nella terza fase invece il mio prossimo non è identificabile a priori, ma va individuato di volta in volta in base alle condizioni storiche. La giusta causa, per la quale è lecito intervenire con le armi, può essere allora anche quella di coloro che lottano contro il mio popolo; anzi, davanti alla Germania di Hitler, la resistenza armata può essere addirittura doverosa per un cristiano, come Barth aveva scritto al teologo cèco Hromádka, in una lettera aperta (il 18 settembre 1938, alla vigilia della minacciata invasione della Cecoslovacchia) che suscitò grande scandalo nella Chiesa confessante, ma che Bonhoeffer condivise. Bonhoeffer non ha elaborato una teoria della guerra giusta; egli resta persuaso che anche partecipare alla guerra sul fronte della parte offesa comporti una colpa oggettiva. Le sue riflessioni e le sue scelte indicano però una precondizione fondamentale perché il problema della guerra giusta (o meglio: di una guerra cui un cristiano sia tenuto a partecipare) si possa anche semplicemente porre, e cioè la reale apertura a riconoscere che la causa giusta può essere quella del ‘nemico’ anziché quella del mio popolo. Questo significa prendere sul serio l’interrogativo di Gesù: ‘Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?’ (Mt 12,48), che nella fase di Barcellona poteva avere solo un significato retorico. Da queste premesse Bonhoeffer trasse la convinzione che la partecipazione alla resistenza implicava la disponibilità ad eseguire anche personalmente un attentato contro Hitler, e definì ‘lusso morale’ la tesi opposta sostenuta da un altro membro della resistenza, Helmut James von Moltke (anch’egli giustiziato poi dai nazisti).
2. Stile ecumenico
Bonhoeffer ha avuto una straordinaria fortuna sul piano ecumenico. La sua è anzi una figura che viene spesso letta come se fosse sovraconfessionale (con il rischio magari di separare il suo pensiero dalla tradizione in cui è radicato). Il motivo di fondo che spiega questa fortuna è la sua capacità di aprirsi ad influenze, a scambi, a rapporti a vasto raggio. Egli difficilmente appare, a chi gli si avvicina dall’esterno, come un estraneo. Le critiche che egli rivolge ad extra, alle altre confessioni e tradizioni, sono sempre accompagnate da critiche ad intra, alla sua confessione; non ripetono passivamente le accuse tradizionali divenute luoghi comuni, ma nascono da un serio impegno, esistenziale e teorico, di comprensione. Non sono dettate da risentimento, ma da senso di fratellanza e da amore.
Questa fortuna è particolarmente appariscente nel mondo cattolico. Non è un fenomeno del tutto nuovo: già Barth aveva dichiarato di essersi sentito compreso ‘senza paragone più a fondo’ nel volume dedicatogli dal cattolico von Balthasar, che non ‘nella stragrande maggioranza’ delle altre opere sul suo pensiero. Christian Gremmels, che sta attualmente lavorando alla nuova edizione di Resistenza e resa, ha cercato di spiegare la cosa richiamandosi ai contenuti del pensiero bonhoefferiano che sono particolarmente vicini – quanto al tema e quanto allo svolgimento – alla tradizione cattolica, in particolare su tre punti: chiesa, confessione dei peccati, preghiera (cui mi pare si dovrebbe aggiungere almeno sacramento e sacramentalità). Ma anche Gremmels vede giustamente che più dei contenuti determinati contano la Denkform, lo stile di pensiero, l’atteggiamento interiore di Bonhoeffer nel confronto interconfessionale. Questo modo di pensare si manifesta nella convinzione che le contrapposizioni confessionali, pur non essendo superate, abbiano fatto però il loro tempo. In Resistenza e resa si legge che ‘le contrapposizioni tra i luterani e i riformati (e in parte anche con i cattolici) non sono più autenticamente tali. Naturalmente è sempre possibile ripristinarle e conferire loro del pathos, ma non fanno più presa. Non c’è nessuna prova di questo, si deve semplicemente osare di venirne fuori’ (Resistenza e resa, Cinisello Balsamo 1988, p. 463). A questo passo si può affiancarne un altro, dove Bonhoeffer indica precisamente nella ricerca delle radici comuni, cui abbiamo già accennato, la piattaforma per superare le contrapposizioni: ‘Sto leggendo con molto interesse Tertulliano, Cipriano e altri padri della chiesa. In parte sono molto più attuali dei riformatori e forniscono nello stesso tempo una base per il dialogo evangelico-cattolico’ (ivi, p. 201).
Giacché non si tratta di affermazioni isolate, ma di un atteggiamento di fondo, è facile capire perché un cattolico non senta nel ‘diverso’ Bonhoeffer un estraneo. Anzi, a un lettore cattolico può capitare di imparare, proprio leggendo Bonhoeffer, ad amare di più la propria tradizione e di imparare contemporaneamente a criticarla in modo più pertinente; e, viceversa, di imparare ad amare e a criticare in modo più pertinente la tradizione di Bonhoeffer, il protestantesimo. Non sembri un’esagerazione l’uso di un termine tanto impegnativo come ‘amare’. Non c’è dubbio che Bonhoeffer ha saputo amare il cattolicesimo (‘…ho veduto ancora una volta che cos’è il cattolicesimo, ed ho ripreso ad averlo molto caro’), così come ha saputo criticarlo con rigore (per il prevalere dell’istituzione sulla Parola, per la concezione gerarchica dei ministeri, per l’idea di diritto naturale, per la concezione della messa come sacrificio…).
Di questa correlazione critica-amore abbiamo una testimonianza chiara e sintetica nella lettera del 23 novembre 1940 scritta durante un soggiorno presso l’abbazia benedettina di Ettal in Baviera: ‘Torno appena adesso da una messa meravigliosa… anche se il percorso che parte dal nostro sacrificio per Dio ed arriva al sacrificio di Dio per noi… mi sembra un percorso a rovescio. Ma devo ancora capire meglio la cosa’ (GS VI, 489). Qui la capacità di cogliere il positivo nel diverso (fino addirittura ad entusiasmarsene: ‘una messa meravigliosa’) va mano nella mano con la franca indicazione degli aspetti negativi in esso presenti (‘un percorso a rovescio’) e, infine, con la consapevolezza che il processo di comprensione deve faticosamente superare le reazioni immediate e non arrestarsi all’applicazione di giudizi codificati (‘devo capire meglio’).
Il suo lascito maggiore all’ecumenismo consiste proprio in questo: nella correlazione tra critica ed amore verso le altre tradizioni (il cattolicesimo in primo luogo, ma anche l’ortodossia, l’India e Gandhi, la ‘religione’ dell’antica Grecia…). Alla scuola di Bonhoeffer si impara che un ecumenismo che sia meno di questo non è ecumenismo; e che la prima condizione per arrivare a questo alto traguardo è ammettere – l’ammissione (tilstaaelse) kierkegaardiana! – che, se non ne siamo capaci, non siamo capaci di ecumenismo.
3. La questione ebraica. Lo sguardo verso oriente
Bonhoeffer ha vissuto in prima persona, come molti suoi coetanei, la crisi della cultura europea del primo dopoguerra. Questa crisi aveva coinvolto profondamente il cristianesimo, e particolarmente quel mondo ‘cristiano-borghese’, come lo ha chiamato Löwith, di cui già gli spiriti più acuti dell’Ottocento – da Kierkegaard, a Nietzsche, a Dostoevskij – avevano percepito l’imminente dissoluzione. La diagnosi di Bonhoeffer ha talvolta la radicalità e la perentorietà della profezia: in una lettera del febbraio 1932 egli parla della ‘fine’ della cristianità occidentale come di un evento inevitabile. La chiesa e il cristianesimo appaiono a Bonhoeffer coinvolti fino all’intimo nella crisi dell’Occidente perché hanno perso, per il simbiotico legame con questa civiltà, la dimensione innovativa, ‘rivoluzionaria’, che originariamente portavano con sé. Per questo egli ritiene che per cercare una via d’uscita bisogna guardare lontano, verso Oriente. ‘In realtà, il cristianesimo ha origine in Oriente, ma noi lo abbiamo occidentalizzato provocando quella distruzione di cui oggi facciamo esperienza’, scrive alla nonna Julie nel 1934. Resterà solo un progetto quello accarezzato per molti anni di conoscere personalmente Gandhi e di condividere l’esistenza comunitaria dello Ashram (la comunità dove Gandhi conduceva vita comune con i discepoli), ma la consapevolezza delle deformazioni che il cristianesimo subisce identificandosi in modo esclusivo con una civiltà è una delle ragioni che pongono la questione ebraica al centro della sua opera.
La sua prima presa di posizione in proposito risale all’aprile del 1933, cioè a circa due mesi di distanza dall’ascesa di Hitler al potere. In essa egli critica non solo la discriminazione all’interno della chiesa degli ebrei battezzati, ma anche quella del cittadino ebreo da parte dello stato. Bonhoeffer è probabilmente il primo teologo a impostare il problema con questa chiarezza e con tanta ampiezza, e ciò gli procurerà incomprensione ed isolamento anche da parte della stessa Chiesa Confessante (di cui faceva parte), cioè dell’area del protestantesimo tedesco che non aveva aderito alla politica ecclesiastica del regime.
Oltre ad affrontare la dimensione politica della questione ebraica, Bonhoeffer imposta alcune linee di una teologia cristiana dell’ebraismo che anticipano temi affrontati oggi dal dialogo ebraico-cristiano, come ad es. l’idea della irrevocabilità dell’elezione di Israele e il riconoscimento del significato rivelativo dell’esistenza del popolo eletto nella storia (mentre negativa è la sua posizione circa l’idea di uno Stato ebraico). Si ha un crescendo su questa linea, fino a quando nelle lettere dal carcere viene formulata la tesi per cui è necessario imparare a leggere la Bibbia a partire dall’Antico Testamento anziché dal Nuovo. Poiché, d’altra pare, egli non mette in discussione l’impostazione cristocentrica, che condivide con la ‘teologia dialettica’ e anzitutto con Barth – pur con notevoli punti di differenziazione –, viene posto sul tappeto il problema oggi più scottante nel dialogo ebraico-cristiano. L’abbozzo di soluzione che si può trovare nei suoi ultimi scritti consiste nel conferire alla stessa cristologia tratti ‘ebraistici’: un punto su cui finora gli studi su Bonhoeffer non hanno prestato forse la dovuta attenzione. È a questo punto che dobbiamo riprendere il discorso sulla dimensione sapienziale del pensiero di Bonhoeffer cui abbiamo fatto cenno all’inizio.
4. Una prospettiva sapienziale
Per prospettiva sapienziale intendiamo qui quella prospettiva – testimoniata dalla letteratura sapienziale ebraica e in altre tradizioni antiche – che consiste nel considerare il mondo come un complesso di cose, relazioni ed eventi sorretto da un ordine immanente (riconducibile più o meno direttamente a Dio). Il sapiente si interroga sulle regole che presiedono alla vicenda umana (dal contesto più immediato, quello familiare, a quello più ampio della sorte dei popoli e delle nazioni), cerca di individuare le costanti e le varianti, e fissandole in massime, in proverbi, in racconti, in consigli concorre alla formazione di un sapere che si accresce sulla base dell’esperienza delle generazioni, e nel quale le linee di condotta vengono determinate a partire dalla validità ed efficacia verificate dall’esistenza stessa.
La sapienza è dunque una conoscenza esperienziale che non appartiene al singolo, ma è patrimonio di una entità collettiva o comunitaria. Poiché essa tramanda indicazioni che la ‘lunga osservazione dei processi’ ha dimostrato efficaci per il buon vivere comunitario, le indicazioni sapienziali appaiono come legate alla natura stessa delle cose, alla legge inerente che presiede al loro sviluppo, alla struttura interna che le articola. Il sapiente è colui che possiede uno sguardo capace di percepire questa struttura profonda della realtà; il sapere che egli acquisisce attraverso questa percezione e attraverso la memoria delle esperienze passate lo aiuterà, assieme a coloro che seguono il suo insegnamento, a riuscire bene nella vita. Per questo il sapiente appare contemporaneamente come l’uomo giusto e come il benedetto da Dio.
L’interesse di Bonhoeffer per questa prospettiva dipende dal fatto che egli vede nel concetto di legge intrinseca una categoria che supera da una parte l’estrinsecismo dell’etica astratta delle norme e dei princìpi, e dall’altra l’immanentismo dell’etica secolarizzata, quell’e-tica che – come aveva già osservato nell’inverno 1931/32 – consiste nel semplice servile adattamento dell’agire alle leggi immanenti delle cose. Ma il concetto di legge gli serve anche per collegare la prospettiva sapienziale a quella cristologica.
5. Cristo, ‘la legge del reale’
Il concetto sapienziale di legge non si limita ad indicare il decalogo inteso come codice di norme. La legge – o, più propriamente: la Torà – in molti contesti dell’Antico Testamento non ha un significato nomistico, ma indica l’ordine universale voluto da Dio, fondato sulla creazione. Per questo il comandamento viene presentato come qualcosa che non raggiunge l’uomo proveniendo da lontano, ma che gli è da sempre vicino, vicino al cuore e alla bocca. Questa linea, le cui premesse si ritrovano già nella tradizione deuteronomistica, si sviluppa al punto che in Sir 24 (ma, secondo altri, anche nel salmo 19) la Torà viene identificata con la sapienza creata prima dei secoli, che ha preso dominio su ogni popolo e nazione. Implicitamente in Prov 8, Giobbe 28 e poi esplicitamente nella tradizione extratestamentaria, essa viene identificata con il piano di Dio secondo cui è costruito il mondo. Nel Midrash Rabbah la Torà è paragonata ad un architetto e al progetto di cui questi si serve per erigere un palazzo.
Nel vocabolario di Bonhoeffer il termine ‘legge’, tra i vari significati che riveste, ne ha spesso uno che si avvicina alla concezione sapienziale della Torà. Questo significato acquista un rilievo sempre maggiore nel corso dell’evoluzione del suo pensiero.
In questa accezione, il termine legge serve a render conto in termini teologico-cristologici della struttura della realtà. Come abbiamo visto, Bonhoeffer parla di ‘leggi’ del reale; se ci si ferma però al riconoscimento di queste leggi non si va oltre una fenomenologia sapienziale, che non si occupa del perché la realtà sia così costituita. La cristologia cosmologica giovannea e deuteropaolina da una parte (cf. le citazioni di Gv 1 e Col 1, che Bonhoeffer non considera una ‘speculazione’ come fa Bultmann, citazioni che costituiscono il nucleo di citazioni bibliche in assoluto più frequenti nell’Etica), e l’incarnazione (intesa come ‘entrare di Dio all’interno della realtà’) dall’altra, convergono nell’individuare in Cristo questo perché. Bonhoeffer può affermare così non soltanto che ‘le leggi dell’agire storico derivano dal centro della storia’, cioè da Cristo, ma addirittura che Cristo è la legge del reale, ‘das Gesetz des Wirklichen’. Questa definizione si avvicina fortemente alla concezione sapienziale della Torà, pur con tutte le differenze che derivano dal fatto che Bonhoeffer opera a partire da una prospettiva cristologica. L’idea che Cristo è la legge del reale non è comprensibile se non si assume che Bonhoeffer integra l’identificazione tra Cristo e sapienza, presente nel Nuovo Testamento, con l’identificazione tra sapienza e legge, propria, come abbiamo visto, della tradizione sapienziale veterotestamentaria.
Ma qui si presenta un ostacolo: com’è possibile collegare la prospettiva sapienziale, fondamentalmente ottimistica, che prevede la benedizione di Dio come garanzia di una vita felice per il giusto, con una cristologia che pone al proprio centro la theologia crucis, com’è per molti aspetti quella di Bonhoeffer?
Le sentenze sapienziali, specialmente quelle che prevedono un rapporto adeguato tra azione e risultato, cioè una sorte fausta per il giusto e infausta per gli stolti e gli empi, sono realistiche ‘perché parlano sulla base di esperienze che in una società ben compaginata si sono effettivamente dimostrate valide’. Ma queste sentenze ‘non funzionano più’ in un contesto di ‘instabilità sociale’. Questo fatto delimita il loro ambito di validità. Per questo motivo si è parlato di ‘crisi’ nella fase più tarda della tradizione sapienziale in Israele, in particolare in Giobbe e Qoèlet.
I tempi in cui Bonhoeffer ha vissuto sono stati tutt’altro che tempi di ordinata vita sociale. Egli li ha considerati tempi di totale sovvertimento dei valori, in cui il male non ha semplicemente sopraffatto il bene, ma ne ha usurpato la figura, presentandosi sotto l’apparenza della giustizia. Davanti ad un tale scompaginamento dei concetti etici di riferimento, la disponibilità a rischiare una scelta non sostenuta dalla tradizione diventava una premessa indispensabile dell’agire giusto. Per questo motivo la difesa delle leggi essenziali delle cose, secondo la linea sapienziale, viene integrata nell’Etica con la trattazione del ‘caso limite’, ossia di quella situazione che nasce quando gli ordinamenti della vita sociale vengono ‘sistematicamente’ manipolati e alla quale si può far fronte solo con la ‘libera responsabilità’, cioè con la capacità di individuare linee di comportamento al di fuori di quelle indicate dall’etica valida nei tempi ordinari: una assunzione di responsabilità che Bonhoeffer chiama ‘ultima ratio’.
Nelle lettere dal carcere il problema diventa più radicale perché qui Bonhoeffer non si misura più con un tempo di crisi tragico, ma di breve periodo; proprio perché il suo destino personale è ormai deciso, egli è spinto ad orientare lo sguardo più lontano e a misurarsi con una deriva epocale: quale fondazione teologica è ancora possibile dare alla struttura della realtà, alle leggi ad essa inerenti, quando – nel contesto della disumanità dilagante, del male che sembra non conoscere ostacoli – a Dio non si può più pensare, almeno non in primo luogo, come al creatore, né come all’incarnato, bensì come a ‘colui che si lascia scacciare dal mondo’? Come a colui che, nel mondo, manifesta la propria debolezza e impotenza? Ci può ancora salvare questo Dio?
6. Il Dio che si lascia scacciare dal mondo
A questa domanda Bonhoeffer non è riuscito a dare se non frammenti di risposta, che però possiamo cercare di ricomporre, perché indicano con relativa chiarezza come sarebbe stato compaginato il ‘tutto’, qualora il lavoro avesse potuto trovare compimento e la morte per impiccagione non avesse troncato l’esistenza di Bonhoeffer.
La risposta tuttavia non è difficile da individuare, se ripensiamo a quanto abbiamo detto: lo stesso ‘lasciarsi scacciare di Dio dal mondo’ fornisce alla realtà quella struttura che il sapiente riconosce come ad essa inerente, e la cui origine, nei tempi di stabilità dei valori, è ricondotta dalla riflessione teologica al Dio creatore o all’incarnato. In altre parole, lo spazio evacuato da Dio non è uno spazio amorfo, ma uno spazio in cui restano impressi i segni della storia da cui esso nasce. Nelle lettere da Tegel Cristo è la legge del reale non più in base alla sua partecipazione alla creazione, bensì in quanto è il Dio che si lascia scacciare. Quando, ricercando l’origine della struttura della realtà, l’attenzione è condotta a spostarsi dal creatore e dall’incarnato al Dio che ci abbandona, ha luogo anche una reinterpretazione della struttura stessa del reale. La legge della realtà ha adesso il suo momento saliente nel lasciarsi scacciare e nell’esistere-per-altri di Dio in Cristo. Di conseguenza, la libertà da se stessi fino alla morte non è distacco (stoico, religioso, ascetico) dal mondo, ma è la modalità d’esistenza che aderisce più profondamente alla realtà, è vita conforme alla realtà, cioè è vita sapiente.
Questa esistenza adeguata, conforme, commisurata alla realtà è chiamata da Bonhoeffer ‘partecipazione alla sofferenza – o anche: all’impotenza – di Dio nella vita del mondo’. È questo il modo di esistere attraverso il quale ‘si diventa uomini, si diventa cristiani’. Cristiani, perché questa esistenza è partecipazione alla passione di Dio in Cristo; uomini, perché essa corrisponde alle leggi essenziali della realtà. Perciò questa partecipazione alla sofferenza di Dio, che costituisce il rovesciamento di tutto ciò che ‘l’uomo religioso si attende da Dio’, è ‘qualcosa di integrale, un atto che coinvolge la vita’, al contrario della religione, che è sempre qualcosa di parziale. L’’esistere-per-altri’ è l’opposto della rinuncia alla propria identità; è la via attraverso la quale l’uomo diventa ánthropos téleios, uomo pienamente tale. L’essere pienamente uomini e l’essere pienamente cristiani vengono in questo modo a coincidere. Benedizione e croce non si escludono, ma si implicano a vicenda.
7. Benedizione e croce
Nel Nuovo Testamento il giusto per eccellenza non gode nella sua vita terrena dei beni che il sapiente predice a colui che segue il retto cammino indicato dalla legge delle cose, ma va incontro alla maledizione sulla croce e alla espulsione dal mondo. Una soluzione per ristabilire l’armonia tra Nuovo e Antico Testamento potrebbe essere quella di ricercare e sottolineare nell’Antico Testamento le anticipazioni della sofferenza del giusto, come Bonhoeffer aveva già fatto indicando nel cap. 53 di Isaia il luogo dove l’Antico Testamento giunge al suo ‘limite’ e ‘rinvia’ al Nuovo, e come fa anche nella lettera del 28 luglio, sulla scia di alcune riflessioni svolte sul salmo 34 circa un mese prima, ricordando come nell’Antico Testamento il ‘benedetto’ debba molto patire. Ma questa soluzione, da sola, rappresenterebbe ancora una lettura dell’Antico Testamento a partire dal Nuovo. Perciò Bonhoeffer si muove contemporaneamente nella direzione opposta, e oltre a cercare la croce nell’Antico Testamento, cerca anche la benedizione nel Nuovo Testamento; e, a rincaro, non nelle pagine più distese e a prima vista più promettenti per una simile ricerca, come potrebbero essere le lettere pastorali, o Giacomo, testi per altro verso da lui largamente utilizzati, bensì nel cuore stesso dello scandalo del Nuovo Testamento, cioè proprio nella croce: ‘la differenza fra Antico e Nuovo Testamento sta solo nel fatto che nell’Antico la benedizione racchiude in sé anche la croce, nel Nuovo la croce racchiude in sé anche la benedizione’. Il senso di questa frase va individuato proprio sulla base del significato assegnato alla croce nelle lettere immediatamente precedenti, appunto quelle dove la croce è presentata come il luogo in cui Dio si lascia scacciare dal mondo. Ma, se è così, Bonhoeffer sostiene in effetti che proprio questo lasciarsi scacciare contiene in sé la benedizione. La croce è quell’evento in cui viene ‘rovesciato ogni essere umano’, in cui il cor curvum viene ‘convertito’ nell’essere-per-altri. Questo evento conferisce senso all’esistere, è la benedizione di Dio al mondo, in quanto è l’evento che conferisce al mondo quella struttura, quelle leggi che ‘conservano’ e ‘rinnovano’ il mondo. Si tratta di leggi che portano inevitabilmente alla croce coloro che imboccano il lungo itinerario verso la libertà (‘Cristo, l’uomo-per-altri, perciò il crocifisso’); ma esse sono quelle leggi che permettono la vita piena, ‘perfetta’, nel contesto della natura corrupta. Nel mondo decaduto, cioè nel mondo concreto della storia, l’uomo autenticamente mondano è colui che non reprime le proprie passioni e sa trarre godimento dalla vita, ma che a tempo debito dovrà però anche affrontare le sofferenze che nascono dall’esistere-per-altri; è l’uomo la cui ‘profonda’ mondanità è ‘piena di disciplina’ ed è segnata (nel caso del cristiano) dalla ‘conoscenza della morte e della resurrezione’: costui è il benedetto, l’ánthropos téleios al quale Dio riserva i beni del mondo e la pienezza dell’esistenza.
Le due linee (la linea sapienziale e la linea della croce, la centralità e l’impotenza di Dio nel mondo) trovano a questo punto il loro momento di convergenza, e la morte, intesa come negazione della vita, viene ‘inghiottita’ dalla morte intesa come compimento di un’esistenza nella libertà ‘da se stessi’ per gli altri.
8. L’ultima tappa verso la libertà
Bonhoeffer è morto come un martire. Nei mesi immediatamente precedenti allo scoppio della guerra egli si trovava negli Stati Uniti, e avrebbe potuto evitare di ritornare in patria, essendo già chiara la sorte che lo attendeva. La decisione di ritornare fu la scelta consapevole di mettere a repentaglio la propria vita, a motivo, ultimamente, della causa di Cristo. Ma questa disponibilità a morire non è legata al disprezzo e nemmeno al distacco dalla vita. Nel 1942 egli scrive: ‘In questi anni (gli anni della guerra) ci siamo abituati all’idea della morte, ma non per questo moriamo volentieri; al contrario, gradiremmo poter vedere ancora qualcosa del senso di questa nostra esistenza martoriata’. Di conseguenza, gli sembrava inadeguato l’atteggiamento di chi affronta la morte in modo eroico. Era animato dal desiderio di essere colto dalla morte ‘nel pieno della vita e nella pienezza dell’impegno, non casualmente… o lontano dall’essenziale’. Questo desiderio è stato esaudito. C’è anche qui da mettere in evidenza il rapporto con la cristologia: la morte è sequela di Cristo, e il regno di Cristo non è ‘un regno del cuore, ma un regno sopra la terra e su tutto l’universo’. È il regno di colui che è il ‘centro della vita’. Precisamente per questo è un regno ‘per il quale vale la pena di rischiare la vita’, e per questo la morte è ‘l’ultima stazione’ sulla via della libertà:
Libertà, ti cercammo a lungo nella disciplina,
nell’azione, nel dolore.
Morendo, te riconosciamo ora nel volto di Dio.
Alberto Gallas
docente di Storia della teologia all’Università Cattolica di Milano
SOMMARIO
Il pensiero e l’opera di Bonhoeffer hanno goduto di una fortuna alterna. Il fatto però che l’interesse nei suoi confronti resista al mutare delle mode ne fanno ormai un classico del Novecento. Alla fine degli anni Sessanta il dibattito si è concentrato sulla sua critica alla religione, spesso peraltro intepretata in modo improprio. Ma sono numerosi i temi in cui egli ha lasciato un’eredità ancora viva: la questione della pace, l’ecumenismo, la questione ebraica, il recupero della tradizione sapienziale da parte del cristianesimo.