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DA DIO « PADRE » A DIO CREATORE

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DA DIO « PADRE » A DIO CREATORE

di Gianni Gennari

“Credo”, e poi “Credo in Dio”: così dall’inizio di questi dialoghi, poi fino qui “Padre Onnipo­tente”, con l’avverten­za forte che questo “Padre” è solo conseguenza della rivelazione del “Figlio” incarnato, non nome spontaneo dato all’ignoto dal nostro umano sentimento di inferiorità prodotto dall’esperienza del limite e che quell’“onnipotente” non è la smisurata dilatazione del rovescio dei nostri fallimenti e delle nostre impotenze di conoscenza e di  potere, che nelle religioni inventate dagli uomini producono “miti” e “riti”, ma percezione profondamente cambiata dall’ascolto e dalla memoria della realtà rivelata e donata nella nostra storia con il Figlio Gesù di Nazaret, crocifisso, morto e risorto. Un Padre speciale, dunque, non certo ad immagine di ciò che la nostra esperienza spesso contraddittoria chiama “paternità”. Non per nulla a immaginare la paternità della divinità come gelosa della crescita dei figli, rivale ed ostile ad essi era giunta proprio e sempre ogni religione inventata dagli uomini, dalla Persia, all’Egitto, alla Grecia, a Roma. La divinità pensata così da noi esigeva il sacrificio di ciò che era più caro, i primogeniti, e l’offerta di tutte le primizie. Opportuno ricordare, qui, che il capitolo 22 del Libro della Genesi non è “nuovo” perché Abramo pensa che sia volontà divina il sacrificio di Isacco, ma perché il suo “nuovo” Dio, che lo ha chiamato a partire da Ur e ad avviarsi verso il futuro rifiuta il sacrificio del figlio primogenito, e così si apre quella prospettiva che poi i Padri della Chiesa hanno definitivamente descritto così: quello che Dio non ha chiesto ad Abramo lo ha fatto Lui per noi, sacrificando il Figlio suo sul legno, la Croce, e sul monte, il Calvario… Nessuna rivalità, quindi, di questo “Padre” nei confronti dei “figli”. Nessun timore di un “padre castratore” che limita la fecondità dei figli. La lettura di Freud è del tutto fuori luogo nella rivelazione della paternità divina offertaci realmente nel Verbo incarnato, Figlio unigenito,  Gesù di Nazaret che ci chiama fratelli e rende anche noi veri “figli di Dio”. Nessun “oppio dei popoli”, se servisse ancora qualche precisazione: la grandezza di Dio non è costruita sulla nostra miseria, ma è donata ad essa e la trasforma in prospettiva e in speranza realissima in Sé. Dio “Creatore”: il racconto biblico del “principio” Ed eccoci al tema successivo, con in mano “il Libro” (la Bibbia) proprio alla prima parola (Gen. 1, 1), “Bereshìt” (all’inizio). Rosh, in ebraico, è sempre principio, inizio, capo, cominciamento assoluto: “In principio Dio creò il cielo e la terra”. Il primo capitolo, intero, racconta in un certo modo, studiatissimo come vediamo subito, l’azione di Dio creatore, e il secondo capitolo racconterà la stessa cosa in modo diverso, soffermandosi con particolare evidenza sul modo della creazione dell’uomo e della donna, mentre il primo capitolo ha descritto con sintetica immaginazione semplicemente il fatto, dopo l’iniziale affermazione sostanziale. Pregherei il lettore di aver davanti il racconto biblico, dal versetto 1 al 26. Pare una “favola”, e per certi aspetti lo è, ma non nel senso che racconta cose false, mitiche, frutto della fantasia umana, bensì nel senso che si tratta di mettere insieme le affermazioni in un certo modo, con una certa sequenza, affinché chi ascolta il racconto possa farsi una idea fondamentale del tutto… Un piccolo esempio, come tra parentesi, per capirci meglio. Tutti noi ricordiamo il ritornello della misura dei tempi dell’anno, i mesi: “30 giorni a novembre, con april, giugno e settembre, di 28 ce n’è uno, tutti gli altri ne han 31”. A che serve? A farci intendere tutto l’anno in una sequenza facile, e assimilabile a memoria. Ecco: immaginiamo che l’anziano patriarca, il padre di famiglia, il nonno ebreo di inizio del millennio prima di Cristo racconta ai nipotini l’epopea del loro popolo, e comincia ovviamente dall’inizio: “Bereshit!” “In principio Dio creò il cielo e la terra”. “Cielo e terra” per la cosmogonia ebraica erano – e sono – il tutto. Tutto viene da Dio, che “crea”. Il verbo ebraico usato è “baràh”, termine tecnico usato solo per la creazione… Tutto viene da Dio, ma il testo continua che questo “tutto” era, sempre “al principio”, deserto e vuoto – “tòhu wabhòu” dice il testo ebraico – caos e confusione, abisso disordinato e oscuro, ma…Ma il testo continua: “e lo spirito di Dio aleggiava sulla faccia delle acque”. L’inizio di tutto, dunque, dall’azione creatrice di Dio, che non trasforma come la nostra qualcosa che già esiste, ma la produce per la sua potenza. E poi? Poi la descrizione di una sequenza ordinata e precisa, fatta in pratica di nove azioni divine, tutte fatte di una parola che ordina. Il verbo usato è “amàr”, cioè dire, parlare, pronunciare un ordine a parole. Il testo è identico: “E Dio disse”. E le nove azioni producono nove realtà, in perfetta corrispondenza di coppie, quattro di seguito, seguite da una ultima realtà, che a sua volta è già coppia, da sola… Una costruzione avvedutamente precisa: al primo posto corrisponde come contenuto il quinto, al secondo il sesto, al terzo il settimo, al quarto l’ottavo, e tutto si conclude con il prodotto numero nove. E “Dio disse”: numero uno, la luce e numero cinque il sole, la luna e le stelle. Numero due, le acque di sopra e numero sei gli uccelli, che riempiono lo spazio superiore. Numero tre, le acque di sotto e numero sette i pesci che riempiono i mari, i laghi e i fiumi, appunto acque di sotto. Numero quattro la terra asciutta divisa dalle acque già create e numero otto gli animali e le piante che la riempiono. Tutte le cose del cielo e della terra create dalla parola creatrice di Dio, che vede che tutte esse “sono buone” – “Wajar Elohìm ki tob (E Dio vide che era buono)”. All’ultimo posto, il nono che li corona tutti, la parola cambia: “naaseh et haadàm… Facciamo l’uomo a nostra immagine somigliantissima, facciamolo maschio e femmina”. E qui, solo qui, “Dio vide che era molto buono”. I termini usati per quest’ultima formula çelém e demut, dicono proprio la rispondenza della creatura alla realtà del Creatore che allora può, al settimo giorno, riposare finalmente. Tutto viene da Dio, Creatore e Signore: questo il senso del racconto del capitolo primo della Bibbia, tutto, davvero tutto, e il giudizio sul tutto è unilateralmente “buono”, anzi alla considerazione della creatura, la coppia uomo maschio uomo femmina “molto buono”. Il nonno (maestro, rabbì) ha terminato il racconto delle origini, fatto in modo che la memoria del nipote discepolo possa ricordare ogni singola creatura senza perdere di vista l’unità della rivelazione dell’origine e del valore del tutto. Questa è la spiegazione catechistica della sapienza antica del popolo eletto, che ha trovato in Abramo il capostipite proprio nella memoria dell’Adam iniziale, l’uomo maschio femmina prodotto dalla terra, “adamàh”… La prima lezione del racconto biblico è terminata: a gloria di Dio, Padre nostro in Cristo e Creatore dell’universo mondo. Di qui riprenderemo il nostro discorso. Buona Pasqua in ritardo, ma sempre necessaria: ogni giorno della “nuova creazione” è giorno pasquale, e se non lo è ogni giorno, invano arriva quello del calendario, nel quale scrivo queste semplici righe. Alla prossima.

 

Publié dans:CREDO, meditazioni |on 8 août, 2016 |Pas de commentaires »

LA VITA ETERNA DOPO LA MORTE: MA L’ETERNITÀ NON SARÀ NOIOSA?

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LA VITA ETERNA DOPO LA MORTE: MA L’ETERNITÀ NON SARÀ NOIOSA?

Parole chiave: paradiso (2), risponde il teologo   Quello che ci aspetta dopo la morte è la vita eterna, ma cos’è questa  «eternità»? Il concetto terreno che abbiamo di eterno è di cosa che non ha principio né fine, cioè di cosa che dura indefinitamente. Sembra, perciò, che tutto sia immobile. Come può essere così anche nell’eternità celeste, diventerebbe noioso. Io penso che ci sia una attività anche in cielo e lo dimostra il fatto che ci sono stati e ci sono continuamente, interventi nella storia degli uomini (vedi per tutti: l’Incarnazione). La vita eterna non è statica, è dinamica anche perchè dovremo crescere nell’amore di Dio.

Piergiorgio Castellucci

RISPONDE PADRE ATHOS TURCHI, DOCENTE DI FILOSOFIA Parlare di cosa succeda nella vita eterna dopo la morte è sempre problematico perché non abbiamo documentazione e neppure testimonianze dirette, e dobbiamo sempre rifarci alle parole evangeliche, a San Paolo, alla tradizione magisteriale. Prima di tutto «eterno» non è solo ciò che non ha principio né fine (ossia il necessario), ma anche ciò che una volta venuto all’esistenza più non ne esce (come il contingente). E gli uomini sono di questo secondo aspetto. Quanto non ritorna nel nulla è eterno, e questa è la rivelazione e la promessa di Gesù agli uomini, quando dice che va a preparare i posti per i suoi discepoli, perché siano anch’essi dove lui è (Gv 14,3). Che cos’è dunque la «vita eterna»? Non è un luogo dove siamo tutti raccolti insieme a giocare, banchettare, a sorriderci. La vita eterna è uno «stato» di comunione, un «contatto» dell’uomo con Dio, visto faccia a faccia, come esso è (1Gv). La persona umana entra nel vivo dell’essere di Dio e ne viene travolto dall’amore e dalla gioia senza fine. L’amore divino e umano, che si fondono, producono nell’uomo un effetto talmente grande di gioia e piacere, che nessuno se ne vorrà più privare. È la testimonianza di quasi tutti i santi, che sostengono che il momento più tragico per l’anima è al termine dell’estasi, ossia dal contatto con Dio. S.Teresa diceva: muoio perché non muoio. In altri termini, l’amore non è uno stato in cui i due amanti si scambiano di tanto in tanto un sorrisino. L’amore è la più grande, la più elevata, la più dignitosa attività che un uomo possa fare, amare significa conoscere l’altro nella sua pienezza e nel mentre l’altro viene conosciuto come altro, uno impara a conoscere se stesso. I santi dicono che quando s’incontra Dio, nella luce di Dio, vedono se stessi e si rendono conto di chi sono, dei peccati e di quanta distanza c’è tra essi e Dio, al punto che la luce divina, mentre li fa brillare di conoscenza, disvela anche tutti i difetti dell’anima, che diventa trasparente all’amore divino. Bello è l’esempio di s.Giovanni della Croce che a contatto di Dio la sua anima disvelava tutti i minimi difetti, come quando un bicchiere d’acqua apparentemente cristallina sotto l’azione di una luce brillante disvela la presenza di infinite scorie. Ecco perché non ci si annonia ad amare Dio per l’eternità: la nostra conoscenza non potrà mai percorrere il suo essere totalmente, e amandolo sempre più profondamente noi lo scopriamo nella ricchezza della sua vita trinitaria, e questa intimità con Dio è l’attività più elevata dell’uomo, quello che l’uomo aspira e brama, e che mai viene meno, perché il piacere (sia spirituale che fisico, quando riavremo il nostro corpo) sarà talmente elevato che nessuno oserebbe rinunciarci. E questo in un certo senso è visibile nell’amore che abbiamo verso noi stessi, che non cessa, non viene meno nel tempo, e così amare Dio è l’amore più grande che possiamo esprimere per noi stessi. Amare è dunque l’attività, il lavoro, l’azione, l’impegno più oneroso che la vita eterna comporta, perché l’ingresso nella vita divina è un’attività infinita. L’uomo storico, forse condizionato dalla presenza del «peccato», ha ridotto l’amore a un dominio sull’altro, a un possesso, facendo dell’altro un « oggetto per sé stessi », per questo si è incapaci di sentire e capire la valenza eterna dell’amore. Dovremmo perciò educarci ad amare gli altri, ad esprimere il massimo amore verso chiunque, essendo questa l’unica via per voler bene a se stessi, per riuscire a conoscerci e per comprendere quale ruolo nella vita abbiamo. E se il lettore ci pensa, questi sono i problemi più grossi che agitano il cuore dei giovani, che non sanno per qual motivo sono nel mondo e che ruolo in esso debbono avere, problemi che si risolvono solo in ragione di una comprensione piena dell’amore nella loro vita. Una riflessione sulla vita eterna ci illumina sull’ordine logico della nostre attività terrene: primo è amare, secondo è il lavoro che fluisce come conseguenza di quella attività. Infatti un uomo è tale qualsiasi lavoro faccia, ma se non ama abbrutisce se stesso e si rinnega come essere umano. Dunque l’amore verso gli altri è il necessario, ed è la ragione della vita eterna. Le altre attività sono secondarie e non necessarie. Eppure noi vediamo che si passono anni e anni per imparare un mestiere, e non ci sono insegnamenti per imparare ed educarsi ad amare. La vita eterna ci dice infine che nella luce divina, noi siamo aperti sugli altri. Nell’amare Dio non solo siamo in relazione con lui, ma anche con tutti gli altri esseri umani che finalmente saremo capaci di amare, di apprezzare e di valorizzare, cose queste che forse nella nostra vita terrena non siamo stati in grado di praticare. Dunque mi sembra che di cose da fare ne avremo nonostante l’eternità, anche perché l’eterno non ha un prima e un dopo (=tempo), ma è una vita vissuta nell’attimo (tota simul) e in piena perfezione (perfecta possessio).

 Q

Publié dans:CREDO, Teologia |on 10 mai, 2016 |Pas de commentaires »

IL MISTERO DELLA TRINITÀ: COSA SIGNIFICA CHE GESÙ È «NATO» DAL PADRE?

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IL MISTERO DELLA TRINITÀ: COSA SIGNIFICA CHE GESÙ È «NATO» DAL PADRE?

Un lettore chiede il significato di un’espressione del Credo: «Nato dal padre prima di tutti i secoli». Risponde don Angelo Pellegrini, docente di Teologia dogmatica alla Facoltà Teologica dell’Italia Centrale.

SPIRITUALITÀ E TEOLOGIA – 24/04/2013   Siamo nell’Anno della fede. Il credo niceno-costantinopolitano (non quello degli apostoli) dice così: «Credo in un solo Signore, Gesù Cristo, unigenito figlio di Dio, nato dal Padre prima di tutti i secoli…» Se è nato vuol dire che «prima» non c’era. Sotto questo aspetto il Padre è «più» del Figlio. Allora si potrebbe dire che in questo punto questo Credo non esprime bene l’uguaglianza tra Padre e Figlio. È più vero allora Giovanni Evangelista: «In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era, in principio, presso Dio…». Mi può chiarire un teologo? Giovanni Manecchia

L’acuta osservazione del lettore impone una premessa necessaria, che traggo dal Catechismo della Chiesa Cattolica: «La Trinità è un mistero della fede in senso stretto» (n. 237). Questo significa che le nostre affermazioni su Dio Trino hanno lo scopo di non deformare l’idea di Dio al punto da renderla incompatibile con quanto rivelato da Cristo. L’idea di un dio troppo razionalistica o umanizzata, ad esempio, andrebbe a scontrarsi con le affermazioni del profeta Isaia il quale sostiene, alla stregua di un idolo, che pregheremmo «un dio che non può salvare» (45,20). Al contempo non possiamo pretendere, proprio perché la Trinità è un mistero in senso stretto, che le nostre espressioni in merito siano totalmente chiare ed immediate. Il nostro linguaggio nasconde sempre una certa oscurità, ambiguità ed è pertanto suscettibile di spiegazioni utili alla sua precisazione. Data l’importanza e la complessità della questione, spero che queste mie brevi parole possano essere utili ad un chiarimento, anziché portare altra nebbia. In questo senso i Padri del Concilio di Costantinopoli (381) modificarono la frase in questione che, nel credo del Concilio di Nicea (325), suonava piuttosto diversamente. Il loro scopo era certamente chiarire che Padre e Figlio non sono subordinati, cioè sono «uguali nella natura divina», ma non in questo passaggio. Questo passaggio voleva spiegare piuttosto che essi sono sì uguali, secondo la natura, ma non sono interscambiabili, vanno perfettamente identificati, hanno una specificità propria non comparabile, ma soprattutto scambiabile con la specificità dell’altro. Ossia il Padre è Padre e non va confuso con il Figlio e viceversa. In questo senso noi traduciamo la parola greca del gennethénta con nato, mentre poco sotto lo stesso participio lo traduciamo con generato, nella frase «generato non creato». Il verbo al participio passato è lo stesso e va capito tenendo assieme le due espressioni. La seconda frase, infatti, fu inserita nel Concilio di Nicea contro il subordinazionismo di Ario il quale sosteneva che non soltanto Padre e Figlio non erano uguali, ma addirittura che, non avendo la stessa natura, il Figlio era semplicemente una creatura, creata da Dio prima delle altre. Dire che non era creato significava separare il Figlio dalle creature, escludere la sua natura creaturale e affermare la piena divinità della natura del Verbo, poiché generato dal Padre. Sono diverse le espressioni del credo che affermano questo concetto; ne ricordo due, che però non è possibile spiegare in questa sede: consustanziale, ossia della stessa sostanza; Dio vero da Dio vero. Nel nostro contesto però l’espressione nato/generato assume un valore aggiuntivo: pur affermando l’uguaglianza di Padre e Figlio, ci dice che non sono interscambiabili anzi indica la loro identità specifica. Il Padre è colui che dona, generando, pienamente la divinità e l’amore al Figlio eternamente; il Figlio è colui che, eternamente, riceve in pienezza il dono dell’amore e della divinità dal Padre. Questo dono eterno è pieno ed è totale, per cui pur non scambiando chi dona e chi riceve, l’espressione non nega la piena uguaglianza di Padre e Figlio secondo la divinità, ma li distingue in ordine alla identificazione personale. Il discorso andrebbe ovviamente completato mostrando come tutto ciò valga anche per lo Spirito Santo, uguale secondo la natura al Padre e al Figlio, ma distinto per identità personale e ruolo specifico. Sinteticamente il secondo Concilio di Costantinopoli (553) ha proprio voluto affermare questo concetto sostenendo che «il Padre e il Figlio hanno una sola natura o sostanza […] poiché essi sono una Trinità consustanziale, una sola divinità da adorarsi in tre ipostasi», ossia persone. Da questo punto di vista il Credo diventa anche una singolarissima spiegazione del primo versetto del Vangelo di San Giovanni opportunamente citato dal lettore. 

CREDO LA RESURREZIONE DELLA CARNE E LA VITA ETERNA, ENZO BIANCHI

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CREDO LA RESURREZIONE DELLA CARNE E LA VITA ETERNA

ENZO BIANCHI

Introduzione
Nell’itinerario sulla fede cristiana che state percorrendo, secondo la professione del “Credo”, gli articoli finali dichiarano: “Credo la resurrezione della carne, la vita eterna” (Simbolo apostolico); “Aspetto la resurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà” (Simbolo niceno-costantinopolitano).
Prima di entrare in medias res, permettetemi di fare una precisazione sul verbo “credere”, a cui tengo particolarmente. Credere è l’espressione tipica di tutta la fede biblica, da Abramo, il primo credente, il credente per eccellenza, fino al Nuovo Testamento, fino a noi: credere ci costituisce in un rapporto preciso con Dio. In ebraico “credere” è espresso con alcuni verbi, e il più ricorrente è aman, da cui viene la notissima parola amen: aman significa aderire, mettere fiducia, avere fiducia. Quando proclamiamo la fede cristiana e diciamo “Credo”, diciamo che abbiamo fiducia, non che “pensiamo che…”: non è fede cristiana il pensare che Dio esiste, ma il mettere la fiducia in Dio, nel Padre e nel Figlio e nello Spirito santo. Per questo, significativamente, non si dice: “Credo nel diavolo” o “nell’inferno”, perché sono realtà in cui non possiamo mettere fiducia. Del male facciamo esperienza, non c’è bisogno di crederlo…
Fatta questa doverosa precisazione, veniamo a riflettere sulle due espressioni conclusive del Credo, secondo la versione del Simbolo apostolico.
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1. CREDO LA RESURREZIONE DELLA CARNE

ENZO BIANCHI

Sembra che la resurrezione della carne, la resurrezione dei nostri corpi, sia la “cosa” più strana che la fede cristiana chiede di credere. Non a caso, dalle analisi sociologiche condotte sulla fede dei cattolici italiani risulta che, se la maggior parte della popolazione crede in Dio, neanche il 20% crede nella resurrezione della carne. Occorrerebbe domandarsi che qualità cristiana ha questa fede, che in verità sembra piuttosto una certa credenza in un Dio, in un essere superiore, credenza neppure degna di essere classificata come teista.
Quando poi si ascoltano i pensieri dei cristiani sull’al di là, sovente si resta imbarazzati. Spesso parlano di reincarnazione (espressione sconosciuta fino a un secolo fa e introdotta con il fenomeno dello spiritismo), come se questo fosse il vero desiderio che li abita: vivere altre vite, altre esperienze. È questo un modo per rimuovere la verità della morte, oppure è un sogno di immortalità? Questi cristiani che spesso pensano la reincarnazione come una credenza religiosa orientale non sanno, tra l’altro, che nell’induismo e nel buddhismo la reincarnazione significa una condanna, perché la salvezza si attua proprio attraverso una lunga disciplina durante la vita, uscendo dal ciclo delle reincarnazioni che rappresentano sempre un fallimento! Questi cristiani si ispirano forse alla migrazione delle anime, concepita da Platone all’interno di un’ideologia dualista secondo cui l’essere umano sarebbe composto di un elemento mortale, l’anima, e di uno corruttibile, il corpo?
Certamente i novissimi, le realtà ultime, cioè morte, giudizio, inferno e paradiso, non sono molto presenti nella predicazione e nella catechesi, e per questo si fa urgente la riproposizione di questi temi essenziali per la fede cristiana, anche per impedire derive spiritualiste e devote, che rispondono alle curiosità e non agli autentici bisogni di fede dei cristiani. La fede nella resurrezione della carne è il cuore della fede cristiana, perché indissolubilmente legata alla fede nella resurrezione di Gesù Cristo. Già l’Apostolo Paolo, di fronte alle difficoltà mostrate a questo riguardo dai primi cristiani provenienti dal mondo greco, asseriva con forza: “Se i morti non risorgono, neanche Cristo è risorto; ma se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede … Se noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto in questa vita, siamo da compiangere più di tutti gli uomini” (1Cor 15,16-17.19).
Di fronte a questa fede dei cristiani, la critica di chi non crede può anche essere feroce: il credere alla resurrezione sarebbe soltanto un artifizio per negare la realtà della morte; sarebbe soprattutto, per gli spiriti deboli, un modo di raggiungere nell’al di là ciò che non hanno saputo essere nell’al di qua; sarebbe una preoccupazione egocentrica, una non accettazione del fatto che nel mondo tutto nasce, cresce e muore. Oppure sarebbe una forma di rassegnazione, una via per evadere dal duro mestiere di vivere, mettendo la speranza solo nell’al di là… Queste critiche dovrebbero essere prese sul serio, dovrebbero stimolarci a un esame approfondito della nostra fede e del modo in cui la presentiamo. Perché sovente la nostra attuale non-fede nelle verità cristiane essenziali dipende anche dal modo in cui per secoli sono state presentate: a volte dando a Dio un volto perverso, a volte immaginando una giustizia di Dio secondo i nostri sentimenti, a volte finendo per disprezzare questo mondo, la vita terrestre, e generando nel cuore dei credenti paura e angoscia, invece che fiducia e franchezza.
Per reagire a tale situazione, cerchiamo innanzitutto di metterci in ascolto del messaggio consegnatoci dalle sante Scritture riguardo alla resurrezione della carne. Nella Bibbia sempre si insiste sul fatto che la vita è un dono di Dio, perché Dio è colui che l’ha creata e il solo che può disporne: l’essere umano non è padrone della propria vita, perché la riceve come grazia e benedizione, compito e vocazione. E la vita dell’umano è sempre alleanza con Dio, ma in solidarietà con gli altri e con la terra, affidata alla comune responsabilità degli umani. Una vita beata e lunga, “sazia di giorni” (cf. Gen 25,8; 35,29, ecc.), è da un lato il desiderio umano, dall’altro la promessa di Dio per chi vive nella giustizia e nella pace (cf. Sal 128). Una vita senza qualità, o meglio una convivenza senza qualità, vale a dire senza un cammino di umanizzazione, non ha senso, è ingiustificabile, non corrisponde alla volontà di Dio. Eppure salute e malattia, benessere e angoscia, pienezza di vita e vecchiaia e morte, sono realtà che attendono tutti sotto il sole…
Davanti al male, alla sofferenza e alla morte il credente dell’Antico Testamento patisce il dramma di chi sente che la morte è un’ingiustizia, che la morte attende tutti ma è sofferenza, che la morte è dolorosa perché è la fine delle relazioni, dei legami. Anche del legame dell’alleanza con Dio? È difficile affermare con chiarezza ed evidenza la fede dei figli di Israele a proposito dell’al di là, della vita oltre la morte. Gesù interpreta che la fede di Mosè era già fede nel “Dio dei viventi e non dei morti” (cf. Mc 12,27 e par.; Es 3,6), e il Nuovo Testamento fa risalire la fede nella resurrezione dei morti addirittura ad Abramo, il quale “pensava che Dio è capace di far risorgere anche dai morti” (Eb 11,19). Lettura mitica che amplifica la fede dei nostri padri o testimonianza di una profondità di fede implicita, che noi non riusciamo a leggere con chiarezza?
In ogni caso, nella fede di Israele uomini come Enoch, che “camminò con Dio, poi scomparve perché Dio l’aveva preso” (Gen 5,24), Mosè, del quale non si conosceva la tomba (cf. Dt 34,6), Elia, che era salito al cielo in un carro fuoco (cf. 2Re 2,11), erano pensati viventi presso Dio, dunque uomini per i quali Dio aveva vinto la morte. Se questa consapevolezza faceva parte della fede, allora si poteva sperare e credere che il Signore, sempre fedele verso il credente lungo tutta la sua vita, non poteva non essere fedele quando il credente incontrava la morte (cf. Sal 16,10; 30,3-4). E così verso il II secolo a.C. emerse la fede nella resurrezione dalla morte, dunque resurrezione della carne: i santi, i martiri messi a morte a causa della loro fedeltà al Signore, risorgeranno per una vita eterna (cf. 2Mc 7,9). Questa fede, derisa dai sadducei, assunta dai farisei e dagli esseni, sarà anche la speranza di Gesù, e i vangeli ce ne danno una solida testimonianza. Gesù annuncia che Abramo, Isacco e Giacobbe sono viventi in Dio (cf. Lc 20,38), e al ladro crocifisso con lui promette: “Oggi con me sarai nel paradiso” (Lc 23,43). Sì, nella morte avviene un passaggio da questo mondo alla vita in Dio, vita in cui accadrà una trasfigurazione come quella già avvenuta nel corpo stesso di Gesù, quando “il suo volto risplendette come il sole” (Mt 17,2), e così alla fine del mondo “i giusti risplenderanno come il sole nel regno del Padre loro” (Mt 13,43).
Ma il fondamento della fede cristiana, più che nelle parole di Gesù, sta nella storia, nell’evento in cui il Padre ha definitivamente e in modo manifesto “costituito Signore e Cristo quel Gesù che era stato condannato e crocifisso” (cf. At 2,36). Seppellito nella tomba la vigilia di Pasqua, il 7 aprile del 30 d.C., Gesù è stato richiamato alla vita eterna da Dio e la tomba in cui era stato deposto risultò vuota per le donne e i discepoli che andarono a visitarla. Quell’evento della resurrezione non fu la rianimazione di un corpo cadaverico, non fu un ritorno alla vita fisica, ma fu un evento in cui Dio attraverso la potenza dello Spirito santo vinse la morte e trasfigurò il corpo mortale di Gesù in un corpo vivente per l’eternità. Gesù oltrepassò la barriera della morte, il suo corpo morì realmente ma non fu soggetto alla corruzione (cf. At 13,34-37), perché “si alzò”, “si svegliò” di tra i morti ed entrò nella vita eterna.
È significativo che, nelle diverse manifestazioni del Risorto ai discepoli, questi fanno fatica a riconoscere Gesù: un giardiniere (cf. Gv 20,11-18)? Un pescatore (cf. Gv 21,1-14)? Uno spirito (cf. Lc 24,36-43)? Un viandante (cf. Lc 24,13-35)? La presenza di Gesù risorto non era più quella abituale che i discepoli avevano conosciuto… Ma alla fine i discepoli nonostante i loro dubbi giungono a riconoscerlo vivente, sentono il loro cuore che brucia mentre spiega le Scritture (cf. Lc 24,32), lo riconoscono mentre spezza il pane (cf. Lc 24,30-31; 35), lo chiamano quando si sentono da lui chiamati per nome (cf. Gv 20,16). È Gesù, è sempre Gesù il figlio di Maria, quel Gesù il cui corpo i discepoli hanno visto e palpato (cf. 1Gv 1,1), eppure è un Gesù che ormai è in Dio, glorificato quale Signore e Dio (cf. Gv 20,28). Il crocifisso che non solo aveva un corpo umano, ma era un corpo umano, una psiche umana, ora è interamente in Dio trasfigurato e glorificato. “Non era possibile che la morte tenesse Gesù in suo potere” (At 2,24) – come afferma Pietro il giorno di Pentecoste –, perché egli aveva vissuto fino all’estremo l’amore (cf. Gv 13,1), e questo suo amore – “Dio è amore” (1Gv 4,8.16) – ha vinto la morte, si è mostrato più forte della morte, più tenace degli inferi (cf. Ct 8,6).
Va proclamato con forza: la resurrezione di Gesù non significa che la sua causa continua, che il suo insegnamento non muore, che il suo messaggio è vivente, bensì che lui, la sua intera persona umana morta in croce e sepolta, è stata resuscitata da Dio a vita gloriosa ed eterna. È questo evento pasquale che rivela e annuncia anche la resurrezione della carne come evento che attende l’umanità di tutti i tempi, di tutte le latitudini e di tutte le genti. Sappiamo che già nel Nuovo Testamento, alle origini della chiesa, la fede nella resurrezione della carne è stata contestata: i cristiani di Corinto faticano ad accettare questo annuncio – ci testimonia Poalo (cf. 1Cor 15) – e sempre l’Apostolo o un suo discepolo deve mettere in guardia da chi, come Imeneo e Fileto, sosteneva che la resurrezione è già avvenuta con il battesimo ed è solo un fatto spirituale (cf. 2Tm 2,16-18). Incredibile umanamente questo evento universale, eppure è al centro della speranza cristiana: i corpi dissolti nella terra, ridotti allo stato di germi, potranno risorgere? Questa carne che è carne di peccato, questo corpo che ha, anzi è una pesantezza sulla quale il nostro spirito eccede, potrà risorgere? Sì, proclama la fede cristiana, con la sua ottica di benedizione e di approvazione divina del corpo, della materia. Il nostro Dio ha voluto farsi uomo, la Parola di Dio è diventata sárx, carne, ha abitato tra di noi (cf. Gv 1,14), e ormai la nostra umanità fragile e mortale è trasfigurata per l’eternità.
Il linguaggio umano è insufficiente, mancante, ma ormai non si può più pensare Dio senza cogliere la nostra umanità risorta e glorificata in lui. Qui dobbiamo accettare di fare silenzio, di non trovare le parole adatte, di metterci una mano davanti alla bocca e non dire di più. Come risorgeremo? Che corpo avremo (cf. 1Cor 15,35)? La parola di Gesù ci deve bastare: alla fine dei tempi, quando egli verrà nella sua gloria (cf. Mc 13.26 e par.; Mt 25,31), la sua potenza trasfigurerà i nostri corpi mortali in corpi gloriosi (cf. Fil 3,21) e noi saremo sempre con il Signore, nella vita eterna (cf. 1Ts 4,17). Nulla di ciò che ha costituito la nostra vita, la nostra persona, andrà perduto. Siamo carne nel mondo della vita animale terrestre, siamo corpo come vite individuali: resurrezione della carne indica lo stesso evento nel quale ciò che è corruttibile si rivestirà di incorruttibilità e ciò che è mortale di immortalità (cf. 1Cor 15,51-53). E non possiamo dimenticare che la fede nella resurrezione della carne, oltre a costituire una speranza di vittoria sulla morte, cambia il nostro vivere oggi nel mondo: perché il corpo è il luogo di salvezza per ciascuno di noi, perché il corpo dell’altro è chiamato alla vita eterna, perché il corpo è il luogo del nostro rapporto con l’altro, con Dio e con il mondo. Non è senza significato nella fede nella comunione con Dio né nell’ordine etico della relazione con gli altri: la salvezza è nel corpo, cammino dell’uomo verso di Dio, cammino di Dio verso l’uomo.
Io sono convinto che per ridestare e rinnovare la fede dei cristiani nella resurrezione della carne basterebbe che questi comprendessero meglio la liturgia dei morti: il cero pasquale acceso che fa segno alla presenza del Risorto, “il primogenito di quelli che risorgono dai morti” (Col 1,18); l’incensazione del corpo del morto, vera proclamazione e celebrazione del tempio terrestre dello Spirito santo (cf. 1Cor 6,19) e pegno della futura resurrezione; l’aspersione con l’acqua battesimale che attesta una “vita nascosta con Cristo in Dio” (Col 3,3) ma destinata alla gloria eterna. Sì, il desiderio di Giobbe è fede per noi cristiani: “Questa mia carne vedrà il Salvatore” (cf. Gb 19,26-27).

2. Credo la vita eterna
Proprio perché c’è la resurrezione della carne, noi crediamo che questo è per la vita eterna. “Vita eterna” è un’espressione che si contrappone alla nostra esperienza di vita che finisce con la morte. Ma, se siamo realisti, è un’espressione che non sappiamo neppure bene misurare, che supera le nostre parole e la nostra comprensione…
Innanzitutto, va detto che Gesù Cristo è la vita eterna perché, se è lui il Risorto vivente, se è lui che ha vinto la morte, chi può separarci dal suo amore (cf. Rm 8,35)? Se lui si fa sentire accanto a me, se posso dire che io e lui viviamo insieme (cf. 1Ts 5,10), se lui mi ama, mi consola e mi ispira ogni giorno, potrà abbandonarmi al di là della morte? Impossibile! Cristo è fedele e, se ora è accanto a me, lo sarà anche nella morte, e al di là della morte sarà pronto ad abbracciarmi perché io sia sempre con lui e con i suoi e miei amici. È così che la vita eterna può essere non solo una speranza, ma può anche essere desiderata, pur nella consapevolezza del dover attraversare le acque oscure della morte, acque che – secondo il grande Origene – possono essere espiazione dei peccati.
Di vita eterna ci ha parlato Gesù, per indicare quella vita salvata dal peccato e dalla morte che Dio donerà al discepolo che segue fedelmente il suo Maestro e Signore Gesù Cristo. La vita eterna è ciò che si può ottenere osservando i comandamenti, cioè facendo la volontà di Dio, amando dunque Dio al di sopra di tutto e con tutto il proprio essere (cf. Dt 6,5; Mc 12,30 e par.); la vita eterna è l’eredità che Dio dà ai suoi eletti, ai credenti in suo Figlio Gesù Cristo; la vita eterna è lo zampillare dell’acqua viva che Gesù fa sgorgare dal cuore del discepolo (cf. Gv 4,14); la vita eterna è il dono fatto dal Padre a chi muore avendo operato il bene. E tuttavia la vita eterna è sì una realtà che fiorisce e sboccia dopo la morte fisica, ma è una vita già innestata nel credente qui e ora, a partire da quell’immersione nelle acque del battesimo in cui si depone la vita dell’uomo vecchio e si risale dall’acqua rivestiti di Cristo (cf. Gal 3,27) e dotati della capacità di vivere la vita eterna. Per questo sta scritto: “Chi ama il fratello passa dalla morte alla vita” (cf. 1Gv 3,14). Chi aderisce a Gesù, ascolta la sua parola e vive di essa, mangia la sua carne e beve il suo sangue, e lo segue ovunque vada (cf. Ap 14,4), ha in sé la vita eterna come un seme che crescerà e darà il suo frutto nel Regno. E così si compie la parola di Gesù: “Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo” (Gv 17,3).
Per esprimere e raccontare la vita eterna, le sante Scritture ricorrono al linguaggio simbolico, un linguaggio aperto, evocativo e allusivo, un linguaggio rispettoso del mistero, dell’alterità e della santità di Dio. È un linguaggio iconico, dunque poetico, e non dimentichiamo che solo la creatività poetica può osare dire Dio e cercare di evocare il suo Regno. Ecco perché, per raccontare la vita eterna, si è imposta soprattutto un’immagine biblica, simbolo della beatitudine eterna: il paradiso (parola di origine persiana che significa “giardino”: Ne 2,8; Qo 2,5; Ct 4,13). Gesù sulla croce, al ladrone crocifisso con lui che lo prega, dichiara solennemente: “In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso” (Lc 23,43), ovvero “oggi tu sarai con me, accanto a me, insieme a me, e dunque sarai anche tu in Dio, in quel pardes, in quel giardino dove si vive la vita eterna”. Nell’in-principio creazionale Dio ha piantato per l’uomo “un giardino in Eden” (gan be-‘eden: Gen 2,8) come luogo della comunione tra sé e l’uomo stesso, l’adam, luogo teologico posto agli inizi della storia ma che profetizza la fine della storia. I profeti, soprattutto Ezechiele e il deutero-Isaia, hanno poi fornito alla speranza escatologica delle immagini, dei simboli, quasi ad aprire un varco che chiede ai lettori una lettura teleologica, aperta sulle realtà finali, sicché i padri della chiesa hanno potuto scrivere: “Dio creò l’uomo e lo pose nel paradiso, cioè in Cristo”. Sì, Cristo è il paradiso, è il luogo u-topico, senza luogo, della comunione piena e priva di ombre con Dio. Il paradiso è la nostra patria, la nostra vocazione, il dono che ci attende. Per questo dicono ancora i padri della chiesa, in particolare quelli orientali: “L’uomo è un essere che ha ricevuto la vocazione di diventare Dio”.
Per narrare questa verità, questa speranza indicibile, la Bibbia ricorre a immagini diverse che indicano la vita piena (shalom), la gioia (beatitudine), la vita eterna (per sempre) e di conseguenza la convivialità (comunione) e la luce (non più le tenebre del peccato). Sono immagini che si riferiscono ai bisogni umani della sfera affettiva, sessuale, sociale e politica: il cibo, l’amore, l’incontro sessuale, l’amicizia, la convivenza pacifica, l’assenza di pianto e di lutto. Sono le promesse del Dio vivente, del Dio fedele all’alleanza, “che non mente” (Dt 32,4), che è “amante della vita” (Sap 11,26), del “Dio misericordioso e compassionevole” (Es 34,6, ecc.). Sono immagini tanto semplici quanto universalmente umane, umanissime: il banchetto con cibi e vini squisiti (cf. Is 25,6; Mt 22,1-10); le nozze, che sono sempre comunione profonda di tutto l’essere (cf. Ap 17,7-9; 21,2); la pace tra i popoli e la scomparsa della guerra (cf. Is 2,4; 9,6); la concordia tra gli animali e tra gli uomini e le bestie feroci (cf. Is 11,6-8). Si ricorre anche a dimensioni ludiche, come il giocare del lattante con il serpente velenoso (cf. Is 11,8), la danza, la festa della nuova creazione, in cui i cieli nuovi e la terra nuova innalzano la lode a Dio (cf. Is 65,17; 66,22; Ap 21,1). È una lode cosmica in cui tutte le creature esprimono il loro “amen”, il loro “sì” a Dio, è un ringraziamento per il compimento dell’opera divina…
Come annunciare questa realtà della vita eterna, del paradiso? L’Apocalisse di Giovanni, al termine delle sante Scritture, tenta a più riprese questa profezia: un banchetto di nozze per l’Agnello sgozzato ma risorto e ora in piedi e vittorioso; attorno a lui tutti i salvati impegnati in una liturgia, in una danza, in una pericoresi, vera circolazione di amore, l’amore del Padre amante, del Figlio amato, dello Spirito amore. Dio è la dimora dell’umanità, il Regno è la dimora del cosmo e la festa è trasfigurazione di tutti e di tutto in Cristo, con Cristo e per Cristo, uomo e Dio. Questa comunione è comunione tra Dio e ogni volto, comunione personalissima, ed è comunione tra umani: Dio “sarà Uno” (cf. Zc 14,9) e una in Dio sarà l’umanità redenta.
Di fronte a queste immagini bibliche della vita eterna, in ogni epoca si è cercata una rappresentazione dei beati, del paradiso, sovente contrapposta a quella dei dannati, dell’inferno. Nelle chiese medioevali, dove dominava il Pantocratore, il Veniente glorioso, si potevano vedere alla sua destra i beati e alla sua sinistra i dannati. Era un ammonimento per quanti vedevano questa raffigurazione, un richiamo alla realtà del giudizio universale che un giorno sarà manifestato ma che si decide già oggi nella nostra vita. Domani, in quel giorno escatologico, il giorno del Signore, si udrà: “Venite, benedetti…”, ma tutto è già deciso nella nostra vita; lo decidiamo quando vediamo un affamato, uno straniero, un malato, un povero (cf. Mt 25,31-46). Dall’atteggiamento che assumiamo ora e qui decidiamo se a noi saranno rivolte le parole: “Venite, benedetti…” (Mt 25,34), oppure: “Andate via, maledetti…” (Mt 25,41). Decidiamo se saremo nell’amore della comunione con Dio o fuori di quella comunione, cioè in una situazione di morte. È in ogni nostro oggi che Dio dice a ciascuno di noi: “Oggi io pongo davanti a te la vita e il bene, la morte e il male … Scegli dunque la vita!” (Dt 30,15.19).

Conclusione
Al termine di queste tracce di riflessione sulla resurrezione della carne e sulla vita eterna oso pensare al Giudizio universale di Michelangelo nella Cappella Sistina: i beati sono tutti in festa, spesso abbracciati tra di loro, nell’atto di baciarsi, guardando ognuno il volto dell’altro, in cui si vede il volto di Cristo. Ispirato da questa immagine, concludo citando uno stupendo e antichissimo canto liturgico previsto dalla liturgia ortodossa per la notte pasquale:

O danza mistica! O festa dello Spirito!
O Pasqua divina che scende dal cielo sulla terra
e dalla terra sale di nuovo al cielo!
O festa nuova e universale,
assemblea cosmica!
Per tutti gioia, onore, cibo, delizia:
per mezzo tuo sono state dissipate le tenebre della morte,
la vita viene estesa a tutti,
le porte dei cieli sono state spalancate.
Dio si è mostrato uomo
e l’uomo è stato fatto Dio.

Entrate tutti nella gioia del Signore nostro;
primi e ultimi, ricevete la ricompensa;
ricchi e poveri, danzate insieme;
temperanti e spensierati, onorate questo giorno:
abbiate o no digiunato,
rallegratevi oggi!
Nessuno pianga la sua miseria:
il Regno è aperto a tutti!

Publié dans:CREDO, Enzo Bianchi |on 17 avril, 2015 |Pas de commentaires »

LA «VITA ETERNA» NELLA TESTIMONIANZA BIBLICA E NELLA TRADIZIONE CRISTIANA

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LA «VITA ETERNA» NELLA TESTIMONIANZA BIBLICA E NELLA TRADIZIONE CRISTIANA

RICCARDO BATTOCCHIO

La vita è fragile e precaria. Di questo come essere umani abbiamo coscienza, con questo dato siamo chiamati a confrontarci, implicitamente o esplicitamente, in tutto ciò che pensiamo e operiamo. «Noi siamo della stessa sostanza di cui son fatti i sogni…»[1]: non è detto sia l’ultima parola possibile per descrivere la nostra condizione, ma è una voce che non sarebbe giusto mettere a tacere in modo troppo sbrigativo.
Da dove sorge allora la prospettiva di una vita non minacciata dall’estinzione, sottratta alla provvisorietà, tutelata rispetto all’azione divorante della morte e in grado di adempiere le promesse di bene che sembrano trovare posto anche nelle pieghe delle più tormentate esistenze? Dal desiderio, forse. Da uno sguardo che non si rassegna e non si limita a constatare il nulla che sta dietro e di fronte agli attimi che ci sono da vivere, ma ardisce volgersi al di là del tempo che consuma. Cosa però ci assicura che questo levarsi in alto degli occhi del desiderio non sia un’illusione, una proiezione al di fuori di noi di un abisso che è solo nostro, oppure una strategia adattiva, effetto di una serie di mutazioni più o meno casuali, che ci permette di sopravvivere a un ambiente ostile grazie alla costruzione mentale di un mondo stabile e sicuro?
Se la via del desiderio sembra poco praticabile, almeno a prima vista, si può pensare che la speranza nella reale possibilità di un’esistenza umana che permane nella e oltre la morte sia il dono offerto da una parola che non nasce dal cuore dell’uomo, ma da un “Altro”, il quale dice: «Tu non morrai» perché egli stesso è più forte della morte, avendola sofferta, combattuta e sconfitta.
Il cristianesimo, con la sua storia complessa e i suoi volti differenziati, si propone nel quadro variegato delle esperienze religiose dell’umanità come annuncio di quella parola. Essa ha preso corpo in un momento particolare, all’interno della lunga storia di un piccolo popolo, ma si rivolge a tutti, al di là di ogni appartenenza, offrendo motivi per credere che se è vero che nel mezzo della vita facciamo sempre esperienza della morte, è ancor più vero che nella morte e oltre la morte ci è donata una vita «eterna».
Vita eterna è una delle formule che i cristiani hanno privilegiato per esprimere il contenuto della speranza sorta dall’incontro, nella fede, con il Crocifisso risorto[2]. Una formula paradossale: come può la vita (realtà che sembra implicare, in qualche modo, il divenire) essere eterna (appartenere all’ambito di ciò che non muta)? Ci si può effettivamente chiedere se ci sia un contenuto di verità nell’affermazione: «credo la vita eterna», o se si tratti solo dell’espressione di un sentimento per mezzo di un ossimoro, una poetica accoppiata di opposte qualità, come “una dolce amarezza”, “una lieta tristezza”.
Prima però di liquidare come falsa o persino dannosa la nozione di vita eterna, o prima di ribadirne semplicemente la legittimità, come se il suo significato fosse da sempre chiaro e univoco, è opportuno interrogarsi su ciò che queste parole hanno inteso e intendono effettivamente comunicare[3].
Non possiamo occuparci delle differenti rappresentazioni della condizione umana nella morte e al di là della morte, alcune delle quali (non tutte!) sono chiaramente associate alla prospettiva di una vita “altra” rispetto a quella sperimentata nel tempo dell’esistenza cosiddetta «terrena»[4]. Il nostro percorso si colloca all’interno dell’orizzonte di comprensione della realtà che si lascia istruire dal vangelo di Gesù Cristo, così come risuona nell’uno e nell’altro Testamento e in alcune figure significative della tradizione cristiana. Senza ricapitolare i contenuti della speranza cristiana (a cui si riferisce quell’ambito della riflessione teologica che, con termine moderno, viene chiamato escatologia), ci concentreremo su una delle sue nozioni chiave, quella appunto di vita eterna, considerandone sinteticamente la storia.

1. Passaggi e tensioni nell’Antico Testamento
È necessaria una certa cautela quando, leggendo una traduzione italiana dell’Antico Testamento, ci imbattiamo in espressioni quali «amore eterno», «alleanza eterna», «vita eterna». Il termine ebraico ‘olam, tradotto generalmente in greco con aión e in italiano con eterno, non indica di per sé una condizione che si colloca «al di là» del tempo, quanto piuttosto un tempo lontano, passato da molto o proiettato nel futuro. Espressioni quali «amore eterno», «alleanza eterna», «regno eterno» e simili, non vanno riferite immediatamente a un futuro definitivo (escatologico) di tipo personale o collettivo: dicono piuttosto il carattere durevole dell’alleanza, dell’amore, del regno[5]. Non è difficile, del resto, osservare come dai libri dell’Antico Testamento non traspaia un’idea univoca del destino che attende l’uomo al momento della morte. La fede che dà stabilità al popolo d’Israele (cf. Is 7,9b) – la fede di Abramo – è fondata su una promessa e, come tale, è rivolta al futuro. Questo futuro però non si configura subito come esistenza personale oltre la morte, essendo sufficientemente rappresentato dalla discendenza, dal possesso della terra, dalla possibilità di godere in essa lo shalom («pace») donato da Dio. I defunti stanno nel «mondo sotterraneo» (lo sheol) come «ombre»: non «anime» in senso platonico, ma esistenze depotenziate, sottratte alla relazione con Dio, al quale non possono «dar lode» (cf. Sal 88,11).
La prospettiva del permanere della relazione personale fra Dio e l’uomo (il giusto) nella morte e oltre la morte emerge nei testi risalenti all’epoca post-esilica. Il tema del «rapimento al cielo» di personaggi particolari (Enoch, Elia), l’esperienza della fedeltà di Dio nel momento della prova, l’esigenza di una ricompensa per il giusto sofferente di fronte alla prosperità del malvagio, interagiscono fra loro e portano a esprimere in alcuni salmi (ad es.: 49,16; 73,24; cf. anche 16,10) l’idea di un legame tra Dio e il giusto tale non solo da permettere la salvezza “dalla morte” ma anche da permanere (almeno secondo un lettura possibile dei testi) “al di là della morte”.
Intorno al II secolo a.C., all’epoca delle rivolte contro la politica anti-giudaica dei Seleucidi, diventa esplicita la consapevolezza di un «risveglio» dei morti (nella totalità del loro essere personale) al momento dell’instaurazione definitiva della signoria di Dio, in vista della ricompensa dei giusti e della punizione dei malvagi. Così in Daniele:
Molti di quelli che dormono nella regione della polvere si risveglieranno: gli uni alla vita eterna e gli altri alla vergogna e per l’infamia eterna. I saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento; coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come le stelle per sempre (Dn 12,2-3)[6].
Se in questo passo l’attesa è quella di un risveglio dei morti a una vita «eterna» (su questa terra), il secondo libro dei Maccabei dà voce anche alla speranza che i giusti, uccisi a causa della loro fedeltà alla legge, siano accolti «in cielo» al momento stesso della morte:
Tu, o scellerato, ci elimini dalla vita presente, ma il re dell’universo, dopo che saremo morti per le sue leggi, ci risusciterà a vita nuova ed eterna [letteralmente: in una reviviscenza eterna di vita] (2Mac 7,9).
Il contrasto fra la sorte degli empi e quella dei giusti è in primo piano nei capitoli iniziali (1-5) del libro della Sapienza:
La speranza dell’empio è come pula portata dal vento, come schiuma leggera sospinta dalla tempesta; come fumo dal vento è dispersa, si dilegua come il ricordo dell’ospite di un solo giorno. I giusti al contrario vivono per sempre, la loro ricompensa è presso il Signore e di essi ha cura l’Altissimo (Sap 5,14-15).
Vita «eterna» è quindi la relazione personale con Dio che continua, per chi è fedele all’alleanza, anche oltre la morte, non come prolungamento indefinito dell’esistenza terrena, ma come partecipazione alla vita di Dio, l’Eterno, il Vivente, che si manifesta tale rimanendo fedele alla sua promessa.
La speranza nell’adempimento delle promesse di Dio può essere espressa con immagini diverse e con linguaggi non sempre facilmente sovrapponibili. L’interpretazione cristiana delle Sacre Scritture del popolo ebraico coglie volentieri una dinamica progressiva nel modo in cui la speranza d’Israele passa da una rappresentazione del futuro promesso da Dio come legato alla terra, a una coscienza più marcatamente “escatologica” di tale futuro, orientato al compimento che è il Cristo. Questa prospettiva, in sé legittima, non dovrebbe far dimenticare i caratteri specifici di ogni tradizione (legge, profeti, scritti) o le tensioni presenti all’interno dell’esperienza di fede d’Israele, con le quali il Nuovo Testamento si confronta a partire dal criterio interpretativo rappresentato dalla vicenda di Gesù, dalla sua morte e risurrezione[7].

2. Prospettive nel Nuovo Testamento
Bíos, psyché, zoé sono i tre termini del greco neotestamentario che in italiano possono essere tradotti con «vita». Se i primi due si riferiscono al dato biologico, la condizione dell’uomo in quanto essere vivente tra gli altri esseri viventi o, nel caso di bíos alle esigenze dell’esistenza materiale, il terzo dice una modalità dell’esistenza possibile solo grazie a una particolare iniziativa di Dio. Anche quando non viene qualificato dall’aggettivo «eterna» (aiónios), il sostantivo zoé ha una connotazione teologica: è tuttavia alla formula vita eterna che intendiamo prestare ora attenzione[8].
– In Paolo, vita eterna è la ricompensa che Dio concede «a coloro che, perseverando nelle opere di bene cercano gloria, onore e incorruttibilità» (Rm 2,7). Contesto e linguaggio non sono lontani da quelli dell’apocalittica, con al centro il tema del giudizio di Dio (cf. Dn 12,2): la novità è rappresentata dal riferimento a «Gesù Cristo nostro signore», per mezzo del quale regna la grazia «mediante la giustizia per la vita eterna» (Rm 5,21). La vita eterna è il destino / il fine (télos) e il dono (chárisma) concesso a quanti, tramite la fede e il battesimo, per l’azione dello Spirito (principio datore di vita), sono resi partecipi della morte e della vita di Cristo crocifisso e risorto (cf. Rm 6,22-23). La comunione con Cristo inizia nella vita terrena, ma si compie nella risurrezione dei morti:
Come infatti in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita (zoopoiethésovtai) (1Cor 15,22).
– Lo sguardo rivolto al futuro accompagna l’utilizzo, non frequente, della nostra espressione nei Sinottici. Vita eterna è ciò che il giovane di Mt 19,16-22 desidera avere: «Maestro, che cosa devo fare di buono per avere la vita eterna?» (Mt 19,16, cf. Mc 10,17; Lc 18,18). Per Gesù, essa è l’eredità («nel tempo che verrà») di quanti avranno lasciato «case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi» per il suo nome (cf. Mt 19,29; Mc 10,30; Lc 18,30); è la condizione a cui avranno accesso «i giusti», coloro che si sono messi a servizio «di uno dei fratelli più piccoli» (Mt 25,46).
– Anche negli Atti degli Apostoli, la vita eterna è quella a cui sono «destinati» (tetagménoi) quanti accolgono nella fede la parola di Dio annunciata da Paolo e Barnaba (At 13,4-48).
– A enunciare il carattere non solo futuro della vita «eterna» sono soprattutto gli scritti giovannei. La vita eterna è il dono del Figlio unigenito, inviato dal Padre. Ad essa si accede fin da ora tramite la fede e l’obbedienza, accogliendo cioè la rivelazione («l’esegesi», cf. Gv 1,18) offerta da Gesù, il Logos incarnato, del Dio che «nessuno ha mai visto»:
E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna [altra traduzione possibile: «perché chiunque crede, in lui abbia la vita eterna»]. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna [...] Chi crede nel Figlio ha la vita eterna; chi non obbedisce al Figlio non vedrà la vita, ma l’ira di Dio rimane su di lui (Gv 3,15-16.36; cf. anche 6,47).
Il luogo in cui avviene il passaggio «dalla morte alla vita» è l’ascolto della parola di Gesù (cf. Gv 5,24: «In verità, in verità io vi dico: chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita») e, insieme, l’osservanza del comandamento dell’amore (cf. 1Gv 3,15: «Chiunque odia il proprio fratello è omicida, e voi sapete che nessun omicida ha più la vita eterna che dimora in lui»). La parola di Gesù è «sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna» (Gv 4,14) e «cibo che rimane per la vita eterna» (Gv 6,27). Egli «ha parole di vita eterna» (Gv 6,68) e «dà la vita eterna» alle pecore di cui è pastore e dalla cui mano non potranno essere rapite (Gv 10,28). Gesù stesso, come si legge all’inizio della prima lettera di Giovanni, è «la vita eterna, che era presso il Padre e che si manifestò a noi» (1Gv 1,2; cf. anche la conclusione della lettera, 1Gv 5,20: «Egli è il vero Dio e la vita eterna»). La vita eterna che Dio ci ha dato è la vita «nel suo Figlio» (1Gv 5,11).
Se la vita eterna è sperimentata fin da ora nella relazione con Gesù (la fede), il suo compimento è collegato all’evento escatologico della risurrezione:
Questa infatti è la volontà del Padre: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno (Gv 6,40).
È una realtà data ora e, allo stesso tempo, “promessa” (cf. 1Gv 2,25).
Il carattere insieme “presente” e “futuro” della vita eterna, con la tensione che ne deriva, è analogo a quello che connota l’immagine del «regno di Dio», a cui ricorrono con maggior frequenza i Sinottici per dire l’attuarsi di una situazione nuova e definitiva nel rapporto fra Dio e l’umanità. “Presente” e “futuro” s’intrecciano, tanto nella nozione di vita eterna, tanto in quella di «regno di Dio».
Abbiamo lasciato per ultimo un testo giovanneo nel quale la nozione di vita eterna viene caratterizzata come «conoscenza». Rivolgendosi al Padre, nel momento della sua «ora», Gesù chiede che sia manifestata la sua «gloria» di Figlio e aggiunge:
Tu gli hai dato potere su ogni essere umano, perché egli dia la vita eterna a tutti coloro che gli hai dato. Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo (Gv 17,2-3).
Non si tratta di una conoscenza di tipo puramente intellettuale o gnostica (abbiamo appena visto come la vita eterna presupponga e implichi l’obbedienza ai comandamenti e come essa sia mediata da un evento storico), quanto piuttosto dell’esperienza diretta e intima del Padre resa possibile da Gesù, dalla fede in lui, che pure non esclude una dimensione “dottrinale”, almeno incoativamente[9]. Il v. 17,3 assume un rilievo particolare se considerato in rapporto ad altri due passi neotestamentari (uno giovanneo, l’altro paolino) nei quali il compimento futuro della storia della creatura umana viene rappresentato nei termini della «visione di Dio». Così in 1Gv 3,2: «Sappiamo [...] che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo come egli è» e in 1Cor 13,12: «Adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio; allora invece vedremo faccia a faccia. Adesso conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto».
È partendo da questi testi che la tradizione cristiana successiva ha in molti casi privilegiato l’idea della «visione di Dio» come contenuto proprio del concetto di vita eterna[10].

3. Ireneo, Agostino, la tradizione orientale, Tommaso d’Aquino
– Il motivo del «vedere Dio» occupa un posto di rilievo nell’elaborazione del tema escatologico proposta verso la fine del II secolo da Ireneo di Lione (130-202), come si ricava da un passaggio giustamente celebre del quarto libro della sua opera Contro le eresie:
L’uomo [...] non può vedere Dio da sé; ma egli di sua volontà si farà vedere dagli uomini che vuole, quando vuole e come vuole. Dio è potente in tutte le cose: fu visto allora profeticamente mediante lo Spirito, fu visto poi adottivamente mediante il Figlio e lo sarà poi anche nel regno dei cieli paternalmente, perché lo Spirito prepara in precedenza l’uomo per il Figlio di Dio, il Figlio lo conduce al Padre e il Padre gli dà l’incorruttibilità per la vita eterna che tocca a ciascuno per il fatto di vedere Dio. Come coloro che vedono la luce sono nella luce e partecipano del suo splendore, così coloro che vedono Dio sono in Dio, partecipando del suo splendore. Perché lo splendore di Dio vivifica! Dunque coloro che vedono Dio parteciperanno della vita. E per questo colui che è incomprensibile, inafferrabile e invisibile si presenta agli uomini come visibile, afferrabile e comprensibile, per vivificare coloro che lo comprendono e lo vedono. Come la sua grandezza è imperscrutabile, così è inesprimibile anche la sua bontà, grazie alla quale si fa vedere e dà la vita a coloro che lo vedono. Infatti, è impossibile vivere senza la vita, l’esistenza della vita è possibile grazie alla partecipazione di Dio e la partecipazione di Dio consiste nel vedere Dio e godere della sua bontà.
Gli uomini, dunque, vedranno Dio per vivere, divenendo immortali, grazie a questa visione, e arrivando fino a Dio (IV, 20,5-6)[11].
Nei testi patristici in cui la vita eterna è associata alla «visione di Dio» – oltre a Ireneo, dobbiamo ricordare Clemente di Alessandria, Origene, Gregorio di Nissa, Basilio di Cesarea, per i greci; Ambrogio e Agostino, per i latini[12] – non è difficile riconoscere l’intrecciarsi della tematica propriamente scritturistica con la spiccata preferenza, non priva di problemi, che la tradizione greca (e, in genere, occidentale) accorda al “vedere”, considerato come il modo migliore per entrare in rapporto con la realtà[13].
– La dimensione affettiva, non solo intellettuale, del «vedere Dio» è tuttavia ben presente in Agostino di Ippona (354-430): basti pensare al modo in cui egli collega desiderio di verità e desiderio di felicità (di una vita “beata”), giungendo a definire quest’ultima come gaudium de veritate, «piacere del vero»[14]. Tutta la storia è chiamata a sfociare nella visione, nell’amore, nella lode:
Là [nel sabato senza tramonto, nell’ottavo giorno della vita eterna, consacrato nella risurrezione di Cristo] riposeremo e vedremo, vedremo e ameremo, ameremo e loderemo[15].
Possiamo aggiungere che, per Agostino, vita eterna significa «essere in Dio»: è lui «il nostro luogo», come spiega commentando il v. 21 del Sal 31(30): «Tu li nascondi al riparo del tuo volto[16]. In questo modo egli offre un importante criterio ermeneutico delle affermazioni ricavate dalla Scrittura, riprese tanto dai Padri quanto dagli autori medievali, dalla predicazione e dalla catechesi, relative a una localizzazione “in cielo” della vita eterna.
– La riflessione sulla vita eterna come “visione di Dio” è stata approfondita dalla teologia dell’Oriente cristiano soprattutto in reazione agli scritti di Eunomio (330 ca. – 392/5), avversario della dottrina nicena della omousia («consustanzialità») del Figlio rispetto al Padre e sostenitore della tesi secondo la quale la ragione può conoscere Dio come egli stesso si conosce. Tra IV e V secolo, autori come Teodoreto di Ciro e Giovanni Crisostomo svilupparono l’idea di una distinzione tra la visione della «gloria» e la visione dell’«essenza» di Dio: solo la prima è accessibile all’uomo, mentre la seconda rimane incomprensibile. Su questa distinzione s’innesteranno dibattiti di lunga durata, all’interno del mondo teologico di lingua greca e nel confronto tra questo e l’Occidente latino[17].
– Un esempio efficace del modo in cui la vita eterna era intesa nell’ambito della riflessione latina medievale si può trovare in un testo che deriva da una serie di prediche nelle quali, durante la quaresima del 1273, Tommaso d’Aquino (1224-1274) ha commentato il Simbolo apostolico. Ecco quanto si legge a proposito dell’articolo conclusivo:
La vita eterna, in quanto meta finale di tutti i nostri desideri, giustamente nel Simbolo viene posta al termine di tutte le altre verità da credere, quando vi si dice: «Credo la vita eterna».
Sono contrari a questa verità coloro che sostengono che l’anima muore col corpo. Ma se ciò fosse vero, non ci sarebbe differenza tra l’uomo e i bruti. [...]. L’anima, invece, per la sua immortalità è simile a Dio, è simile ai bruti solo per la parte sensitiva [...].
In questo articolo della nostra fede dobbiamo innanzitutto considerare che tipo di vita sia la vita eterna. Orbene, essa consiste:
1. Nell’unione con Dio. Premio e fine di tutte le nostre fatiche è infatti Dio in persona [...]. Questa unione consiste poi innanzitutto in una perfetta visione di lui [...]. Consiste poi anche in un ferventissimo amore, perché più uno lo si conosce, e più lo si ama; e in una somma lode di lui [...].
2. Nell’appagamento totale e perfetto di ogni desiderio. Nella vita eterna ogni beato troverà l’appagamento di quanto ha desiderato e sperato. La ragione è, che niente nella vita presenta può appagare pienamente i desideri dell’uomo, né vi è alcunché di creato che possa soddisfare le sue aspirazioni. Soltanto Dio può saziarle e sorpassarle infinitamente [...]. Tutto ciò che può recare diletto si trova infatti nella vita eterna e in sovrabbondanza. Se si desiderano godimenti, là vi sarà il sommo e perfetto godimento, perché avrà come oggetto Dio che è il sommo bene [...]. Se si desiderano onori, là si avranno tutti [...]. Se poi si desidera la scienza, là sarà perfettissima, perché conosceremo la natura delle cose, ogni verità e tutto quello che vorremo sapere. E quanto vorremo avere, lo avremo con la vita eterna [...].
3. Nella perfetta sicurezza. Mentre, infatti, in questo mondo non c’è perfetta sicurezza, perché quanto più ricchezze uno possiede e più onorifiche sono le sue cariche, tanto più ha paura di perderle e gli mancano inoltre tante altre cose, nella vita eterna non c’è invece alcuna tristezza, nessuna fatica, nessun timore [...].
4. Nella lieta compagnia dei beati. Trovarsi insieme a tutti i buoni sarà una compagnia massimamente piacevole, perché ciascuno avrà così tutti i beni in comune a tutti i loro e là ciascuno amerà l’altro come se stesso e godrà di quello altrui come del proprio bene. E ciò farà sì che, aumentando la gioia e la felicità di uno, aumenti la felicità di tutti, come dice il salmista: «Quelli che sono in te, sono tutti lieti e festosi (Sal 87 [86],7)»[18].
Le opere maggiori di Tommaso offrono abbondante materiale per sviscerare quanto è qui ricapitolato. Merita in ogni caso sottolineare come sia il tema del fine ultimo dell’uomo, declinato nei termini di “visione essenziale” di Dio, ad avere un deciso rilievo strutturale. L’uomo è creato per «vedere Dio», al di fuori del quale non può, per sua natura, trovare il pieno compimento del desiderio di conoscere e di amare che lo caratterizza. Tale compimento, a cui l’uomo non giunge da se stesso ma in quanto abilitato dalla grazia, lo pone in un rapporto immediato con Dio, oggetto ma anche mezzo («forma») della visione[19].
Tommaso va segnalato anche per i testi nei quali, in una prospettiva che si collega a quella giovannea, egli raccorda il presente dell’esistenza umana nella fede e nella grazia con la sua condizione futura nella gloria. In questo senso, egli propone di definire la fede come l’inclinazione o disposizione stabile dello spirito (habitus mentis) grazie alla quale «inizia in noi la vita eterna»[20].
4. Questioni relative alla visione beatifica
Se la tradizione cristiana registra un ampio consenso nell’identificazione della vita eterna con la “visione beatificante di Dio”, i problemi sorgono quando si va a considerare il modo in cui è pensata tale «visione». La storia della teologia ci consegna due momenti, in parte connessi e cronologicamente vicini (siamo nel XIV secolo), nei quali il tema è stato oggetto di controversie e di intensi dibattiti.
– Nel mondo latino, la discussione si è incentrata sul carattere immediato o meno della retribuzione dei giusti (visione di Dio) e dei malvagi (dannazione) al momento della loro morte. La vicenda è nota: dal 1331 al 1334 papa Giovanni XXII pronunciò una serie di sei omelie nelle quali, riprendendo idee presenti in alcuni autori dell’antichità cristiana e appoggiandosi all’autorità di san Bernardo, sosteneva che prima della risurrezione e del giudizio finale le anime dei giusti possono contemplare solo l’umanità di Cristo, non l’essenza stessa di Dio. L’opinione del papa fece scalpore e suscitò una vasta opposizione, nella quale s’intrecciavano motivi dottrinali e politici. Dopo aver incaricato una commissione di studiare l’argomento, Giovanni XXII fece in tempo a preparare una bolla, sottoscritta il 3 dicembre 1334, un giorno prima della sua morte, con la quale prendeva le distanze da affermazioni da lui pronunciate che fossero eventualmente apparse dissonanti dalla fede cattolica[21]. Poco più di un anno dopo, il suo successore, Benedetto XII, con la costituzione Benedictus Deus (19 gennaio 1336) definì come verità di fede la retribuzione immediata, dopo la morte, per i giusti e per i malvagi. Le anime dei giusti
subito dopo la loro morte, e la purificazione [...] in coloro che erano bisognosi di tale purificazione, anche prima della risurrezione dei loro corpi e del giudizio universale [...] furono, sono e saranno in cielo, nel regno dei cieli e del celeste paradiso, con Cristo, associate alla compagnia degli angeli santi; e [...] queste [anime] [...] hanno visto e vedono l’essenza divina con una visione intuitiva e, più ancora, faccia a faccia, senza che ci sia, in ragione di oggetto visto, la mediazione di nessuna creatura, rivelandosi invece a loro l’essenza divina in modo immediato, scoperto, chiaro e palese[22].
– Un secondo motivo di dibattito riguarda la possibilità per l’uomo di vedere “l’essenza” di Dio che la Scrittura dichiara essere invisibile e inaccessibile[23]. La ripresa operata da Gregorio Palamas (1296-1359) della distinzione tra «essenza» (inaccessibile) ed «energie divine increate» (che agiscono, come la luce del Tabor, “divinizzando” la creatura umana) indicò un percorso seguito volentieri dalla tradizione orientale ma accolto con perplessità dall’Occidente latino, dove si preferì ribadire la dottrina della grazia “creata” e la differenza fra «visione» e «comprensione» di Dio: la prima possibile grazie a un dono (il lumen gloriae) che permette all’intelligenza umana di partecipare, rimanendo nella sua finitezza, alla vita di Dio; la seconda inaccessibile anche nella gloria all’intelletto umano finito.

5. Istanze di rinnovamento nell’escatologia del XX secolo
L’esigenza di andare oltre la concezione piuttosto individualistica e spiritualistica della vita eterna – quale si era imposta nell’insegnamento, nella predicazione, nella catechesi e nella devozione dei cristiani, anche in seguito ai dibattiti a cui abbiamo accennato – ha segnato il vivace rinnovamento dell’escatologia promosso all’inizio del XX secolo da una rilettura dei testi biblici e, in particolare, del tema del «regno di Dio», accompagnato da una spiccata sensibilità per la dimensione storica e comunitaria dell’esperienza cristiana e dall’individuazione del principio cristologico come chiave di lettura della rivelazione.
Il cattolicesimo ha recepito questi stimoli con il concilio Vaticano II, esplicitando nei nn. 48-51 della Lumen gentium la coscienza della dimensione ecclesiale e insieme cosmica della vita eterna: la vicenda di ogni singola persona, nei suoi diversi passaggi, non può essere interpretata al di fuori del cammino che, in modi diversi e non sempre visibili, la lega agli altri (alla chiesa) e a tutte le realtà che costituiscono il nostro mondo (aspetto, questo, sviluppato nel n. 39 della Gaudium et spes)[24].
Anche la questione del cosiddetto «stato intermedio» (come pensare la condizione dell’individuo tra la morte e il pieno compimento nella risurrezione dei morti?), alla quale nei decenni scorsi hanno prestato attenzione tanto alcuni teologi di diverse confessioni cristiane (O. Cullmann, G. Greshake, N. Lohfink, K. Rahner, J. Ratzinger) quanto alcune istanze dottrinali cattoliche[25], va ripensata in questa prospettiva ecclesiale e cosmica: lo «stato intermedio» è il tempo della chiesa, in cammino verso la piena comunione con Dio uno e trino, nella diversità di condizioni in cui si trovano i suoi membri (Maria, i santi, coloro che «vengono purificati»). In questo quadro, perdono significato le obiezioni di quanti ritengono che l’idea di vita eterna sia sinonimo di staticità e, in definitiva, di noia. Al di là di tutte le rappresentazioni concrete, per loro natura inadeguate, il compimento definitivo annunciato dalla rivelazione cristiana è pienezza e ricchezza di vita, per la singola persona, per l’umanità nel suo insieme e anche per il mondo materiale[26].
Le immagini trasmesse dalla Sacra Scrittura per dire la vita eterna (il banchetto, le nozze, la città illuminata dall’Agnello…) vanno continuamente riprese e interpretate (non “concettualizzate”). L’eternità – la comunione piena con il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, che è insieme comunione con tutte le creature liberate dalla corruzione del peccato e della morte – è oggetto di speranza, ma può essere anche oggetto di pensiero, partendo anche dalle piccole «esperienze di eternità» che ci sono donate nel tempo: l’esperienza dell’amore, della bellezza, della scoperta di piccole o grandi verità, della gioia di condividere quello che siamo e possediamo.

Credo nello Spirito Santo II

dal sito:

http://198.62.75.1/www1/ofm/mag/TSmgitB7.html

Credo nello Spirito Santo II
1998 ANNO DELLO SPIRITO SANTO

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Claudio Bottini ofm – SBF Gerusalemme
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Certo nella Chiesa siamo passati dal tempo in cui lo Spirito Santo era “il divino sconosciuto” (Mons. Landrieux) a “l’ora dello Spirito Santo” (S. Falvo). Significativo segno dei tempi è già il fatto che Giovanni Paolo II abbia dedicato il secondo anno della fase preparatoria al grande Giubileo, il 1998, “allo Spirito Santo e alla sua presenza santificatrice all’interno della Comunità dei discepoli di Cristo” (TMA 44). Eppure il Papa afferma che “rientra negli impegni primari della preparazione al giubileo la riscoperta della presenza e dell’azione dello Spirito” (ivi 45). Ciò significa che noi cristiani non conosciamo abbastanza lo Spirito Santo e la sua azione e che dobbiamo approfittare delle occasioni che questo anno di grazia ci offre per crescere nella conoscenza e nell’esperienza dello Spirito Santo.

Sappiamo – lo abbiamo imparato nel Catechismo – che uno dei due misteri principali della fede cristiana è l’Unità e Trinità di Dio. Il carattere distintivo e specifico del cristianesimo rispetto alle altre religioni è costituito dalla fede in Dio Uno e Trino, un Dio Unico in tre Persone: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Bisogna infatti dire che è cristiano non chi crede in Dio, ma chi crede in Dio come Famiglia Trinitaria. La Chiesa ha ricevuto la fede nella Trinità dalle parole e dalle azioni di Gesù e dei suoi discepoli che hanno predicato e scritto sotto l’ispirazione dello Spirito Santo.

Lo Spirito Santo non lo hanno inventato i cristiani. E’ presente già nella rivelazione ebraica, nell’Antico Testamento. Un grande Padre della Chiesa, S. Gregorio Nazianzeno, spiegava così la progressiva rivelazione del mistero della Trinità: “L’Antico Testamento proclamava chiaramente il Padre, più oscuramente il Figlio. Il Nuovo ha manifestato il Figlio, ha fatto intravvedere la divinità dello Spirito. Ora lo Spirito ha diritto di cittadinanza in mezzo a noi e ci accorda una visione più chiara di se stesso. Infatti non era prudente, quando non si professava ancora la divinità del Padre, proclamare apertamente il Figlio e, quando non era ancora ammessa la divinità del Figlio, aggiungere lo Spirito Santo… Solo attraverso un cammino di avanzamento e di progresso «di gloria in gloria», la luce della Trinità sfolgorerà in più brillante trasparenza” (citato in Catechismo delle Chiesa Cattolica 684).

La “kenosi” dello Spirito Santo

Nella sua sapiente pedagogia Dio si è “abbassato”. Si è adattato alla capacità limitata dei credenti rivelando progressivamente il suo mistero a Israele e per mezzo di esso a tutta l’umanità. Questo spiega perché lo Spirito Santo sia l’ultimo nella rivelazione delle Persone della Trinità, anche se è il primo nell’ordine dell’esperienza della fede. Infatti senza lo Spirito Santo non si arriva alla fede in Gesù e con Lui e in Lui al rapporto filiale col Padre. Stupenda al riguardo la riflessione del Catechismo della Chiesa Cattolica: “«I segreti di Dio nessuno li ha mai potuti conoscere se non lo Spirito di Dio» (1Cor 2,11). Ora, il suo Spirito, che lo rivela, ci fa conoscere Cristo suo Verbo, sua Parola vivente, ma non dice se stesso. Colui che «ha parlato per mezzo dei profeti» ci fa udire la Parola del Padre. Lui, però, non lo sentiamo. Non lo conosciamo che nel movimento in cui ci rivela il Verbo e ci dispone ad accoglierlo nella fede. Lo Spirito di Verità che ci svela Cristo non parla di sé. Un annientamento, propriamente divino, spiega il motivo per cui «il mondo non può ricevere» lo Spirito, «perché non lo vede e non lo conosce», mentre coloro che credono in Cristo lo conoscono perché «dimora» presso di loro” (687). Siamo stati abituati a riflettere sulla “kenosi” o umiliazione del Verbo incarnato (cf. Fil 2,7) come rivelazione dell’amore del Padre, ora il Catechismo ci invita a farlo anche per lo Spirito Santo.

La pedagogia di progressiva rivelazione è rintracciabile nella Bibbia, che è il libro della Rivelazione ispirato dallo Spirito Santo. I Padri della Chiesa parlavano di “orme” o “tracce della Trinità nell’Antico Testamento. In concreto non pochi Padri e teologi hanno visto delle allusioni alla dottrina cristiana della Trinità in alcuni passi dell’Antico Testamento nei quali si presenta Dio che parla al plurale. Forse il testo più celebre è proprio quello che si legge nel racconto della creazione dove Dio dice: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza” (Gen 1,26). Altri testi simili sono Gen 3,22; 11,7; Is 6,8. Anche in alcune manifestazioni di Dio o teofanie si è vista una preparazione della rivelazione della Trinità. Chi non conosce, per esempio, l’icona della Trinità dell’Antico Testamento che raffigura l’incontro di Abramo con Dio sotto forma di tre esseri celesti narrato in in Gen 18,1-22? Al riguardo diceva con stile lapidario S. Ilario: “Tres vidit et unum adoravit”, Abramo vide tre Persone e adorò un solo Dio. Pure la celebre acclamazione “Santo” che il profeta Isaia sente ripetere tre volte al momento della sua vocazione (Is 6,3) è talvolta compresa come una allusione al mistero di Dio, Uno nella natura divina e Trino nelle Persone.

Personificazione

La convinzione di fede della Chiesa è stata sempre chiara. “Dalle origini fino alla «pienezza del tempo» (Gal 4,4), la missione congiunta del Verbo e dello Spirito del Padre rimane nascosta, ma è all’opera. Lo Spirito di Dio va preparando il tempo del Messia, e l’uno e l’altro, pur non essendo ancora pienamente rivelati, vi sono già promessi, affinché siano attesi e accolti al momento della loro manifestazione” (Catechismo della Chiesa Cattolica 702). Certamente il “cuore” della rivelazione dell’Antico Testamento è l’unicità di Dio. Anche se con i metodi dell’esegesi biblica filologica o storica non si ricava, secondo molti studiosi neppure un abbozzo di tre realtà distinte in Dio, né si può parlare di antecedenti veri e propri della rivelazione della Trinità, tuttavia alla luce del principio dell’unità di tutta la Scrittura si possono indicare degli elementi preparatori. In libri dell’Antico Testamento più vicini all’era cristiana si trova una forma di personificazione della Sapienza-Spirito che può far pensare a una distinzione di essa. Vi si parla della Sapienza come Parola “uscita dalla bocca dell’Altissimo” (Sir 24,3); viene identificata con lo Spirito (Sap 7,22) e si afferma che essa “è un’emanazione della potenza di Dio, un effluvio genuino dellla gloria dell’Onnipotente… un riflesso della luce perenne e un’immagine della sua bontà” (Sap 7,25-26). Questo brano fa parte dell’elogio della sapienza e costituisce un annuncio della teologia dello Spirito e soprattutto della cristologia. Nella vita di Gesù Il mistero della Trinità è stato rivelato da Gesù. Gesù parla di Dio come “Padre” o “Padre mio”, afferma che il Padre lo ha inviato (Mc 9,37) e nel momento drammatico della sofferenza si rivolge a lui come al suo “Papà (abba)” usando un’espressione di grande intimità (Mc 14,36). Più volte Gesù durante la sua vita terrena rivendica poteri e autorità che sono solo di Dio: perdonare i peccati (Mc 2,5-11), cambiare la Legge di Mosè (Mt 5-6), esigere la fede nel suo potere di guarire per virtù propria. Afferma senza equivoci di essere l’unico rivelatore di Dio, in quanto lui solo ne conosce il mistero e può rivelarlo a chi vuole (Mt 11,27). Nella sua vita ci sono due episodi, il Battesimo e la Trasfigurazione, che hanno un particolare significato rivelativo perché in essi Gesù è proclamato dal Padre il suo “Figlio prediletto” (Mc 1,11; 9,7 e par.), Figlio in senso proprio, in quanto “generato” da Dio, cosa che non si può dire di nessun’altra creatura.

I Vangeli raccontando la vicenda terrena di Gesù testimoniano anche la presenza dello Spirito Santo nella sua vita. Gesù viene concepito verginalmente da Maria per opera dello Spirito Santo (Lc 1,35). Lo Spirito Santo scende su di lui “in apparenza corporea, come di colomba” (3,22), lo “sospinge” nel deserto per affrontare il potere di Satana (Mc 1,12), lo accompagna nel suo ministero di predicazione, guarigione e liberazione dal demonio (Lc 4,1.14.18), interviene nella gioia e nella preghiera di Gesù (Lc 10,21). Prima di Pasqua Gesù promette ai discepoli l’assistenza dello Spirito Santo per i momenti di persecuzione (Mc 10,20 e par) e come “Paraclito”, cioè dono che assicura per sempre la comunione con Cristo che lo comunica da parte del Padre, assiste i discepoli nel grande processo che il mondo instaura contro di essi e li aiuta a progredire nella conoscenza e a rendergli testimonianza (Gv 14,16-17.25.26; 15,26-27; 16,7-11.12-15).

Con il mistero pasquale di Cristo, cioè con la passione, morte e risurrezione di Gesù, la rivelazione della Trinità giunge alla svolta decisiva. Gesù che è andato incontro alla sofferenza e alla morte in filiale obbedienza al Padre per compiere il piano della salvezza viene risuscitato da Dio. Risuscitando l’uomo Gesù dai morti il Padre ha confermato che egli era veramente il Figlio di Dio, come aveva dichiarato, e ha dato ragione a lui contro i suoi avversari che lo avevavo condannato come bestemmiatore. Con la Pasqua Gesù “è costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione” (Rm 1,4). Gesù non diventa Figlio di Dio al momento della risurrezione, lo era fin dall’eternità, e il termine «costituito con potenza» indica che ora il Padre “gli ha conferito la «potenza» che è propria di Dio, cosicché Gesù è passato dalla debolezza (…) propria dello stato di Incarnazione, alla «potenza» (…) dello stato di Risorto. Questo è avvenuto «secondo lo Spirito di santificazione», cioè in virtù della comunicazione, che il Padre ha fatto a Gesù crocifisso, dello Spirito Santo, per cui Gesù è risorto, cioè è entrato nella sfera della gloria e della potenza di Dio, essendo lo Spirito Santo «Spirito di Dio». Così nella risurrezione interviene Dio, il Padre, che risuscita Gesù e lo fa sedere alla sua destra, dandogli il nome del Signore; interviene il Figlio, perché Gesù è costituito «Figlio di Dio con potenza»; interviene lo Spirito Santo, come Spirito del Padre che vivifica Gesù, liberandolo dalla morte, e lo entrare nella sfera della gloria divina” (La Civiltà Cattolica 1997, III, 6-7).

E’ dunque al momento dell’“Ora di Gesù” o negli “ultimi tempi” che lo Spirito Santo, all’opera con il Padre e il Figlio dall’inizio della storia della salvezza, “viene rivelato e donato, riconosciuto e accolto come Persona. Allora questo disegno divino, compiuto in Cristo, «Primogenito» e Capo della nuova creazione, potrà realizzarsi nell’umanità con l’effusione dello Spirito: la Chiesa, la comunione dei santi, la remissione dei peccati, la risurrezione della carne, la vita eterna” (Catechismo della Chiesa Cattolica 686).

L’anno dello Spirito Santo

Ci sono momenti nella vita della Chiesa nei quali Dio, datore di ogni bene, sembra effondere con particolare abbondanza la sua grazia sulle sue creature o spingere con speciale forza i cristiani al rinnovamento spirituale. Si è appena concluso l’anno dedicato a Gesù Cristo unico Salvatore del mondo ieri, oggi e sempre. Pensiamo per un attimo a quante iniziative di preghiera, di riflessione, di rinnovamento interiore e di studio ha dato luogo questa celebrazione di un anno cristologico. Non è questo un flusso di grazia che ha attraversato il corpo della Chiesa animato dallo Spirito Santo? Non sarebbe una deplorevole perdita restare ai margini di questi fiumi di grazia che irrigano e fecondano il campo di Dio che è la Chiesa e tutta la famiglia umana? Tempo fa mi ha fatto impressione constatare quasi per caso come alcuni santi dei nostri giorni avvertirono una svolta nella loro vita proprio in occasione della celebrazione dell’anno santo del 1950. Vi sono dunque “tempi favorevoli”, “tempi di salvezza” nel cammino della Chiesa e del mondo.

Questo scorcio di fine millennio mi pare possa essere indicato come uno di questi momenti di grazia speciale. Prendendo perciò seriamente le occasioni che la Provvidenza mette sui nostri passi potremo evitare sia il pericolo della superficialità che non fa avvertire la grazia che passa, che quello opposto del trionfalismo che risolve tutto nell’esteriorità e nella vanagloria. Qualcuno ha detto non senza ragione che dello Spirito Santo è meglio parlare il meno possibile e invocarlo il più possibile. Ma parafrasando un passo di S. Paolo che parla di Gesù bisogna aggiungere “come potranno invocarlo senza aver prima creduto in lui? E come potranno credere, senza averne sentito parlare? E come potranno sentire parlare senza che uno lo annunzi?” (Rm 10,14).

Publié dans:CREDO |on 16 juillet, 2010 |Pas de commentaires »

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