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LETTERA AI VESCOVI DELLA CHIESA CATTOLICA SU ALCUNI ASPETTI DELLA MEDITAZIONE CRISTIANA (CAP IV E V)

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CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE

LETTERA AI VESCOVI DELLA CHIESA CATTOLICA SU ALCUNI ASPETTI DELLA MEDITAZIONE CRISTIANA *

(15 ottobre 1989)

(solo i capitoli IV e V)

IV. LA VIA CRISTIANA DELL’UNIONE CON DIO 13. Per trovare la giusta « via » della preghiera, il cristiano considererà ciò che è stato precedentemente detto a proposito dei tratti salienti della via di Cristo, il cui « cibo è fare la volontà di colui che (lo) ha mandato a compiere la sua opera » (Gv 4, 34). Gesù non vive con il Padre un’unione più intima e più stretta di questa, che per lui si traduce continuamente in una profonda preghiera. La volontà del Padre lo invia agli uomini, ai peccatori, addirittura ai suoi uccisori ed egli non può essere più intimamente unito al Padre che ubbidendo a questa volontà. Ciò non impedisce in alcun modo che nel cammino terreno egli si ritiri anche nella solitudine per pregare, per unirsi al Padre e ricevere da Lui nuovo vigore per la sua missione nel mondo. Sul Tabor, dove certamente egli è unito al Padre in maniera manifesta, viene evocata la sua Passione (cfr. Lc 9, 31) e non viene neppure presa in considerazione la possibilità di permanere in « tre tende » sul monte della trasfigurazione. Ogni preghiera contemplativa cristiana rinvia continuamente all’amore del prossimo, all’azione e alla passione, e proprio così avvicina maggiormente a Dio. 14. Per accostarsi a quel mistero dell’unione con Dio, che i Padri greci chiamavano divinizzazione dell’uomo, e per cogliere con precisione le modalità secondo cui essa si compie, occorre tener presente anzitutto che l’uomo è essenzialmente creatura (16) e tale rimane in eterno, cosicché non sarà mai possibile un assorbimento dell’io umano nell’io divino, neanche nei più alti stati di grazia. Si deve però riconoscere che la persona umana è creata « ad immagine e somiglianza » di Dio, e l’archetipo di questa immagine è il Figlio di Dio, nel quale e per il quale siamo stati creati (cfr. Col 1, 16). Ora questo archetipo ci svela il più grande e il più bel mistero cristiano: il Figlio è dall’eternità « altro » rispetto al Padre e tuttavia, nello Spirito Santo, è « della stessa sostanza »; di conseguenza, il fatto che ci sia un’alterità, non è un male, ma piuttosto il massimo dei beni. C’è alterità in Dio stesso, che è una sola natura in Tre Persone, e c’è alterità tra Dio e la creatura, che sono per natura differenti. Infine, nella santa eucaristia, come anche negli altri sacramenti – e analogamente nelle sue opere e nelle sue parole – Cristo ci dona se stesso e ci rende partecipi della sua natura divina (17), senza per altro sopprimere la nostra natura creata, alla quale egli stesso partecipa con la sua incarnazione. 15. Se si considerano insieme queste verità, si scopre, con profonda meraviglia, che nella realtà cristiana vengono adempiute, oltre ogni misura, tutte le aspirazioni presenti nella preghiera delle altre religioni, senza che con questo l’io personale e la sua creaturalità debbano essere annullati e scomparire nel mare dell’Assoluto. « Dio è amore » (1 Gv 4, 8): questa affermazione profondamente cristiana può conciliare l’unione perfetta con l’alterità tra amante e amato, con l’eterno scambio e l’eterno dialogo. Dio stesso è questo eterno scambio, e noi possiamo in piena verità diventare partecipi di Cristo, quali « figli adottivi », e gridare con il Figlio nello Spirito Santo « Abba, Padre ». In questo senso, i Padri hanno pienamente ragione di parlare di divinizzazione dell’uomo che, incorporato a Cristo Figlio di Dio per natura, diventa per la sua grazia partecipe della natura divina, « figlio nel Figlio ». Il cristiano, ricevendo lo Spirito Santo, glorifica il Padre e partecipa realmente alla vita trinitaria di Dio.

V. QUESTIONI DI METODO 16. La maggior parte delle grandi religioni che hanno cercato l’unione con Dio nella preghiera, hanno anche indicato le vie per conseguirla. Siccome « la Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni » (18), non si dovranno disprezzare pregiudizialmente queste indicazioni in quanto non cristiane. Si potrà al contrario cogliere da esse ciò che vi è di utile, a condizione di non perdere mai di vista la concezione cristiana della preghiera, la sua logica e le sue esigenze, poiché è all’interno di questa totalità che quei frammenti dovranno essere riformulati ed assunti. Tra di essi si può annoverare anzitutto l’umile accettazione di un maestro esperto nella vita di preghiera e delle sue direttive; di ciò si è sempre avuto consapevolezza nell’esperienza cristiana sin dai tempi antichi, dall’epoca dei Padri del deserto. Questo maestro, esperto nel « sentire cum Ecclesia », deve non solo guidare e richiamare l’attenzione su certi pericoli, ma, quale « padre spirituale », deve anche introdurre in maniera viva, da cuore a cuore, nella vita di preghiera, che è dono dello Spirito Santo. 17. La tarda classicità non cristiana distingueva volentieri tre stadi nella vita di perfezione: la via della purificazione, dell’illuminazione e dell’unione. Questa dottrina è servita da modello per molte scuole di spiritualità cristiana. Questo schema, in se stesso valido, necessita tuttavia di alcune precisazioni, che ne permettano una corretta interpretazione cristiana, evitando pericolosi fraintendimenti. 18. La ricerca di Dio mediante la preghiera deve essere preceduta ed accompagnata dall’ascesi e dalla purificazione dai propri peccati ed errori, perché secondo la parola di Gesù soltanto « i puri di cuore vedranno Dio » (Mt 5, 8). Il Vangelo mira soprattutto a una purificazione morale dalla mancanza di verità e di amore e, su un piano più profondo, da tutti gli istinti egoistici che impediscono all’uomo di riconoscere ed accettare la volontà di Dio nella sua purezza. Non sono le passioni in quanto tali ad essere negative (come pensavano gli stoici e i neoplatonici) ma la loro tendenza egoistica. È da essa che il cristiano deve liberarsi: per arrivare a quello stato di libertà positiva che la classicità cristiana chiamava « apatheia », il Medio Evo « impassibilitas » e gli Esercizi spirituali ignaziani « indiferencia » (19). Ciò è impossibile senza una radicale abnegazione, come si vede anche in S. Paolo che usa apertamente la parola « mortificazione » (delle tendenze peccaminose) (20). Solo questa abnegazione rende l’uomo libero di realizzare la volontà di Dio e di partecipare alla libertà dello Spirito Santo. 19. Dovrà perciò essere interpretata rettamente la dottrina di quei maestri che raccomandano di « svuotare » lo spirito da ogni rappresentazione sensibile e da ogni concetto, mantenendo però un’amorosa attenzione a Dio, così che rimanga nell’orante un vuoto che può allora essere riempito dalla ricchezza divina. Il vuoto di cui Dio ha bisogno è quello della rinuncia al proprio egoismo, non necessariamente quello della rinuncia alle cose create che egli ci ha donato e tra le quali ci ha posti. Non vi è dubbio che nella preghiera ci si deve concentrare interamente su Dio ed escludere il più possibile quelle cose di questo mondo che ci incatenano al nostro egoismo. S. Agostino è su questo punto un maestro insigne: se vuoi trovare Dio, dice, abbandona il mondo esteriore e rientra in te stesso. Tuttavia, prosegue, non rimanere in te stesso, ma oltrepassa te stesso, perché tu non sei Dio: Egli è più profondo e più grande di te. « Cerco la sua sostanza nella mia anima e non la trovo; ho meditato tuttavia sulla ricerca di Dio e, proteso verso di lui, attraverso le cose create, ho cercato di conoscere le “perfezioni invisibili di Dio” (Rm 1, 20) » (21). « Restare in se stessi »: ecco il vero pericolo. Il grande Dottore della Chiesa raccomanda di concentrarsi in se stessi, ma anche di trascendere l’io che non è Dio, ma solo una creatura. Dio è « interior intimo meo, et superior summo meo » (22). Dio infatti è in noi e con noi, ma ci trascende nel suo mistero (23). 20. Dal punto di vista dogmatico, è impossibile arrivare all’amore perfetto di Dio se si prescinde dalla sua autodonazione nel Figlio incarnato, crocifisso e risuscitato. In Lui, sotto l’azione dello Spirito Santo, prendiamo parte, per pura grazia, alla vita intradivina. Quando Gesù dice: « Chi ha visto me ha visto il Padre » (Gv 14, 9), non intende semplicemente la visione e la conoscenza esteriori della sua figura umana (« la carne non giova a nulla », Gv 6, 63). Ciò che intende è piuttosto un « vedere » reso possibile dalla grazia della fede: vedere attraverso la manifestazione sensibile di Gesù ciò che questi, quale Verbo del Padre, vuole veramente mostrarci di Dio (« È lo Spirito che dà la vita […]; le parole che vi ho dette sono spirito e vita », ibid.). In questo « vedere » non si tratta dell’astrazione puramente umana (« abs-tractio ») dalla figura in cui Dio si è rivelato, ma del cogliere la realtà divina nella figura umana di Gesù, del cogliere la sua dimensione divina ed eterna nella sua temporalità. Come dice S. Ignazio negli Esercizi spirituali, dovremmo tentare di cogliere « il profumo infinito e la dolcezza infinita della divinità » (n. 124), partendo dalla finita verità rivelata dalla quale abbiamo iniziato. Mentre ci eleva, Dio è libero di « svuotarci » di tutto ciò che ci trattiene in questo mondo, di attirarci completamente nella vita trinitaria del suo amore eterno. Tuttavia, questo dono può essere concesso solo « in Cristo attraverso lo Spirito Santo » e non attraverso le proprie forze, astraendo dalla sua rivelazione. 21. Nel cammino della vita cristiana alla purificazione segue l’illuminazione mediante l’amore che il Padre ci dona nel Figlio e l’unzione che da Lui riceviamo nello Spirito Santo (cfr. 1 Gv 2, 20). Fin dall’antichità cristiana si fa riferimento alla « illuminazione » ricevuta nel battesimo. Essa introduce i fedeli, iniziati ai divini misteri, alla conoscenza di Cristo mediante la fede che opera per mezzo della carità. Anzi, alcuni scrittori ecclesiastici parlano in modo esplicito dell’illuminazione ricevuta nel battesimo come fondamento di quella sublime conoscenza di Cristo Gesù (cfr. Fil 3, 8) che viene definita come « theoria » o contemplazione (24). I fedeli, con la grazia del battesimo, sono chiamati a progredire nella conoscenza e nella testimonianza dei misteri della fede mediante « la profonda intelligenza che essi esperiscono delle cose spirituali » (25). Nessuna luce di Dio rende superate le verità della fede. Le eventuali grazie di illuminazione che Dio può concedere aiutano piuttosto a chiarir meglio la dimensione più profonda dei misteri confessati e celebrati dalla Chiesa, in attesa che il cristiano possa contemplare Dio come Egli è nella gloria (cfr. 1 Gv 3, 2). 22. Il cristiano orante, infine, può arrivare, se Dio lo vuole, ad un’esperienza particolare di unione. I sacramenti, soprattutto il battesimo e l’eucaristia (26), sono l’inizio obiettivo dell’unione del cristiano con Dio. Su questo fondamento, per una speciale grazia dello Spirito, l’orante può essere chiamato a quel tipo peculiare di unione con Dio che, nell’ambito cristiano, viene qualificato come mistica. 23. Certamente il cristiano ha bisogno di determinati tempi di ritiro nella solitudine per raccogliersi e ritrovare, presso Dio, il suo cammino. Ma dato il suo carattere di creatura, e di creatura che sa di essere al sicuro solo nella grazia, il suo modo di avvicinarsi a Dio non si fonda su alcuna tecnica nel senso stretto della parola. Ciò contraddirebbe lo spirito d’infanzia richiesto dal Vangelo. La mistica cristiana autentica non ha niente a che vedere con la tecnica: è sempre un dono di Dio, di cui chi ne beneficia si sente indegno (27). 24. Ci sono determinate grazie mistiche, conferite ad esempio ai fondatori di istituzioni ecclesiali in favore di tutta la loro fondazione nonché ad altri santi, che caratterizzano la loro peculiare esperienza di preghiera e che non possono, come tali, essere oggetto di imitazione e di aspirazione per altri fedeli, anche appartenenti alla stessa istituzione, e desiderosi di una preghiera sempre più perfetta (28). Possono esserci diversi livelli e diverse modalità di partecipazione all’esperienza di preghiera di un fondatore, senza che a tutti debba venir conferita la medesima forma. Del resto l’esperienza di preghiera che ha un posto privilegiato in tutte le istituzioni autenticamente ecclesiali antiche e moderne, è sempre in ultima analisi qualcosa di personale. Ed è alla persona che Dio dona le sue grazie in vista della preghiera. 25. A proposito della mistica si deve distinguere tra i doni dello Spirito Santo e i carismi accordati in modo totalmente libero da Dio. I primi sono qualcosa che ogni cristiano può ravvivare in sé attraverso una vita zelante di fede, di speranza e di carità e così, attraverso una seria ascesi, arrivare ad una certa esperienza di Dio e dei contenuti della fede. Quanto ai carismi, S. Paolo dice che essi sono soprattutto in favore della Chiesa, degli altri membri del Corpo mistico di Cristo (cfr. 1 Cor 12, 7). A questo proposito, va ricordato sia che i carismi non possono essere identificati con dei doni straordinari (« mistici ») (cfr. Rm 12, 3-21), sia che la distinzione fra i « doni dello Spirito Santo » e i « carismi » può essere fluida. Certo è che un carisma fecondo per la Chiesa non può, nell’ambito neotestamentario, venir esercitato senza un determinato grado di perfezione personale e che, d’altra parte, ogni cristiano « vivo » possiede un compito peculiare (e in questo senso un « carisma ») « per l’edificazione del Corpo di Cristo » (cfr. Ef 4, 15-16) (29), in comunione con la Gerarchia, alla quale « spetta soprattutto di non estinguere lo Spirito, ma di esaminare tutto e ritenere ciò che è buono » (Lumen gentium, n. 12).

LA STABILITÀ DELL’UOMO NEL MONDO GLOBALIZZATO

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LA STABILITÀ DELL’UOMO NEL MONDO GLOBALIZZATO

Commento all’Omelia pasquale di Benedetto XVI, Sabato Santo 11 aprile 2009

di Luis Francisc Ladaria Ferrer sj
Segretario della Congregazione per la Dottrina della Fede


ROMA, giovedì, 2 febbraio 2012 (ZENIT.org).- Le omelie pasquali, come quelle delle altre solennità liturgiche, sono un “genere letterario” assai frequente nell’antichità cristiana. La più grande festa dell’anno liturgico, che ci parla della gioia e del trionfo di Gesù sulla morte, ci richiama la verità fondamentale del cristianesimo: «Se Cristo non è risorto, è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede… Se Cristo non è risorto, è vana la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati. E anche quelli che sono morti in Cristo sono perduti. Se poi noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto in questa vita, siamo da compiangere più di tutti gli uomini» (1 Cor 15,14.17-19). Malgrado ciò, cosa è la risurrezione? In realtà nessuno la può definire, sappiamo bene che i vangeli canonici non la descrivono, non la narrano; parlano soltanto degli incontri con il Risorto in racconti che si distinguono chiaramente da quelli che parlano della vita mortale di Gesù. La risurrezione, ci dice il Santo Padre, «non entra nell’ambito delle nostre esperienze, e così il messaggio spesso rimane in qualche misura incompreso, una cosa del passato». Joseph Ratzinger – Benedetto XVI ha espresso questa realtà molto bene nel suo libro Jesus von Nazareth 1. Con la risurrezione di Gesù viene a noi schiusa una dimensione della quale non abbiamo esperienza diretta, è un ambito che va oltre ciò che possiamo immaginare. È un nuovo ambito che apre la storia al di sopra di essa, e crea ciò che è definitivo. In questo senso la risurrezione non è un evento storico come la nascita o la crocifissione di Gesù. È un nuovo tipo di evento. Ma allo stesso tempo dobbiamo dire che non si trova semplicemente fuori o al di sopra della storia. Anche se va al disopra della storia, trova nella storia il suo inizio. Ci porta al di là della storia, ma lascia nella storia la sua traccia. Solo un evento reale, di una nuova qualità poteva rendere possibile la predicazione apostolica, che non si spiega con esperienze mistiche interne, ma nel mostrarsi di Cristo e nelle sue parole.
Determinata dunque la novità dell’evento della risurrezione riguardo a tutto quanto la precede, torniamo all’omelia del Santo Padre. Questa novità richiede un linguaggio nuovo, non si esprime semplicemente con le parole e i concetti normali. Tre simboli sono, secondo Benedetto XVI, i determinanti nella liturgia della notte pasquale che deve introdurci nel mistero che non possiamo afferrare con le nostre forze:
la luce
l’acqua
il canto nuovo dell’alleluia
1. Il Santo Padre inizia con il simbolismo della luce. É il primo che si sviluppa nella liturgia della notte santa nel segno del cero pasquale ed è anche logico che sia il primo a essere menzionato. Il Santo Padre inizia con la prima menzione della luce nella Bibbia: Gen 1,3: «Dio disse: “Sia la luce”. E la luce fu». L’uomo cerca spontaneamente la luce, ha paura delle tenebre. Se la creazione di tutto inizia con la luce, è perché essa infonde all’uomo sicurezza e gioia, Gesù risorto è specialmente luce. Egli è la luce. Ego sum lux mundi (Gv 9,5). Questa frase del vangelo di Giovanni si legge spesso nel libro aperto che Gesù sorregge nelle antiche immagini, nei pantocrator. La luce del Risorto è vista come l’inizio della nuova creazione. Tutti gli uomini sono illuminati della luce del sole, ma chi partecipa della risurrezione di Cristo è illuminato da una luce ancora più intensa, non misurabile con i parametri di questo mondo: «Svegliati, tu che dormi, risorgi dai morti e Cristo ti illuminerà» (Ef 5,14). Chi è in Cristo è una nuova creatura (cf. 2 Cor 5,17). Perciò, ci dice il Santo Padre: «I cristiani capiscono: sì, nella risurrezione il Figlio di Dio è sorto come Luce sul mondo. Cristo è la grande Luce dalla quale proviene ogni vita. Egli ci fa riconoscere la gloria di Dio da un confine all’altro della terra. Egli ci indica la strada. Egli è il giorno di Dio che ora, crescendo, si diffonde per tutta la terra. Adesso, vivendo con Lui e per Lui, possiamo vivere nella luce».
L’Antico Testamento aveva già paragonato la parola di Dio, la Torah, alla luce nel cammino dell’uomo. Noi sappiamo adesso che la Parola di Dio per eccellenza è Cristo. Scrive Benedetto XVI nell’esortazione postsinodale Verbum Domini 7: «Come ci mostra in modo chiaro il Prologo di Giovanni, il Logos indica originariamente il Verbo eterno, ossia il Figlio unigenito, generato dal Padre prima di tutti i secoli e a Lui consustanziale: il Verbo era presso Dio, il Verbo era Dio. Ma questo stesso Verbo, afferma san Giovanni, “si fece carne” (Gv 1,14); pertanto Gesù Cristo, nato da Maria Vergine, è realmente il Verbo di Dio fattosi consustanziale a noi. Dunque l’espressione “Parola di Dio” viene qua a indicare la persona di Gesù Cristo, eterno Figlio del Padre, fatto uomo».
La Parola e la luce sono già unite nell’Antico Testamento ma ancora di più nel Nuovo Testamento, nel prologo di Giovanni che ci occupa in questo contesto. Il Figlio eterno del Padre, il Verbo, è la luce vera che illumina ogni uomo, la vita è la luce degli uomini (cf. Gv 1,4-9; cf. anche 1 Gv 2,6-8). Gesù è dunque la luce che Dio ci invia nel mondo. Già prima della sua nascita nel tempo, Zaccaria parla di lui come di un «sole che sorge dall’alto, per risplendere su quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra della morte…» (Lc 1,78-79). Ugualmente Simeone si rivolge al Bambino Gesù come «luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele» (Lc 2,32). Questa luce che è Gesù ci introduce nel mistero della vita trinitaria. Gesù è la luce che ci illumina, è per noi la luce che ci fa vedere e ci libera dalle tenebre, ma in lui risplende la luce del Padre. «Dio è luce, e in lui non c’è tenebra alcuna» (1 Gv 1,5). Dalla luce che viene da Cristo viene a noi aperta la strada alla contemplazione di ciò che Dio è in se stesso. La luce che risplende nella risurrezione di Gesù è la luce che da sempre risplende nella vita eterna di Dio. La luce che appare nella risurrezione di Gesù, lumen Christi resurgentis, è la luce della vita eterna di Dio, dove tutto è luce, tutto è chiaro è bello. Notiamo che nella prima lettera di Giovanni troviamo le più profonde “definizioni” (sit venia verbo!) di Dio: oltre a «Dio è luce» troviamo, com’è ben noto, «Dio è amore» (1 Gv 4,8.16). Dalla manifestazione di Dio in Cristo si passa a queste altre affermazioni che ci conducono verso il mistero di Dio in sé stesso. Nel libro della Sapienza troviamo una serie di frasi che i Padri della Chiesa hanno applicato a Gesù nella sua relazione al Padre: «[La Sapienza] è effluvio della potenza di Dio, emanazione genuina della gloria dell’Onnipotente … È riflesso della luce perenne, uno specchio senza macchia dell’attività di Dio e immagine della sua bontà… Ella in realtà è più radiosa del sole e supera ogni costellazione, paragonata alla luce risulta più luminosa, a questa infatti succede la notte, ma la malvagità non prevale sulla sapienza» (Sap 7,25-26.29-30). La luce che è Gesù, viene vista, a partire dall’interpretazione cristologica di questo testo, come il riflesso e la comunicazione della luce del Padre, «che abita una luce inaccessibile: nessuno degli uomini lo ha mai visto ne può vederlo» (1 Tm 6,16; cf. Gv 1,18).
La luce che è Cristo, la luce di Dio, ci avvolge nel mistero della Pasqua. Di questa luce siamo diventati partecipi, siamo entrati nella luce, non la contempliamo semplicemente dall’esterno. Sant’Ireneo diceva, in un contesto un po’ diverso del nostro, che chi vede la luce è nella luce (cf. Adv. Haer. IV 20,5). La liturgia pasquale è eminentemente battesimale. I cristiani sono, secondo la lettera agli Ebrei, quelli che sono stati “illuminati, fotiszéntas” (Eb 6,4). Sono quelli ai quali è arrivata la luce di Cristo e che sono chiamati anche a diffonderla. Dice il Santo Padre: «Al cero pasquale noi tutti accendiamo le nostre candele, soprattutto quelle dei neobattezzati, ai quali in questo Sacramento la luce di Cristo viene calata nel profondo del cuore. La Chiesa antica ha qualificato il battesimo come fotismos, come Sacramento dell’illuminazione, come una comunicazione di luce e l’ha collegato inscindibilmente con la risurrezione di Cristo». I testimoni originari della risurrezione di Gesù hanno reso testimonianza della medesima. Vedere Gesù risorto implica la testimonianza. Per questo i cristiani, ci ricorda Benedetto XVI, dovrebbero risplendere come astri nel mondo. Dice, infatti, Paolo: «…per essere irreprensibili e puri, figli di Dio innocenti in mezzo a una generazione malvagia e perversa. In mezzo a loro voi risplendete come astri nel mondo» (Flp 2,15). Le parole dell’Apostolo sembrano l’eco di quelle di Gesù: «Voi siete la luce del mondo, non può restare nascosta una città che sta sopra un monte, né si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candelabro, e così fa luce a tutti quelli che sono nella casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5,14-16). La luce di Dio che risplende in Cristo deve anche risplendere nei cristiani partecipi della vita divina, che sono anch’essi “nella luce”, sono “luce nel Signore” coloro che un tempo erano tenebre (cf. Ef 5,7).
2. Il secondo simbolo della Veglia Pasquale al quale Benedetto XVI fa riferimento, è quello dell’acqua. E’ forse quello che più direttamente si ricollega al battesimo, di cui abbiamo appena parlato. Benedetto XVI fa riferimento a un doppio simbolismo dell’acqua. Da una parte c’è il mare verso il quale il popolo d’Israele ha sentito sempre un profondo timore, a differenza di altri popoli navigatori dello stesso contesto geografico. Il mare è una minaccia. Dio ha dovuto porre a esso un limite perché la vita potesse svilupparsi sulla terra. È significativo il testo dell’Apocalisse 21,1 che il Santo Padre cita: il mare non esiste più quando arrivano i cieli nuovi e la terra nuova. Il popolo d’Israele ha attraversato il mare Rosso e ne è uscito indenne; Gesù è disceso anche nella morte ed è risorto2. Anche senza un diretto riferimento all’acqua come luogo di morte, è evidente che alcuni testi battesimali fondamentali del Nuovo Testamento fanno riferimento al mistero di partecipazione alla morte e risurrezione di Cristo che ha luogo nel battesimo: «O non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù siamo stati battezzati nella sua morte? Per mezzo del battesimo siamo stati sepolti insieme a lui nella morte affinché, come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova. Se infatti siamo stati intimamente uniti al lui a somiglianza della sua morte, lo saremo anche a somiglianza della sua risurrezione» (Rom 6,2-5); e più brevemente: «con lui sepolti nel battesimo, con lui siete anche risorti mediante la fede nella potenza di Dio, che lo ha risuscitato dai morti» (Col 2,12). Nel battesimo invece l’acqua simboleggia una nuova nascita, una rigenerazione, resa però possibile dallo Spirito Santo che ci purifica e ci rinnova: «Egli ci ha salvati, non per opere giuste da noi compiute, ma per la sua misericordia, con un’acqua che rigenera e rinnova nello Spirito Santo, che Dio ha effuso su di noi in abbondanza per mezzo di Gesù Cristo, salvatore nostro» (Tt 3,5-6). Cristo ha purificato la Chiesa con il lavacro dell’acqua (cf. Ef 5,26). Nella discesa di Cristo nel Giordano per essere battezzato da Giovanni, ci insegnano i Padri della Chiesa, l’acqua ha ricevuto il potere di rigenerare e di purificare in virtù della potenza dello Spirito. Dall’acqua battesimale, per la potenza di Dio, ci viene la rigenerazione a una vita nuova.
Il simbolismo della luce non è stato preso in considerazione da Joseph Ratzinger-Benedetto XVI nel suo studio sulle grandi immagini giovannee nel primo volume di Jesus von Nazareth. L’acqua invece è oggetto diretto della sua attenzione, anzi, occupa il primo posto fra le immagini studiate. In questo volume si analizzano con maggiore minuzia alcuni dei testi giovannei menzionati nell’omelia e anche molti altri che non trovano luogo in essa. Possiamo lasciarci guidare da questo studio per una più profonda comprensione dell’omelia. Tutti i testi in esso considerati offrono interessanti spunti per capire meglio il simbolismo dell’acqua. S’inizia col capitolo terzo del quarto vangelo, Gv 3,5, rinascere da acqua e da Spirito, nel contesto del dialogo di Gesù con Nicodemo; riprendiamo l’affermazione più significativa: «Il Battesimo come ingresso nella comunità di Cristo viene interpretato come rinascita, di qui – in analogia con la nascita naturale […] – fa parte un duplice principio: lo Spirito divino e l’acqua come madre universale della vita naturale – innalzata nel sacramento mediante la grazia a immagine speculare della Theotokos verginale”» (Jesus von Nazareth, 282; Gesù di Nazaret, 280-281) Nel capitolo 4 del vangelo di Giovanni si narra il dialogo di Gesù con la Samaritana accanto al pozzo di Giacobbe. I pozzi sono i luoghi da cui proviene l’acqua e dunque da dove scaturisce la vita. «Qui, al pozzo di Giacobbe, incontriamo Giacobbe come il grande capostipite che, con il pozzo, ha donato l’acqua, l’elemento fondamentale della vita. Nell’uomo però, vi è una sete più grande – al di là dell’acqua del pozzo – poiché egli cerca una vita che vada oltre la sfera biologica […] Giovanni distingue bíos e zoé, la vita biologica e quella vita completa che, essendo essa stessa sorgente, non è sottoposta al morire e al divenire che caratterizzano l’intera creazione. Così nel dialogo con la Samaritana l’acqua diventa ancora […] simbolo del Pneuma, del vero potere vitale che placa la sete più profonda dell’uomo e gli dona la vita totale, che egli attende senza conoscerla» (ib. 283; 282). Gesù appare così come il vero Giacobbe, colui che dà l’acqua viva che diventa una sorgente che zampilla per la vita eterna (cf. Gv 4,14). Il simbolismo dell’acqua appare anche nei due miracoli della guarigione del paralitico e del cieco nato. Nel primo caso, l’uomo aspetta la guarigione dall’acqua, ma non trova nessuno che lo aiuti a scendere nella piscina. Nel secondo caso, l’uomo che si lava nella piscina di Sìloe, ci troviamo di fronte ad una spiegazione del battesimo che ci rende vedenti. Anche nell’ultima cena appare l’acqua, nella lavanda dei piedi; l’umiltà di Gesù ci fa degni di sedere alla mensa di Dio3.
Non tutte queste scene sono ricordate nell’omelia del Sabato Santo 2009, che alla fine si incentra sul testo chiave di Giovanni 19,34, che era stato oggetto di attenzione nella prima parte del Gesù di Nazaret: «San Giovanni ci racconta che un soldato con una lancia colpì il fianco di Gesù e che dal fianco aperto –dal suo cuore trafitto – uscì sangue e acqua (cfr Gv 19,34). La Chiesa antica ne ha visto un simbolo per il Battesimo e l’Eucaristia che derivano dal cuore trafitto di Gesù. Nella morte Gesù è divenuto egli stesso la sorgente». Nel volume su Gesù, oltre alla menzione dei sacramenti del Battesimo e dell’Eucaristia, il Santo Padre aveva fatto riferimento anche alla Chiesa che, appunto a partire da questi sacramenti, nasce dal costato di Cristo: «Non c’è dubbio che Giovanni vuole qui riferirsi ai due sacramenti principali della Chiesa […] che sgorgano dal cuore aperto di Gesù e con i quali, in questo modo, la Chiesa nasce dal suo costato»4. Ecclesia de latere Christi, è un antico tema della patristica.
Dobbiamo anche soffermarci sulla menzione che il Papa fa nella sua omelia a Ez 47,1-12. Il fiume che dona la vita è in realtà Cristo, il vero e vivente tempio di Dio, la sorgente dell’acqua viva, dalla quale sgorga il fiume del Vangelo che rende feconda la terra. Questo testo è uno degli antecedenti veterotestamentari dell’ultimo testo citato dove si parla dell’acqua, il passaggio fondamentale di Gv 7,38: «Chi crede in me, come dice la Scrittura, dal suo grembo sgorgheranno fiumi di acqua viva». Da chi sgorga il fiume di acqua viva? In Gesù di Nazaret si fa riferimento alle due possibilità d’interpretazione del testo: una, la più frequente, iniziata da Origene, che vede nel credente la sorgente dell’acqua, e l’altra, minoritaria, ma che ha a suo favore autorità come Giustino e Ireneo, molto vicini alla tradizione, secondo la quale è dal grembo di Gesù che sgorgano i suddetti fiumi di acqua. Il Santo Padre vede molte buone ragioni a favore di quest’ultima possibilità, soprattutto a partire dei testi dell’Antico Testamento a cui Giovanni si poteva riferire5 (cf. pp. 286-290). Ma nella nostra omelia questa interpretazione viene tralasciata. Sembra che soltanto la prima venga presa in considerazione. Così si esprime il Santo Padre «Nel Battesimo il Signore fa di noi non solo persone di luce, ma anche sorgenti dalle quali scaturisce acqua viva. Noi tutti conosciamo persone simili che ci lasciano in qualche modo rinfrescati e rinnovati; persone che sono come una fonte di fresca acqua sorgiva. Non dobbiamo necessariamente pensare ai grandi […]. Le troviamo continuamente anche nel nostro quotidiano: persone che sono una sorgente». Come nel caso della luce, il Santo Padre sottolinea il ruolo attivo dei cristiani, che sono chiamati non solo a ricevere ma anche a donare agli altri con generosità da quanto hanno ricevuto. Evidentemente un’omelia non è il luogo per entrare in questioni dibattute o per dare ragione di una scelta motivata probabilmente da ragioni pastorali.
3. Il terzo grande simbolo della Veglia Pasquale è il canto nuovo dell’alleluia. Il nostro commento su questo terzo punto sarà più breve. Il Santo Padre non si sofferma direttamente su questa parola, che significa originariamente “lodate il Signore” e che è rimasta senza traduzione già nei LXX e poi nella liturgia cristiana. Sappiamo bene che è l’espressione di gioia, il canto nuovo della liturgia pasquale. Il Papa s’incentra sul cantico di Mosè (Es 15,1-18), così rilevante nella liturgia della notte pasquale insieme al racconto dell’attraversamento del Mar Rosso. Si tratta dell’unica lettura dell’Antico Testamento col cantico susseguente che non si può mai omettere nella celebrazione della Veglia Pasquale. In Es 15,1, «allora Mosè e gli israeliti cantarono questo canto al Signore» troviamo la prima menzione nella Bibbia del “cantare”; si canta quando il parlare non basta più. Il canto degli israeliti è diventato il canto dei cristiani, liberati dal battesimo dalla schiavitù dal peccato come gli antichi israeliti furono liberati dalla schiavitù in Egitto. Secondo Apocalisse 15,2-3, coloro che hanno vinto la bestia stanno in piedi su un mare di cristallo e cantano il canto di Mosè e il canto dell’Agnello. La situazione della Chiesa e dei discepoli di Gesù di tutti i tempi viene espressa in questi cantici. Mentre siamo ancora nel mezzo del mare, camminando allo stesso tempo sul ghiaccio e il fuoco, cantiamo l’inno dei salvati. È una situazione umanamente contraddittoria. Ma la Chiesa sa che mentre siamo ancora sotto l’influsso della morte e del male è attirata da Dio verso la verità e l’amore. Ma da quando Cristo è risorto, cioè, dal momento che la sua luce e il suo Spirito sono presenti nel nostro mondo, la gravitazione dell’amore e della vita è più forte di quella dell’odio e della morte.
Il mistero della luce di Cristo e dell’acqua dello Spirito nel quale siamo invitati a entrare è più grande di noi, ma non per questo dobbiamo semplicemente tacere. Sant’Agostino ci dice: «Se non puoi palare e non devi tacere, cosa resta se non esultare?» (En. in Ps. 32,1,8). Perciò il Santo Padre finisce con queste parole, con le quali possiamo concludere anche noi: «La mano salvifica del Signore ci sorregge, e così possiamo cantare già ora il canto dei salvati, il canto nuovo dei risorti: alleluia ! Amen».
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1 Vol II, Freiburg-Basel-Wien 2011, 300.
2 Cf. Jesus von Nazareth I, Freiburg-Basel Wien 2007, 282 (Gesù di Nazaret, p. 280): «Il Creatore ha indicato al mare i confini che esso non può superare: esso non deve inghiottire la terra. L’attraversamento del Mar Rosso è diventato per Israele soprattutto il simbolo della salvezza… Se i cristiani considerano l’attraversamento del Mar Rosso come una prefigurazione del Battesimo, allora c’è in primo piano innanzitutto l’idea del mare come simbolo della morte. L’attraversamento diventa immagine del mistero della croce. Per rinascere, l’uomo deve prima entrare con Cristo nel “Mar Rosso” scendere con lui nella morte, per poi giungere così con il Risorto nuovamente alla vita».
3 Cf. Jesus von Nazareth, 284-285; Gesù di Nazaret, 282-283.
4 Ib. 285; 284.
5 Cf. ib. 286-290;

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