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QUELLA PERCEZIONE DELLA CHIESA COME “LUCE RIFLESSA” CHE UNISCE I PADRI DEL PRIMO MILLENNIO E IL CONCILIO VATICANO II

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QUELLA PERCEZIONE DELLA CHIESA COME “LUCE RIFLESSA” CHE UNISCE I PADRI DEL PRIMO MILLENNIO E IL CONCILIO VATICANO II

L’ultimo Concilio riconosce che il punto sorgivo della Chiesa non è la Chiesa stessa, ma la presenza viva di Cristo che edifica personalmente la Chiesa. La luce che è Cristo si riflette come in uno specchio nella Chiesa

del cardinale Georges Cottier, op  

Nell’ormai prossimo 2012 cadranno i cinquant’anni dall’inizio del Concilio Vaticano II. A mezzo secolo di distanza, quello che è stato un avvenimento maggiore della vita della Chiesa continua a suscitare dibattiti – che probabilmente si intensificheranno nei prossimi mesi – su quale sia l’interpretazione più adeguata di quella assemblea conciliare. Le dispute di carattere ermeneutico, certo importanti, rischiano però di diventare controversie per addetti ai lavori. Mentre può interessare a tutti, soprattutto nel momento presente, riscoprire quale sia stata la sorgente ispiratrice che ha animato il Concilio Vaticano II. La risposta più comune riconosce che quell’evento era mosso dal desiderio di rinnovare la vita interiore della Chiesa e adattare anche la sua disciplina alle nuove esigenze per riproporre con nuovo vigore la sua missione nel mondo attuale, attenta nella fede ai «segni dei tempi». Ma per andare più alla radice, occorre cogliere quale era il volto più intimo della Chiesa che il Concilio si proponeva di riconoscere e ripresentare al mondo, nel suo intento di aggiornamento. Il titolo e le prime righe della costituzione dogmatica conciliareLumen gentium, dedicata alla Chiesa, sono in questo senso illuminanti nella loro chiarezza e semplicità: «Cristo è la luce delle genti: questo santo Concilio, adunato nello Spirito Santo, desidera dunque ardentemente, annunciando il Vangelo ad ogni creatura, illuminare tutti gli uomini con la luce di Cristo che risplende sul volto della Chiesa». Nell’incipit del suo documento più importante, l’ultimo Concilio riconosce che il punto sorgivo della Chiesa non è la Chiesa stessa, ma la presenza viva di Cristo che edifica personalmente la Chiesa. La luce che è Cristo si riflette come in uno specchio nella Chiesa. La coscienza di questo dato elementare (la Chiesa è il riflesso nel mondo della presenza e dell’agire di Cristo) illumina tutto ciò che l’ultimo Concilio ha detto sulla Chiesa. Il teologo belga Gérard Philips, che della costituzione Lumen gentium fu il principale redattore, mise in evidenza proprio questo dato all’inizio del suo monumentale commento al testo conciliare. Secondo lui, «la costituzione sulla Chiesa adotta sin dall’inizio la prospettiva cristocentrica, prospettiva che si affermerà istantaneamente nel corso di tutta l’esposizione. La Chiesa ne è profondamente convinta: la luce delle genti si irradia non da essa, ma dal suo divino Fondatore: pure, la Chiesa sa bene che, riflettendosi sul suo volto, questo irradiamento raggiunge l’umanità intera» (La Chiesa e il suo mistero nel Concilio Vaticano II: storia, testo e commento della costituzione Lumen gentium, Jaca Book, Milano 1975, v. I, p. 69). Una prospettiva di sguardo ripresa fin nelle ultime righe dello stesso commento, nelle quali Philips ripeteva che «non sta a noi profetare sul futuro della Chiesa, sui suoi insuccessi e sviluppi. Il futuro di questa Chiesa, di cui Dio ha voluto fare il riflesso di Cristo, Luce dei Popoli, sta nelle Sue mani» (ibid. v. II, p. 314). La percezione della Chiesa come riflesso della luce di Cristo accomuna il Concilio Vaticano II ai Padri della Chiesa, che fin dai primi secoli ricorrevano all’immagine del mysterium lunae, il mistero della luna, per suggerire quale fosse la natura della Chiesa e l’agire che le conviene. Come la luna, «la Chiesa splende non di propria luce, ma di quella di Cristo» («fulget Ecclesia non suo sed Christi lumine»), dice sant’Ambrogio. Mentre per Cirillo d’Alessandria «la Chiesa è circonfusa dalla luce divina di Cristo, che è l’unica luce nel regno delle anime. C’è dunque una sola luce: in quest’unica luce splende tuttavia anche la Chiesa, che non è però Cristo stesso». In questo senso, merita attenzione la valutazione offerta di recente dallo storico Enrico Morini in un intervento ospitato sul sito www.chiesa.espressonline.it curato da Sandro Magister. Secondo Morini – che è professore di Storia del cristianesimo e delle Chiese presso l’Università di Bologna – il Concilio Vaticano II si è posto «nella prospettiva della più assoluta continuità con la tradizione del primo millennio, secondo una periodizzazione non puramente matematica ma essenziale, essendo il primo millennio di storia della Chiesa quello della Chiesa dei sette Concili, ancora indivisa […]. Promuovendo il rinnovamento della Chiesa il Concilio non ha inteso introdurre qualcosa di nuovo – come rispettivamente desiderano e temono progressisti e conservatori – ma ritornare a ciò che si era perduto». L’osservazione può creare equivoci, se viene confusa con il mito storiografico che vede la vicenda storica della Chiesa come una progressiva decadenza e un allontanamento crescente da Cristo e dal Vangelo. Né si possono accreditare contrapposizioni artificiose per le quali lo sviluppo dogmatico del secondo millennio non sarebbe conforme alla Tradizione condivisa durante il primo millennio dalla Chiesa indivisa. Come ha evidenziato il cardinale Charles Journet, rifacendosi anche al beato John Henry Newman e al suo saggio sullo sviluppo del dogma, il depositum che abbiamo ricevuto non è un deposito morto, ma un deposito vivente. E tutto ciò che è vivente si mantiene in vita sviluppandosi. Allo stesso tempo, va colta come un dato oggettivo la corrispondenza tra la percezione della Chiesa espressa nella Lumen gentium e quella già condivisa nei primi secoli del cristianesimo. La Chiesa non viene cioè presupposta come un soggetto a sé stante, prestabilito. La Chiesa rimane al dato che la sua presenza nel mondo fiorisce e permane come riconoscimento della presenza e dell’azione di Cristo. La Trasfigurazione, mosaico della prima metà dell’XI secolo del monastero di Hosios Loukas, Daphni, Grecia La Trasfigurazione, mosaico della prima metà dell’XI secolo del monastero di Hosios Loukas, Daphni, Grecia A volte, anche nella nostra più recente attualità ecclesiale, questa percezione del punto sorgivo della Chiesa sembra per molti cristiani offuscarsi, e sembra avvenire una sorta di rovesciamento: da riflesso della presenza di Cristo (che con il dono del Suo Spirito edifica la Chiesa) si passa a percepire la Chiesa come una realtà materialmente e idealmente impegnata ad attestare e realizzare da sé la propria presenza nella storia. Da questo secondo modello di percezione della natura della Chiesa, che non è conforme alla fede, discendono conseguenze concrete. Se, come si deve, la Chiesa si percepisce nel mondo come riflesso della presenza di Cristo, l’annuncio del Vangelo non può che avvenire nel dialogo e nella libertà, rinunciando a ogni mezzo di coercizione sia materiale che spirituale. È la strada indicata da Paolo VI nella sua prima enciclica Ecclesiam Suam, pubblicata nel 1964, che esprime perfettamente lo sguardo sulla Chiesa proprio del Concilio. Anche lo sguardo che il Concilio ha rivolto sulle divisioni tra i cristiani e poi sui credenti delle altre religioni, rifletteva la stessa percezione della Chiesa. Così anche la richiesta di perdono per le colpe dei cristiani, che ha stupito e fatto discutere in seno al corpo ecclesiale quando fu presentata da Giovanni Paolo II, è perfettamente consonante con la coscienza di Chiesa fin qui descritta. La Chiesa chiede perdono non per seguire logiche di onorabilità mondana. Ma perché riconosce che i peccati dei suoi figli offuscano la luce di Cristo che essa è chiamata a lasciar riflettere sul suo volto. Tutti i suoi figli sono peccatori chiamati per l’azione della grazia alla santità. Una santificazione che è sempre dono della misericordia di Dio, il quale desidera che nessun peccatore – per quanto orribile sia il suo peccato – venga ghermito dal maligno nella via della perdizione. Così si comprende la formula del cardinal Journet: la Chiesa è senza peccato, ma non senza peccatori. Il riferimento alla vera natura della Chiesa come riflesso della luce di Cristo ha anche immediate implicazioni pastorali. Purtroppo, nell’attuale contesto, si registra la tendenza di vescovi a esercitare il proprio magistero attraverso pronunciamenti per via mediatica, in cui spesso si forniscono prescrizioni, istruzioni e indicazioni su cosa devono o non devono fare i cristiani. Come se la presenza dei cristiani nel mondo fosse il prodotto di strategie e prescrizioni e non sorgesse dalla fede, cioè dal riconoscimento della presenza di Cristo e del suo messaggio. Forse, nel mondo attuale, sarebbe più semplice e confortante per tutti poter ascoltare pastori che parlano a tutti senza dare per presuppostala fede. Come ha riconosciuto Benedetto XVI durante la sua omelia a Lisbona il 11 maggio 2010, «spesso ci preoccupiamo affannosamente delle conseguenze sociali, culturali e politiche della fede, dando per scontato che questa fede ci sia e ciò, purtroppo, è sempre meno realista».

 

IL CULTO MARIANO E IL VATICANO II…

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IL CULTO MARIANO E IL VATICANO II

LA « LUMEN GENTIUM » E ALTRI IMPORTANTI DOCUMENTI CONCILIARI SONO UNA CHIAVE PER COMPRENDERE CON PIENEZZA IL RUOLO DELLA MADRE DI DIO NELLA STORIA DELLA SALVEZZA

Roma, 13 Maggio 2013 (Zenit.org) Carmine Tabarro

Perché è importante ricordare i 50 anni che ci separano dal Concilio? Molti sarebbero i motivi, ma vale la pena citarne due in particolare: innanzitutto perché i cristiani dai sessant’anni in giù lo conoscono poco o per nulla, escluso, chiaramente chi lo ha studiato.   
Il secondo motivo è subordinato al primo: l’immensa luce che il Vaticano II ha proiettato sul retto culto mariano.
Va detto in premessa che il Concilio Vaticano II è stato il concilio ecumenico che ha emanato il più organico documento dottrinale su Maria nella storia della Chiesa: il capitolo VIII della costituzione dogmatica Lumen gentium.
Troviamo tuttavia altre indicazioni nella costituzione sulla liturgia  Sacrosanctum Concilium (103), nel decreto Presbyterorum ordinis (18), nel decreto sull’attività missionaria della Chiesa Ad gentes (42), nel decreto sulla formazione dei sacerdoti e dei seminaristi Optatam totius (8) e nel decreto sul rinnovamento della vita religiosa Perfectae caritatis (25).
In questa sede ci soffermeremo sull’incarnazione del Verbo e sulla maternità di Maria alla luce del Vaticano II.
Al centro dell’insegnamento conciliare c’è una maternità che le Sacre Scritture presentano come opera dello Spirito Santo: “Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio” (Lc 1,35).
In questo senso il Concilio ha riconosciuto il cuore della dignità di Maria. Scrive la Lumen gentium (cap. VIII, n°56): “abbracciando la volontà divina di salvezza con tutto il cuore e senza impedimento di alcun peccato, (Maria) si è dedicata totalmente, quale serva del Signore, alla persona e all’opera del suo Figlio, mettendosi al servizio del ministero della redenzione sotto di lui e con lui, per la grazia di Dio onnipotente”.
I padri del Concilio, riconoscono in Maria, l’accettazione del disegno di Dio e una sua cooperazione che va compresa bene: da una parte l’iniziativa di Dio dipende solo dal suo libero e assoluto amore; dall’altra il consenso (fides et ratio) di Maria libero e totale.
Maria ha capito bene e in profondità quello che Dio le chiedeva? Il Concilio insegna che Maria, “arricchita di doni corrispondenti alla sua così alta funzione”, ha attivamente e responsabilmente preso parte all’incarnazione senza che questo fosse frutto di una sua scelta ex ante. Maria è la terra che ha accolto la Parola, la terra offerta e predisposta all’opera di Dio: “la terra ha dato il suo frutto, ci ha benedetto Dio, il nostro Dio” (Sal 67,7).
Maria è l’icona del tutto singolare, in cui la grazia, produce la vita e le dà forma.
I padri del Concilio descrivono la presenza di Maria a fianco di Cristo con queste stupende pennellate: “[...] la beata vergine Maria ha percorso il suo pellegrinaggio di fede e ha serbato fedelmente la sua unione col Figlio fino ai piedi della croce dove, non senza un disegno divino, fu presente in dolorosa compassione col suo unigenito Figlio, associandosi con animo materno al suo sacrificio e unendo il suo amorevole consenso all’immolazione della vittima che lei stessa aveva generato” (Lumen gentium, cap.VIII, n° 58).
Maria, chiamata dalla Storia della Salvezza a partecipare al progetto divino, ci ricorda che lei è la porta che conduce a Cristo; comprendere con l’intelligenza della fede il posto che il Padre ha attribuito a Maria vuol dire costruire la nostra fede in Cristo sulla roccia; è per salvare la verità di Cristo che la Chiesa ha riconosciuto e definito il ruolo di Maria.
In conclusione rimandiamo alle note del cap. VIII della Lumen gentium; nello specifico i nn° 55-59, dove viene presentato un apparato critico di note, con riferimenti biblici e patristici assai importanti, che sono d’aiuto nel discernimento per il retto culto mariano.
Approfondire con fides et ratio il ruolo di Maria nella vita della Chiesa e dei fedeli, è importante per saper evitare le diverse deformazioni (sempre presenti nella storia della Chiesa) che minacciano la retta fede mariana: da un lato il tentativo generalizzato di demitizzare il culto mariano, d’altro il rischio di cadere nel sentimentalismo o in una specie di surrogato affettivo; fino agli estremisti, che arrivano a mettere Cristo subordinato alla Madonna.
Il Concilio Vaticano II ha donato un grande contributo per  il retto culto alla figlia di Sion.
“Dunque questo Figlio di Dio, nostro Signore, che è verbo del Padre è anche Figlio dell’uomo, poichè da Maria, che aveva avuto la generazione da creature umane ed era ella stessa creatura umana, ebbe la nascita umana e divenne Figlio dell’uomo. Perciò il Signore stesso ci dette un segno, in profondità e in altezza, segno che l’uomo non domandò, perché non si sarebbe mai aspettato che una vergine potesse concepire e partorire un figlio continuando ad essere vergine, e il frutto di questo parto fosse – Dio-con-noi; che egli discendesse nelle profondità della terra a cercare la pecora che era perduta, e in effetti era la sua propria creatura, e poi salisse in alto ad offrire al Padre quell’uomo che in tal modo era stato ritrovato”. Sant’Ireneo, Adv. Haer., II, 19, 3 PG 7, 941A

LA DIMORA DI DIO: RILEGGERE LA « LUMEN GENTIUM »

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LA DIMORA DI DIO: RILEGGERE LA « LUMEN GENTIUM »

Intervento di mons. Mariano Crociata nella prima delle Tre Letture Teologiche, svoltasi ieri nella sala della Conciliazione del Palazzo Lateranense

ROMA, Friday, 18 January 2013 (Zenit.org).
Si dirà che il Concilio più che delle divine verità si è occupato principalmente della Chiesa, della sua natura, della sua composizione, della sua vocazione ecumenica, della sua attività apostolica e missionaria. Questa secolare società religiosa, che è la Chiesa, ha cercato di compiere un atto riflesso su se stessa, per conoscersi meglio, per meglio definirsi, e per disporre di conseguenza i suoi sentimenti ed i suoi precetti.
È vero. Ma questa introspezione non è stata fine a se stessa, non è stata atto di pura sapienza umana, di sola cultura terrena; la Chiesa si è raccolta nella sua intima coscienza spirituale, non per compiacersi di erudite analisi di psicologia religiosa o di storia delle sue esperienze, ovvero per dedicarsi a riaffermare i suoi diritti e a descrivere le sue leggi, ma per ritrovare in se stessa vivente ed operante, nello Spirito Santo, la parola di Cristo, e per scrutare più a fondo il mistero, cioè il disegno e la presenza di Dio sopra e dentro di sé, e per ravvivare in sé quella fede, ch’è il segreto della sua sicurezza e della sapienza, e quell’amore che la obbliga a cantare senza posa le lodi di Dio [1].
Questa lunga citazione dell’Allocuzione con cui papa Paolo VI chiudeva il Concilio Vaticano II esprime la coscienza con cui i Padri conciliari e la Chiesa tutta hanno vissuto un evento, di cui decantare oggi l’attualità non è affermazione di circostanza e celebrare l’anniversario è invece esperienza condivisa di una storia degli effetti dalla portata pervasiva e penetrante.
È manifesta, nelle parole del Papa, la consapevolezza che il tema della Chiesa è stato al centro dell’intenzione e della riflessione del Concilio. Non è difficile trovare riscontro a tale consapevolezza nella ricostruzione dei dibattiti e nell’influsso che la costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen Gentium, promulgata il 21 novembre 1964, ha esercitato sulla stessa vicenda conciliare sia nel corso della sua elaborazione sia successivamente, lungo la medesima sessione conciliare e soprattutto in quella conclusiva del 1965, che ha visto l’approvazione della quasi totalità dei documenti emanati.
Senza tema di sminuire la ricchezza e la varietà dei suoi contenuti, porre il suo insegnamento nell’ottica ecclesiologica fornisce un principio unitario e coerente di intellegibilità del Concilio. Nel rispondere alla domanda: “Chiesa, che cosa dici di te stessa?” esso torna a visitare l’identità e la missione della Chiesa per adempierle con rinnovata fedeltà nel mutato contesto storico.
Molto è stato giustamente detto circa l’inedito carattere pastorale di questo Concilio, ma sarebbe un fraintendimento contrapporlo a quelli del passato sommariamente definendoli dottrinali e disciplinari, poiché come la condanna dell’errore costituiva in altre epoche la forma adeguata per l’esercizio della responsabilità pastorale, così l’assenza di eresie da condannare non ha precluso né limitato, ma ha semmai potenziato, la portata e la fecondità dottrinale e disciplinare del Vaticano II.
In questo Anno della fede risuonano di un’eco speciale le parole di Paolo VI sul bisogno a cui il Concilio ha risposto di «ravvivare in sé quella fede, ch’è il segreto» della Chiesa. L’assise di cinquant’anni fa ha voluto, innanzitutto, ribadire che fede e Chiesa si implicano e presuppongono a vicenda. Non solo non c’è Chiesa senza credenti, ma non si dà nemmeno fede formata che possa essere accolta e vissuta fuori della Chiesa.
Di ciò troviamo risonanza e densità di elementi in tutti i documenti conciliari; ma è soprattutto la Lumen Gentium a racchiuderli e legittimarli organicamente. Proprio la connessione tra fede e Chiesa pone in rilievo un aspetto pregiudiziale nell’approccio alla costituzione conciliare. Esso riguarda l’atteggiamento e la comprensione con cui ciascuno giunge a prendere in considerazione il documento. Non è solo una disposizione spirituale quella che è chiesta, ma un’appropriata attitudine intellettuale.
Parlare della Lumen Gentium chiede di prendere coscienza del modello di Chiesa che ciascuno si è formato e con cui operiamo. Lo chiede non tanto l’esercizio di ascesi intellettuale suggerito dalla circostanza, ma l’onesta considerazione di ciò che un tale documento conciliare rappresenta, e cioè – per dirla ancora con le parole di Paolo VI – la volontà e la possibilità della Chiesa di «ritrovare in se stessa vivente ed operante, nello Spirito Santo, la parola di Cristo, e per scrutare più a fondo il mistero, cioè il disegno e la presenza di Dio sopra e dentro di sé».
Questo ha fatto la Chiesa del Concilio e questo noi torniamo a cercare a distanza di cinquant’anni. Non stiamo a giudicare adesso, se il compito sia stato adempiuto o meno, o in quale misura; conta sapere che l’aver riportato a nuovo splendore l’identità sorgiva e la missione originaria ci rapporta alla Chiesa del Concilio come parte in causa, poiché mette in questione la nostra idea di Chiesa e, con ciò stesso, interpella la nostra stessa autocomprensione credente.
Se il valore e il significato di ciò che il Concilio insegna non ci coinvolgono in ciò che esso intende effettivamente essere – manifestazione della parola di Cristo nella potenza dello Spirito – allora la rivisitazione della Lumen Gentium potrà alpiù accumulare qualche elemento ulteriore di conoscenza o poco più. Ma, più che con elementi aggiuntivi, in realtà noi siamo misurati con la proposta di un modello che chiede un ripensamento del nostro essere credenti e del nostro essere Chiesa, per diventare tali in modo più avvertito e partecipe.
Quale modello di Chiesa presenta la Lumen Gentium?
La domanda solleva molte più questioni di quante risposte lasci intravedere. Il dibattito post-conciliare sta lì a segnalare le animate controversie che sono state suscitate e, se possibile, acuisce l’esigenza di trovare un punto fermo che, senza disperdere i molteplici utili esiti della ricerca, consenta di pervenire a una visione unitaria e coerente. Papa Benedetto XVI, nel famoso discorso alla Curia romana del 2005, ha indicato un principio fondamentale per la corretta interpretazione del Concilio, parlando di «“ermeneutica della riforma”, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa» [2].
Il significato di tale enunciato ha un chiaro fondamento ecclesiologico nella formula “unico soggetto-Chiesa”, che non può essere concepito in senso a-storico, ma nemmeno può essere ridotto a espressione mutevole di processi intesi in termini storicistici. Non è un caso che il contenuto della Lumen Gentium si ponga in netta antitesi con tali fraintendimenti. La natura della Chiesa non consente di isolare nessuno dei momenti della sua vicenda storico-teologica dalla sua origine e dal suo intero dispiegarsi nel volgere del tempo.
Il criterio ermeneutico enunciato da Benedetto XVI presenta implicazioni feconde anche nell’approccio interpretativo a questo  singolo e peculiare documento sulla Chiesa, poiché segnala come – al pari della comunità ecclesiale nel suo insieme –  anche un evento straordinario come un Concilio non possa essere compreso se non nella rete della molteplicità delle relazioni che intrattiene con la vita e la storia tutta della Chiesa, ma anche al proprio interno nell’intreccio tra evento conciliare e testi prodotti.
Così siamo coerentemente condotti a formulare un criterio interpretativo del documento che – in analogia con l’esegesi biblica –  può essere enunciato come “lettura canonica”, che considera il testo nella sua struttura e composizione definite nel testo promulgato. Tale criterio non deve temere di vedere mortificato l’apporto dell’applicazione al testo del metodo storico-critico. La mole di materiali e di studi critici accumulata in questi decenni ha mostrato ampiamente la differenza di sensibilità che si sono intrecciate nell’elaborazione dei documenti e della stessa Lumen Gentium, la quale porta tracce più o meno riconoscibili di approcci teologici diversi se non, per qualche verso, anche contrapposti.
Facile osservare che a inseguire tali divaricazioni si perviene solo alla loro sterile constatazione e, al limite, alla scelta tendenzialmente teologica (se non addirittura ideologica) di preferenza per l’una o per l’altra. Senza insinuare artificiose contrapposizioni, è proprio qui il caso di evidenziare la distinzione tra teologia e dottrina, accomunate senz’altro dalla storicità oltre che dai contenuti del sapere della fede, ma differenziate, nel primo caso,  per la prevalenza della particolarità dell’opzione teorica dettata dai soggetti e dal contesto e, nel secondo, dalla ricerca predominante della risposta al dono della fede accolta nella continuità con l’evento originario e nell’unità della comunione ecclesiale.
Simili considerazioni trovano riscontro negli sviluppi che hanno segnato l’interpretazione della Lumen Gentium nel corso di questi decenni, centrata, di volta in volta, sulle categorie di sacramento, di popolo di Dio, di comunione, per citare solo i passaggi più rilevanti [3]. Sulla rispondenza di tali accentuazioni all’effettualità del testo e all’intenzionalità del Concilio non c’è motivo di discutere; ce n’è invece se prendiamo in considerazione la legittima rivendicazione di altri aspetti di essere tenuti nella dovuta attenzione – o di essi stessi considerati in maniera non esclusiva o unilaterale – per un’integrale comprensione della Chiesa secondo l’insegnamento della Lumen Gentium.
Per queste ragioni, allo scopo di approssimarci al modello di Chiesa che cerchiamo, dobbiamo ragionevolmente attenerci – primo – alla struttura della costituzione dogmatica e – secondo – all’integrità dei suoi contenuti così come essa è uscita dall’approvazione dei Padri conciliari. Ciò comporta due conseguenze. La prima vuole che i temi e il loro ordine organizzativo all’interno del documento siano tenuti nel debito conto. La seconda invita a ripercorrere il dibattito ermeneutico per ritrovare le fila di un tessuto che si tiene insieme e perciò chiede di integrare, e non contrapporre, le categorie di volta in volta messe in evidenza e talora perfino assolutizzate.
La Chiesa ci appare come mistero (cap. I), cioè realtà divino-umana dall’apertura popolare, cioè inclusiva e universale (cap. II), la cui articolazione interna conferisce, sulla base della comune dignità battesimale, una responsabilità sacramentale specifica ai portatori del ministero ordinato (cap. III), ma ugualmente una dignità propria ai laici (cap. IV) e ai religiosi (cap. VI) nell’adempimento di una missione che ha il suo cuore nella chiamata alla santità (cap. V) e nella destinazione escatologica (cap. VII) ; così comprendendosi e vivendo, essa guarda a Maria (cap. VIII) come alla sintesi personale singolare della sua identità e del suo compito.
Lo sviluppo di tale autocomprensione ecclesiologica fa perno sulla categoria di mistero, termine di rara densità biblico-teologica che evoca la radice di tutto nella vita e nell’iniziativa di Dio stesso. Essa ultimamente consiste nella volontà di portare all’essere dal nulla la realtà creata da Dio. La Chiesa non viene compresa se non si trova connessa con questo fondamento nella creazione e nel suo rapporto con essa. La volontà divina di creare l’uomo quale vertice della creazione si spiega con l’intenzione di renderlo partecipe della sua stessa vita; ora una tale partecipazione si compie attraverso il luogo storico della Chiesa. Questa è stata pensata e voluta nell’atto stesso di creare l’uomo per destinarlo alla divinizzazione.
Tale disegno rimane inadeguatamente inteso se non viene colto simultaneamente nella sua configurazione trinitaria. Le categorie ecclesiologiche fondamentali di popolo di Dio, corpo di Cristo e tempio dello Spirito stanno in reciproca e circolare relazione perché l’iniziativa divina vede all’opera unitariamente e distintamente le persone divine. Essere Chiesa e stare nella Chiesa equivale a entrare e intrattenere una relazione vitale con le persone di Dio, singolarmente e insieme, attraverso le forme di cui si alimenta l’identità e l’appartenenza ecclesiale, e cioè la parola, il sacramento, la comunione [4].
A proposito di quest’ultimo riferimento, non può essere sottaciuto che il Sinodo dei Vescovi del 1985, dedicato al Vaticano II, ha centrato la comprensione della sua ecclesiologia attorno alla categoria di comunione [5].
Il dato curioso è rappresentato dalla ricorrenza relativamente irrisoria del termine nei testi conciliari e dalla sua marginalità come concetto esplicito; è importante tuttavia cogliere, proprio in quella operazione ermeneutica, la possibilità di ripensare il modello proposto dal testo conciliare senza legarsi a un letteralismo rigido ma anche senza mai tradirne la lettera e il senso. Anche in questo caso si deve concludere che il criterio decisivo è la compatibilità delle categorie ecclesiologiche conciliari valutate e recepite nel loro insieme.
Semmai, proprio questo esempio permette di ricentrare il focus interpretativo attorno alla categoria di partenza della Lumen Gentium, e cioè mistero, che dice il dimorare della presenza di Dio lungo la storia nel luogo della comunità dei credenti, battezzati e redenti; la comunione appare in tale luce come una variazione espressiva dell’essere e della vita di Dio che la sua iniziativa storico-salvifica immette nel tessuto delle relazioni e della storia degli uomini attraverso quel singolare luogo sociale che è la Chiesa.
La questione da cui siamo partiti ci chiede a questo punto di avviare un confronto serrato e una riflessione adeguata a commisurare il nostro modello di Chiesa con quello che essa stessa ci presenta nella massima istanza della sua manifestazione storico-teologica attraverso l’evento conciliare, e in particolare della costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen Gentium, che occupa in esso un posto centrale e strutturante.
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NOTE SUL SITO

Publié dans:Concilio Vaticano II |on 19 janvier, 2013 |Pas de commentaires »

« UNO DEI TESTI PIÙ IMPORTANTI DEL CONCILIO VATICANO II » (DIGNATIS HUMANAE)

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« UNO DEI TESTI PIÙ IMPORTANTI DEL CONCILIO VATICANO II » (DIGNATIS HUMANAE)

L’intervento di mons. Minnerath al ciclo « Rileggere il Concilio »

di Anne Kurian
ROMA, domenica, 6 maggio 2012 (ZENIT.org) – La libertà religiosa ha le sue origini nel cristianesimo, così ha ribadito giovedì 3 maggio l’arcivescovo di Digione (Dijon, Francia), mons. Roland Minnerath, parlando dell’impatto e dell’attualità della dichiarazione del Concilio Vaticano II, “Dignitatis Humanae”, promulgata da Papa Paolo VI il 7 dicembre 1965.
Il presule è intervenuto alla Pontificia Università Lateranense (PUL) nell’ambito del ciclo “Rileggere il Concilio. Storici e teologi a confronto”, organizzato dal Centro Studi e Ricerche sul Concilio Vaticano II dell’ateneo romano in collaborazione con l’Institut français-Centre Saint-Louis di Roma.
Per mons. Minnerath, la Dignitatis Humanae (DH) è “uno dei testi più importanti del Concilio Vaticano II”. In merito alla libertà religiosa, il documento ha avuto “una incidenza diretta” non solo sui rapporti esterni della Chiesa con gli Stati e con le altre religioni, ma in quelli interni: è diventato infatti una “pietra d’inciampo” per coloro come la Fraternità San Pio X, che si sono chiusi su una posizione estrema e lo ritengono contrario alla Tradizione.
Secondo mons. Minnerath, la Chiesa non può non difendere la libertà di religione. Come ha ricordato il presule, “è sul terreno del cristianesimo che l’idea stessa di ‘libertà di religione’ ha potuto nascere e portare frutti”.
Già all’inizio del III secolo, Tertulliano rivendicava infatti la “libertà di religione” o libertas religionis (cfr. Apologeticum, 24, 6).
E’ stato il cristianesimo – ha proseguito Minnerath – che ha trasformato la religione in una scelta personale, facendo un distinguo tra appartenenza religiosa e appartenenza cittadina, culturale o etnica.
Nel XIX secolo, ha osservato l’arcivescovo di Digione, la libertà di coscienza era intesa come “libertà di non credere”, come “una liberazione rispetto al dogma e alla morale cattolica”.
La libertà di culto era percepita “come un livellamento di tutti i culti da parte dello Stato, conducendo ad una separazione radicale Chiesa-Stato”. Era sinonimo di “relativismo religioso” e persino certi credenti comprendono la libertà religiosa come “libertà individuale di credere e di agire a modo proprio all’interno stesso della Chiesa”.
Ma cosa è la vera libertà religiosa?
Per la DH – ha sostenuto mons. Minnerath -, la libertà religiosa è un diritto fondato su “la dignità stessa della persona umana”. Questa dignità – ha detto il presule – è “àncorata nella natura dell’uomo, creata libera e capace di tendere verso la verità”.
A questo punto, mons. Minnerath ha ricordato che la dottrina centrale della DH si iscrive nell’insegnamento sviluppato a partire da Papa Leone XIII, secondo cui la libertà religiosa debba realizzarsi al riparo di ogni costrizione esterna.
“Il contenuto di una tale libertà è che gli esseri umani devono essere immuni dalla coercizione da parte dei singoli individui, di gruppi sociali e di qualsivoglia potere umano”.
La libertà religiosa è “inseparabile dalla persona, considerata nella sua sostanza inalienabile, e non nelle sue disposizioni psicologiche che cambiano”. Non è un diritto che “permette di decidere qualunque cosa in materia di religione”. L’atto della fede o il credere è infatti “aderire ad un Dio che si rivela, obbedire liberamente alla sua Parola, e non professare una opinione soggettiva”.
Questo diritto – ha continuato l’arcivescovo di Digione – ha implicazioni di carattere comunitario. E lo Stato, essendo “al servizio dell’uomo”, ha l’obbligo di “garantire la libertà dei cittadini nel loro cammino in materia religiosa, garantendo il rispetto dei pari diritti di tutti“ ed evitando due scogli: “non imporre una confessione di fede religiosa e non praticare una ideologia laicista”.
Nella sua affermazione della libertà religiosa, ha detto Minnerath, la DH denuncia “l’assolutizzazione della libertà” che svincola l’uomo “da ogni sudditanza alla legge divina”.
Per la DH – così ha ribadito l’arcivescovo –, c’è comunque “coincidenza” o “accordo” (concordia in latino) con le definizioni delle costituzioni moderne su due punti.
Da un lato, “la libertà dell’atto di fede è considerata come assicurata quando è applicata la libertà civile in materia religiosa”.
Dall’altro lato, “la libertà della Chiesa, per la quale la stessa Chiesa aveva lottato durante i secoli di fronte alle pretese dei poteri temporali, è garantita laddove è assicurata alle persone e alle comunità il diritto comune alla libertà religiosa”, si legge.
Ma “a distanza di cinquant’anni, bisogna constatare che il panorama della libertà religiosa non è quello che sperava il Concilio”, ha osservato il presule.
Infatti, oggi “la libertà religiosa non è più considerata come dimensione ontologica della persona, ma come un diritto derivato dall’ideale del pluralismo democratico”, ha detto verso la fine del suo intervento Minnerath, che avverte in questo caso una concezione “riduttrice” della libertà di religione, perché “conduce alla cancellazione dell’espressione pubblica della religione”.
Ovunque le legislazioni “invadono il terreno della libertà di coscienza e di religione”, imponendo, ad esempio, “delle norme contrarie al rispetto della vita e del matrimonio” e “distruggendo sistematicamente l’antropologia di ispirazione giudeo-cristiana”, ha detto ancora l’arcivescovo francese.
Oggi – osserva Minnerath -, i credenti assistono “impotenti all’avanzata del secolarismo e di religioni che non conoscono la distinzione fondatrice tra quello che ‘è di Cesare e quello che è di Dio’” (Cfr. Mt 22,21).
Ma è proprio questa distinzione – ribadisce il presule – che rende possibile “lo sbocciare delle libertà fondamentali di cui godono le società occidentali”. E come “invenzione del cristianesimo”, essa “rende giustizia alla verità divina e alla libertà delle coscienze, allo Stato di diritto e al pluralismo della società, alla libertà individuale delle persone e alla libertà corporativa della Chiesa”.
“Essa è al cuore – ha concluso Minnerath – della dottrina sociale della Chiesa”.

[Traduzione e rielaborazione dal francese a cura di Paul De Maeyer]

Publié dans:Concilio Vaticano II |on 7 mai, 2012 |Pas de commentaires »

Una gente santa…”(LG 9). La santità del popolo di Dio

http://www.carmelodotolo.eu/una_gente_santa_La_santita_del_popolo_di_Dio.html

Una gente santa…”(LG 9). La santità del popolo di Dio

di Carmelo Dotolo

1. Il significato teologico della categoria di santità

E’ indubbia la difficoltà nel definire la santità, la cui ampiezza di significato rinvia alla multiforme esperienza religiosa che attraversa la storia dell’umanità. Il motivo non risiede solo nella fluidità concettuale del termine che esige una verifica contestuale all’uso, ma anche nella disponibilità della parola a modularsi in differenti modi che potrebbero apparire perfino contrapposti. Non è casuale, infatti, il fatto che il termine santo-santità, sembra non riuscire a corrispondere a lineamenti precisi e individuabili, testimoniato anche da un’ambivalenza originaria che risiede nell’etimologia stessa. E’ sufficiente indicare nella maturità della religione l’espressione indicativa del senso della santità, che si esprime nell’abitare le energie personali dell’uomo? In modo emblematico W. James, sostiene che la santità, pur nella complessità delle sue forme, è presente nella storia delle religioni attraverso una tipologia comune che evidenzia un processo di liberazione interiore e spirituale capace di allontanarsi dagli spazi dell’emozionale e della concentrazione su se stessi.
Eppure, proprio tale configurazione sembra non essere attigua alla elaborazione della fenomenologia della religione, per la quale la santità allude sì ad una dinamica relazione dell’uomo con il divino, ma secondo canoni di purezza che intrecciano il rituale e l’etico. Anzi, la santità si profila come proprietà del divino, estesa come possibilità anche all’esistenza umana, fino a denotare una coincidenza concettuale tra divino e santità. Se poi, la categoria di santità non è altro che una puntualizzazione del concetto di sacro, lo sforzo interpretativo si trova a doversi orientare in uno spazio labirintico. Il motivo risiede nel fatto che il sacro non necessariamente evoca una esperienza specificamente religiosa; anzi, talvolta si presenta come realtà anonima, che intercetta l’uomo nella sua pretesa di gestire l’esistenza, in una interdizione che sollecita la distinzione, se non addirittura la contrapposizione, tra la sfera della vita quotidiana e lo spazio di una realtà altra, la cui funzione è quella di provocare il bisogno di una sospensione della vita stessa. Eppure, anche in presenza di questa ambiguità che traduce l’esigenza di distinguere tra natura e disnatura della religione, il significato della santità sembra oltrepassare l’equivocità del sacro e investirlo della sua capacità di mediazione, a condizione di inscrivere l’esperienza religiosa nella qualità relazionale tra la manifestazione del divino e la recezione dell’uomo.
A ragione sottolinea H. Bouillard: «Quando il sacro, sciolto dal suo riferimento al divino, al “totalmente altro”, è assolutizzato in se stesso, assorbe in sé l’essere e il valore. Il profano è allora rigettato dalla parte dell’irreale, dell’illusorio, dell’impuro […] L’uomo moderno, che vuole essere il soggetto e l’agente di questa storia, il creatore della sua propria cultura e della sua personalità, considera il sacro come un ostacolo alla sua libertà, come una causa di alienazione. E ha ragione là dove l’uomo religioso dimentica il carattere relativo del sacro, la sua posizione mediana e intermediaria tra l’uomo e il divino. Alienante non è la trascendenza, ma l’assolutizzazione del sacro, soprattutto quando è socialmente istituita».
La trama intrecciata del significato di santità è sottesa anche alla riflessione teologica, nella quale va tenuta presente la molteplicità dei livelli di comprensione con i quali è stata narrata nella tradizione cristiana. Senza entrare nel conflitto delle interpretazioni e dei modelli rappresentativi, la categoria santità sembra connotarsi per un carattere di eccezionalità, sebbene sia difficile coglierne agevolmente il proprium, a motivo della pluralità dei paradigmi che ne traducono l’intenzionalità di pienezza della realizzazione umana e cristiana dell’esistenza dinanzi a Dio. Tale intenzionalità richiede la necessità di andare oltre il dato fenomenologico-culturale che assegna alla figura del santo ruoli e responsabilità differenti secondo determinate visioni della realtà religiosa e teologale, ed indica l’istanza di penetrare teoreticamente le caratteristiche della santità, sapendo discernere determinate ermeneutiche della santità che assumono categorie spirituali e di perfezione su moduli standardizzati.
E’ condivisibile quanto annota B. Secondin: «Forse non si leggono più le vite dei santi scritte alla vecchia maniera: ma certamente si continua a venerarli alla vecchia maniera, si cercano ancora – almeno a livello di narrazioni popolari, di tipo prevalentemente orale – i segni dello straordinario, del taumaturgo, dell’uomo di Dio investito di potere quasi magico. Nel popolo comune mi pare che permane la concezione del santo come uno che “fa grazie”, uno che si può prendere cura dei nostri guai, uno da rendersi anche amico con gesti e visite per avere favori e fortuna».

Publié dans:Concilio Vaticano II, Teologia |on 22 mars, 2012 |Pas de commentaires »

LA PAROLA DI DIO NELLA CHIESA : LA RIVERLAZIONE

dal sito:

http://www.dimanet.it/html/bibbia/LaBibbia.htm

LA PAROLA DI DIO NELLA CHIESA

Dalla Costituzione dogmatica
del Concilio Ecumenico Vaticano II
sulla divina rivelazione
 
La rivelazione
 
Dio, il quale crea e conserva tutte le cose per mezzo del Verbo, offre agli uomini nelle cose create una perenne testimonianza di Sé, e inoltre, volendo aprire la via della soprannaturale salvezza, fin dal principio manifestò Se stesso ai progenitori. Dopo la loro caduta con la promessa della redenzione, li risollevò nella speranza della salvezza ed ebbe assidua cura del genere umano, per dare la vita eterna a tutti coloro i quali cercano la salvezza con la perseveranza nella pratica del bene (cfr. Rm 2,1-7).
A suo tempo chiamò Abramo, per fare di lui un gran Popolo, che dopo i Patriarchi ammaestrò per mezzo di Mose e dei Profeti affinché lo conoscessero come il solo Dio vivo e vero, Padre provvido e giusto giudice e stessero in attesa del Salvatore promesso, preparando in  tal modo lungo i secoli la via al Vangelo. Dopo aver Iddio, a più riprese e in più modi, parlato per mezzo dei Profeti, “alla fine nei giorni nostri, ha parlato a noi per mezzo del Figlio”(Eb 1, l-2). Mandò infatti suo Figlio, cioè il Verbo eterno, che illumina tutti gli uomini, affinché dimorasse tra gli uomini e ad essi spiegasse i segreti di Dio(cfr. Gv1,1-18).
Gesù Cristo dunque, Verbo fatto carne, mandato come uomo agli uomini «parla le parole di Dio»  (Gv 3, 34) e porta a compimento l’opera di salvezza affidatagli dal Padre (cfr. Gv 5, 36; 17, 4). Perciò Egli, vedendo il quale si vede anche il Padre (cfr Gv 14, 9), col fatto stesso della sua presenza e con la manifestazione  di Sé, con le parole e con le opere, con i segni e con i miracoli e specialmente con la sua morte e la sua risurrezione di tra i morti, e infine con l’ invio dello Spirito Santo compie e completa la rivelazione e la corrobora con la testimonianza divina, che cioè Dio è con noi per liberarci dalle tenebre del peccato e della morte e risuscitarci per la vita eterna.
L’economia cristiana, dunque, in quanto e alleanza nuova e definitiva, non passerà mai, e non è da aspettarsi alcuna altra rivelazione pubblica prima della manifestazione gloriosa del Signore nostro Gesù Cristo (cfr. 1 Tm 6, Tt 2, 13). La Sacra Tradizione . e la Sacra Scrittura sono strettamente tra loro congiunte e comunicanti.
Poiché ambedue scaturiscono dalla stessa divina sorgente, esse formano in certo qual modo una cosa sola e tendono allo stesso fine. Intatti, la Sacra Scrittura è parola di Dio in quanto scritta per ispirazione dello Spirito di Dio; la Sacra Tradizione poi trasmette integralmente la parola di Dio, affidata da Cristo Signore e dallo Spirito Santo agli Apostoli, ai loro successori, affinché, illuminati dallo Spirito di verità, con la loro predicazione fedelmente la conservino la espongano e la diffondano; accade così che la Chiesa attinge la certezza su tutte le cose rivelate non dalla sola Scrittura. Perciò l’una e l’altra devono essere accettate con pari sentimento di pietà e riverenza.
La Sacra Tradizione e la Sacra Scrittura costituiscono un solo sacro deposito della parola di Dio affidato alla Chiesa, e nell’adesione ad esso tutto il popolo santo, unito ai suoi Pastori, persevera assiduamente nell’insegnamento degli Apostoli e nella comunione fraterna, nella frazione del pane e nelle orazioni (cfr. At 2, 42 gr.), in modo che, nel ritenere, praticare e professare la fede trasmessa, concordino i Presuli e i fedeli.
L’ufficio poi d’interpretare autenticamente la parola di Dio scritta o trasmessa è affidato al solo Magistero vivo della Chiesa, la cui autorità è esercitata nel nome di Gesù Cristo. Il quale Magistero però non è superiore alla parola di Dio ma ad essa serve, insegnando soltanto ciò che è stato trasmesso, m quanto, per divino mandato e con l’assistenza dello Spirito Santo, piamente ascolta, saggiamente custodisce e fedelmente espone quella parola, e da questo unico deposito della fede attinge tutto ciò che propone da credere come rivelato da Dio.
È chiaro dunque che la Sacra Tradizione, la Sacra Scrittura e il Magistero della Chiesa, per sapientissima disposizione di Dio, sono tra loro talmente connessi e congiunti da non potere indipendentemente sussistere, e tutti insieme, secondo il proprio modo, sotto l’azione di un solo Spirito Santo, contribuiscono efficacemente alla salvezza delle anime.
 
L’ispirazione divina e 1′interpretazione della Sacra Scrittura
Le verità divinamente rivelate, che nei libri della Sacra Scrittura sono contenute ed espresse, furono scritte per ispirazione dello Spirito Santo. La Santa Madre Chiesa, per fede apostolica, ritiene sacri e canonici tutti interi i libri sia dell’Antico che del Nuovo Testamento, con tutte le loro parti, perché scritti per ispirazione dello Spirito Santo (cfr. Gv 20,31; 2 Tm 3, 16; 2 Pt 1, 19-21; 3, 15-16), hanno Dio per autore e come tali sono stati consegnati alla Chiesa.
Per la composizione dei Libri Sacri, Dio scelse e si servì di uomini nel possesso delle loro facoltà e capacità, affinché, agendo Egli in essi e per loro mezzo», scrivessero, come veri autori, tutte e soltanto quelle cose che Egli voleva fossero scritte. Poiché dunque tutto ciò che gli autori ispirati o agiografi asseriscono è da ritenersi asserito dallo Spirito Santo, è da ritenersi anche per conseguenza, che i libri della Scrittura insegnano con certezza, fedelmente e senza errore la verità che Dio per la nostra salvezza volle fosse consegnata nelle Sacre Lettere.
Pertanto “ogni Scrittura divinamente ispirata è anche utile per insegnare, per convincere per correggere, per educare alla giustizia, affinché l’uomo di Dio sia perfetto, addestrato a ogni opera buona” (2 Tm 3, lb-1/ gr.). Poiché Dio nella Sacra Scrittura ha parlato per mezzo di uomini e alla maniera umana », l’interprete della Sacra Scrittura, per capir bene ciò che Egli ha voluto comunicarci deve ricercare con attenzione che cosa gli agiografi in realtà abbiano inteso significare e a Dio è piaciuto manifestare con le loro parole. Per ricavare l’intenzione degli agiografi, si deve tener conto tra l’altro, anche dei generi letterari.
La verità infatti viene diversamente proposta ed espressa nei testi in varia maniera storici, o profetici, o poetici, o con altri modi di dire. È necessario dunque che l’interprete ricerchi il senso che l’agiografo intese di esprimere ed espresse in determinate circostanze, secondo la condizione del suo tempo e della sua cultura, per mezzo dei generi letterari allora in uso.
Per comprendere infatti nel loro giusto valore ciò che l’autore sacro volle asserire nello scrivere, si deve far debita attenzione sia agli abituali e originari modi di intendere, di esprimersi e di raccontare vigenti ai tempi dell’agiografo, sia a quelli che allora erano generalmente in uso in rapporti umani.
Però, dovendo la Sacra Scrittura esser letta e interpretata con l’aiuto dello stesso Spirito mediante il quale è stata scritta, per ricavare con esattezza il senso dei sacri testi, si deve badare con non minore diligenza al contenuto e alla unità di tuta la Scrittura, tenuto debito conto della viva Tradizione di tutta la Chiesa e dell’analogia della fede.
È compito degli esegeti contribuire secondo queste norme alla più profonda intelligenza ed esposizione del senso della Sacra Scrittura fornendo i dati previi, dai quali si maturi il giudizio della Chiesa. Quanto infatti, e stato qui detto sul modo di interpretare la Scrittura, è sottoposto in ultima istanza al giudizio della Chiesa, la quale adempie il divino mandato e ministero di conservare e interpretare la parola di Dio.
Nella Sacra Scrittura dunque, restando sempre intatta la verità e la Santità di Dio, si manifesta l’ammirabile condiscendenza dell’eterna Sapienza « affinché possiamo apprendere l’ineffabile benignità di Dio e quanto Egli, sollecito e provvido nei riguardi della nostra natura, abbia contemperato il suo parlare ». Le parole di Dio infatti, espresse con lingue umane, si sono fatte simili al parlare dell’uomo, come già il Verbo dell’Eterno Padre, avendo assunto le debolezze della umana natura, si fece simile all’uomo.
 

Publié dans:Concilio Vaticano II |on 28 avril, 2011 |Pas de commentaires »

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