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COMMENTO AL BRANO DI ISAIA 2, 1-5 (prima lettura)

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COMMENTO AL BRANO DI ISAIA 2, 1-5

Pubblicato da Fausto Ferrari

Comunità S. Egidio

Il profeta Isaia ci parla di un mondo in cui regna la pace, in cui tutti i popoli vanno « verso il monte del Signore ». E oggi siamo riuniti per pregare insieme per la pace in tutte le terre. La preghiera ci raccoglie e ci sostiene in una via di pace.
La nostra domanda di pace non viene dal desiderio egoista di preservare il nostro benessere:
come se, succeda quello che succeda, volessimo comunque restare fuori dal problemi e dalle difficoltà di chi vive situazioni di guerra e di violenza. Non c’è un desiderio egoistico di tirarci fuori dalle responsabilità di un aiuto, di una solidarietà, di una vicinanza. La nostra domanda di pace viene dal constatare che tanti, troppi, conflitti sono ancora aperti. E non si fa niente o molto poco per chiuderli, per trasformare « le spade in vomeri » e « le lance in falci », come dice il passaggio del profeta Isaia. Sono i conflitti che si svolgono in tanti Paesi di questo mondo.
Purtroppo la guerra è ancora una realtà in tante parti. Li bisogna intervenire con generosità e con intelligenza, perché la vita di tanti popoli non sia ingoiata da un mostro che tante volte sembra ingovernabile o invincibile. C’è tanto lavoro per gli « uomini di buona volontà ». In tanti Paesi, nel Sud e nel Nord del mondo, si vive preoccupati per il proprio futuro. Anche perché, con il passare degli anni, ci si rende conto che niente di solido è stato costruito nelle relazioni internazionali. Forse abbiamo sprecato quella occasione di costruire un mondo di pace che in certi momenti ci era stata offerta. Ed oggi, purtroppo, la guerra è diventata una realtà diffusa un po’ ovunque come un’oscura malattia.
Com’è possibile un mondo senza guerra? Molti affermano che è impossibile, dicendo che bisogna essere realisti. E aggiungono magari che ci si deve abituare alla guerra, all’uso della forza bellica. Sì, lo sappiamo: il mondo non è ideale. Ci sono minacce di guerra, c’è l’uso del terrorismo, si costruiscono arsenali di morte che finiscono in mani irresponsabili per sete di guadagno degli uni e per follia degli altri. Il mondo è pieno di covi di violenza.
Eppure, la profezia di Isaia che ci parla di un mondo di pace non è solo un sogno. Essa ci indica una strada percorribile. Ed il Signore stesso ci invita a liberarci dal pessimismo e dalla rassegnazione. Le difficoltà del nostro tempo, le minacce, il terrorismo, i regimi bellicosi, i tanti conflitti aperti non sono per noi l’ultima parola.
Il profeta Isaia, in un’epoca antica, segnata anch’essa da tante guerre e conflitti di ogni genere, alzò sul mondo una parola di pace. La nostra preghiera di oggi vuole essere come quell’ »alto monte » di cui parla il profeta, sul quale si costruisce « il tempio del Signore » e a cui « affluiscono tutte le genti ». Non siamo soli nella preghiera. Siamo in comunione con tanti che hanno raccolto in tutto il mondo la stessa intenzione di preghiera e che hanno dato lo stesso appuntamento in tanti Paesi diversi. Davvero siamo su un alto monte cui « affluiscono tutte le genti ».
Questo ci dà la forza e l’audacia per guardare il futuro nostro e dell’umanità. Non è un compito troppo difficile o che spetta solo al potenti, ma è responsabilità di tutti. La preghiera ci chiede di allargare i confini del nostro cuore per ascoltare la voce dei molti popoli che ci invitano a salire oltre noi stessi per chiedere al Signore di indicarci le sue vie e i suoi sentieri.
La parola di Dio ci indica un cammino, lo illumina come una lampada che risplende anche nei tanti luoghi della terra oscurati della guerra. Noi non abbiamo paura di camminare su questa strada di pace. Sappiamo di non essere soli e di incontrare in questo cammino le attese di tanti. E in questa giornata in cui la Chiesa Cattolica celebra la giornata mondiale per la pace ci facciamo prossimi e solidali alla voce di Giovanni Paolo Il, che si è levata contro la cultura della guerra.
L’anno scorso abbiamo celebrato il quarantesimo anniversario della prima enciclica sulla guerra da parte di un papa, quella del Beato Giovanni XXIII, la Pacem in terris, cioè « la pace in tutte le terre ». Giovanni XXIII non si rassegnò alla cultura della guerra inevitabile, nonostante che il mondo fosse carico della minaccia nucleare. La pace non è impotenza; non è egoismo pauroso: e un nuovo nome, un nome eterno, dell’impegno per l’uomo. Questa è la realtà! La pace – diceva Giovanni XXIII – è un « bene comune universale », che appartiene al mondo intero. D’altra parte la guerra – ne siamo convinti – è un male che rischia di contagiarsi ben al di là di quelli che si combattono. Per questo ogni avventura di guerra ci trova pensosi, come ogni esperienza di conflitto ci trova impegnati a cercare la via d’uscita.
Ancora una volta, la nostra preghiera vuole attingere a queste parole impegnative: Pacem in terris! Pace in tutte le terre! E vogliamo unire la nostra voce a quella del Papa Giovanni Paolo Il, che ha fatto sua – in tante occasioni e di fronte a tante minacce – la voce del suo predecessore. E’ la richiesta che viene certamente dal cuore della Chiesa cattolica; ma non solo. E’ una richiesta che condividono i cristiani di tutto il mondo. E sale anche da altre religioni, da tanta gente ragionevole in ogni parte del mondo. E’ la richiesta della pace in tutte le terre!
Per questo oggi alziamo la nostra preghiera e diciamo che la pace è possibile. Oggi comprendiamo meglio che la visione del profeta di un’umanità che trasforma strumenti di guerra e di morte in strumenti di lavoro e di pace non è un sogno irrealizzabile. Come credenti ci rivolgiamo con fiducia al Signore. Sappiamo che Dio ha pensieri di pace e aiuterà e sosterrà l’opera degli operatori di pace.

 

MEDITAZIONE QUOTIDIANA – DOMENICA – 31.A DOMENICA TEMPO ORDINARIO

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MEDITAZIONE QUOTIDIANA – DOMENICA – 31.A DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Parola – Prima lettura Sap 11, 22 – 12,2
Signore… Hai compassione di tutti, perché tutto puoi, chiudi gli occhi sui peccati degli uomini, aspettando il loro pentimento… Tu sei indulgente con tutte le cose, perché sono tue, Signore, amante della vita. Poiché il tuo spirito incorruttibile è in tutte le cose. Per questo tu correggi a poco a poco quelli che sbagliano e li ammonisci ricordando loro in che cosa hanno peccato, perché, messa da parte ogni malizia, credano in te, Signore.

Riflessione
L’uomo si allontana da Dio, ma Dio non lo abbandona mai perché egli è misericordia ed ha compassione di tutti. Mettiti nell’alveo della vita e troverai il Signore, Dio amante della vita. Sei posseduto dall’invidia? Gioisci per il successo degli altri e troverai il Dio della gioia! Sei preso dall’odio? Liberati, perché sei posseduto dalla morte. Sei preso dall’indifferenza? Scendi nel fosso dove giace la vittima dei ladroni, caricati la vittima sulle spalle e portala all’ospedale. Allora incontrerai il Dio della salvezza, il Salvatore che
ha sempre l’iniziativa verso tutti. Hai ricevuto dei torti e l’altro continua a sfruttarti? Sta’ vicino a lui continuando a servirlo, pagherai di persona la sua cattiveria, lo libererai, e l’altro incontrerà la vita. Espiando, pagherai di persona il male degli altri, ma gli altri incontreranno in te il Dio della vita perché vedranno te che cammini con il Dio della vita! Mettiti dalla parte della misericordia: troverai il Dio che si commuove sulla miseria!

Parola – Seconda lettura 2Ts 1, 11 – 2,2
Fratelli, preghiamo continuamente per voi, perché il nostro Dio vi renda degni della sua chiamata e, con la sua potenza, porti a compimento ogni proposito di bene e l’opera della vostra fede, perché sia glorificato il nome del Signore nostro Gesù in voi, e voi in lui…

Riflessione
Com’è bello capire questo: quanto più il nostro limite si evidenzia, tanto più la potenza di Cristo cammina e opera non secondo le regole dell’intelligenza umana, ma secondo le regole di un amore che viene da lui, dallo Spirito Santo che l’ha diffuso nei nostri cuori (Rom 5,5). C’è una speranza diversa dentro di noi. Non possiamo considerare solo le forze psichiche della persona: c’è un mistero di grazia dove la Trinità opera le meraviglie del suo amore. Se noi perdiamo questa dimensione, non capiremo mai. Manifestiamo al mondo il mistero di grazia nel quale siamo!

Parola – Vangelo Lc 19, 1-10
In quel tempo, Gesù entrò nella città di Gèrico e la stava attraversando, quand’ecco un uomo, di nome Zacchèo… per riuscire a vederlo, salì su un sicomòro… «Zacchèo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua». Scese in fretta e lo accolse pieno di gioia… «Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto». Gesù gli rispose: «Oggi per questa casa è venuta la salvezza… ».

Riflessione
Gesù è venuto a riprendere in mano ciò che era perduto, a riscattare. Non ti devi mai fermare sul peccato del tuo fratello, sul suo difetto! Non ti devi fermare sul male che uno ha fatto, sul suo errore! Il peccato del tuo fratello diventa un’occasione per amarlo di più, per cercarlo. Il suo difetto, il suo limite, segna l’inizio della tua responsabilità. Se tu vedi che si perde, fai tutto il possibile; se vedi che si allontana, lo cerchi, perché lo ami e quindi lo conosci. Nella misura in cui tu ami, metti la tua spalla sotto la croce del tuo fratello perché tu vuoi la sua salvezza, perché ami secondo il cuore di Dio. Dio vuole la conversione del peccatore e che egli si salvi; Dio non vuole la morte del peccatore: andate, siate i missionari di questo amore!

COMMENTO A LUCA 18,1-8

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COMMENTO A LUCA 18,1-8

In quel tempo, 1 Gesù disse ai suoi discepoli una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi: 2 « C’era in una città un giudice, che non temeva Dio e non aveva riguardo per nessuno. 3 In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: Fammi giustizia contro il mio avversario.
4 Per un certo tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: Anche se non temo Dio e non ho rispetto di nessuno, poiché questa vedova è così molesta 5 le farò giustizia, perché non venga continuamente a importunarmi ».
6 E il Signore soggiunse: « Avete udito ciò che dice il giudice disonesto. 7 E Dio non farà giustizia ai suoi eletti che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà a lungo aspettare? 8 Vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra? ».

COMMENTO
Luca 18,1-8
Parabola del giudice e della vedova
Questa parabola, riportata solo da Luca, si trova nella sezione in cui narra il viaggio di Gesù verso Gerusalemme (Lc 9,51 – 19,27) e più specificamente nella sua seconda parte (13,22 – 18,30). Essa si colloca all’interno di una raccolta di detti (17,11 – 18,14) a carattere escatologico che inizia con l’episodio dei dieci lebbrosi guariti (17,11-19) e prosegue con un brano chiamato «piccola apocalisse», perché riguarda l’avvento finale del regno (17,20-37: cfr Mc e Q); infine sono riportate due parabole, quella appunto del giudice e della vedova (18,1-8) e quella del fariseo e del pubblicano (18,9-14), che sottolineano ambedue l’importanza della preghiera perseverante per l’attuazione del regno.
Il racconto parabolico inizia con un versetto redazionale nel quale si dice che Gesù «disse loro una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi» (v. 1). Questa introduzione ha lo scopo di collegare la parabola con la «piccola apocalisse» precedente, suggerendo un comportamento adatto al tempo dell’attesa. La preghiera costante è necessaria affinché, a causa del prolungarsi del tempo che separa la prima dalla seconda venuta di Gesù, non si raffreddi la fede dei credenti. In realtà la parabola non punta sulla necessità della preghiera, ma sulla fiducia in Dio che, nonostante il ritardo, farà giustizia ai suoi fedeli.
Dopo l’introduzione vengono delineate le caratteristiche dei due protagonisti della parabola, il giudice e la vedova: «C’era in una città un giudice, che non temeva Dio e non aveva riguardo per nessuno. In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: Fammi giustizia contro il mio avversario» (vv. 2-3). Il giudice è descritto in modo breve e incisivo come la figura tipica dell’empio, che non teme Dio e non si cura del suo prossimo. Anche la vedova viene descritta in modo conciso. Il lettore sa che le vedove, insieme agli orfani, rappresentano una categoria indifesa e esposta all’oppressione, perché prive di protezione contro gli sfruttatori e i prepotenti (cfr. Es 22,21-23; Is 1,17.23; 9,16; Ger 7,6; 22,3). La protagonista del racconto appartiene a questa categoria, ma non è disposta ad accettare il sopruso di cui è vittima, perciò si rivolge al giudice per avere giustizia.
Nonostante la malavoglia del giudice, le insistenze della donna hanno successo: «Per un certo tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: Anche se non temo Dio e non ho rispetto di nessuno, poiché questa vedova è così molesta le farò giustizia, perché non venga continuamente a importunarmi» (vv. 4-5). Il giudice non vorrebbe interessarsi di un caso per lui totalmente insignificante e rimanda a tempo indeterminato il suo intervento. Ma la donna non si rassegna alla situazione e fa ricorso all’unica arma in suo possesso, l’insistenza. Alla fine il giudice, se non altro per liberarsi di tale molestia, cede e fa giustizia (ekdikeô) alla donna: ciò che prevale in lui non è il senso del dovere, ma il desiderio di non essere più importunato.
Alla fine Gesù propone la sua interpretazione della parabola. Egli si introduce richiamando l’attenzione dei discepoli non tanto sull’insistenza della donna, a cui sembrava rimandare l’introduzione, ma piuttosto sul giudice: «E il Signore soggiunse: Avete udito ciò che dice il giudice disonesto?» (v. 6). È l’atteggiamento del giudice il punto sul quale Gesù fa leva per illustrare il comportamento di Dio. Egli esprime il suo punto di vista con una domanda: «Ma Dio non farà giustizia per i suoi eletti che gridano a lui giorno e notte?» (v. 7a). A questa domanda si aspetta una risposta abbastanza ovvia: «Certamente sì». In base al metodo rabbinico chiamato qal wahomer (ragionamento a fortiori), egli afferma che, se un giudice, per di più empio, alla fine si decide a fare giustizia alla vedova, maggior ragione Dio farà farà giustizia per i suoi eletti, dal momento che è un Padre premuroso e giusto. Lespressione «fare giustizia (ekdikêsin)», usata sia per il giudice che per Dio, significa difendere i diritti di una persona, darle ragione, garantirle quello che le spetta. Per gli eletti, anche quando non sono oggetto di persecuzione, ciò significa proclamare pubblicamente, mediante l’attuazione piena del regno, che le loro scelte erano giuste e conformi alla volontà di Dio. Proprio la certezza che ciò avverrà rappresenta il punto saliente della parabola.
Gesù poi prosegue con una frase che è solitamente tradotta come una seconda domanda: «E tarderà nei loro riguardi?» (v. 7b). In questo caso la risposta che ci si aspetta è negativa: «Certamente no». Gesù risponderebbe che il tempo dell’attesa sarà breve: Dio farà presto giustizia agli eletti che gridano a lui. Questa idea però non è in sintonia con quanto l’evangelista intende dire nel suo vangelo, e cioè che la venuta finale del regno di Dio non è imminente. Perciò è più conveniente leggere queste parole non come una domanda, ma come una frase concessiva: «Anche se egli ha pazienza (makrothymei) con loro». Questa interpretazione è più verosimile: Gesù esorta gli eletti a non spaventarsi per il fatto che Dio tarda a intervenire. Dio ha pazienza, prende tempo, ma al momento opportuno interverrà. Secondo un tema diffuso nel giudaismo e negli scritti del Nuovo Testamento Dio ritarda il suo giudizio perché vuole dare a tutti la possibilità di convertirsi (cfr. Sap 12,9-10; 15,1; Rm 2,4). I discepoli perciò non devono perdersi d’animo, ma piuttosto prepararsi alla sua venuta con una preghiera costante.
Gesù conclude rassicurando i suoi discepoli: «Dio farà giustizia con celerità (en tachei)» (v. 8a). Così tradotta, questa frase appare come la conferma esplicita che Dio non farà aspettare i suoi eletti, ma interverrà quanto prima in loro aiuto.. Se si accetta però che il v. 7b abbia un significato concessivo, allora è chiaro che Gesù riafferma qui non tanto l’imminenza, quanto piuttosto la certezza dell’intervento divino in favore dei giusti. L’espressione en tachei non significa perciò «con celerità», ma «improvvisamente». In altre parole il ritardo della parusia è una realtà con cui bisogna fare i conti, nella certezza che Dio, dopo aver lungamente pazientato, interverrà quando meno gli uomini se lo aspettano e farà giustizia ai suoi eletti.
L’ultima frase del brano è piuttosto misteriosa: «Tuttavia, il Figlio dell’uomo, venendo, troverà ancora la fede sulla terra?» (v. 8b). Il modo migliore per rendere ragione di questa domanda è di interpretarla come un’aggiunta redazionale che ha lo scopo di inculcare la perseveranza nella fede. Il ritardo della parusia, l’ostilità e le persecuzioni crescenti avevano provocato un raffreddamento nella fede dei credenti. La comunità deve quindi ritornare a un genuino atteggiamento di vigilanza, perché Gesù al suo ritorno non la trovi impreparata. La salvezza è un dono gratuito, tuttavia non sarà ottenuta automaticamente, bensì in seguito a una dura lotta, che comporta il rischio di un fallimento anche abbastanza generalizzato.

Linee interpretative
Le parole con cui è introdotta la parabola attestano che originariamente essa veniva usata per inculcare la necessità di pregare in modo costante e fiducioso. Questo taglio di lettura fa leva sull’atteggiamento della vedova, che non si scoraggia per i rifiuti ricevuti e alla fine, con la sua insistenza, ottiene ciò che le sta a cuore.
Nella sua forma attuale invece la parabola è utilizzata per spiegare il ritardo della parusia, un problema tipico della comunità di Luca e della chiesa primitiva,. Richiamando il comportamento del giudice iniquo che, nonostante un lungo ritardo interviene a favore della vedova insistente, il parabolista esorta a mettere in conto un lungo periodo di attesa, sottolineando che anch’esso ha una sua ragione di essere. Se il Signore ritarda, ciò è segno non di indifferenza, ma di misericordia, perché Dio vuole dare a tutti una possibilità di convertirsi. Tuttavia, anche se il tempo e il luogo della venuta del Signore rimangono sconosciuti, è certo che ritornerà: perciò bisogna aspettarlo con fede umile e perseverante. Il credente non deve quindi prendere il ritardo della parusia come scusa per lasciarsi andare agli affari mondani, cadendo così nell’apatia spirituale e nel torpore.
Nel tempo dell’attesa gli eletti devono invece continuare a gridare giorno e notte per ottenere che Dio faccia loro giustizia, anche se ciò avverrà solo quando Dio lo crederà opportuno. La loro preghiera ha dunque come oggetto la venuta finale del regno di Dio, inteso come un regno di giustizia e di pace per tutta l’umanità. Con la sua preghiera insistente deve chiedere a Dio che questa giustizia escatologica sia già anticipata nell’oggi, diventando una dimensione costante della vita comunitaria e un segno dei tempi nuovi inaugurati da Cristo. Ciò implica naturalmente un impegno personale perché tale giustizia si attui veramente. Secondo Luca il tempo che separa la seconda dalla prima venuta di Gesù deve essere il tempo dell’annunzio evangelico a tutte le genti. La parabola del giudice e della vedova mette in luce come questo annunzio avvenga soprattutto mediante l’impegno perché tutti abbiano ciò che loro compete all’interno di rapporti vicendevoli ispirati a solidarietà e condivisione.

COMMENTO AL VANGELO DI LUCA 17,11-19

https://it.zenit.org/articles/grazie-alla-vita/

COMMENTO AL VANGELO DI LUCA 17,11-19

XXVIII Domenica del Tempo Ordinario, 10 ottobre 2010

8 OTTOBRE 2010 REDAZIONE PAROLA E VITA

di padre Angelo del Favero*

ROMA, venerdì, 8 ottobre 2010 (ZENIT.org).- “Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samaria e la Galilea. Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: “Gesù, maestro, abbi pietà di noi!”. Appena li vide, Gesù disse loro: “Andate a presentarvi ai sacerdoti”. E mentre essi andavano, furono purificati. Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano. Ma Gesù osservò: “Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?”. E gli disse: “Alzati e va’; la tua fede ti ha salvato!” (Lc 17,11-19).

La Bibbia raggruppa sotto il nome di “lebbra” svariate malattie della pelle, la più grave delle quali è la lebbra vera e propria, il terribile morbo che, nell’immaginario comune, più di ogni altra malattia può sfigurare il volto umano.
Il Vangelo ci presenta oggi un gruppo di dieci lebbrosi, che si fanno incontro a Gesù con timore e tremore, consapevoli del rischio di trasmettergli la loro impurità, cosa che comportava tassativamente l’esclusione dal culto e dalla società. Essi perciò si fermano a debita distanza, invocando pietà ad una sola voce: “Gesù, maestro, abbi pietà di noi!” (Lc 17,13).
A quel tempo si credeva che la lebbra fosse una punizione divina, e che il tempo definitivo della salvezza sarebbe stato inaugurato dalla sua scomparsa: la guarigione operata da Gesù annunciava, perciò, l’inizio di tale compimento messianico. In effetti, Gesù congeda il samaritano guarito dicendogli: “Alzati e va’: la tua fede ti ha salvato” (Lc 17,19); ed ecco: più in profondità delle piaghe scomparse, il cuore di questo straniero è toccato dal Signore, che da lebbroso lo trasforma in discepolo, visto e lodato l’umile gesto della sua adorazione riconoscente.
Così, tre anni fa, papa Benedetto commentava questo Vangelo: “In verità, la lebbra che realmente deturpa l’uomo e la società è il peccato; sono l’orgoglio e l’egoismo che generano nell’animo umano indifferenza, odio e violenza. Questa lebbra dello spirito, che sfigura il volto dell’umanità, nessuno può guarirla, se non Dio, che è Amore. Aprendo il cuore a Dio, la persona che si converte vien sanata interiormente dal male.” (Benedetto XVI, Angelus, 14/10/2007).
Possiamo ora domandarci quale significato può avere il fatto che l’evangelista precisa il numero dei lebbrosi guariti (dieci). Dieci sono le Parole del Decalogo, che Dio rivolge direttamente al popolo interpellandolo con il “tu” (Es 20): dieci comandamenti scolpiti sulla pietra del Sinai per regolare la condotta religiosa e morale non solo del popolo di Israele, ma anche di ogni uomo.
Le Dieci Parole, infatti, costituiscono l’espressione fondamentale della legge naturale, “ scritta e scolpita nell’animo di tutti e di ciascun uomo, poiché essa non è altro che la stessa ragione umana che ci comanda di fare il bene e ci intima di non peccare” (Giovanni Paolo II, Enciclica “Veritatis splendor”, n. 44).
Perciò il numero dieci orienta lo sguardo verso la profondità della persona, là dove Dio ha lasciato l’uomo “in mano al suo consiglio” (Sir 15,14; cfr Veritatis Splendor, n. 39). Questo luogo interiore è il sacrario della coscienza, in cui l’uomo entra in contatto con la Verità che lo salva e lo fa essere veramente libero.
A queste fondamentali dieci Parole, Dio (se posso dir così) ne ha aggiunto un’altra: la parola “grazie”. E’ il dono dell’inclinazione del cuore alla riconoscenza.
A dire il vero, l’esempio contrario e paradigmatico dei nove lebbrosi ingrati, sembra negare questa mia affermazione. In effetti, molto spesso vediamo che nemmeno la dura scuola della sofferenza riesce a suscitare nell’uomo lo stupore umile e riconoscente per il dono della vita, aprendogli il cuore a quella fondamentale verità personale che è la dipendenza nell’amore da Dio, suo Creatore e Padre. Ma se ciò accade è per il fatto che il peccato di orgoglio e di egoismo inquinano la purezza originale della coscienza, accecandola e deturpandola al punto da renderla irriconoscibile come il volto di un lebbroso, e così essa perde la riconoscenza come atteggiamento profondo naturale.
Ecco una mia piccola testimonianza al riguardo. Stamane, subito dopo aver dato il Corpo del Signore ad un giovane, ho accarezzato il volto del bambino che mi fissava dalle sue braccia (avrà avuto forse un anno di età), e lui mi ha prontamente ricambiato con un radioso sorriso.
Evidentemente il suo non è stato un atto volontario, ma riflesso, spontaneo, segno che nell’esperienza naturale della gratificazione è inscritta anche un’attitudine a ringraziare per ciò che la persona riceve di bello e di buono.
Il sorriso è il modo più facile e semplice di dire “grazie”, anche per l’adulto. Il sorriso dell’essere umano è paragonabile all’aprirsi del fiore ai primi raggi del sole: così l’uomo, la cui vita Dio fa germinare nel grembo, reca in sé la riconoscenza come un dato primordiale, ed ogni gesto d’amore è in grado di suscitarla mentre il cuore si apre come un fiore.
Concludendo il commento al Vangelo che ho citato, Benedetto XVI ha detto:“Chi, come il samaritano sanato, sa ringraziare, dimostra di non considerare tutto come dovuto, ma come un dono che, anche quando giunge attraverso gli uomini o la natura, proviene ultimamente da Dio. La fede comporta allora aprirsi alla grazia del Signore; riconoscere che tutto è dono, tutto è grazia. Quale tesoro è nascosto in una piccola parola: “grazie”!”
Tutto è dono, tutto è grazia, a partire dal dono e dalla grazia della vita.
Allora, oggi, il nostro grazie all’“Autore della vita” (At 3,15) diventa un infinito “grazie!” che sale dal profondo di un cuore purificato:
“Grazie infinite a Te, Padre, Fonte della mia vita,
perchè mi hai creato a Tua immagine nel seno di mia madre, figlio nel Figlio, per una vocazione specialissima di eterna felicità;
Grazie infinite a Te, Signore Gesù, Autore della mia vita,
perché dal seno del Padre mi sei venuto incontro, facendoti uomo nel grembo di Maria;
Grazie infinite a Te, Spirito Santo,
perché sei l’amore, la gioia, la novità, l’energia divina della mia vita.
Grazie infinite, Gesù mio, Vita della mia vita,
perché mi hai amato, mi hai cercato e mi hai trovato mentre ero ancora peccatore, condannato per l’eternità a vivere da straniero, lontano dalla casa del Padre;
Grazie infinite, Vita della mia vita,
perché non Ti sei fermato a distanza per guarirmi con la Tua Parola, ma mi hai raggiunto, mi hai abbracciato, mi hai sanato facendoti lebbroso come me;
Grazie infinite, Vita della mia vita,
perché Ti sei lasciato piagare mortalmente da me, mentre io dalle Tue piaghe sono stato salvato dalla morte;
Grazie infinite, Vita della mia vita,
perché per custodire il dono della libertà mi donato il senso del peccato, la luce della coscienza, il moto della riconoscenza;
Grazie infinite, Vita della mia vita,
perché come hai fatto con me, così a tutti i miei cari sei venuto incontro, perché coloro che ti cercano ti possano trovare;
Grazie infinite, Vita della mia vita,
perché mi hai donato la fede, che vale più della vita e per essa hai fatto di me una persona nuova;
Grazie infinite, Vita della mia vita,
per il dono della preghiera che mi abilita al dialogo con Te, e mi insegna a percepire il mormorio leggero della Tua voce amica nell’intimo del cuore;
Grazie infinite, Vita della mia vita,
per il dono sublime dell’Eucaristia e del sacerdote, per mezzo del quale mi restituisci settanta volte sette tutti i doni del tuo amore fedele perduti per mia colpa;
Grazie infinite, Vita della mia vita,
per il dono indicibile di Tua Madre, la “Piena di grazia”: la sua tenerezza mi avvolge giorno e notte, e dalle sue mani ricevo grazia su grazia. So che Ella mi assisterà con la sua presenza e la sua preghiera nell’ora di quella morte che la tua volontà avrà stabilito per me”.
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* Padre Angelo del Favero, cardiologo, nel 1978 ha co-fondato uno dei primi Centri di Aiuto alla Vita nei pressi del Duomo di Trento. E’ diventato carmelitano nel 1987. E’ stato ordinato sacerdote nel 1991 ed è stato Consigliere spirituale nel santuario di Tombetta, vicino a Verona. Attualmente si dedica alla spiritualità della vita nel convento Carmelitano di Bolzano, presso la parrocchia Madonna del Carmine.

 

IL RICCO E IL POVERO LAZZARO – ENZO BIANCHI

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IL RICCO E IL POVERO LAZZARO – ENZO BIANCHI

XXVI domenica del tempo Ordinario anno C

In quel tempo Gesù diceva ai discepoli: «C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe. Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: «Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma». Ma Abramo rispose: «Figlio, ricòrdati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi». E quello replicò: «Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento». Ma Abramo rispose: «Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro». E lui replicò: «No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno». Abramo rispose: «Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti»». Lc 16,19-31 Dopo la parabola dell’economo ingiusto ascoltata domenica scorsa (cf. Lc 16,1-8), oggi ci viene proposta una seconda parabola di Gesù sull’uso della ricchezza, contenuta sempre nel capitolo 16 del vangelo secondo Luca: la parabola del ricco e del povero Lazzaro. “C’era un uomo ricco, che vestiva di porpora e bisso, banchettando splendidamente ogni giorno”. Di costui non si dice il nome, ma viene definito dal suo lusso e dal suo comportamento. I ricchi devono farsi vedere, devono imporsi e ostentare: da allora fino a oggi non è cambiato nulla, e chi pensa di essere potente e ricco, anche nella chiesa, vuole esibire i segni del potere e osa addirittura affermare che la porpora è indossata per dare gloria a Dio… L’altra dimensione con cui i ricchi nell’antichità si facevano vedere era il loro banchettare con ostentazione. Per gli altri uomini la festa è un’occasione rara, per i poveri è impossibile, mentre per i ricchi ogni giorno è possibile festeggiare. Ma festeggiare cosa? Se stessi e la loro situazione privilegiata, senza mai pensare alla condivisione. Questo ricco, in particolare, mai aveva invitato i poveri, mai si era accorto del povero presente davanti alla sua porta, e dunque mai aveva praticato quella carità che la Torah stessa esigeva. Ma qual è la malattia più profonda di quest’uomo? Quella che papa Francesco, in una sua omelia mattutina, ha definito mondanità: l’atteggiamento di chi “è solo con il proprio egoismo, dunque è incapace di vedere la realtà”. Accanto al ricco mondano, alla sua porta, sta un altro uomo, “gettato” là come una cosa, coperto di piaghe. Non è neanche un mendicante che chiede cibo, ma è abbandonato davanti alla porta della casa del ricco. Nessuno lo guarda né si accorge di lui, ma solo dei cani randagi, più umani degli esseri umani, passandogli accanto gli leccano le ferite. Questo povero ha fame e desidererebbe almeno ciò che i commensali lasciano cadere dalla tavola o buttano sul pavimento ai cani (cf. Mc 7,28; Mt 15,27). La sua condizione è tra le più disperate che possano capitare a quanti sono nella sofferenza. Eppure Gesù dice che costui, a differenza del ricco, ha un nome: ‘El‘azar, Lazzaro, cioè “Dio viene in aiuto”, nome che esprime veramente chi è questo povero, un uomo sul quale riposa la promessa di liberazione da parte di Dio. In ogni caso, sia il ricco sia il povero condividono la condizione umana, per cui per entrambi giunge l’ora della morte, che tutti accomuna. Un salmo sapienziale, già citato altre volte, presenta un significativo ritornello: “L’uomo nel benessere non comprende, è come gli animali che, ignari, vanno verso il mattatoio” (cf. Sal 48,13.21). Il ricco della parabola non ricordava questo salmo per trarne lezione e neppure ricordava le esigenze di giustizia contenute nella Torah (cf. Es 23,11; Lv 19,10.15.18, ecc.) né i severi ammonimenti dei profeti (cf. Is 58,7; Ger 22,16, ecc.). Di conseguenza, era incapace di responsabilità verso l’altro, di condivisione. Il vero nome della povertà è condivisione, al punto che Gesù si è spinto fino ad affermare: “Fatevi degli amici con il denaro ingiusto, perché, quando questo verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne” (Lc 16,9). Ma questo ricco non l’ha capito… Quando muore Lazzaro, il suo nome mostra tutta la sua verità, perché il funerale del povero (che forse non c’è stato materialmente, perché l’avranno gettato in una fossa comune!) è officiato dagli angeli, che vengono a prenderlo per condurlo nel seno di Abramo. La vita di Lazzaro non si è dissolta nel nulla, ma egli è portato nel regno di Dio, dove si trova il padre dei credenti, di cui egli è figlio: colui che era “gettato” presso la porta del ricco, ora è innalzato e partecipa al banchetto di Abramo (cf. Mt 8,11; Lc 13,28). Il ricco invece ha una sepoltura come gli si conviene, ma il testo è laconico, non precisa nulla di un suo eventuale ingresso nel Regno. Ecco infatti, puntualmente, una nuova situazione, in cui i destini dei due uomini sono ancora una volta divergenti, ma a parti invertite. Ciò che appariva sulla terra viene smentito, si mostra come realtà effimera, mentre ci sono realtà invisibili che sono eterne (cf. 2Cor 4,18) e che dopo la morte si impongono: il povero ora si trova nel seno di Abramo, dove stanno i giusti, il ricco negli inferi. Alla morte viene subito decisa la sorte eterna degli esseri umani, preannuncio del giudizio finale, e le due vie percorse durante la vita danno l’esito della beatitudine oppure quello della maledizione. A Lazzaro è donata la comunione con Dio insieme a tutti quelli che Dio giustifica, mentre al ricco spetta come dimora l’inferno, cioè l’esclusione dal rapporto con Dio: egli passa dall’avere troppo al non avere nulla. Nelle sofferenze dell’inferno, il ricco alza i suoi occhi e “da lontano” vede Abramo e Lazzaro nel suo grembo, come un figlio amato. Egli ora vive la stessa condizione sperimentata in vita dal povero, ed è anche nella stessa posizione: guarda dal basso verso l’alto, in attesa… Non ha potuto portare nulla con sé, i suoi privilegi sono finiti: lui che non ascoltava la supplica del povero, ora deve supplicare; si fa mendicante gridando verso Abramo, rinnovando per tre volte la sua richiesta di aiuto. Comincia con l’esclamare: “Padre Abramo, abbi pietà di me”, grido che durante la vita non aveva mai innalzato a Dio, “e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché sono torturato in questa fiamma”. Chiede insomma che Lazzaro compia un gesto di amore, che lui mai aveva fatto verso un bisognoso. Ma Abramo gli risponde: “Figlio, durante la tua vita hai ricevuto i tuoi beni, mentre Lazzaro i suoi mali; ora egli qui è consolato, tu invece sei torturato”. Un modo schematico ma efficace per esprimere come il comportamento vissuto sulla terra abbia precise conseguenze nella vita oltre la morte: il comportamento terreno è già il giudizio, da esso dipendono la salvezza o la perdizione eterne (cf. Mt 25,31-46). Così la beatitudine rivolta da Gesù ai poveri e il “guai” indirizzato ai ricchi (cf. Lc 6,20-26) si realizzano pienamente. Poi Abramo continua servendosi dell’immagine dell’“abisso grande”, invalicabile, che separa le due situazioni e non permette spostamenti dall’uno all’altro “luogo”: la decisione è eterna e nessuno può sperare di cambiarla, ma si gioca nell’oggi… Qui il racconto potrebbe finire, e invece il testo cambia tono. Udita la prima risposta di Abramo, il ricco riprende la sua invocazione. Non potendo fare nulla per sé, pensa ai suoi famigliari che sono ancora sulla terra. Lazzaro potrà almeno andare ad avvertire i suoi cinque fratelli, ad ammonirli prospettando loro la minaccia di quel luogo di tormento, se vivranno come l’uomo ricco. Ma ancora una volta “il padre nella fede” (cf. Rm 4,16-18) risponde negativamente, ricordandogli che Lazzaro non potrebbe annunciare nulla di nuovo, perché già Mosè e i Profeti, cioè le sante Scritture, indicano bene la via della salvezza. Le Scritture contenenti la parola di Dio dicono con chiarezza come gli uomini devono comportarsi nella vita, sono sufficienti per la salvezza. Occorre però ascoltarle, cioè fare loro obbedienza, realizzando concretamente quello che Dio vuole! Ma il ricco non desiste e per la terza volta si rivolge ad Abramo: “Padre Abramo, se qualcuno dai morti andrà dai miei fratelli, saranno mossi a conversione”. Abramo allora con autorità chiude una volta per tutte la discussione: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, neppure se qualcuno risorge dai morti saranno persuasi”. Parole definitive, eppure ancora oggi molti cristiani faticano ad accoglierle, perché sono convinti che le Scritture non siano sufficienti, che occorrano miracoli straordinari per condurre alla fede… No, i cristiani devono ascoltare le Scritture per credere, anche per credere alla resurrezione di Gesù, come il Risorto ricorderà agli Undici: “Bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi” (Lc 24,44). Egli stesso, del resto, poco prima aveva detto ai due discepoli in cammino verso Emmaus: “‘Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i Profeti! Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?’. E, cominciando da Mosè e da tutti i Profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui” (Lc 24,25-27). Non a caso anche nella professione di fede il cristiano confessa che “Cristo morì secondo le Scritture, fu sepolto ed è risorto il terzo giorno secondo le Scritture” (1Cor 15,3-4). Le Scritture testimoniano ciò che si è compiuto nella vita e nella morte di Gesù Cristo, testimoniano la sua resurrezione. Se il cristiano prende consapevolezza delle parole di Gesù (cf. Lc 24,6-7) e ascolta le Scritture dell’Antico Testamento, giunge alla fede nella sua resurrezione. Questa parabola ci scuote, scuote soprattutto noi che viviamo nell’abbondanza di una società opulenta, che sa nascondere così bene i poveri al punto di non accorgersi più della loro presenza. Ci sono ancora mendicanti sulle strade, ma noi diffidiamo delle loro reale miseria; ci sono stranieri emarginati e disprezzati, ma noi ci sentiamo autorizzati a non condividere con loro i nostri beni. Dobbiamo confessarlo: i poveri ci sono di imbarazzo perché sono “il sacramento del peccato del mondo” (Giovanni Moioli), sono il segno della nostra ingiustizia. E quando li pensiamo come segno-sacramento di Cristo, sovente finiamo per dare loro le briciole, o anche qualche aiuto, ma tenendoli distanti da noi. Eppure nel giorno del giudizio scopriremo che Dio sta dalla parte dei poveri, scopriremo che a loro era indirizzata la beatitudine di Gesù, che ripetiamo magari ritenendola rivolta a noi. Siamo infine ammoniti a praticare l’ascolto del fratello nel bisogno che è di fronte a noi e l’ascolto delle Scritture, non l’uno senza l’altro: è sul mettere in pratica qui e ora queste due realtà strettamente collegate tra loro che si gioca già oggi il nostro giudizio finale.

BRANO BIBLICO SCELTO – LUCA 7,11-17

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BRANO BIBLICO SCELTO – LUCA 7,11-17 

In quel tempo, Gesù si recò in una città chiamata Nain, e con lui camminavano i suoi discepoli e una grande folla.   Quando fu vicino alla porta della città, ecco, veniva portato alla tomba un morto, unico figlio di una madre rimasta vedova; e molta gente della città era con lei.  Vedendola, il Signore fu preso da grande compassione per lei e le disse: «Non piangere!». Si avvicinò e toccò la bara, mentre i portatori si fermarono. Poi disse: «Ragazzo, dico a te, àlzati!». Il morto si mise seduto e cominciò a parlare. Ed egli lo restituì a sua madre.   Tutti furono presi da timore e glorificavano Dio, dicendo: «Un grande profeta è sorto tra noi», e: «Dio ha visitato il suo popolo».   Questa fama di lui si diffuse per tutta quanta la Giudea e in tutta la regione circostante.

COMMENTO Luca 7,11-17 Risurrezione del figlio della vedova di Nain La «piccola aggiunta» lucana (6,20-8,3) comprende, dopo il discorso della pianura (6,12-49), il racconto di una serie di gesti di Gesù che, per il loro carattere straordinario, rappresentano una convalida e un’illustrazione del precedente discorso (7,1-8,3). Essi sono la guarigione del servo del centurione (7,1-10), la risurrezione del figlio della vedova di Nain (7,11-17) il racconto di Giovanni Battista che invia due dei suoi discepoli per domandargli se è lui quello che deve venire o se devono aspettare un altro (7,18-35), l’episodio della peccatrice perdonata (7,36-50) e a conclusione un accenno al seguito femminile di Gesù (8,1-3). Luca, che desume questo materiale dalla fonte Q e da una sua fonte personale, se ne serve per chiarire il significato autentico della missione di Gesù: contrariamente alle attese dei giudei, questa consiste nella rivelazione della bontà immensa di Dio che si manifesta nell’accoglienza dei peccatori, nella guarigione dei malati, nella risurrezione dei morti. In questa raccolta, la risurrezione del figlio della vedova di Naim si colloca al secondo posto dopo la guarigione del servo del centurione e prima dell’arrivo della delegazione di Giovanni il Battista. Questa posizione non è casuale: dopo il suo intervento a favore di un uomo, ora Gesù ne fa uno ancora più strepitoso per una donna. Inoltre Luca vuole rendere credibile l’inciso «i morti risuscitano» che Gesù, secondo la fonte Q, avrebbe inserito nella risposta ai discepoli del Battista (cfr. Lc 7,22). Il racconto non si trova negli altri vangeli, per cui è chiaro che lo ha attinto da una tradizione propria, la cui attendibilità storica è inferiore rispetto alle tradizioni condivise con Marco e con Matteo. Ciò è confermato dal fatto che il narratore si è servito come modello dei racconti di due risurrezioni attribuite rispettivamente a Elia (IRe 17,8-24) e a Eliseo (2Re 4,18-37), che riguardano due figli unici di donne vedove. Sono significativi anche i contatti di questo brano con il Benedictus (cfr. Lc 1,68-79). Dopo aver guarito a Cafarnao il servo di un centurione, Gesù, accompagnato dai suoi discepoli e da una grande folla, si reca in un villaggio chiamato Nain (v. 11). Nain è un piccolo centro situato nella pianura di Izreel, non lontano da Sunem, il paese dove Eliseo avrebbe compiuto un analogo miracolo; esso si trova appena una decina di chilomentri a sud­est di Nazaret. Quando è vicino alla porta della città, il gruppo d Gesù si incontra con una folla che  portava alla tomba un morto, unico figlio di una madre rimasta vedova. Vedendola, il Signore è preso da grande compassione per lei e le dice: «Non piangere!» (vv. 12-13). Per la prima volta Luca attribuisce qui a Gesù il titolo postpasquale di Kyrios (Signore) in senso assoluto, conferendogli così una dignità che lo mette sullo stesso piano di JHWH, il cui nome nei LXX è reso appuno con Kyrios. Inoltre è l’unica volta in cui Luca dice che Gesù si è commosso (esplanchnisthê): questo termine traduce un termine della radice ebraica raham, che indica l’amore quasi materno che spinge JHWH a scegliere Israele come sue popolo, a guidarlo e a perdonarlo quando pecca (cfr. Dt 30,3). Normalmente Luca non ne fa uso a proposito di Gesù perché non è propenso a descrivere i suoi sentimenti umani. Però nel Benedictus Zaccaria attribuisce la salvezza «alle viscere di misericordia» (splanchna eleous) del nostro Dio, per cui ci visiterà dall’alto (un sole) che sorge» (Lc 1,78). Vedendo il corteo, Gesù si avvicina alla bara e la tocca, mentre i portatori si fermarono. Poi dice: «Ragazzo, dico a te, àlzati!». Il morto si siede e comincia a parlare. Gesù allora lo restituisce a sua madre (vv. 14-15). Secondo l’usanza, la bara che conteneva il cadavere era aperta. Gesù risuscita il fanciullo con la potenza della sua parola. Ma il fatto di toccare la bara rappresenta una contestazione delle leggi di purità, in base alle quali un giudeo che toccava un morto era affetto da impurità. L’espressione «lo diede a sua madre», che rappresenta un tocco di attenzione verso una donna affranta, è desunta dal racconto della risurrezione compiuta da Elia (1 Re 17,23). Infine l’evangelista registra gli effetti della risurrezione del ragazzo: tutti sono presi da timore e glorificano Dio, dicendo: «Un grande profeta è sorto tra noi», e «Dio ha visitato il suo popolo». La fama di lui si diffunde così per tutta la Giudea e la regione circostante (vv. 16-17). Di fronte al miracolo compiuto da Gesù, la folla lo esalta con il titolo di «profeta», che qualifica con l’attributo di «grande». Non si tratta quindi di un profeta qualsiasi, ma di quello che era atteso alla fine dei tempi per preparare la venuta di JHWH in mezzo al suo popolo. La sua apparizione è dunque un segno che «Dio ha visitato il suo popolo», cioè che sono venuti ormai gli ultimi tempi in cui Dio interviene per restaurare il suo popolo. Questa acclamazione richiama un motivo che Luca ha inserito nel cantico di Zaccaria: «Benedetto il Signore, … poiché ha visitato … il suo popolo» (Lc 1,68). La misericordia del Padre, proclamata da Gesù nel discorso della pianura (Lc 6,36) e proposta all’imitazione dei discepoli, ora si manifesta concretamente nell’azione compassionevole di Gesù in favore di una povera vedova. Nel Benedictus però il titolo di profeta escatologico è attribuito a Giovanni il Battista. Per questo non si addice a Gesù, il quale, per Luca, è il «Signore», come egli ha precedentemente sottolineato (cfr. v. 13). L’immediata diffusione della notizia di quanto è capitato rientra nel genere letterario dei racconti di miracolo. La Giudea e la regione circostante è una circonlocuzione per indicare tutta la Palestina.

Linee interpretative La risurrezione del ragazzo di Naim ha poche probabilità di essere un fatto storicamente avvenuto, dal momento che gli altri due sinottici non ne parlano: una svista riguardante un fatto così portentoso è difficilmente immaginabile. È probabile invece che Luca abbia preso questo racconto da qualche tradizione popolare  che aveva lo scopo di rappresentare Gesù sul modello di Elia e di Eliseo, quale profeta degli ultimi tempi, che prepara la venuta finale di Dio in mezzo al suo popolo. Luca però vuole fare capire che il profeta degli ultimi tempi è quel Giovanni che subito dopo entrerà in scena inviando da Gesù due dei suoi discepoli, mentre Gesù è il Signore, cioè il Messia promessa da Dio al suo popolo.  In questo racconto Gesù è presentato come il Salvatore misericordioso, l’ultimo inviato di un Dio il cui modo di essere è la misericordia verso il suo popolo. Nel gesto di Gesù che risuscita il ragazzo di Naim appare il suo potere sovrano sulla vita e sulla morte: con un semplice tocco della bara e con un comando categorico risuscita il fanciullo. Egli agisce con l’autorità che gli viene da Dio, senza bisogno di preghiere prolungate, come facevano i guaritori di professione. Al tempo stesso egli, toccando la bara, indica il superamento delle norme di purità che tanta parte avevano nella spiritualità giudaica del suo tempo: così facendo egli dichiara che il rapporto con Dio si basa non su di esse ma sulla misericordia che deve permeare i rapporti intepersonali.  

VI DO UN COMANDAMENTO NUOVO: CHE VI AMIATE GLI UNI GLI ALTRI

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VI DO UN COMANDAMENTO NUOVO: CHE VI AMIATE GLI UNI GLI ALTRI

Vangelo Gv 13, 31-33a. 34-35 Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni agli altri. Dal vangelo secondo Giovanni Quando Giuda fu uscito [dal cenacolo], Gesù disse: «Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito. Figlioli, ancora per poco sono con voi. Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri».   Commento di mons. Antonio Riboldi C’è un momento prezioso della vita di tutti; quello in cui consegniamo ai figli, ai parenti o agli amici, le ultime nostre volontà, ossia il testamento. In effetti consegniamo ‘la continuità di come abbiamo vissuto e di quello che abbiamo messo insieme’. Peccato che tante volte per testamento si intende la consegna degli interessi materiali, spesso poi motivo di profonde divisioni, mandando così in frantumi la fatica, l’amore con cui si sono lasciati i beni.   C’è chi, per esempio, decide di lasciare tutto per testamento a opere di carità, a fondazioni. E quei testamenti, davvero benedetti, a favore della carità sono ‘il prezioso testamento’ che sarà la nostra difesa agli occhi di Dio. Quante opere buone ci sono nel mondo, frutto di testamenti che, per la carità che svolgono, sono continua benedizione per chi ha donato: ora e sempre. Posso testimoniare la generosità di una persona che ha voluto che i suoi beni passassero nelle mie mani e, con questi, fra le altre realtà (e sono tante) ho edificato una chiesa parrocchiale. E quante necessità missionarie ho potuto portare a termine. I nomi di questi benefattori sono scritti nel libro della vita eterna e ‘quaggiù’ sono continua lode al Padre. Il Vangelo di oggi narra del testamento che Gesù lasciò ai Suoi discepoli, prima di andare verso l’orto del Getsemani, in quell’Ultima Cena, che è davvero la ‘divina carta della carità di Dio verso di noi e la carità nostra verso tutti’. Così racconta l’apostolo Giovanni: « Quando Giuda fu uscito dal Cenacolo, Gesù disse: ?Ora il Figlio dell’Uomo è stato glorificato, e anche Dio è stato glorificato in Lui. Se Dio è stato glorificato in Lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito. Figlioli, ancora un poco sono con voi. Vi do un comandamento nuovo, che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri » (Gv. 15, 31-35) Meraviglioso testamento! E non poteva che essere così, essendo stato Gesù, Figlio di Dio, il grande Dono di Amore e la testimonianza dell’Amore tra noi e per noi. Se noi, che siamo discepoli del Signore e quindi Suoi amici, dovessimo fare di questo testamento la regola della nostra vita, tutti dovrebbero riconoscerci proprio perché il nostro ‘dirci’ cristiani non sarebbe parola vuota, ma testimonianza di amore e di vita. Affermava il grande Paolo VI, che sapeva veramente leggere il cuore degli uomini e della Chiesa, in tempi difficili, come oggi: « Chi è senza fede, è senza luce. Chi è senza religione, è senza speranza. Invece la fede e la speranza assicurano che la vita nostra continua aldilà del terribile episodio che si chiama morte. E ancora chi è senza contatto con Dio, è privo di amore. Dio è amore. Se non siamo uniti a Lui ci viene meno il sentimento più nobile. Non abbiamo più ragione di chiamare gli uomini nostri fratelli, nessun motivo di sacrificarci per loro, né ragione di vedere in ogni faccia umana lo specchio del volto di Cristo. Se non abbiamo la fede, la speranza, la carità – le tre virtù teologiche che sono i tre vincoli che ci uniscono a Dio – siamo gente cieca, costretta ad essere schiava della terra, gente turbata dalle passioni, che la fanno infelice e che pongono la fiducia degli uomini nelle cose più terribili, come le armi, le lotte, le guerre, gli odi, i vizi. » (30 marzo 1960) Sembrano parole per oggi. E la sola e vera ragione è che si preferisce seguire le orme di satana, che è l’egoismo che si tramuta in superbia e che non accetta fratelli, nella casa del proprio cuore: tutti considera ‘estranei’ e così si condanna all’inferno della solitudine. È davvero insopportabile questa solitudine. La sentiamo tutti la mancanza di ‘atmosfera di vita’, che è l’amore tra di noi. La sentiamo tutti questa sete di amore, ma non troviamo ‘il pozzo dove dissetarci’. E sembrano ‘fantasia dei sogni dell’anima’ o ‘ali per conoscere la bellezza del volo’ le parole di Gesù, oggi: « Amatevi come io ho amato voi ». Quando rifletto su questo meraviglioso ‘testamento’, che Gesù ci ha donato, prima di attuarlo sulla Croce, mi convinco sempre di più che, quando non si è sudditi di un gretto egoismo, amare ed essere amati, in famiglia, nella chiesa, nella società è contribuire a creare la vera aria che fa respirare, soprattutto nei momenti difficili. Ma si può vivere senza amare e sentirsi amati? Credo che sia un inferno insopportabile. Ascoltiamo ciò che scriveva il nostro Papa emerito, Benedetto XVI, nella sua prima enciclica, che ha voluto intitolare ‘Dio è amore’, come indicazione a raccogliere il testamento di Gesù: « L’amore è gratuito: non viene esercitato per raggiungere altri scopi. Ma questo non significa che l’azione caritativa debba per così dire lasciare Dio e Cristo da parte. È in gioco sempre tutto l’uomo. Spesso è proprio l’assenza di Dio la radice più profonda della sofferenza. Chi esercita la carità in nome della Chiesa non cercherà mai di imporre agli altri la fede della Chiesa. Egli sa che l’amore nella sua purezza e nella sua gratuità è la migliore testimonianza di Dio nel quale crediamo e dal quale siamo spinti ad amare…. Egli sa che il vilipendio dell’amore è vilipendio di Dio e dell’uomo, è il tentativo di fare a meno di Dio. Di conseguenza la miglior difesa di Dio e dell’uomo consiste proprio nell’amore. » (Deus charitas est n. 31) Allora viene da chiederci: come mai l’amore di cui Dio ci ha fatto dono ed è il testamento di Gesù, è preferito, a volte, all’egoismo che genera ingiustizie, solitudini e insopportabili sofferenze. Mistero dell’animo umano… Per me, rosminiano, figlio della Carità, è un grande dono che voi mi fate ogni settimana leggendomi. Ho come l’impressione di respirare con voi una tale atmosfera di amore che, per me, è incredibile gioia. Gioia di potervi dire: vi amo come Gesù vi ama, anche se non vi conosco ad uno ad uno, ma è come se foste tutti vicino a me quando celebro il grande sacramento dell’amore, che è l’Eucarestia. E vi sono immensamente grato. Davvero siete miei amici e credo lo sappiate perché tante volte mi scrivete come fra amici. Poteva Gesù lasciarci un testamento più bello di questo? Per chi ama la felicità certamente no, ma bisogna ‘entrare nel cuore dell’amore e farci riempire il cuore dalla gioia’. Scriveva il grande Follereau in un messaggio ai giovani, nel 1962: « Siate intransigenti nel dovere di amare. Non venite a compromessi, non retrocedete. Ridete in faccia a coloro che vi parleranno di prudenza, di convenienza, che vi consiglieranno di il giusto equilibrio’: questi poveri campioni del ‘giusto mezzo’! E poi soprattutto credete nella bontà del mondo. Nel cuore di ogni uomo vi sono tesori prodigiosi e voi scovateli. La più grande disgrazia che vi possa capitare è di non essere utili a nessuno, che la vostra vita non serva a nulla. Siate invece forti ed esigenti, coscienti di dover costruire la felicità per tutti gli uomini, vostri fratelli, e non lasciatevi sommergere dalle sabbie mobili degli incapaci. Lottate a viso aperto. Non permettete l’inganno attorno a voi. Siate voi stessi e sarete vittoriosi. » E come dimenticare le parole di Papa Francesco: « Per Dio noi non siamo numeri, siamo importanti, anzi siamo quanto di più importante Egli abbia; anche se peccatori, siamo ciò che gli sta più a cuore. Lasciamoci avvolgere dalla misericordia di Dio; confidiamo nella sua pazienza che sempre ci dà tempo; abbiamo il coraggio di tornare nella sua casa, di dimorare nelle ferite del suo amore, lasciandoci amare da Lui, di incontrare la sua misericordia nei Sacramenti. Sentiremo la sua tenerezza, sentiremo il suo abbraccio e saremo anche noi più capaci di misericordia, di pazienza, di perdono, di amore ». Non ci resta, allora, che raccogliere a piene mani il grande testamento di Gesù e vivere facendo della vita un donare sorrisi a tutti: sorrisi che siano come gettare fiori a chi ci accosta, al posto del silenzio indifferente o delle parole che, come ‘sassate’, fanno male. Ci aiuti Gesù…ma, intanto, ripeto la mia gioia che voi siete miei amici. Grazie.  

OMELIA DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI – DOMENICA DEL BUON PASTORE

http://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/homilies/2007/documents/hf_ben-xvi_hom_20070429_priestly-ordination.html

SANTA MESSA PER L’ORDINAZIONE PRESBITERALE DI 22 DIACONI DELLA DIOCESI DI ROMA

OMELIA DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI – DOMENICA DEL BUON PASTORE

Basilica Vaticana

IV Domenica di Pasqua, 29 aprile 2007

Venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Presbiterato, cari Ordinandi, cari fratelli e sorelle!

L’odierna IV Domenica di Pasqua, tradizionalmente detta del « Buon Pastore », riveste per noi, che siamo raccolti in questa Basilica Vaticana, un particolare significato. E’ un giorno assolutamente singolare soprattutto per voi, cari Diaconi, ai quali, come Vescovo e Pastore di Roma, sono lieto di conferire l’Ordinazione sacerdotale. Entrerete così a far parte del nostro « presbyterium ». Insieme con il Cardinale Vicario, i Vescovi Ausiliari ed i sacerdoti della Diocesi, ringrazio il Signore per il dono del vostro sacerdozio, che arricchisce la nostra Comunità di 22 nuovi Pastori. La densità teologica del breve brano evangelico, che è stato poco fa proclamato, ci aiuta a meglio percepire il senso e il valore di questa solenne Celebrazione. Gesù parla di sé come del Buon Pastore che dà la vita eterna alle sue pecore (cfr Gv 10,28). Quella del pastore è un’immagine ben radicata nell’Antico Testamento e cara alla tradizione cristiana. Il titolo di « pastore d’Israele » viene attribuito dai Profeti al futuro discendente di Davide, e pertanto possiede un’indubbia rilevanza messianica (cfr Ez 34,23). Gesù è il vero Pastore d’Israele, in quanto è il Figlio dell’uomo che ha voluto condividere la condizione degli esseri umani per donare loro la vita nuova e condurli alla salvezza. Significativamente al termine « pastore » l’evangelista aggiunge l’aggettivo kalós, bello, che egli utilizza unicamente in riferimento Gesù e alla sua missione. Anche nel racconto delle nozze di Cana l’aggettivo kalós viene impiegato due volte per connotare il vino offerto da Gesù ed è facile vedere in esso il simbolo del vino buono dei tempi messianici (cfr Gv 2,10). « Io do loro cioè (alle mie pecore) la vita eterna e non andranno mai perdute » (Gv 10,28). Così afferma Gesù, che poco prima aveva detto: « Il buon pastore offre la vita per le pecore » (cfr Gv 10,11). Giovanni utilizza il verbo tithénai – offrire, che ripete nei versetti seguenti (15.17.18); lo stesso verbo troviamo nel racconto dell’Ultima Cena, quando Gesù « depose » le sue vesti per poi « riprenderle » (cfr Gv 13, 4.12). E’ chiaro che si vuole in questo modo affermare che il Redentore dispone con assoluta libertà della propria vita, così da poterla offrire e poi riprendere liberamente. Cristo è il vero Buon Pastore che ha dato la vita per le sue pecore, per noi, immolandosi sulla Croce. Egli conosce le sue pecore e le sue pecore lo conoscono, come il Padre conosce Lui ed Egli conosce il Padre (cfr Gv 10,14-15). Non si tratta di mera conoscenza intellettuale, ma di una relazione personale profonda; una conoscenza del cuore, propria di chi ama e di chi è amato; di chi è fedele e di chi sa di potersi a sua volta fidare; una conoscenza d’amore in virtù della quale il Pastore invita i suoi a seguirlo, e che si manifesta pienamente nel dono che fa loro della vita eterna (cfr Gv 10,27-28). Cari Ordinandi, la certezza che Cristo non ci abbandona e che nessun ostacolo potrà impedire la realizzazione del suo universale disegno di salvezza sia per voi motivo di costante consolazione – anche nelle difficoltà – e di incrollabile speranza. La bontà del Signore è sempre con voi ed è forte. Il Sacramento dell’Ordine che state per ricevere vi farà partecipi della stessa missione di Cristo; sarete chiamati a spargere il seme della sua Parola, il seme che porta in sé il Regno di Dio, a dispensare la divina misericordia e a nutrire i fedeli alla mensa del suo Corpo e del suo Sangue. Per essere suoi degni ministri dovrete alimentarvi incessantemente dell’Eucaristia, fonte e culmine della vita cristiana. Accostandovi all’altare, vostra quotidiana scuola di santità, di comunione con Gesù, del modo di entrare nei suoi sentimenti, per rinnovare il sacrificio della Croce, scoprirete sempre più la ricchezza e la tenerezza dell’amore del divino Maestro, che oggi vi chiama ad una più intima amicizia con Lui. Se lo ascolterete docilmente, se lo seguirete fedelmente, imparerete a tradurre nella vita e nel ministero pastorale il suo amore e la sua passione per la salvezza delle anime. Ciascuno di voi, cari Ordinandi, diventerà con l’aiuto di Gesù un buon pastore, pronto a dare, se necessario, anche la vita per Lui. Così avvenne all’inizio del cristianesimo con i primi discepoli, mentre, come abbiamo ascoltato nella prima Lettura, il Vangelo andava diffondendosi tra consolazioni e difficoltà. Vale la pena di sottolineare le ultime parole del brano degli Atti degli Apostoli che abbiamo ascoltato: « I discepoli erano pieni di gioia e di Spirito Santo » (13,52). Malgrado le incomprensioni e i contrasti, di cui abbiamo sentito, l’apostolo di Cristo non smarrisce la gioia, anzi è il testimone di quella gioia che scaturisce dall’essere con il Signore, dall’amore per Lui e per i fratelli. Nell’odierna Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni, che quest’anno ha come tema « La vocazione al servizio della Chiesa comunione », preghiamo perché quanti sono scelti a così alta missione siano accompagnati dall’orante comunione di tutti i fedeli. Preghiamo perché cresca in ogni parrocchia e comunità cristiana l’attenzione per le vocazioni e per la formazione dei sacerdoti: essa inizia in famiglia, prosegue in seminario e coinvolge tutti coloro che hanno a cuore la salvezza delle anime. Cari fratelli e sorelle che partecipate a questa suggestiva celebrazione, e in primo luogo voi, parenti, familiari e amici di questi 22 Diaconi che tra poco saranno ordinati presbiteri! Attorniamoli, questi nostri fratelli nel Signore, con la nostra spirituale solidarietà. Preghiamo perché siano fedeli alla missione a cui oggi il Signore li chiama, e siano pronti a rinnovare ogni giorno a Dio il loro « sì », il loro « eccomi », senza riserve. E chiediamo al Padrone della messe, in questa Giornata per le Vocazioni, che continui a suscitare molti e santi presbiteri, totalmente dediti al servizio del popolo cristiano. In questo momento tanto solenne e importante della vostra esistenza, è ancora a voi, cari Ordinandi, che mi dirigo con affetto. A voi quest’oggi Gesù ripete: « Non vi chiamo più servi, ma amici ». Accogliete e coltivate questa divina amicizia con « amore eucaristico »! Vi accompagni Maria, celeste Madre dei Sacerdoti; Lei, che sotto la Croce si è unita al Sacrificio del suo Figlio e, dopo la risurrezione, nel Cenacolo ha accolto insieme con gli Apostoli e con gli altri discepoli il dono dello Spirito, aiuti voi e ciascuno di noi, cari fratelli nel Sacerdozio, a lasciarci trasformare interiormente dalla grazia di Dio. Solo così è possibile essere immagini fedeli del Buon Pastore; solo così si può svolgere con gioia la missione di conoscere, guidare e amare il gregge che Gesù si è acquistato a prezzo del suo sangue. Amen!

 

PRIMA LETTURA – ATTI DI APOSTOLI 5, 27B-32. 40B-41 – MARIE-NOËLLE THABUT

http://www.eglise.catholique.fr/approfondir-sa-foi/la-celebration-de-la-foi/le-dimanche-jour-du-seigneur/commentaires-de-marie-noelle-thabut/

COMMENTI DA MARIE-NOËLLE THABUT, DOMENICA 10 APRILE 2016

(traduzione Google dal francese)

PRIMA LETTURA – ATTI DI APOSTOLI 5, 27B-32. 40B-41

Gli Apostoli erano appena stati frustati a causa del loro parlare di Gesù. Essi vengono rilasciati e, che quando lasciano la corte, Luca dice: « Sono andati via rallegrandosi d’essere stati giudicati degni di subire oltraggi per il nome di Gesù. » Come se fossero stati decorati… decorati con il titolo di « profeti ». Forse l’hanno poi ripensato alle parole di Gesù: « Beati voi quando gli uomini vi odieranno e quando vi e insulti respingono e proscrivere vostro nome come malvagio, per il Figlio uomo. Rallegratevi in ??quel giorno ed esultate, perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nei cieli; è infatti allo stesso modo facevano i loro padri, i profeti. « (Lc 6, 22-23). Si ricordano, inoltre, che la frase che Gesù aveva detto: « Mi hanno perseguitato, perseguiteranno anche voi. « (Gv 15, 20). Ecco, quanto è successo? Questa non è la prima volta che gli Apostoli Pietro e Giovanni hanno portato davanti al Sinedrio, vale a dire, la corte di Gerusalemme, lo stesso che condannò Gesù qualche settimana prima; già una volta dopo la guarigione dello zoppo della Porta Bella, un miracolo che aveva fatto un sacco di rumore in città, sono stati arrestati, incarcerati durante la notte, poi messo in discussione e ha permesso di parlare; ma erano stati finalmente rilasciato. Al momento del loro rilascio, avevano cominciato a predicare ed a fare miracoli. Così hanno arrestato una seconda volta, imprigionati … ma erano miracolosamente consegnati durante la notte da un angelo del Signore. Ovviamente, questo è miracolosa liberazione galvanizzare solo le loro energie! E cominciarono a predicare più forte. Ed è qui che siamo con la lettura di questa Domenica. Così sono di nuovo arrestati e portati davanti alla corte. Il sommo sacerdote li interrogò, noi guadagnare la risposta bella di Pietro: « Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini. « E Pietro alla corte una breve sintesi del suo intervento precedente; a poco a poco disse loro questa: ci sono due logiche, la logica di Dio e degli uomini; la logica degli uomini (che significa il vostro, si tribunale ebraico), vale a dire, un criminale, è soppresso, e dopo la sua morte, nessuno lo farà ancora fare per pubblicizzare! Gesù, agli occhi delle autorità religiose, era un impostore, è stato rimosso, questo ha un senso! E ‘anche il dovere di evitare che le persone indottrinare troppo inclini a fare affidamento su una presunta Messia. Condannato, eseguito, appeso alla croce, è un maledetto di Dio è maledetto. E ‘stato scritto nella legge. Ma poi, la logica di Dio, è un’altra cosa: sì, si eseguisse, appesi alla forca della croce … Ma, contro ogni aspettativa, non solo non è maledetto da Dio, ma, invece, egli è stato sollevato da Dio, è diventato il capo del Salvatore: « egli è Dio, con la sua mano destra, lo sollevò dal Principe e Salvatore, per dare a Israele conversione e il perdono dei peccati . « Quest’ultima frase è un enormità di orecchie ebrei: se la conversione e il perdono dei peccati è presente nell’elenco di Israele, vuol dire che le promesse sono soddisfatte. Questa garanzia degli Apostoli, che nulla sembra silenzio può esasperare solo i giudici; e molti di loro non vedono più una soluzione: cancellare la abolito Gesù; questo è dove un uomo straordinario, Gamaliele, il ragionamento dovrebbe essere un modello per noi, quando ci troviamo di fronte a iniziative che non amano. Purtroppo, la lettura liturgica di questa Domenica non mantiene episodio di Gamaliele passa direttamente dalle parole di Pietro per la decisione del tribunale; gli apostoli non sono condannati a morte come alcuni vorrebbero, abbiamo semplicemente li frusta e che vengono rilasciati. Ma prendere il tempo di leggere i versi che mancano; Così Peter appena detto, « Noi siamo testimoni di queste cose con lo Spirito Santo, che Dio dona a coloro che gli obbediscono » (il che significa che, in questo momento, non obbedisci Dio). Luca dice: « Esasperato da queste parole, stavano progettando di ucciderli. Ma un uomo si alzò nel Sinedrio; è stato un fariseo di nome Gamaliele, un dottore della legge onorato da tutte le persone « ; (Parentesi, era lui che fu il maestro di Saulo di Tarso, il futuro San Paolo; cfr At 22: 3); egli ordina a far emergere un momento Pietro e Giovanni, e si rivolge gli altri giudici; in sostanza, il suo ragionamento è il seguente: di due cose, o la loro attività viene da Dio … o no, sono impostori; e qui è la fine del suo discorso: « Se è che gli uomini solo il loro lavoro, sparirà da solo … se è di Dio, non sarà possibile farli sparire. Non cercate il rischio di ritrovarsi in guerra con Dio! « (Atti 5: 38-39). Se Gamaliele stava parlando oggi, senza dubbio avrebbe riconosciuto che la chiesa è una società di Dio per duemila anni ha resistito tutti, anche nelle nostre debolezze e le nostre debolezze! ——– complemento Gamaliele è un ottimo esempio del fariseo e ci dà l’opportunità di fare giustizia per la maggior parte di loro erano uomini di fede e di buona volontà. Attraverso questo episodio, ci stiamo avvicinando alla realtà storica del dibattito all’interno del giudaismo per la giovane comunità cristiana.

PAPA BENEDETTO: I DUBBI DI SAN TOMMASO, UN SOSTEGNO A CHI È INSICURO E INCERTO NELLA FEDE

http://www.asianews.it/notizie-it/Papa:-I-dubbi-di-san-Tommaso,-un-sostegno-a-chi-%C3%A8-insicuro-e-incerto-nella-fede-7330.html

PAPA BENEDETTO: I DUBBI DI SAN TOMMASO, UN SOSTEGNO A CHI È INSICURO E INCERTO NELLA FEDE 27/09/2006

« Ogni dubbio ? ha detto Benedetto XVI ? può approdare a un esito luminoso ». Ricordata l’opera missionaria di Tommaso in Siria e in India. Un saluto ai delegati dell’Asian Mission Congress.   Città del Vaticano (AsiaNews) ? La proverbiale « incredulità » di Tommaso è un conforto a chi ha dubbi e incertezze; e le domande che egli faceva a Gesù, sulla sua divinità, danno « anche a noi il diritto di chiedere spiegazioni a Gesù ». Con questo taglio moderno e aperto ai non credenti Benedetto XVI ha ripreso oggi le sue catechesi sulle figure degli apostoli, dedicando quella di oggi all’apostolo Tommaso (detto « Didimo », cioè gemello). Di lui rimane famosa la richiesta ? dopo la resurrezione del Signore ? di voler credere alla resurrezione di Gesù solo se metterà « il dito nel posto dei chiodi » e la « mano nel suo costato » (cfr. Gv 20,25). « Da queste parole ? spiega il papa – emerge la convinzione che Gesù sia ormai riconoscibile non tanto dal viso quanto dalle piaghe. Tommaso ritiene che segni qualificanti dell’identità di Gesù siano ora soprattutto le piaghe, nelle quali si rivela fino a che punto Egli ci ha amati. In questo l’Apostolo non si sbaglia ». Il pontefice ricorda che la pretesa di « vedere » e « toccare » le piaghe del risorto è soddisfatta da Gesù, che però gli ricorda che sono « Beati quelli che non vedono eppure credono ». E qui Benedetto XVI apre una via per credenti e non credenti che cercano conferme o verifiche alla fede cristiana: « Il caso dell’apostolo Tommaso ? egli dice – è importante per noi per almeno tre motivi: primo, perché ci conforta nelle nostre insicurezze; secondo, perché ci dimostra che ogni dubbio può approdare a un esito luminoso oltre ogni incertezza; e, infine, perché le parole rivolte a lui da Gesù ci ricordano il vero senso della fede matura e ci incoraggiano a proseguire, nonostante la difficoltà, sul nostro cammino di adesione a Lui ». Le catechesi sulle figure degli apostoli servono a capire non solo il passato della Chiesa, ma a comprendere al presente « cosa significa seguire Gesù, cosa sia vivere la Chiesa », come ha spiegato lo stesso pontefice all’inizio del ciclo. Così, dalla decisione espressa da Tommaso con le parole dette prima della passione di Gesù, « Andiamo anche noi e moriamo con lui » (Gv 11,16), il papa sottolinea: « Questa sua determinazione nel seguire il Maestro è davvero esemplare e ci offre un prezioso insegnamento: rivela la totale disponibilità ad aderire a Gesù, fino ad identificare la propria sorte con quella di Lui ed a voler condividere con Lui la prova suprema della morte. In effetti, la cosa più importante è non distaccarsi mai da Gesù. D’altronde, quando i Vangeli usano il verbo « seguire » è per significare che dove si dirige Lui, là deve andare anche il suo discepolo. In questo modo, la vita cristiana si definisce come una vita con Gesù Cristo, una vita da trascorrere insieme con Lui. San Paolo scrive qualcosa di analogo, quando così rassicura i cristiani di Corinto: « Voi siete nel nostro cuore, per morire insieme e insieme vivere » (2 Cor 7,3). Ciò che si verifica tra l’Apostolo e i suoi cristiani deve, ovviamente, valere prima di tutto per il rapporto tra i cristiani e Gesù stesso ». Il papa ricorda anche l’episodio in cui Tommaso, durante l’Ultima Cena, mostra di non comprendere le parole di Gesù , domandandogli: « Signore, non sappiamo dove vai, e come possiamo conoscere la via? » (Gv 14,5). « In realtà ? commenta il papa-  con questa uscita egli si pone ad un livello di comprensione piuttosto basso; ma queste sue parole forniscono a Gesù l’occasione per pronunciare la celebre definizione: « Io sono la via, la verità e la vita » (Gv 14,6). E’ dunque primariamente a Tommaso che viene fatta questa rivelazione, ma essa vale per tutti. Ogni volta che noi sentiamo o leggiamo queste parole, possiamo metterci col pensiero al fianco di Tommaso ed immaginare che il Signore parli anche con noi così come parlò con lui. Nello stesso tempo, la sua domanda conferisce anche a noi il diritto, per così dire, di chiedere spiegazioni a Gesù ».  E a braccio ha aggiunto: « Spesso anche noi diciamo: Non ti comprendo Signore, aiutami a comprendere? ». « In tal modo ? ha concluso-  esprimiamo la pochezza della nostra capacità di comprendere, al tempo stesso ci poniamo nell’atteggiamento fiducioso di chi si attende luce e forza da chi è in grado di donarle ». Il papa ha ricordato infine che, secondo un’antica tradizione, Tommaso ha evangelizzato la Siria e la Persia, fino a giungere l’India occidentale, da dove poi il cristianesimo raggiunse anche l’India meridionale. « In questa prospettiva missionaria ? ha concluso il pontefice – terminiamo la nostra riflessione, esprimendo l’auspicio che l’esempio di Tommaso corrobori sempre più la nostra fede in Gesù Cristo, nostro Signore e nostro Dio ».

 

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