Archive pour la catégorie 'Bibbia: commenti alla Scrittura'

Omelia seconda lettura: Non è il vostro dono che io ricerco, ma il frutto che ridonda a vostro vantaggio.

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Omelia seconda lettura

Eremo San Biagio

Commento su Fil 4,7

Dalla Parola del giorno

Non è il vostro dono che io ricerco, ma il frutto che ridonda a vostro vantaggio.

Come vivere questa Parola?
La pericope propostaci dalla liturgia odierna si apre con un’esplosione di gioia. Ne è stato occasione il delicato intervento dei Filippesi che si sono fatti premura di soccorrere Paolo nelle sue necessità economiche.
Ma non è l’aiuto in sé il motivo per cui Paolo si rallegra, bensì la nobiltà dei sentimenti che l’hanno ispirato e soprattutto il frutto che tornerà a vantaggio degli stessi donatori.
Spesso quello che manca nella vita non sono i motivi di gioia, ma lo sguardo acuto che sa coglierli. Qui, Paolo ci mostra un progredire di motivo in motivo, scavando sempre più in profondità: c’è un dono iniziale che già suscita contentezza, ma oltre il dono ci sono cuori che l?hanno ispirato e dal cui calore ci si sente avvolti.
Lo scoprirsi amati è qualcosa di più che l’essere amati. Vi è un fondamentale passaggio dalla passività dell’essere amato all’attivo e coinvolgente riconoscimento di esserlo: è uno spalancare gli occhi su questa realtà, con gioioso stupore. Sì, ripeto, con gioioso stupore, perché se è vero che tutti ci portiamo dentro il bisogno insopprimibile di amare e di essere amati, è anche vero che non possiamo pretenderlo: l’amore è, per sua natura, gratuità.
Il riconoscere di essere amati è già un’incipiente risposta all’amore, perché rompe il guscio coriaceo del nostro egocentrismo per aprirci all’altro. Ma Paolo va ancora oltre. Il motivo della sua gioia è « il frutto » che tornerà a vantaggio degli stessi donatori.
L’io è completamente accantonato per lasciare spazio agli altri del cui bene ci si rallegra. E la gioia si sposta: dall’essere amato all’amare.

Oggi, nella mia pausa contemplativa, chiederò a Dio-Amore di purificare il mio sguardo per cogliere i molti segni dell’amore che Lui e i fratelli pongono sul mio cammino e di aiutarmi a passare dall?essere amato, al riconoscerlo, dal riconoscimento alla risposta di amore, in un clima di gioia diffusiva.

Dio-Amore, che mi avvolgi quotidianamente di tenerezza, scrosta il mio cuore, così che possa ritrovare il gioioso stupore di scoprirsi amato e il coraggio di uscire da se stesso per andare verso gli altri in gratuità.

Le parole di santa di oggi
Un cuore gioioso è il normale risultato di un cuore che arde d’amore.
Madre Teresa di Calcutta

Omelia per la III domenica di Avvento, prima lettura: Viene il Dio della gioia

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Omelia per la III domenica di Avvento, prima lettura

don Marco Pratesi

Viene il Dio della gioia

« Alleluia! Viene in mezzo a noi il Dio della gioia ». Il responsorio del salmo odierno riassume benissimo, in una frase, il senso dell’oracolo di Sofonia. Esso infatti è un invito molto semplice ma essenziale: gioisci!
Il motivo della gioia, ancora una volta, non risiede nella bontà delle situazioni umane, anzi. Chi conosce il resto del breve libro di Sofonia, sa che il profeta annunzia tempi duri per l’Israele indocile del suo tempo. Non a caso l’autore medievale del famoso « Dies irae » si rifarà alle espressioni di Sofonia circa il « giorno del Signore », il momento del suo intervento forte. Però, attraverso e oltre tutto questo, il Signore si farà presente in modo nuovo e più intenso. Il motivo della gioia è appunto questo: « Il Signore tuo Dio in mezzo a te è un salvatore potente » (v. 17). Non c’è più la punizione, non più il nemico, non più la rovina incombente, col suo seguito di ansia e di sgomento. Il Signore in te gioirà di te, esulterà per la tua salvezza. La gioia alla quale siamo chiamati consiste proprio in questo: sintonizzare il nostro cuore sulla gioia del Signore, attingere dal suo cuore un po’ di quella gioia.
Si può comandare la gioia? Non è qualcosa che nasce spontaneo e basta?
C’è una igiene da fare: non lasciare il nostro orizzonte interamente ostruito dalle cattive notizie.
C’è una educazione da darsi: disporsi ad accogliere la gioia che esiste già in Dio.
Come tutte le cose preziose, la gioia autentica è al tempo stesso, paradossalmente, conquista e dono. Non viene da sé, senza il nostro impegno; ma viene da sé, perché è il Signore che si fa presente.
Non viviamo spesso come se lui non fosse presente? Non abbiamo così spesso la sensazione di una vita che sta sotto la maledizione: debole, incerta, minacciata, breve? Non siamo spesso soggiogati dall’ansia che inflessibile, ci sferza, facendoci sgambettare a suo piacimento? Non sentiamo diminuire la nostra energia di fronte a forze ostili che invece sembrano crescenti?
Antidoto contro il male è la presenza del Signore. L’avvento, scuola di gioia, ce lo ricorda. Ripetiamocelo spesso in questa settimana, diciamocelo in mezzo alle stanchezze, alle ansie, alle paure: « Alleluia! Viene in mezzo a noi il Dio della gioia. »

ASCOLTA ISRAELE… – Commento alla lettura biblica, Sinodo 2008

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ASCOLTA ISRAELE…

past. Paolo Ribet – culto di apertura del Sinodo 2008

Commento alla lettura biblica – domenica 14 settembre 2008

Questa settimana vi propongo non un mio commento al capitolo di Matteo, ma la predicazione che il pastore valdese Paolo Ribet svolse all’inizio del Sinodo delle chiese valdo-metodiste. Credo che possa davvero nutrire chi la legge e possa essere presa come predicazione domenicale in parrocchie, gruppi, comunità.

Ascolta, Israele: Il SIGNORE, il nostro Dio, è l’unico SIGNORE. Tu amerai dunque il SIGNORE, il tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima tua e con tutte le tue forze. Questi comandamenti, che oggi ti do, ti staranno nel cuore; li inculcherai ai tuoi figli, ne parlerai quando te ne starai seduto in casa tua, quando sarai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai. Te li legherai alla mano come un segno, te li metterai sulla fronte in mezzo agli occhi e li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle porte della tua città (Deut. 6:4-9).

1.- «Shema’ Israel … Ascolta Israele», con queste parole, tratte dal libro del Deuteronomio, si apre la preghiera che il pio ebreo recita ancora oggi, due volte al giorno, in una secolare ripetizione che da un lato ha marcato la fede di un popolo, orientandola verso un centro, un perno attorno a cui ruota tutto il resto e d’altro lato, proprio attraverso la ripetizione, ha marcato la coscienza di generazioni intere di credenti. «Non c’è dubbio, scrive un commentatore, che lo Shema’ costituisca il centro teologico del libro del Deuteronomio: queste poche parole concentrano il carattere del Dio di Israele su un punto singolo: Yahvé, il Signore, è uno solo. Ed allo stesso modo esse concentrano su un’unica affermazione la risposta, fondata sul Patto, appropriata per questa caratteristica di Dio: che Israele ami in modo totale il Signore».
Del resto, a ben vedere, quella di Deuteronomio 6 non è neanche una preghiera, per lo meno nel senso in cui tale parola è intesa comunemente; ma è piuttosto la professione di fede che accompagna l’ebreo dalla sua più tenera età fino al momento in cui esala l’ultimo respiro. Certo, la prima parola è: « Ascolta »; e si potrebbe pensare che questa sia un’invocazione a Dio per chiedergli ascolto, attenzione, per implorarlo che siano esaudite le preghiere e le suppliche. Ma è vero il contrario: abbiamo qui un ordine perentorio che Dio stesso rivolge al suo popolo perché tenga sempre presente la sua volontà, espressa dapprima nel patto di salvezza e poi attraverso il dono della sua legge. Lo Shema’ non è dunque una dichiarazione di Israele, bensì la proclamazione della volontà di Dio ad Israele. In questo senso, dicevamo, non è neanche una preghiera.
E’ significativo, allora che queste parole si aprano con l’esortazione forte all’ascolto. Ascoltare l’altro non significa, infatti, soltanto sentirne le parole, non lasciarle sfuggire, ma significa qualcosa di più grande e profondo: significa aprirsi all’altro, partecipare del suo progetto. Solo di lì può nascere un dialogo fecondo. Nel caso del rapporto con Dio, ascoltare significa far propria la sua volontà nella nostra realtà quotidiana. Per questo occorre ripetersi queste parole del continuo, perché compiere la volontà di Dio non è affatto semplice – e dunque è necessario compiere un atto di sottomissione. Per dirla coi rabbini antichi, bisogna « farsi carico del liberatorio giogo della sua parola e della sua legge ».
2.- Questo riferimento all’ascolto è particolarmente importante, nel nostro tempo, perché viviamo un’epoca in cui è necessario ripensare il nostro modo di essere, il nostro modo di porci nei confronti del mondo in cui siamo inseriti – ed è proprio dall’ascolto e dal confronto con la realtà che noi possiamo tentare di incarnare la Parola di cui siamo portatori.
In secondo luogo questa esortazione è quanto mai attuale, perché l’espressione: «Bisogna ascoltare … Noi ascoltiamo le esigenze e le domande della gente…», è stata una delle parole d’ordine che abbiamo sentito più spesso negli ultimi mesi, nel nostro Paese. Soprattutto dopo le elezioni di aprile, una parte politica ha rimproverato l’altra parte di non essere stata capace di ascoltare le esigenze e le preoccupazioni della gente, i suoi bisogni reali – e pertanto di aver perso le elezioni. Ma non esiste un modo solo di ascoltare le esigenze della gente. Ci sono molti modi di ascoltare.
Per quello che io riesco a vedere, il modo più facile ed immediato è quello di cogliere i sentimenti di incertezza e di angoscia, titillare le paure della gente, dando risposte visibili, che colgano la fantasia, come può essere l’individuazione di un nemico (il diverso) e l’invio dell’esercito per le strade contro la microcriminalità. I problemi esistono, e sarebbe folle negarli; ma si tratta, a mio parere, di una « non risposta » perché le paure, se sono dentro di noi, semplicemente si sposteranno da un oggetto all’altro. Le notti sono sempre buie, quando si ha paura.
Vi è allora un altro tipo di risposta, più difficile, più lunga da attuare ed è quella di tentare di andare al fondo delle questioni, cercando i motivi profondi delle paure e del disorientamento che sono alla base di fondo delle questioni, cercando i motivi profondi delle paure e del disorientamento che sono alla base di molti comportamenti aggressivi, che mi sembrano essere la cifra e il segno che qualificano il vero problema del nostro tempo e del nostro Paese. Uno spunto per questa riflessione mi è stato dato da un articolo che ho letto di recente, in cui Joaquin Navarro-Vals (che è stato per anni il responsabile della Sala Stampa del Vaticano), partendo dalle parole pronunciate dal papa sulla guerra del Libano, faceva notare che, nel suo discorso, «Benedetto XVI ha semplicemente fatto rilevare (diversamente dalle analisi della diplomazia delle grandi potenze mondiali) che la vera spinta al conflitto riguarda più la paura di perdere la propria identità che il desiderio di difenderne una dalla minaccia del nemico …
D’altra parte, oggi in tutto il mondo ciò che spinge sempre più spesso i popoli alla guerra civile non è tanto la difesa di un’identità, quanto piuttosto la paura di non averne più alcuna». Il problema, allora, non è quello di costituire un governo solido, che governi popoli disomogenei, «ma il disinnesco della paura profonda che spinge gruppi di persone ad armarsi e a ricercare in modo radicale la propria identità, distruggendo la vita degli altri». Se noi vogliamo veramente ascoltare la gente e le sue paure, dobbiamo metterci in cammino verso la costruzione di una nuova cultura di relazione fra i popoli e le persone. Poi potremo discutere sulle tappe intermedie, ma la meta può essere soltanto la costruzione di questa cultura.
3.- Già, la cultura. Nel nostro Sinodo discuteremo della cultura. E’ un tema non facile, perché « cultura » è un concetto dai contorni piuttosto labili, di difficile definizione – e poi perché il nostro Paese investe pochissimo sulla cultura e perché la cultura viene massificata (verso il basso). E soprattutto, per quel che ci riguarda più da vicino, il nostro Paese non ha una cultura teologica. Esistono, è vero, iniziative molto belle, che spesso vengono marginalizzate, semplicemente ignorate o riservate a piccole nicchie di persone, mentre per la massa Padre Pio viene distribuito a piene mani.
Come si può dunque parlare di cultura? Da dove si deve partire? La prima risposta che viene in mente è che dovremmo partire dal bagaglio di idee e di tradizioni di cui il protestantesimo è portatore. Ma temo che sarebbe un errore.
Qui torniamo al nostro testo biblico: è l’ascolto che è il principio della cultura. Nostro compito è cercare di cogliere le istanze fondamentali, le domande profonde della gente. Per poter dialogare, bisogna almeno tentare di comprendere l’altro, mentre troppo spesso noi pensiamo di avere le risposte, ma raramente teniamo conto di quelle che sono le domande. Vi è dunque la necessità del dialogo con la cultura attorno a noi – o, meglio, con le culture, visto che non possiamo pensare che l’unica cultura con diritto di cittadinanza sia quella occidentale. Ma il nostro ascolto e la nostra prospettiva non possono essere soltanto indirizzate verso il dibattito salottiero delle idee, perché altre voci si levano e chiedono di essere ascoltate.
Noi pensiamo di sapere ciò che è importante per gli altri e di saper indicare la strada giusta. Ma spesso « gli altri » hanno priorità diverse. Voglio fare un esempio: nel dialogo ecumenico, noi contestiamo ai cattolici il papato, il sacerdozio e la transustanziazione; ma poi, dalle loro reazioni ci rendiamo conto che per loro si tratta di realtà secondarie – per lo meno rispetto al modo in cui le poniamo noi – e questo ci irrita molto.
Noi ripetiamo i temi della Riforma o delle polemiche ottocentesche, ma oggi per i cattolici (almeno: per alcuni cattolici) i temi fondamentali sono altri. In una vignetta di tanti anni fa, leggevo una battuta che, con tutti i limiti di una barzelletta, leggeva molto bene questa situazione. Su un muro era scritto: « Cristo è la risposta » ed il protagonista si domandava: « Si, ma qual è la domanda? ». Ecco, spesso noi pensiamo di possedere la risposta, senza porci il problema di conoscere la domanda.
Affrontare un dibattito sulla cultura significa dunque innanzitutto porsi in ascolto delle domande e delle inquietudini profonde del nostro tempo.
4.- «Ascolta, Israele…», ascolta, dunque, il tuo tempo, la gente che vive attorno a te per coglierne le ansie più profonde. Ma per avere una parola significativa da portare in questa situazione, tu, Israele, Popolo di Dio, non puoi soltanto fare delle analisi (per quanto corrette) e non puoi neanche proporre dei progetti o seguire le ultime mode o le tendenze che vengono proposte. Se vuoi avere una parola significativa, che porti pace e salvezza, devi ascoltare in primo luogo il tuo Signore. E’ lì, nella sua Parola che puoi trovare la tua parola, è nei suoi progetti che puoi trovare i tuoi progetti. Non è facile farsi carico del « giogo del Regno di Dio » (come lo chiamavano gli antichi rabbini), per questo bisogna tornare costantemente ad esso, bisogna che diventi la pietra di paragone di ogni nostra speranza e di ogni nostra volontà.
Avete notato che, subito dopo aver chiamato il popolo all’ascolto, all’apertura verso il Signore, e subito dopo aver proclamato che il Signore è il solo Dio che non ammette la vicinanza di altre signorie, siano esse mitiche, ideologiche o storiche, il nostro testo non ci chiede di obbedire a Dio, ma di amarlo. E’ la profondità del rapporto che cambia, è la sua natura stessa. Amare porta all’obbedienza, ma ne cambia le motivazioni. I comandamenti di Dio, i suoi insegnamenti, la sua volontà, segneranno il mio cammino non perché ho paura del castigo, ma perché mi sento profondamente coinvolto nella sua realtà, è il motore stesso della mia azione. «Non son più io che vivo, diceva Paolo, ma è l’amore di Dio che ho conosciuto in Cristo che vive in me». Per questo ripeterò ogni giorno la promessa di fede, per questo insegnerò ai miei figli a vivere la legge, per questo la scriverò sulle porte di casa e delle città, come segno della volontà di fedeltà di un popolo intero.
5.- Sarò capace di portare avanti un progetto così ambizioso? Prima di lanciarmi in proclami avventati, sarà bene fare anche un esame personale: «Chiesa di Dio, ascolta te stessa», ascolta per capire quali sono i tuoi reali progetti, e la tua reale volontà. Per comprendere quali sono le tue paure ed i tuoi punti di forza. Nelle ultime due generazioni, la Chiesa Valdese ha vissuto almeno due fasi molto diverse: una fase di arroccamento ed una fase di apertura.
ARROCCAMENTO – è stata la scelta operata della Chiesa Valdese tra le due guerre che ha dato vita a comunità forti ma chiuse: forte identità, forte coesione e forti contrapposizioni. Ma quel mondo chiuso e contadino su cui poggiava quel progetto non esiste più!
O APERTURA? Questa sembra essere stata la scelta operata dopo la guerra con l’apertura al mondo (politica), alle altre chiese (ecumenismo) o alle altre culture o religioni (globalizzazione). Agape è stato il simbolo di questa generazione. E Tullio Vinay diceva che Agape doveva essere « una piazza », dove si incontra di tutto.
Il rischio in questa fase è quello di perdere la propria identità e di sentirsi disorientati se non si hanno dei confini certi e sicuri. Le nostre comunità sono certamente più aperte, ma sono anche molto più piccole e più fragili. Si cammina sulla lama di un coltello fra ricerca di identità ed apertura all’altro e soltanto chi è forte, forte nel suo rapporto con Dio, può affrontare un simile percorso. Ebbene, piccola Chiesa di Gesù Cristo, ascolta te stessa, per capire se hai la forza ed il coraggio di compiere un viaggio così difficile.
6.- Ma qualunque cosa tu scelga, piccola Chiesa di Gesù Cristo, non potrai rimanere ripiegata su te stessa, perché il Signore che ami e con il quale vuoi vivere non si è mai ripiegato su se stesso, in una visione beatifica della sua santità. Il Dio che ti chiama all’ascolto è colui che a sua volta ha ascoltato, che non è rimasto sordo al grido di dolore che sale dalla terra:
- Ha ascoltato il grido della terra bagnata dal sangue di Abele,
- Ha ascoltato il lamento di Israele schiavo in Egitto,
- Ha ascoltato il grido di Rachele che piange i suoi figli e non vuole essere consolata, perché non sono più.
Non possiamo far finta di non sentire il lamento che corre nel mondo, dal Sud Africa, dove è in atto una terribile caccia all’immigrato, all’Italia, dove vediamo cose che pensavamo di non vedere mai, come le ronde contro i campi Rom.
Rimane per noi dunque l’esortazione della Parola di Dio: Ascolta, Israele … Esci da te stesso, esci dal tuo egoismo, apriti all’altro e non chiuderti di fronte alla esigente vocazione che il Signore ti ha rivolto.
- Ascolta il mandato di predicazione che il tuo Signore ti ha dato,
- Ascolta il mandato di servizio che il Signore ti rivolge,
- Ascolta il grido di dolore degli immigrati in balia delle onde nel canale di Sicilia
- Ascolta il grido muto di Eluana Englaro che chiede di essere lasciata andare via, senza che attorno al suo povero corpo si accenda una disputa cinica che risponde più ad istanze di potere che di pietà.
- Ascolta, Israele…

past. Paolo Ribet – culto di apertura del Sinodo 2008

Commento alla Prima Lettura: Un Padre fedele

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Commento alla prima lettura

Omelia (25-10-2009)

don Marco Pratesi

Un Padre fedele

Nel libro di Geremia i cc. 30-33 costituiscono un « libretto della consolazione », nel quale oracoli pronunziati in situazioni diverse sono raccolti e letti in prospettiva unitaria come annunzio di una restaurazione di tutto Israele (regni del nord e del sud), che non è semplice ritorno al passato ma creazione di qualcosa di nuovo. Il presente breve testo invita alla gioia, perché il Signore sta comunque portando avanti il proprio disegno di salvezza. Per noi non ha molta importanza se il profeta, all’inizio del suo ministero (al tempo del re Giosia e della sua riforma religiosa), si stia rivolgendo al regno del nord (Efraim, Israele), come sembra più probabile, oppure abbia presente Giuda, come di solito avviene. L’essenziale è che egli vede avanzare la salvezza di Dio, nella forma di un ritorno in massa degli Israeliti dispersi. Nonostante le intricate e dolorose vicende storiche, nelle quali Israele sembra oramai sul punto di dissolversi, Dio intende rimanere fedele al suo popolo, mantenendogli il suo speciale status di primogenito fra le nazioni. E’ noto che il primogenito godeva di una posizione del tutto speciale tra i figli (cf. Gn 27; Es 4,22-23; 13,11-16). Israele è ancora « la prima tra le nazioni », il capo tra i popoli (v. 7). Nonostante le apparenze contrarie, la dispersione e la decimazione, tutto ciò rimane. Certo, l’attuazione del proposito di Dio passa attraverso una purificazione dolorosa: ciò che torna in patria è pur sempre un resto (ibidem). Una simile esperienza, un simile passaggio nel crogiolo (cf. 9,7), significa la caduta di ogni presunzione di sé e l’ingresso in una nuova dimensione di fede. Ma proprio per questo il legame tra Dio e il suo popolo non solo non è abolito, ma risulta addirittura approfondito: è il tema della nuova alleanza (cf. 31,31-34). Israele non dirà più a un pezzo di legno « Tu sei mio padre », e alla alla pietra: « Tu ci hai dato la vita » (2,27); all’invocazione « Padre mio, tu sei l’amico della mia giovinezza » non si accompagnerà più l’ostinazione nella pratica infedeltà idolatrica (3,4; cf. 3,19). Finalmente Dio potrà dire in verità: « io sono un padre per Israele » (v. 9). A questa più consapevole e umile fiducia Dio risponde donando un ritorno piano, tranquillo, senza ostacoli, agevole anche per i più impediti: lo zoppo, il cieco, l’incinta, la partoriente.
Il piano di Dio non si arresta, mai; procede e si approfondisce nonostante, anzi proprio attraverso, gli ostacoli. Siamo chiamati a vivere sempre più e meglio l’esperienza della paternità di Dio, che ci libera dalle dipendenze idolatriche e ci fa scoprire la nostra identità vera nell’essere suoi figli amati. Tutto ciò si realizza attraverso la spoliazione da ogni preteso diritto alla cura paterna di Dio: più profondamente accogliamo questa « umiliazione », più l’intervento di Dio si fa forte, spianando davanti a noi ogni ostacolo. Sarà l’esperienza di Gesù di Nazaret, colui che, definitivamente, è il capo di quel corpo che è la nuova umanità, e il primogenito dei risorti (cf. Col 1,18).

I commenti di don Marco sono pubblicati dal Centro Editoriale Dehoniano – EDB nel libro Stabile come il cielo.

Commento su Giacomo 2,14-16 – seconda lettura

http://www.qumran2.net/parolenuove/commenti.php?mostra_id=24673

Commento su Giacomo 2,14-16

Eremo San Biagio

Brano biblico: Gc 2,14-16

A che serve, fratelli miei, se uno dice di avere la fede ma, non ha le opere? Quella fede può forse salvarlo? Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: « Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi », ma non date loro il necessario per il corpo, a che serve?
Gc 2,14-16

Come vivere questa Parola?

Sembrerebbe quasi che le parole che Giacomo oggi ci offre in questa sua lettera siano in contraddizione con quanto Paolo afferma nella Lettera ai Romani.
Per Paolo è la fede a salvarci, ossia è il realizzare quello che Gesù, attraverso il suo annunzio e il suo operare, ci ha rivelato, ma con la forza che Egli ci dà. Non con la nostra sola forza, dunque, col nostro impegno. È Dio che ti prende sulle sue « ali d’aquila ». È Dio che, in Cristo Gesù, Luce del mondo, può perfino ottenerti di realizzare quell’altra parola che egli disse ai discepoli: « Voi siete la luce del mondo ».
Secondo Giacomo invece sono le opere che ci salvano. C’è contraddizione tra i due? No! Giacomo oggi fa una preziosa chiarificazione. Perché purtroppo è avvenuto, nell’arco dei secoli (e ancora avviene), che ci siano cristiani apparentemente fervidi nella loro pratica religiosa. Presenti ai riti di culto. Capaci anche di annunciare il vangelo, ma chiusi e avidi dei loro beni e dei loro comodi. Cristiani che si sentono a posto per le pratiche religiose che compiono!
Allora, com’è preziosa e attuale questa parola di Giacomo coniugata con l’altra di san Paolo: « In Gesù non è la circoncisione che conta o la non circoncisione (diciamo il ritualismo), ma la fede che opera, per mezzo della carità » (Gal 5,6).
L’amore operante è dunque il respiro, il soffio vitale della fede. Senza di esso la mia fede è inutile. Qui mi fermo, oggi, nel mio rientro al cuore. E prego:
Infondimi il tuo amore, Spirito di Dio, perché sia vivo e operante il mio credere. Che il mio celebrare sia anche servizio generoso e leale.

La voce di una mistica del secolo scorso
« Tu non m’interessi ». È questa un’espressione che un uomo non può rivolgere a un altro uomo senza commettere una crudeltà e ferire la giustizia… Vi è in ogni uomo qualcosa di sacro.
Simone Weil

(per domenica 4 marzo 2012 seconda lettura: Rm, 8 31-34)

http://www.biible.info/biible-share.jsp?url=http%3A%2F%2Fcroire-aujourdhui.blog.croire.com%2Ftag%2Ffoi%2F&title=Foi+%7C+Croire+Aujourd%27hui

(per  domenica 4 marzo 2012 seconda lettura: Rm, 8 31-34)

(traduzione Google dal francese, stralcio; lascio gli errori perchè si capisce)

La lettura di questo giorno [Rm 8, 31-39] ci conduce al cuore della espressione di fede cristiana, nel pensiero paolino. Il cardinale Kasper, nel 1999, aveva fatto una molto forte e saggio. Non posso resistere al piacere di estrazione di poche righe:

« In questa parte finale, l’Apostolo abbandona l’argomento e la natura didattica della sua presentazione e il suo linguaggio è un tono inno. Ancora una volta, tutti i poteri e le forze, tutto l’inferno e l’orrore del mondo sono chiamati per nome. Ma poiché il sacrificio di Gesù ‘sulla croce, la potenza di questi poteri è rotto. Nella croce e la risurrezione di Cristo, la forza dell’amore ha dimostrato che è il più forte. Egli ci ha straziato dalla morsa di questi poteri. Per i cristiani, nonostante tutte le tentazioni, le sofferenze e le ansie, quindi non si tratta di rassegnazione o disperazione. Il cantus firmus è invece un canto di lode.

Questa certezza della salvezza, tuttavia, chiaramente distinguibile da ogni forma di entusiasmo, che non ignora la realtà dell’esperienza di alienazione, lei non sottrarsi. La speranza si è dimostrata nella perseveranza, vale a dire, nella forza del « sedersi » e la resistenza sotto il peso e le pressioni. Il cristiano vive ancora all’ombra della croce. Ma è proprio questo il modo, con la fede nella vittoria della croce e della risurrezione di quei poteri che ancora jiggle, che dalla esperienza quotidiana di alienazione e di farle a mano che può essere riempito di speranza e di cantare. « 

Oggi, « Chi ci separerà dall’amore di Cristo? « Problema sempre presente. Per rinnovare il nostro impegno, nel cuore della nostra realtà quotidiana, segnata da una serie di disturbi, personale o collettiva, dobbiamo, nel crogiolo della nostra vita, arrivare al cuore della nostra fede: Chi è Gesù per me la vita, che costringe minacciando i confini? Che cosa significa per me vivere la Resurrezione? La speranza, che cosa si faccia nella mia vita?

DENARO, VITA E PAURA – Atti 5,1-11

http://www.atriodeigentili.it/lectio/2006_07/04.htm

Azione Cattolica Diocesana

Lectio Divina 2006/07 a cura di Stella Morra

4. DENARO, VITA E PAURA

Atti 5,1-11

Premessa

            La lectio di oggi riguarda l’inizio del capitolo 5 degli Atti, testo abbastanza conosciuto, per me speciale, a cui tengo particolarmente. La storiella è semplice, il testo apparentemente molto comprensibile. Come sempre, però, bisogna essere un po’ diffidenti con le cose che nella scrittura si presentano troppo facili. Bisognerebbe rileggere più volte i testi della scrittura che si accordano immediatamente con il nostro buon senso, perché normalmente hanno qualche spigolo e noi  tendiamo a spegnere gli aspetti più irritanti e a farli entrare in un quadretto carino. E’ uno di quei testi che io amo metodologicamente molto, perché non sono intellettuali, ma molto concreti, dove la scrittura è particolarmente perforante, non fa svolazzi, non fa discorsi complicati, non richiede grandi culture di interpretazione, per cui nessuno può dire: io non ho gli strumenti per capire la profondità di questo testo. E’ un testo chiaro, duro, di fronte al quale il più semplice di noi, senza conoscenze storiche, critiche, esegetiche, è posto di fronte ad una questione sostanziosa. Per questo io lo amo molto.
            Inoltre, la mia storia rispetto a questo testo è abbastanza lunga per cui l’ho letto, riletto e commentato varie volte. Questo significa che in ogni tempo e ogni situazione in cui ho letto e commentato il testo, ho messo uno strato – come ognuno di noi quando frequenta molto un libro o un film, lo rivede tante volte perché lo ama, la prima volta che lo vede lo colpisce per alcuni motivi, la seconda quei motivi restano veri, ma ne aggiunge degli altri, la terza… – e quindi temo di volerci mettere dentro tutti questi strati e alla fine forse faccio un po’ di caos. Quindi cercherò il più possibile di mantenermi sul primo livello di lettura.
            Il testo è quello della frode di Ananìa e Saffira, marito e moglie, che cercano di ingannare sul prezzo. Cioè, di fronte alla situazione che ci viene raccontata negli Atti, in cui la prima comunità avrebbe tutto in comune, Ananìa e Saffira accettano di mettere un po’ in comune, ma barano su quanto hanno, dicono un po’ meno, e mettono in comune solo una parte dei loro averi.
            Fanno una pessima fine: spirano tutti e due sul momento, muoiono uno dopo l’altro immediatamente. Il testo si conclude con questa frase: “E un grande timore si diffuse in tutta la Chiesa e in quanti venivano a sapere queste cose”.

            Introduzione

            Il testo è molto semplice; lo introduco con tre osservazioni.
            La prima è un’avvertenza per l’uso del cosiddetto genere letterario dei sommari di Atti. Il libro degli Atti racconta i primi inizi della Chiesa, dopo l’Ascensione; si apre con Pentecoste, la discesa dello Spirito Santo. Ci sono alcuni capitoli dedicati soprattutto a Pietro e a Paolo che spiegano, esemplificano la concretizzazione di quella parola che lo stesso Luca aveva messo in bocca a Gesù, quando dice: “…mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino agli estremi confini della terra” (At. 1, 8).
            Il libro di Atti è costruito su questi tre cerchi: prima la Giudea, e sono i capitoli di Pietro; poi le terre vicine, ma non di religione ebraica, quindi un primo raccordo con i pagani; e poi gli estremi confini della terra, con i viaggi di Paolo che vengono narrati. Gli Atti si concludono  – e la cosa è molto carina – con un naufragio, non con gloria: questa meravigliosa barca di Pietro – è  l’immagine che usiamo anche noi per la chiesa -  che va trionfante verso l’orizzonte, ma la conclusione è che questa meravigliosa barca di Pietro naufraga e va a pezzi. E’ interessante come conclusione! Si conclude con Paolo che va verso Roma, capitale dell’impero, il simbolo degli estremi confini della terra.
            Gli Atti raccontano in forma stilizzata, ridotta a passaggi essenziali, la concretizzazione del comando di Gesù di evangelizzare,  e come questo comando non stia solo nell’annunciare agli altri che Gesù è risorto, ma anche nell’organizzare una Chiesa; nelle discussioni tra Pietro e Paolo, che non sono affatto d’accordo; nel lasciare – come nel discorso agli anziani di Efeso, in cui si racconta cosa succede quando l’apostolo che ha fondato una comunità se ne va (At. 20, 17-38) – chi resta a bottega, chi manda avanti la cosa? E così via. Si narra di tutti i problemi che cominciano a sorgere.
            Per fare questo, Atti usa quasi sempre il genere letterario detto dei sommari in cui, in poche righe, fa un riassunto di raccordo tra un episodio e l’altro. E’ lo stesso principio – non è nobile il paragone, ma così ci capiamo – della soap opera in cui ogni puntata ha una serie di episodi, di storie; se uno guarda solo quella puntata, quel pezzetto di storia comincia e finisce, ha un senso. In realtà, se tu guardi tutte le puntate, percepisci un altro livello di racconto che puoi cogliere solo nell’insieme delle puntate. Questo si ottiene raccontando degli episodi, dei personaggi singoli e legandoli con dei raccordi, dei riassunti che fanno vedere ciò che succede contemporaneamente a tutti i personaggi. Il genere letterario dei sommari degli Atti funziona così: sono dei raccordi che mettono insieme degli episodi. Ananìa e Saffira, così come la visione di Cornelio – quando Pietro fa un sogno che lo spinge ad accettare che nella Chiesa entrino anche i pagani ( At.10) – sono episodi che iniziano e finiscono; sono legati tra loro da raccordi che dicono la trama generale; e questa si capisce solo leggendo tutto il libro.
            Quindi noi oggi leggiamo un episodio che ha la sua completezza, inizia e finisce, ma dovremo anche considerare ciò che c’è prima e dopo, perché sono i raccordi alla storia complessiva, che ci dicono come quell’episodio si incastra nella storia generale. Dovremo quindi anche occuparci dell’inclusione.
            Seconda osservazione: si parla della Chiesa. E qui sorge un bel problema perché noi oscilliamo sempre tra significati di questa parola che sono molto strampalati. Di volta in volta usiamo la parola Chiesa per dire tante cose diverse:
            * Chiesa sarebbe l’insieme dei vescovi, il Papa, la gerarchia, anzi, il magistero – una delle funzioni della gerarchia, quando si dice: la chiesa ha detto che si può fare, non si può fare… ha proibito…, che vorrebbe dire: Ruini ha detto… il Papa ha detto, certo non come privato cittadino, bensì nella sua funzione magisteriale rispetto alla Chiesa, ma  noi diciamo semplicemente “la chiesa”.       
 * Oppure la Chiesa vorrebbe dire una comunità, un gruppo di riferimento, oppure quella Chiesa ideale che sarebbe tale se noi fossimo considerati la chiesa – non so nemmeno cosa vuol dire che noi fossimo considerati la chiesa, se qualcuno chiedesse a me come la penso… Forse nessuno me lo chiederà mai, è vero; e allora? Ma la chiesa dovrebbe… e si usano tutti i verbi al condizionale e soprattutto dietro questo pensiero c’è la proiezione che la chiesa dovrebbe essere quello che incarna tutto ciò su cui io sono d’accordo; e se c’è un altro pezzo di credenti che si ritengono tali e non sono d’accordo con me, dovrebbero fare un’altra Chiesa… non so come funziona; come si mettono insieme le diverse ‘anime’? Non sappiamo bene.
            * Spesso poi diciamo la Chiesa come immagine materna – la Chiesa madre – perché la Chiesa sarebbe la proiezione di un posto tranquillo dove uno può stare sicuro, accolto e soprattutto dove qualcuno si prenda cura di lui, cioè una proiezione di un desiderio di infanzia, che è legittima, soprattutto di questi tempi – tutti abbiamo la nostalgia di un luogo, di un tempo, uno spazio, una parte piccola della nostra vita in cui sono gli altri che si prendono cura di me e in cui non mi devo assumere delle responsabilità!
            Dunque, quando noi diciamo la Chiesa, spesso viene fuori tutta questa roba un po’ mescolata. Gli Atti raccontano i primi passi stilizzati, in genere sommario, della Chiesa. E a quei tempi non c’era Ruini, non c’era il Papa; certo anche i primi cristiani erano umani e avranno avuto anche loro le loro proiezioni materne e la voglia di un posto tranquillo; erano pochi, forse li stavano a sentire, ma non sarei tanto sicura che li stessero a sentire tutti…-  negli Atti si parla di Luca, Paolo, Pietro, Giovanni, però forse ce n’erano anche altri di cui non sappiamo il nome… Allora, di cosa stiamo parlando? Ho fatto tutto questo ragionamento solo per dire: attenzione, Chiesa è uno di quei vocaboli pericolosi, perché tutti pensiamo di sapere a che cosa ci si riferisce, in realtà forse abbiamo tutti delle idee, o almeno delle sfumature, diverse.
            Gli Atti dovrebbero servire a questo: sapere che cos’è la Chiesa non è il punto di partenza, caso mai è il punto di arrivo. Forse nell’ultimo giorno, finalmente, di fronte a Dio, sapremo che cos’è e che cosa dovrebbe essere la Chiesa, e soprattutto come si fa, concretamente, a starci dentro, anzi a sentircisi dentro. Per intanto è un po’ come quando uno si sposa: ha un’idea di famiglia. Se è molto fortunato, quando muore ha avuto una famiglia diversa da quella che aveva immaginato ed in genere pensa: meno male! Non so se riesco a spiegarmi.
            Tutti ci muoviamo su alcuni principi, alcune scelte, alcune idee, alcuni desideri; non è detto che la vita li corrisponda tutti; a volte non li corrisponde e c’è un dolore; a volte non li corrisponde e c’è una gioia, perché ci viene dato di più o di diverso da ciò che avevamo immaginato e questo ci sorprende e forse anche ci riempie di una gioia che non riuscivamo neanche ad immaginare. La Chiesa funziona un po’ allo stesso modo: ci sono dei principi, delle idee, dei desideri; una di queste è l’idea di comunità, è un desiderio. La Chiesa dovrebbe essere una comunità, perfetto, tutti d’accordo. Poi, nella realtà, succedono tante cose, c’è la gente concreta, ci sono le persone, i preti, le scelte pubbliche, quelle private e così via; e alla fine, forse, sono riuscita a fare comunità almeno con alcuni; e mi accorgo dopo che quel pezzo di comunità mi  è stato dato, e che non è tutte le comunità del mondo, è un pezzo; ed è stato bello avere nella vita quel pezzo di comunità!
            Da questo punto di vista noi, che da un po’ di tempo veniamo a queste lectio, siamo una comunità? Idealmente no, nel senso che forse non ci siamo mai rivolti la parola gli uni agli altri. Ma per molti di noi questo luogo è diventato un appuntamento caro della propria vita e una serie di facce – a cui non ha mai rivolto la parola, non sa cosa gli passa per la testa, ma sa che quello lì si siede sempre lì in terza fila – sono diventate una compagnia abituale in questo percorso ed è una sorta di strana comunità che ci è data, senza particolari sentimenti di appartenenza, ma anche senza un particolare vincolo di omogeneità.
            La Chiesa sta un po’ da questa parte. Si può dire: ma come, andiamo tutti a messa alla domenica e non ci conosciamo, e se la comunità deve essere un’esperienza sentimentale, non è bello; ma si può anche dire: pensa, andiamo tutti a messa alla domenica, ci diamo il segno di pace… se io sapessi cosa pensa quello lì a cui do il segno di pace, forse non glielo darei, invece, sotto lo sguardo misericordioso del Signore, il Signore ci fa la grazia di non sapere che cosa pensa, così possiamo tutti pregare lo stesso Dio. E se una comunità non è solo un dato sentimentale, tra adulti seri ed usciti dall’immaginario materno, forse è una bella cosa. Poi, certo, dentro quella comunità anonima, ci possono essere alcune persone di cui so cosa pensano, anzi pensiamo le stesse cose e siamo lieti di darci il segno di pace perché questo ha un peso, perché è una vita condivisa, ci siamo aiutati anche fuori da lì! Forse non sono tutti, ed è un grande dono che mi siano dati quei pochi! Ma è anche un grande dono che mi siano dati quei tutti di cui forse è meglio che io non sappia che cosa pensano!
            Vorrei che provassimo a fare l’esercizio di tenere sullo sfondo almeno il dubbio sul non sapere bene che cosa è la Chiesa; e che provassimo a rovesciare alcuni ragionamenti, cioè che provassimo a dire che, se la chiesa di cui parla Atti è ciò che riceviamo, nessuno di noi può dire di aver ricevuto poco, perché, se ognuno di noi chiude un attimo gli occhi e fa l’elenco dei nomi e dei volti a cui deve qualcosa in termini di fede, è più lungo delle litanie dei santi. Ognuno di noi ha una sua privata litania dei santi, in genere piuttosto lunga, e questo non è poco; e in sovrappiù a questa privata litania dei santi c’è la comunione generale dei santi, quelli a cui forse non deve personalmente niente, ma che, per il solo fatto di essere seduti in terza fila, gli hanno fatto compagnia in un percorso; e anche questo non è poco, da adulti.
            Terza ed ultima osservazione. Dicevo prima, bisogna che ci occupiamo un po’ dei raccordi, cosa c’è prima e dopo questo racconto di Ananìa e Saffira.
            Prima si racconta che Pietro e Giovanni erano imprigionati; tutti i cristiani pregano; gli apostoli vengono liberati e, appena rimessi in libertà, pregano tutti insieme e sono felici e riconoscenti al Signore. Questo è appunto il genere del sommario, che sarebbe come dire, che bello che siamo stati imprigionati; che sarebbe come: meno male che non ci conosciamo. E’ guardare  le cose da un altro punto di vista perché è un po’ tosta da dire, che è bello che siamo stati imprigionati! Quello che ci stanno dicendo è: attenzione, Dio scrive su righe storte.
            La conclusione di questo è: “Quand’ebbero terminato la preghiera, il luogo un cui erano radunati tremò e tutti furono pieni di Spirito Santo e annunziavano la parola di Dio con franchezza. La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era tra loro comune. … Nessuno tra di loro era bisognoso…”.
            Cioè: quello che c’è prima è: siamo liberati, questo ci dà parola franca e non c’è più bisogno. Già un bell’inizio! La Chiesa sarebbe che uno liberato – da che?, Da chi? …bella domanda!…. – può fare due cose: parlare con franchezza e non avere più bisogno! Traducendo: può permettersi il lusso di avere solo desideri, non più bisogni, per usare una parola che spesso è tornata.
            Poi c’è il racconto di Ananìa e Saffira che adesso leggiamo, ed infine un’altra faccenda che funziona così: “Tutti erano soliti stare insieme nel portico di Salomone…”. E’ il portico del tempio, stanno lì a discutere; si fanno molti miracoli e prodigi; nessuno osa avvicinarsi a loro e la comunità si accresce di numero. E uno dice: ma questo che sta dicendo? Allora, si dice:  stanno nel portico, in un atrio, a discutere – con gli altri ebrei, con quelli che passano di lì – e succedono miracoli e prodigi; cioè, tutto si risolve magicamente – portano malati, tutti guariscono, succedono delle cose bellissime – e contemporaneamente nessuno osa avvicinarsi a loro, ma la comunità cresce. Strani eh?
            Questa è l’inclusione: da una parte c’è che loro, gli apostoli, sono cambiati, sono liberati; e il frutto della liberazione è franchezza  nella parola e libertà dal bisogno, dall’altra c’è che stanno in  un luogo aperto dove parlano e questo produce miracoli e crea una reazione strana: non osavano, avevano un po’ di timore, ma la comunità continua ad accrescersi. Io credo che, se la nostra esperienza di chiesa fosse costruita su questi due capisaldi, sarebbe una grande idea: noi liberati  che parliamo con franchezza e siamo liberi dal bisogno e questa parola con franchezza che è esercitata in un luogo aperto e con quelli che passano nel portico, non in una casa, al chiuso, sotto un’appartenenza, che produce miracoli e produce timore e tremore e fascino… come gli innamoramenti! Guardate che nessuno osava ma la comunità si accresceva, è la stessa paranoia di qualsiasi quindicenne innamorato: non oso ma non mi stacco; sono perennemente in dubbio, intimorito, impaurito, ma non riesco a staccarmi da lì. Questi sono i due riassunti della storia che permane.

            Il denaro
            Il racconto è molto facile, quasi una favola: i due cattivi muoiono. Ma forse è un po’ meno facile di quello che sembra, o meglio, facile ma meno superficiale, meno immediato, perché forse quello che si dice qui va a cozzare su un punto molto serio e profondo della nostra esperienza umana e cristiana.
            Innanzitutto si parla di denaro, una di quelle cose di cui noi non siamo capaci di parlare. C’è poco di più privato del denaro; ci si avvicina il sesso, ma ormai in questa società un po’ disinibita, tanto quanto… Ma quanto costano le cose, quanto abbiamo, quanto serve per vivere… è un tema difficilissimo. Perché il denaro ci fa così problema?
            Le spiegazioni sono molte, ma il denaro ha un valore simbolico nella nostra cultura. Funziona come i voti a scuola. Puoi ben spiegare agli  studenti  che  dare quattro ad un compito non  significa dirgli che lui vale quattro, ma che il suo compito vale quattro. Ciò che uno studente incamera è che lui vale quattro. Il denaro funziona un po’ così tutti siamo pronti a dire che le persone non si definiscono dal denaro che hanno, ma… Un minimo, però, ti serve per vivere, per non pesare sugli altri. La questione è il definire questo minimo, che cambia molto da luogo a luogo e funziona in modo strano; per esempio ci abituiamo subito ad avere di più; se uno passa da millequattrocento a milleottocento euro al mese dice, in fondo milleottocento euro al mese sono il minimo; e se dopo un po’ ne guadagna duemilacinquecento, immediatamente ci sta giusto. Facciamo molto in fretta ad alzare il livello del  minimo!
            La figura del denaro dunque è molto strana, perché ha un valore simbolico, che non vuol dire finto. In teologia si dice che il corpo è il simbolo dell’io, diciamo che il corpo è il luogo dove il mio io spirituale, interiore, è di per sé irraggiungibile prima di tutto da me e poi da tutti gli altri, se non avesse una voce, una faccia, un comportamento…un modo di proporsi… E’ nel corpo che gli altri mi riconoscono. E quando non vogliamo farci riconoscere ci travestiamo, camuffiamo il nostro corpo. Io stesso so di me attraverso il mio corpo e dunque mi vesto con un certo stile, ingrasso, dimagrisco, ho un pessimo rapporto con il mio corpo… dentro di me è nascosta una persona diversa da quella che sono in realtà.
            Quando dico simbolo, dico non una cosa finta, ma una cosa dove l’interno e l’esterno si incontrano, e ogni volta che l’interno e l’esterno si incontrano c’è sempre un po’ di fatica perché normalmente l’interno è troppo grosso, abbiamo tutti un’anima extra large e una vita small, tutti. E dunque abbiamo un cuore, dei desideri, una comprensione di noi… ma questo i cristiani lo sanno bene perché dentro di noi c’è l’immagine e la somiglianza di Dio! Che per forza è extra large. Gli antichi dicevano che i cristiani dovevano diventare magnanimi, cioè con una grande anima, con un’anima a misura di Dio. Quando interno ed esterno si incontrano c’è sempre un problema di compressione perché questo interno grande deve passare dentro degli imbuti per farsi incontrare e dunque non ci sappiamo spiegare – non so dirti come mi sento, tu non mi capisci, mi hai ferito con questo comportamento, ecc. Se io dovessi definire un umano, direi: tutti coloro che faticano a tenere insieme interno ed esterno. Hanno l’interno più grande dell’esterno, più anima che corpo, anche quando hanno un grosso corpo!
            Il denaro funziona allo stesso modo; ha un interno molto grande e molto potente: è potere, immagine, risultato, riconoscimento di ciò che si è fatto, riconoscimento sociale… E’ tantissime cose, ha un interno gigantesco… non a immagine di Dio! Perché non è umano. E questo è il problema. Per questo il denaro è spesso considerato legato al demonio, perché se uno non ha un interno a immagine di Dio … e per questo il denaro fa paura.
            In questo racconto di Atti ci viene detto che la Chiesa delle origini ha tutto in comune e che le cose vengono divise. Non dice il denaro, ma le cose; stiamo dalla parte degli umani. Quello che succede qui è invece un denaro messo in circolo. E il denaro viene sottoposto ad una strategia: se ne dà un po’, ma se ne tiene un altro po’. Peraltro è ciò che facciamo tutti, forse con proporzioni diverse da Ananìa e Saffira, ma ognuno di noi fa la carità, condivide una parte del suo denaro con i poveri, dà l’offerta domenicale, ha forse condivisioni anche più serie, ma ne tiene una parte ed è qui che la limpidezza di questo brano picchia duro! Perché noi in questo racconto non siamo Pietro, siamo Ananìa e Saffira! In fondo cosa c’è di male in questa strategia? Si comportano come persone di buon senso!
            La menzogna, l’accordo nel mentire, il tenere per sé
            Secondo il racconto ci sono tre cose di male: la menzogna, la prima e la più grave, di cui Pietro dice: “…hai mentito allo Spirito Santo…”, non a noi. La connessione denaro e menzogna è molto forte perché il denaro di suo non parla, le cose parlano. Il denaro è apparentemente neutrale. Un bell’oggetto ‘dice’ – mi piace, non mi piace, interpella i miei sensi, il mio gusto – una banconota è uguale a tutte le altre. Dunque il denaro si presta alla menzogna, soprattutto alla menzogna a sé stessi, nel rapporto tra bisogni e desideri.
            Secondo aspetto di male, secondo il racconto, è accordarsi sulla menzogna: marito e moglie si mettono d’accordo di raccontare la stessa storia. Non solo mentono, ma lo fanno costruendo una comunione di menzogna, creando un tessuto che regga la menzogna.
            Terzo, c’è di male che uno tiene per sé. Questa è una lezione antica. Nel libro dell’Esodo c’è il racconto della manna e si dice: “…il popolo uscirà a raccoglierne ogni giorno la razione di un giorno…, il sesto giorno…sarà il doppio…”. Se ne raccoglierete di più marcirà. C’è una legge della relazione con Dio, che è la legge fondamentale, semplice semplice, della fiducia: o uno si fida di Dio o si fida delle assicurazioni. O uno si fida che quel rapporto lo terrà in vita e gli dirà di lui, del riconoscimento, di simbolica, di produttività …, o uno si fida, ma si tiene…un’uscita di sicurezza!
            Questo è il meccanismo di tutti gli amori. Ci vuole molto tempo prima che uno si fidi davvero in un amore e non si tenga un’uscita di sicurezza! Per abituarsi all’altro e a me di fronte all’altro, e per lasciare davvero ogni uscita di sicurezza; e poi tutti noi ci siamo qualche volta sbagliati e mangiati i pugni all’idea che non ci eravamo tenuti un’uscita di sicurezza… Una delle leggi che, secondo me,  discende direttamente dal peccato originale, è la diffidenza. Smettiamo di essere fiduciosi intorno ai due anni. E’ una delle primissime lezioni che impariamo nella vita, apparentemente. E poi ci mettiamo tutto il tempo di un’età adulta per reimparare a non avere un’uscita di sicurezza.
            Qui si dice che di male ci sono tre cose: mentire, accordarsi nel mentire, tenersi un’uscita di sicurezza. E questo è veicolato dalla simbolica del denaro.
            Pietro pone Ananìa di fronte ad una questione terribilmente semplice: “Prima di venderlo, non era forse tua proprietà e, anche venduto, il ricavato non era sempre a tua disposizione? Perché hai pensato in cuor tuo a quest’azione?”.
            Cioè: nessuno gli aveva chiesto questo denaro; e questa è la vera tragedia di questo brano. Questi due si sono proprio sbagliati: hanno costruito una strategia di difesa su una cosa che non era un attacco. Potevano semplicemente tenersi il campo. E accettare, quanto a se stessi, di stare nella comunità non tra coloro che mettevano tutto in comune, bensì tra coloro che si tenevano i loro beni.   Tutti gli storici sono d’accordo: la prima comunità non aveva la comunione dei beni come regola obbligatoria. Molti lo facevano e altri no, ma funziona esattamente come al peccato originale: Adamo non vuole essere diverso da Dio, vuole essere come Dio, non sa neppure per guadagnarci cosa, ma non sopporta questa differenza.
            La somma di queste cose: cioè di sbagliarsi sul proprio luogo, ed essendosi sbagliati, mentire, e mentendo creare dei complici nella propria menzogna, e avendo creato dei complici  tenersi delle uscite di sicurezza… l’effetto di questo è la morte! E chiunque abbia più di vent’anni sa sulla propria vita che, quando e laddove ci è capitato di non riconoscere un pezzo di noi, di mentire a  noi stessi e di coinvolgere altri su questo raccontarci delle storie su di noi e nel cercare di salvaguardarsi, laddove ci è capitato questo, un pezzo di noi è morto. E ci è voluta molta fortuna, molto affetto di altri e molta fatica per richiamarlo in vita. E stare nelle proprie scarpe è molto faticoso. Uno ogni tanto dice: basta vorrei mandare tutti a quel paese, diventare uno che se ne frega. Ma se uno ha più di vent’anni sa che la vita non si prende in giro e che se uno non ce la fa a un certo punto, in un modo o nell’altro, a stare nelle proprie scarpe e a non raccontare delle frottole almeno a se stesso, non ce la fa a vivere, semplicemente. Dopo di che, può essere faticoso, particolarmente doloroso, in certi momenti uno perde la fiducia, pensa che non ce la farà mai, ma tutte le volte che ci siamo raccontati a noi stessi come qualcosa che non eravamo e che abbiamo detto, va beh, a questa cosa ci penserò dopo, l’abbiamo compressa, tenuta lì, questa cosa ci si è rivoltata contro, è stata una piccola morte, magari quindici anni dopo, perché la vita è testarda e perché la nostra anima extra large non sopporta le menzogne.
             Questa morte un po’ da favola, ahimè, è qualcosa di profondamente duro. Forse dovremmo chiederci quali pezzi di noi sono già stati sepolti, dai più giovani – l’ironia di Luca è notevole. Pensate alle nostre riflessioni su Tobia, Tobi il giovane e Tobi il vecchio; c’è sempre una parte giovane di noi che cerca di prenderla con entusiasmo e che seppellisce i pezzi che ci siamo persi per strada, ma …
            E poi c’è questa moglie, che arriva, ignara. E’ l’altra metà: ognuno di noi ha una parte maschile e una femminile ed ognuno di noi, se è molto fortunato e ce la fa a non raccontarsi troppe storie, ad un certo punto della propria vita deve decidere se vuole sposare la propria esistenza. Il matrimonio di questi due è un’associazione a delinquere, si sono sposati nella menzogna. Noi sappiamo bene che ci sono molti modi di sposare la nostra stessa vita, di fare della nostra vita la nostra moglie complice e dire con l’aria seria: mi piacerebbe poter fare così, … ma la vita, gli impegni, la famiglia … Che vuol dire, in realtà non lo desidero abbastanza.
            E qui c’è questa moglie, la vita, ignara dell’accaduto. Perché noi facciamo dire al lavoro, alla famiglia, ai figli, agli impegni, a tutto ciò che ci circonda, tutte le menzogne che ci serve che dicano, ma loro sono ignari. La nostra vita, di suo, funzionerebbe normale, nel bene e nel male, con i guai, i dolori, le gioie, le cose che accadono, ma noi le facciamo dire delle altre cose, la rendiamo ignara della nostra anima, e dunque ci segue nella nostra morte.

            Morte e paura
            Per arrivare al tema che ci ha guidato in queste lectio, l’effetto della morte è la paura. C’è un legame molto stretto tra mentire, conservare, mettere da parte per sé e far nascere il timore non solo in sé, ma intorno a sé.
            Questo testo ci dice che se mentiamo, forse noi non avremo più paura perché nel frattempo siamo morti, un pezzo di noi è morto, ma disseminiamo timore intorno a noi. Diventiamo generatori di paura. Dunque mentire o non mentire sulla propria vita non riguarda solo noi, ma riguarda una Chiesa. Si chiama comunione dei santi, è una dottrina antica. Il bene è diffusivo in sé e il male altrettanto, è una catena; e forse una rete di menzogne, di ideologia, di spiegazioni troppo facili sulla nostra esistenza, produce paura, genera male intorno.
            Torniamo all’inclusione, forse si capisce meglio. Pietro e gli apostoli, sono stati in prigione e sono stati liberati ed è la figura della liberazione dal bisogno, e di una parola che diventa franca, sincera, il contrario della menzogna. E dunque possono compiere miracoli e non hanno bisogno di assicurazioni, non devono tenersi qualcosa, perché diventano capaci, con un gesto, di guarire; possono compiere miracoli, possono rimanere in un luogo comune di parola scambiata, e possono sopportare di non essere né uguali né diversi, che nessuno osa, ma la comunità si accresce. Cioè possono sopportare di essere se stessi, di essere nelle proprie scarpe, non hanno paura.
            In mezzo c’è questo episodio che dice che la menzogna genera paura e morte.
            Concludo come ho iniziato: è un episodio lineare, che consente poche scappatoie. Qui, come in pochissimi altri testi della scrittura, si va al nucleo fondamentale, c’è poco da fare, non si può arzigogolare molto: su sé, quanto a sé, si dice la verità o si mente. Non si dà un terzo. Certo, si può dire la verità che si sa in quel momento, che magari non è ancora tutta, ma rispetto a quel momento o si dice la verità o si mente, non c’è un’altra possibilità. Dire la verità, almeno a se stessi, è una parola franca che genera miracoli; mentire è una collusione che genera morte e paura e c’è poco da infiocchettare.
            Trovo che l’asciuttezza di questa faccenda sia bella, perché ci dice che possiamo confonderci, sbagliarci, non sapere, non capire, non avere tutti gli strumenti, essere deboli e fragili, questo non importa, ma c’è qualcosa che importa e che è alla portata di chiunque di  noi: dirsi e dire la verità di sé in buona coscienza, fin dove la si possiede, o no. E su questo c’è poco da scherzare!

Fossano, 3 febbraio 2007
(testo non rivisto dall’autore)

XXX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – COMMENTO ALLA PRIMA LETTURA

dal sito:

http://www.parrocchiasantaluciapa.it/?p=2108#more-2108

a cura di P. Luigi Consonni

XXX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

1a lettura (Es 22,20-26)

Il testo raccoglie alcune delle molte norme che riguardano il corretto compimento dell’Alleanza.
Il forestiero, la vedova e l’orfano sono le persone più esposte allo sfruttamento. Queste persone vivono indifese ed essendo le più vulnerabili a ogni tipo di sopruso, sono le più bisognose di aiuto per sopravvivere.
Ecco, allora, l’indicazione del Signore “Non molesterai il forestiero né lo opprimerai, perché voi siete stati forestieri in terra d’Egitto”. Nel vissuto sociale odierno è estremamente attuale questa indicazione riguardo agli immigrati. Il fatto è che, come allora, anche oggi ci si dimentica degli antenati che furono forestieri in altre terre, delle loro sofferenze, dei loro disagi…
Svanisce dalla memoria il loro dramma e la loro sofferenza, anche perché è insito nel vissuto umano distanziarsi dal passato che fu motivo di grandi sofferenze. Ma l’invito del Signore è non dimenticare, ma al contrario, incentivare la memoria, per sintonizzarsi con il vissuto di coloro che nell’attualità sono nelle stesse condizioni, e, soprattutto, per attivare la compassione e la misericordia nei loro confronti.
Essi non hanno via uscita dalle sofferenze di cui sono vittime. Pertanto, agire nei loro riguardi con compassione e misericordia è imitare il Signore. Il loro clamore, il loro grido, è ascoltato e accolto dal Signore “quando invocherà da me l’aiuto, io darò ascolto al suo grido (…) quando griderà verso di me, io l’ascolterò, perché io sono pietoso”. L’attenzione verso loro trova in Dio il modello adeguato. Lui non è un Dio distratto né indifferente e, meno ancora, insensibile.
La partecipazione di Dio alle loro sofferenze è così intensa da provocargli uno stato emozionale veemente, al punto da pronunciare uma sentenza durissima “Se tu lo maltratti (…) la mia ira si accenderà e vi faro morire di spada: Le vostre mogli saranno vedove e i vostri figli orfani”. L’adesione al Signore si manifesta nell’assumere la sua stessa enorme indignazione e collera.
La minaccia che segue fa capire che l’oltraggio all’Alleanza allontana da Dio e dalla sua protezione. Con l’oltraggio viene a mancare il motivo, la convinzione e la forza per sostenere il rapporto fraterno e solidale, nell’osservare il diritto e la giustizia. A coloro che permangono in questa lontananza è riservata la stessa condizione di coloro che sono da loro stessi sfruttati ed oppressi senza pietà.
Sarà come ritornare nelle stesse condizioni della schiavitù in Egitto (Egitto è sinonimo di male e del peccato – N.d.A.). Sarà come se mai fosse successa la liberazione e l’uscita dal paese: di nuovo morte prematura e ingiusta; di nuovo vedove e orfani; di nuovo dominio del male e del peccato…
Il Signore aggiunge un altro importante e deleterio aspetto “Se presti denaro a qualcuno (…) non ti comporterai con lui da usuraio: voi non dovete imporgli alcun interesse (..) quando griderà verso di me, io l’ascolterò, perché io sono pietoso”. In effetti, il cuore dell’usuraio si fa sempre più duro e insensibile, si disumanizza. E la vittima è maltrattata al punto tale da non avere le condizioni indispensabili per ripararsi dal freddo e poter riposare di notte.
Il testo tocca aspetti drammatici dell’attualità. E’ triste constatare come l’insegnamento del Signore è ignorato nello stabilire rapporti interpersonali e sociali. Sono parole che cadono nel vuoto. Il rapporto con il Signore è svuotato della sua forza rinnovatrice e trasformatrice. L’adesione di “fede”- tra virgolette, perché si fa per dire – a Lui è solo funzionale ai propri progetti, molte volte semplicemente egocentrici.
Il risultato è tragico. E’ tutto il contrario di ciò che Dio si aspetta in virtù della sua continua azione amorosa, in fedeltà al patto stabilito.

Beato John Henry Newman : « Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo »

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php

Ascensione del Signore, solennità – Anno A

Meditazione del giorno
Beato John Henry Newman (1801-1890), sacerdote, fondatore di una comunità religiosa, teologo
PPS, vol.6, n° 10
« Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo »

        Il ritorno di Cristo da suo Padre è nello stesso tempo fonte di tristezza, perché implica la sua assenza, e fonte di gioia, perché implica la sua presenza. Dalla dottrina della sua Risurrezione e della sua Ascensione, sgorgano questi paradossi cristiani sovente accennati nella Scrittura, che cioè ci affligiamo senza pure cessare di rallegrarci : « gente che non ha nulla e invece possediamo tutto ! » (2 Cor 6,10).

        Questa è, in verità, la nostra condizione presente : abbiamo perso Cristo e l’abbiamo trovato ; non lo vediamo eppure lo discerniamo. Abbracciamo (baciamo ?) i suoi piedi (Mt 28,9), eppure ci dice : « Non mi trattenere » (Gv 20,17). Come ? È perché abbiamo perso la percezione sensibile e cosciente della sua persona ; non possiamo guardarlo, sentirlo, conversare con lui, seguirlo di luogo in luogo ; eppure godiamo spiritualmente, immaterialmente, interiormente, mentalmente e realmente della sua vista e del suo possesso ; un possesso che avvolge più realtà e più presenza di quella di cui godevano gli apostoli nei giorni della sua carne, proprio perché essa è spirituale, proprio perché essa è invisibile.

        Sappiamo che in questo mondo, quanto più vicina è una cosa, tanto meno la possiamo percepire e comprendere. Cristo è venuto così vicino a noi nella Chiesa cristiana, se posso dire così, che non possiamo fissare lo sguardo su di lui o distinguerlo. Egli entra dentro di noi, e prende possesso dell’eredità che si è acquistata. Non si presenta a noi ; ci prende con lui. Fa di noi le sue membra… Non lo vediamo ; conosciamo la sua presenza soltanto mediante la fede, perché egli è al di sopra di noi e in noi. Per cui siamo nella tristezza perché non siamo coscenti della sua presenza…, e ci rallegriamo perché sappiamo che lo possediamo : « Voi lo amate, pur senza averlo visto ; e ora senza verderlo credete in lui. Perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa, mentre conseguite la mèta della vostra fede, cioè la salvezza delle anime » (1 Pt 1,8-9).

Gianfranco Ravasi : La parabola di Lazzaro e del ricco Epulone

dal sito:

http://www.stpauls.it/fc04/0451bis/0451bf59.htm

Il biblista Ravasi

La parabola di Lazzaro e del ricco Epulone

Gesù parla a noi, figli del mondo dello spreco
Nel Libro della Sapienza si elencano le quattro virtù cardinali o morali. Ebbene, contrariamente alla tradizione successiva che collocherà al primo posto la prudenza, qui si propone quest’ordine: «La Sapienza insegna la temperanza e la prudenza, la giustizia e la fortezza» (8,7). Certo è che la moderazione o sobrietà, non solo nel consumo dei cibi ma anche nel possesso, nell’egoismo, nell’intemperanza delle passioni, è una virtù preziosa. Il Libro dei Proverbi rappresenta questa vivacissima scenetta: «Per chi i guai, i lamenti, i litigi, i gemiti? A chi le percosse per futili motivi? A chi gli occhi rossi? Per quelli che si perdono dietro al vino e vanno a gustare vino puro. Non guardare il vino quando rosseggia, quando scintilla nella coppa e scende giù piano piano. Finirà col morderti come un serpente e pungerti come una vipera… Ma quando mi sveglierò, ne chiederò dell’altro!» (23,29-32.35). Noi, per illustrare questa virtù, proporremo una parabola di Gesù molto famosa, quella del povero Lazzaro e del ricco gaudente (Luca 16,19-31).

La tradizione popolare ha usato un aggettivo ormai in disuso ma efficace per designare quel ricco, « epulone ». «Un uomo ricco vestiva di porpora e bisso e tutti i giorni banchettava lautamente. Un mendicante era bramoso di sfamarsi di quello che cadeva dalla mensa del ricco». Alla fine il giudizio è nel contrappasso: il povero Lazzaro è accolto nella festa del cielo in compagnia di Abramo e di tutti i giusti, mentre il ricco gaudente è nell’inferno e implora anche solo una goccia che cada sulla sua lingua dal dito bagnato d’acqua di Lazzaro. La lezione è chiara ed è attuale soprattutto per il mondo occidentale, che non conosce limite allo spreco e che ormai ha come problema principale quello della dieta e della linea, davanti a un altro mondo che è, al contrario, affamato e assetato. Isaia ribadiva che il vero digiuno è «dividere il pane con l’affamato» (58,7) e la testimonianza di Cristo e della prima comunità cristiana è, al riguardo, emblematica. La temperanza, però, che è soprattutto controllo di sé e delle passioni, non conduce al disprezzo del corpo e del cibo, tant’è vero che Gesù è ritratto spesso dagli evangelisti mentre è a mensa, così da essere bollato come «un mangione e un beone». In realtà la temperanza non è masochismo e cupezza o ascetismo acido e duro; è, invece, sobrietà, dignità, sereno distacco ed equilibrio. Anche san Paolo suggeriva al discepolo Timoteo di non rinunciare a «un po’ di vino a causa dello stomaco e delle frequenti indisposizioni» (1Timoteo 5,23).

Gianfranco Ravasi

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