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SALMO 28 (29) PROCLAMAZIONE DELLA SOVRANITÀ DEL SIGNORE

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SALMO 28 (29)  PROCLAMAZIONE DELLA SOVRANITÀ DEL SIGNORE

SALMO. DI DAVIDE

Date al Signore, figli di Dio,
date al Signore gloria e potenza.
Date al Signore la gloria del suo nome,
prostratevi al Signore nel suo atrio santo.
La voce del Signore è sopra le acque,
tuona il Dio della gloria,
il Signore sulle grandi acque.
la voce del Signore è forza,
la voce del Signore è potenza.
La voce del Signore schiantai cedri,
schianta il Signore i cedri del Libano.
Fa balzare come un vitello il Libano,
e il monte Sirion come un giovane bufalo.

La voce del Signore saetta fiamme di fuoco,
la voce del Signore scuote il deserto,
scuote il Signore il deserto di Kades.
La voce del Signore provoca le doglie alle cerve
e affretta il parto delle capre.
Nel suo tempio tutti dicono: “Gloria!”.
Il Signore è seduto sull’oceano del cielo,
il Signore siede re per sempre.
Signore darà potenza al suo popolo,
il Signore benedirà il suo popolo con la pace.

Commento
Il salmista si rivolge ai figli di Dio (Cf. Gn 6,2) agli Israeliti, a quelli che hanno cedimenti con gli idoli e perso la speranza nel Dio d’Israele. Il testo ebraico ha: “figli degli dei”, per dire che sono diventati figli degli idoli; si tratta indubbiamente di una provocazione al ritorno.
I santi ornamenti sono gli abiti casti, lindi, coi quali il popolo deve prostrasi dinanzi a Dio, ornamenti che non dichiarino l’appartenenza agli idoli.
Il salmo con grande probabilità risale al tempo dei Giudici quando molti Israeliti si contaminarono con i culti cananei. A loro sembrava che le promesse di Dio di un’immediata conquista della terra promessa si fossero esaurite, da qui il salmista che richiama all’unico e vero Dio. Gli idoli cui gli Israeliti cedevano erano i Baal. Baal era il dio della vegetazione e della pioggia; era rappresentato in statuette con in mano una folgore.
Il salmista proclama che il vero e unico sovrano della tempesta è il Signore.
Dio afferma la sua parola potente, sovrana, nel turbinio di un diluvio. All’uragano si accompagna il terremoto per questo il Libano e il Sirion, nome fenicio dell’Hermon sono scossi: “Fa balzare come un vitello il Libano, e il monte Sirion come un giovane bufalo”. Un vento impetuoso estende la nuvolaglia nera verso il deserto di Kades e schianta a terra con la sua forza i cedri del Libano, denudando così le foreste.
I fulmini poi scuotono le terre pianeggianti della steppa, mentre le cerve terrorizzate partoriscono anzitempo. E’ una teofania impressionante di Dio “seduto sull’oceano del cielo”, inattaccabile nel suo essere il Re: “Il Signore siede re per sempre”.
“Nel suo tempio tutti dicono: <Gloria!>”, cioè nel tempio celeste dove tutti gli angeli osannano Dio.
Il salmista nella composizione del salmo probabilmente guardò alla teofania del Sinai estendendola a tutta la Palestina; ma non si può escludere che descriva un evento atmosferico e tellurico realmente accaduto. Una teofania simile, con diretta regia di Dio, Elia la visse sull’Oreb (il Sinai) (1Re 19,11).
Il salmista afferma così che Dio non ha perso né di potenza né di gloria, e che aiuterà il suo popolo contro coloro che lo credono ormai assorbito dai loro costumi. E Dio darà pace al suo popolo. E questa pace avrà un nome: Cristo.

OMELIA SU 1RE 17,17-24: LA FARINA E L’OLIO

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OMELIA SU 1RE 17,17-24

DON MARCO PRATESI

LA FARINA E L’OLIO

« Non ci sarà rugiada né pioggia in questi anni, se non alla mia parola » (17,1): sono parole di Elia al re Acab che, spinto dalla moglie Gezabele, ha organizzato in Israele il culto di Baal (= »Signore »), Dio siro-fenicio e cananeo della tempesta e quindi della fertilità (cf. 16,32-33). Il senso del gesto di Elia è chiaro: vediamo chi ha davvero in mano la pioggia, la fertilità, la vita! Siamo dunque in tempo di siccità e carestia. Per mettersi al sicuro, Elia si rifugia presso il torrente Cherith (cf. 17,2-6), ma quando anch’esso secca, riceve l’ordine di andare fuori da Israele, in Fenicia: qui Dio ha dato disposizione per il suo sostentamento. A chi? A una vedova, che a malapena riesce a provvedere a sé e al figlio. Scelta singolare! La vedova, pagana, è invitata a un atto di fede nella parola del Signore (che evidentemente le è stata rivolta prima) e del suo profeta (che ora le chiede da mangiare e da bere). Deve pensare prima all’uomo di Dio e solo dopo a sé e al figlio. Mentre il popolo di Dio non si fida del suo Signore e si affida a déi stranieri, questa donna straniera si fida del Signore e rischia tutto sulla parola del profeta (in analogo senso universalistico Gesù richiamerà questo passo, provocando una reazione di rigetto, cf. Lc 4,25-26). L’atto di fede produce il suo effetto, ma notiamo: la vedova non si trova in casa una montagna di farina né un orcio traboccante d’olio. Le rimane sempre e solo quel pugno di farina e quel po’ di olio, che però non si esauriscono. Ella – con lei il profeta – dipende momento per momento dalla provvidenza di Dio, senza potersi mai sentire garantita dal possesso di un’abbondante scorta.
L’idolatria produce sterilità, la fede vita, anche in situazioni difficili. Che cosa mi assicura la vita? A chi mi affido per sfuggire alla morte? Su questo si gioca la partita della vedova, di Elia, di Acab e di ogni uomo. Occorre imparare a fidarsi, a dipendere, non solo da Dio ma anche, in subordine a lui, dagli uomini. Esiste una dipendenza dagli uomini che è idolatria, ne esiste una che è fraternità. Se doveva operare un miracolo, Elia non avrebbe potuto provvedere da sé al proprio sostentamento? Ma gli uomini di Dio non fanno miracoli a proprio vantaggio. Egli deve dipendere dalla vedova e dal suo atto di fede e di amore. E per quale motivo Dio deve andare a chiedere aiuto proprio a una vedova nullatenente piuttosto che a un ricco? Ella deve imparare a fidarsi di Dio e della sua parola, di cui il profeta è portatore, dando così una severa lezione a Israele, che invece va a cercarsi Baal come protettore. La vera fecondità, la vitalità piena, si dà solo nel dono, che si esprime prima di tutto attraverso la fiducia accordata al Signore; e che si concretizza a sua volta nell’accettazione della dipendenza dagli altri come strumenti della cura di Dio, e nella disponibilità a essere di quella medesima cura strumento per gli altri.

IL “PASTORE” – DI MONS. GIAN FRANCO RAVASI

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 IL “PASTORE” -  DI MONS. GIAN FRANCO RAVASI

IO SONO IL BUON PASTORE. IL BUON PASTORE OFFRE LA VITA PER LE PECORE.

(GIOVANNI 10,11)

La via dominante per parlare di Dio è quella simbolica e la Bibbia ne è una testimonianza continua, vivida e affascinante. Si parte da segni concreti del mondo o dell’esperienza e si identificano in essi elementi che ci possono condurre verso l’alto, verso la pienezza e la perfezione, verso Dio. Ora, è noto che la matrice del popolo ebraico è nomadica e quindi legata alla vita pastorale, spesso sentita in tensione con quella sedentaria: emblemdtica è la scena di Abele, pastore, e Caino, agricoltore, col suo esito tragico. La Bibbia rivela spesso una certa nostalgia per il nomadismo, anche sulla base della vicenda esodica, quando Israele aveva vagato per quarant’anni nelle steppe del Sinai.

Ma ritorniamo al simbolismo pastorale e alla sua applicazione teologica al Signore che è chiamato anche nel Nuovo Testamento «il Pastore grande delle pecore» (Ebrei 13,20). In questa immagine due sono le componenti fondamentali. Da un lato, il pastore è la guida del gregge. Come dice il Salmo 23,4: «il suo bastone e il suo vincastro danno sicurezza» e guidano attraverso la valle oscura. Oppure, come dice Gesù, il pastore «deve condurre il gregge» all’ovile e le pecore «ascoltano la sua voce e lo seguono» (Giovanni 10,3-4).
D’altro lato c’è, però, un altro elemento rilevante a cui spesso non si bada: il pastore è il compagno di vita e di viaggio del suo gregge. Nel Salmo citato si afferma di «non temere alcun male perché tu sei con me». Egli non mette in salvo prima sé stesso, non si sfama o si disseta indipendentemente dal suo gregge, bensì ne condivide l’esistenza. Con un’immagine pastorale particolare, quella dell’otre che contiene l’acqua necessaria durante il trasferimento da un’oasi all’altra, il Salmista afferma che il Pastore divino «le mie lacrime nell’otre suo raccoglie» (Salmo 56,9), impedendo che le sofferenze si dissolvano nel non senso e nel nulla. Anzi, Gesù dichiara che il pastore «offre la vita per le pecore».
Il simbolismo ha spesso un profilo antitetico. Lo insegna il profeta Ezechiele quando nel capitolo 34 del suo libro delinea il comportamento dei pastori di Israele, ossia dei capi politici e religiosi, che si preoccupano solo di «nutrirsi di latte, di rivestirsi di lana, di ammazzare le pecore più grasse, ignorando le pecore deboli, non curando le inferme, non fasciando le ferite, non riportando le disperse».
Nel Vangelo di Giovanni al pastore è opposto, invece, il mercenario: egli nell’ora del pericolo è pronto solo a salvare sé stesso. Forse anche Gesù allude ai sacerdoti, agli scribi, ai politici del tempo o agli zeloti, i ribelli antiromani, tutti pronti a raggiungere i loro scopi e a tutelare i loro interessi, non certo a donare la vita per il gregge.
Il buon pastore — o, come dice il testo greco del capitolo 10 di Giovanni, il “bel pastore” — è colui che conosce e ama il suo gregge. È su questo modello che devono esemplarsi anche i pastori della Chiesa, a partire da Pietro che riceve la missione di pascere le pecore del gregge di Cristo (Giovanni 21, 15-17). È proprio san Pietro ad ammonire i pastori della Chiesa a «pascere il gregge di Dio…, facendosi modelli del gregge» (si legga 1 Pietro5, l-4).

LE PAROLE PER CAPIRE

MERCENARIO – Era il lavoratore salariato assunto a giornata con una “mercede~ pattuita volta per volta e versata a lui prima del tramonto del sole, al termine della sua prestazione (Levitico 19,13). Si ricordi la parabola dei lavoratori mandati nella vigna a ore diverse (Matteo 20,1-16).

PIETRA ANGOLARE – Si trattava della pietra che si metteva a base di un edificio o di quella che teneva insieme la volta di una sala. La sua funzione decisiva a livello architettonico l’aveva resa simbolo per designare il tempio di Sion (Salmo 118,22) oppure lo stesso Cristo all’interno della storia della salvezza (Marco 12,10) o della Chiesa (Efesini 2,20; 1 Pietro 2,4-8).

IL LIBRO E L’AGNELLO : (AP. 5, 1-14)

http://www.corsobiblico.it/apocalisse.htm#_Toc73449220

(commento alla seconda lettura, l’Apocalisse, in realtà è 5,11-14, ma metto tutto: 1-14)

IL LIBRO E L’AGNELLO : (AP. 5, 1-14)

1.      E vidi nella mano destra di Colui che era assiso sul trono un libro a forma di rotolo,                        scritto sul lato interno e su quello esterno, sigillato con sette sigilli.                 
2.      Vidi un angelo forte che proclamava a gran voce: “Chi è degno di aprire il libro e scioglierne i sigilli?”.
3.      Ma nessuno né in cielo, né in terra né sotto terra era in grado di aprire il libro e di leggerlo.
4.      Io piangevo molto perché non si trovava nessuno degno di aprire il libro e di leggerlo.
5.      Uno dei vegliardi mi disse: “Non piangere più, ha vinto il leone della tribù di Giuda, il Germoglio di Davide, e aprirà il libro e i suoi sette sigilli”.
6.      Poi vidi ritto in mezzo al trono circondato dai quattro esseri viventi e dai vegliardi un Agnello, come immolato. Egli aveva sette corna e sette occhi, simbolo dei sette spiriti di Dio mandati su tutta la terra.
7.      E l’Agnello giunse e prese il libro dalla destra di Colui che era seduto sul trono.
8.      E quando l’ebbe preso, i quattro esseri viventi e i ventiquattro vegliardi si prostrarono davanti all’Agnello, avendo ciascuno un’arpa e coppe d’oro colme di profumi, che sono le preghiere dei santi.
9.      Cantavano un canto nuovo. “Tu sei degno di prendere il libro e di aprirne i sigilli, perché sei stato immolato e hai riscattato per Dio con il tuo sangue uomini di ogni tribù, lingua, popolo e nazione
10.  E li hai costituiti per il nostro Dio un regno di sacerdoti e regneranno sopra la terra”.
11.  Durante la visione poi intesi voci di molti angeli intorno al trono e agli esseri viventi e ai vegliardi. Il loro numero era miriadi di miriadi e migliaia di migliaia
12.  E dicevano a gran voce: “L’Agnello che fu immolato è degno di ricevere potenza e ricchezza, sapienza e forza, onore, gloria e benedizione”.
13. Tutte le creature del cielo e della terra, sotto la terra e nel mare e tutte le cose ivi contenute, udii che dicevano: “A Colui che siede sul trono e all’Agnello lode, onore, gloria e potenza, nei secoli dei secoli”.
14.  E i quattro esseri viventi dicevano: “Amen”. E i vegliardi si prostrarono in adorazione.

Commento esegetico.
 Dopo la grandiosa visione del trono di Dio (4,1-11), ecco la visione dell’Agnello (5, 1-14) morto e risorto, una pagina cristologica fra le più importanti dell’intero Nuovo Testamento. Le due visioni sono strettamente collegate e complementari. Il profeta vede un Agnello come ucciso (è il Crocifisso) e nel contempo ritto in piedi (è il Risorto), con sette corna che significano la pienezza della forza e con sette occhi che si identificano con i sette spiriti di Dio e significano la divina onniscienza. Di Dio si è celebrata la creazione (4,11), dell’Agnello si celebra la redenzione (5,9: “Hai riscattato col tuo sangue uomini di ogni tribù, lingua, popolo e nazione”).
I quattro viventi e i ventiquattro anziani si prostrano davanti a Lui come a Dio (7, 4-10 e 5,8). La corte celeste ripete per Lui l’inno di gloria già cantato in onore di Dio. E nel cantico liturgico finale, Dio e l’Agnello sono accomunati: “A Colui che siede sul trono e all’Agnello lode e onore” (5,13).
Le due visioni sono, pertanto, complementari (il cristiano crede in Dio e nel suo inviato Gesù Cristo), e ci troviamo di fronte a una delle più esplicite affermazioni della divinità di Gesù e della sua sovranità universale e vittoriosa: il mondo è ancora in balìa del male, ma la vittoria è già nelle mani del Cristo morto e risorto.
Per valutare tutta l’importanza di questa pagina, occorre allargare l’orizzonte.
Secondo la concezione apocalittica ebraica e cristiana, la storia si svolge su due piani: la cronaca dei fatti, degli avvenimenti, delle realtà storiche che si susseguono e che si vedono, e il disegno di Dio che non si vede, ma sta nel profondo, nascosto dalla cronaca e tuttavia da essa rivelato.
L’apocalittica è attenta alle persone, agli avvenimenti e alle vicende del suo tempo, ma vede tutti questi fatti come “segni” e “strumenti” di una realtà che sta oltre.
L’apocalittica, quindi, non si accontenta di leggere i singoli avvenimenti, di confrontarli e collegarli tra loro. E’ convinta che per raggiungere la storia “vera” occorre porsi, in un certo senso, fuori di essa. Occorre una rivelazione. Per capire la storia bisogna guardarla dall’alto: il vero storico è il profeta.
La differenza e l’originalità dell’Apocalisse di Giovanni nei confronti di tutta l’apocalittica giudaica, sta nella visione del libro sigillato e dell’Agnello. La visione afferma che Gesù è al centro della storia. E’ osservando la sua vicenda di morte e resurrezione che noi possiamo comprendere la realtà profonda della storia. Non occorre, dunque, una nuova rivelazione, ma una “memoria”. Se “ricordiamo” la vicenda di Cristo, comprenderemo che il disegno di Dio è sempre combattuto; che addirittura c’è un tempo in cui le forze del male sembrano prevalere (la Croce), ma sappiamo anche che l’ultima parola è la risurrezione. La via dell’amore, della non violenza coraggiosa e del martirio, è crocifissa ma non vinta. Se vogliamo fare la storia, dobbiamo metterci alla sequela di Cristo, percorrere la sua stesa via,  metterci  “in cammino”, come Lui, verso Gerusalemme.
Concludendo questo quadro generale del quinto capitolo, possiamo dire che questo libro “sigillato” racchiude i “segreti” della storia, e che solo Cristo (l’Agnello), è capace di rompere i sigilli e aprire il libro, cioè di darne l’esatta interpretazione. E l’uomo può capire la storia, solo guardando Colui che ci ha “riscattati” con la sua morte e risurrezione.
“Io piangevo molto”: la situazione dei cristiani che subiscono la persecuzione sarebbe assurda e senza speranza, se Cristo con la sua morte, non avesse vinto (v.9), in tal modo mostra ai cristiani fedeli la strada per la loro vittoria (2,11.17.26; 3,5.12).
“Il germoglio di Davide”: questo titolo e quello precedente “il leone della tribù di Giuda”, indicano come l’Agnello abbia adempiuto le promesse veterotestamentarie (Is. 11,1.10; Rom. 15,12).
“Vidi in mezzo al trono un Agnello”: la posizione simboleggia lo stretto legame con Dio, della cui conoscenza (“sette occhi”) e potenza (“sette corna”: Deut. 33,17; Lc. 1,69) l’Agnello è partecipe. Ma l’Agnello è anche in mezzo agli anziani, indicando in tal modo che rimane legato alla sua Chiesa (1,13).
“L’Agnello”: questo è il titolo che più di ogni altro viene attribuito a Cristo nell’Apocalisse (28 volte). Il tema di Cristo sacrificato come un agnello (Gv. 1,29.36; 19,36; Atti 8,32; 1 Cor. 5,7; 1 Pt. 1,18 ss.) si riallaccia con quello del Servo di Jahwè (Is. 53,7) e dell’agnello pasquale (Es. 12). Ma l’Apocalisse considera l’Agnello come un conquistatore che dopo il suo sacrificio detiene un dominio universale.
“Come immolato”: porta ancora i segni del suo sacrificio (Gv. 20,25.17) ma non è più prigioniero della morte. L’azione dell’Agnello che prende il rotolo rappresenta la sua ascesa al trono. Le tre dossologie che seguono vv. 9ss. 12.13) corrispondono alle acclamazioni che seguivano di solito l’intronizzazione di un re.
“L’Agnello giunse e prese il libro dalla destra di Colui che era seduto sul trono”: la mano destra è simbolo dell’azione: lo Spirito Santo è Dio in azione per tutta la terra. Il libro indica il piano di Dio sul mondo, che, prima della venuta di Cristo, era sconosciuto: Gesù rivela il “mistero nascosto da secoli in Dio”.
“Tu sei degno di prendere il libro e di aprirne i sigilli”: prendere il libro, cioè assumere tutta la storia umana (uomini di ogni razza, lingua, popolo e nazione) e darle un senso. Nessuna filosofia è riuscita a farlo in maniera definitiva. Essa inciampa contro i limiti della finitudine e dell’irrazionalità. Solo Gesù, perché Dio (cioè trascendente) e uomo (immanente, dentro la storia), può rivelarne la portata e lo sbocco ultimo. L’uomo non si trova sulla terra solo per passare dall’età della pietra a quella della bomba atomica; egli è fatto per cercare e trovare Dio, e per costruire con lui la Gerusalemme celeste.
“Avendo ciascuno delle cetre”: questo era lo strumento con cui tradizionalmente (14,2; 15,2) si accompagnava il canto dei salmi.
“Le preghiere dei santi”: la chiesa sulla terra si associa alla Chiesa in cielo per rendere il culto a Dio e all’Agnello (8,3; Sal. 141,2; Lc. 1,10). I “santi” ( 8,3; 11,18; 13,7.10; Dan. 7,18) sono i fedeli del regno di Cristo appartenenti a Dio.
“Un cantico nuovo”: quest’espressione frequentemente usata nei Salmi (33,3; 40,3; 98,1), si riferiva originariamente a un insolito inno di lode, ma anche a un avvenimento straordinario (Is. 42,10). Questa novità della lode corrisponde al nome nuovo dato al vincitore (2,17; 3,12), alla nuova Gerusalemme (3,12; 21,1), al nuovo cielo e alla nuova terra (21,1), e infine al rinnovamento universale (21,5). In breve, l’intero universo (i quattro esseri viventi) e la Chiesa (i 24 vegliardi) celebrano Cristo il quale, mediante la risurrezione ha inaugurato la nuova èra.
“Tribù, lingua, popolo, nazione”:  questi quattro termini esprimono tutto l’universo fisico.
Come la dossologia è offerta tanto a Dio quanto all’Agnello, così la regalità e il dominio appartengono indistintamente al Padre e a Cristo (3,21).
Questa solenne liturgia termina con l’omaggio alla Chiesa celeste con i rappresentanti della creazione (v.14).
 In sintesi: Gesù Cristo riceve dalla mano del Padre il libro sigillato (il piano salvifico è opera del Padre). E’ lui che realizza questo piano e lo rende noto.

Commento spirituale.
 “Non piangere più, ha vinto il leone della tribù di Giuda, il Germoglio di Davide, e aprirà il libro e i suoi sette sigilli”. Solo Gesù Cristo è in grado di spiegare i misteri della vita dell’uomo e della storia, e solo lo  Spirito Santo che guida la Chiesa può portare l’uomo alla comprensione del mistero di Cristo, presente nella storia e nella vita dell’uomo. Gesù stesso, salendo al Padre, ci dà quella profonda garanzia di cui avevamo bisogno: “Sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo”. E su questo impegno del Cristo Risorto, che si poggia la fede della Chiesa; è grazie alla presenza del Signore che non verrà mai meno la fede della Chiesa; solo l’avvento del suo regno d’amore, sarà capace di  “rompere i sigilli” e squarciare il velo che nasconde il futuro e rivelare la direzione e il significato della vita dell’uomo.
Gesù di Nazareth non insegna una visione del mondo, ricavata dalla comune esperienza umana, un insieme di verità religiose e morali, frutto di riflessione particolarmente penetrante. Si presenta, invece, come il messaggero di un avvenimento appena iniziato e in pieno svolgimento. Il suo, prima di essere un insegnamento, è un annuncio, un grido di gioia: viene il regno di Dio! Una semplice frase, collocata in apertura del vangelo di Marco, riassume tutta la sua predicazione: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al Vangelo” (Mc. 1,15). Questa è la buona notizia che Gesù ha da comunicare. Questa è la causa per cui vive, la ferma speranza che lo sostiene.
Gesù si inserisce nel suo ambiente, inquieto e pieno di aspettative, con continuità e originalità. Il suo passaggio desta nella gente interesse, stupore, entusiasmo; a volte perfino un misterioso timore. Provoca in molti diffidenza, delusione, rifiuto e ostilità. Non lascia però indifferente nessuno.
Il suo annuncio è che il regno di Dio non è più solo da attendere nel futuro; è in arrivo, anzi in qualche modo è già presente. Viene in modo assai concreto, a risanare tutti i rapporti dell’uomo: con Dio, con se stesso, con gli altri e con le cose (Mt. 11, 2-6; 14, 14-21). Vuole attuare una pace perfetta, che abbraccia tutto e tutti. Al suo confronto l’esodo dall’Egitto e il ritorno da Babilonia erano solo pallidi presagi. Tuttavia il Regno non comporta né il trionfo della legge mosaica, né la rivoluzione nazionale, né gli sconvolgimenti cosmici. Bisogna credere innanzitutto all’amore di Dio Padre, che si manifesta attraverso Gesù, e convertirsi dal peccato, che è la radice di tutti i mali (Mt. 6,33).
Nelle parole, nei gesti e nella persona di Gesù, il Padre comincia a manifestare la sua sovranità salvifica, cioè il suo regno: “Il regno di Dio non viene in modo da attirare l’attenzione, e nessuno dirà: Eccolo qui, o eccolo là. Perché il regno di Dio è in mezzo a voi” (Lc. 17,21); “Se io scaccio i demòni per virtù dello Spirito di Dio, è certo giunto fra voi il regno di Dio” (Mt. 12,28).
Il presente, umile e nascosto, contiene una meravigliosa virtualità che si dispiegherà nel futuro. E’ come il seme che silenziosamente germoglia dalla terra e produce la spiga; come il minuscolo granello di senape che poi diventa un albero, come il modesto pugno di lievito che finisce per fermentare tutta la pasta (Mt. 4, 26-29, 13, 31- 32.33).
Il regno di Dio cresce là dove c’è amore e rispetto per il fratello, dove la condivisione è regola di vita e la solidarietà è di casa; il regno di Dio ha bisogno della nostra cooperazione, si nasconde nella normalità della vita quotidiana e addirittura nella debolezza, nell’apparente fallimento. E, comunque, si tratta sempre di un’esperienza germinale, destinata a compiersi perfettamente solo nell’eternità.
L’uomo sa ben poco del futuro che lo attende, può solo prevederlo; l’uomo può preparare il suo futuro con delle tecniche, però dovrà sempre riconoscere che il futuro sfugge al suo pieno controllo e sfuggirà sempre; neanche l’uomo-cristiano ha piani definiti di intervento né rivelazioni particolari che lo possano illuminare sul suo futuro, però ha una speranza che si concretizza non in un’idea ma in una Persona: Gesù di Nazareth, solo lui può rivelare il futuro dell’uomo (cioè “aprire il libro e i suoi sette sigilli”), che si realizzerà solo quando l’amore avrà l’ultima parola, la verità vincerà sulla menzogna e la solidarietà inaugurerà effettivamente un mondo nuovo. Non sopravviverà solo l’amore, ma il cuore che ama; non rimarrà solo la verità, ma la persona che per la verità ha vissuto e sofferto.

COMMENTO ALLA PRIMA LETTURA: ATTI 5,12-16

http://www.nicodemo.net/NN/commenti_p.asp?commento=Atti%205,12-16

COMMENTO ALLA PRIMA LETTURA

ATTI 5,12-16

12 Molti miracoli e prodigi avvenivano fra il popolo per opera degli apostoli. Tutti erano soliti stare insieme nel portico di Salomone; 13 degli altri, nessuno osava associarsi a loro, ma il popolo li esaltava.
14 Intanto andava aumentando il numero degli uomini e delle donne che credevano nel Signore 15 fino al punto che portavano gli ammalati nelle piazze, ponendoli su lettucci e giacigli, perché, quando Pietro passava, anche solo al sua ombra coprisse qualcuno di loro.
16 Anche la folla delle città vicine a Gerusalemme accorreva, portando malati e persone tormentate da spiriti immondi e tutti venivano guariti.

COMMENTO
Atti 5,12-16
Comunità e mondo esterno
Nella prima parte degli Atti (At 1,15 – 8,4) Luca narra la propagazione del cristianesimo a Gerusalemme. In questo contesto egli introduce due “sommari” riguardanti la comunità di questa città (2,42-48; 4,32-35). A essi aggiunge, subito dopo l’episodio di Anania e Saffira, il presente testo riguardante i rapporti della comunità con l’ambiente esterno.

Nel brano si notano un certo disordine e alcune contraddizioni dalle quali si può dedurre che esso è una composizione fatta da Luca sulla base del materiale già utilizzato precedentemente. L’autore inizia affermando che molti «segni e prodigi» (sêmeia kai terata: cfr 2,19.22.43) erano operati dagli apostoli in mezzo al popolo (v. 12a): questa frase riprende quasi letteralmente il primo sommario sulla vita della comunità (cfr. 2,43b).

Luca riprende poi il tema della comunione dicendo che i credenti in Cristo erano «unanimi» (omothymadon) (cfr. 2,46; 4,32); secondo 2,46 essi manifestavano questa unanimità nel tempio; qui si precisa che si ritrovavano nel portico di Salomone. Luca osserva che essi formavano un gruppo abbastanza chiuso, in quanto «nessuno osava associarsi a loro»; ma aggiunge, come in 2,47; 4,33 che il popolo era loro favorevole (emegalynen autous, li esaltava) (v. 13). Questa constatazione gli permette di aggiungere che aumentava il numero non solo di uomini, ma anche di donne che credevano nel Signore (v. 14; cfr. 2,48).

Il v. 15 spiega gli effetti dei prodigi compiuti dagli apostoli sulla gente; esso inizia con la particella hôste (al punto che), che si collega non alla frase precedente, con la quale non ha un rapporto di causa-effetto, ma con il v. 12a, dove appunto era stato introdotto il tema dei prodigi compiuti dagli apostoli. La descrizione è chiaramente iperbolica: si portavano gli ammalati nelle piazze, si ponevano su lettucci e giacigli, nella speranza che, al giungere di Pietro, la sua ombra coprisse qualcuno di loro. Poi Luca aggiunge che non solo da Gerusalemme, ma anche dalle città circonvicine accorreva la folla, portando malati e persone tormentate da spiriti immondi, e tutti erano guariti (v. 16). Questa descrizione richiama da un lato l’attività di Gesù (Lc 6,17-19) e dall’altra quella di Paolo a Efeso (At 19,11.12). Come il loro maestro, anche gli apostoli annunziano la venuta del regno di Dio più con i segni che con le parole, noncuranti dei fenomeni di superstizione che accompagnavano la loro opera taumaturgica.

Linee interpretative

L’isolamento dei discepoli e al tempo stesso l’impatto che hanno sulla popolazione sembrano a prima vista due fenomeni contraddittori, ma esprimono bene il pensiero dell’autore: da un lato essi manifestano una forte identità, che li porta in qualche misura a separarsi dagli altri e a formare un gruppo chiaramente distinto e fortemente compatto al suo interno; dall’altro però però essi non si chiudono in se stessi, ma intervengono positivamente nella vita della gente ordinaria, aiutandola a risolvere i problemi assillanti legati alla salute dei propri cari. Solo a questo prezzo essi ottengono non solo il favore della gente, ma vedono aumentare il numero di coloro che aderiscono al loro gruppo. Il giusto equilibrio tra dialettica interna e apertura al mondo esterno sono essenziali per la vita di qualsiasi comunità, se non vuole dissolversi o diventare una setta chiusa nel proprio ghetto.

Da questo sommario appare come l’annunzio del regno vada di pari passo con i segni della sua venuta, i quali hanno addirittura la precedenza sulla proclamazione verbale della salvezza. Questa presentazione della missione mette in crisi un’attività il cui scopo primario è la crescita numerica dei convertiti. Il discepolo deve anzitutto operare con tutti i mezzi, specialmente quelli legati alle proprie risorse, personali e comunitarie, e in collaborazione con tutti gli uomini di buona volontà, perché la logica del regno di Dio cominci ad apparire in questo mondo mediante i segni della solidarietà e della fraternità. L’aggregazione di nuovi discepoli alla comunità è un evento successivo, non programmabile, ma spontaneo e immediato, che si accoglie con gioia non in funzione del proprio potere di gruppo, ma perché dà un’ulteriore possibilità di moltiplicare i segni del regno di Dio.

COME PAOLO: ROM 10, 8-9

http://euntes.net/sanpaolo/ministeroparola.html

MONS. JUAN ESQUERDA BIFET  – COME PAOLO

IL MINISTERO DELLA PAROLA

« … Vicino a te è la parola sulla tua bocca e nel tuo  cuore: cioè la parola della fede che noi predichiamo. Poiché se con­fesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai sal­vo » (Rom. 10, 8-9).    

Il ministero della parola è annunziare la morte e la risurrezione di Cristo sollecitando ad un incontro, ad un cambiamento, ad un battesimo o immersione. Si predica Cristo Parola di Dio, che vive presente in mezzo a noi e che invita a pensare con lui, a dare valore alle cose come lui ed a rispondere con l’amore come lui. È un processo di conversione che dura tanto quanto è lunga la vita per poter dire « Padre » con la fisionomia e con la voce di Cristo. La predicazione mira a realizzare l’incontro con Cristo risorto e presente. È il Signore che vive con noi, lui che visse nelle nostre condizioni e che ora e glorifica­to. Gli apostoli sono testimoni qualificati della risurre­zione del Signore. Tutta la predicazione ha lo scopo di creare uomini consapevoli e coerenti alla realtà di Cristo risorto …

Vivere dell’incontro con Cristo e frutto della predi­cazione della parola; è un dono di Dio. Non c’è altra liberazione ed altra salvezza al di fuori di quella che deriva dalla morte e dalla risurrezione di Cristo. Educare gli uomini a vivere di questa realtà, è un compito arduo ed ininterrotto che richiede apostoli maturi nell’amore per Cristo. Non si può predicare la risurrezione in una atmosfera di dubbi teorici e pratici. Incomincia a dubita­re chi si è ben sistemato in una società consumistica. Gli Apostoli non predicarono miti né mezze verità; essi vi­dero il Signore, toccarono con mano i suoi miracoli. Nel sepolcro vuoto scoprirono la realtà ed il significato della risurrezione: Cristo era risorto e questo non era una illusione o una fantasia. Cristo che ha vinto la morte, è il Signore, il Figlio di Dio, che ci ha redento, che vive in noi e che cammina con noi verso il Padre. Noi stessi risusciteremo in lui cominciando fin d’ora, innestati in lui, il progresso della vittoria totale sul peccato e sulla morte …

SALMO 90 (91) SOTTO LE ALI DELL’ONNIPOTENTE

http://www.perfettaletizia.it/bibbia/salmi/salmo90.htm

SALMO 90 (91)  SOTTO LE ALI DELL’ONNIPOTENTE

Chi abita al riparo dell’Altissimo
passerà la notte all’ombra dell’Onnipotente.
Io dico al Signore: “Mio rifugio e mia fortezza,
mio Dio in cui confido”.
Egli ti libererà dal laccio del cacciatore,
dalla peste che distrugge.
Ti coprirà con le sue penne,
sotto le sue ali troverai rifugio;
la sua fedeltà ti sarà scudo e corazza.
Non temerai il terrore della notte
né la freccia che vola di giorno,
la peste che vaga nelle tenebre,
lo sterminio che devasta a mezzogiorno.
Mille cadranno al tuo fianco
e diecimila alla tua destra,
ma nulla ti potrà colpire.
Basterà che tu apra gli occhi
e vedrai la ricompensa dei malvagi!
“Sì, mio rifugio sei tu, o Signore!”.
Tu hai fatto dell’Altissimo la tua dimora:
non ti potrà colpire la sventura,
nessun colpo cadrà sulla tua tenda.
Egli per te darà ordine ai suoi angeli
di custodirti in tutte le tue vie.
Sulle mani essi ti porteranno,
perché il tuo piede non inciampi nella pietra.
Calpesterai leoni e vipere,
schiaccerai leoncelli e draghi.
“Lo libererò, perché a me si è legato,
lo porrò al sicuro, perché ha conosciuto il mio nome.
Mi invocherà e io gli darò risposta;
nell’angoscia io sarò con lui,
lo libererò e lo renderò glorioso.
Lo sazierò di lunghi giorni
e gli farò vedere la mia salvezza”.

COMMENTO

Il salmista professa di trovare la sua forza e pace nel Signore, nel quale confida: “Io dico al Signore: <Mio rifugio e mia fortezza, mio Dio in cui confido>”.
Il salmo vuole infondere fiducia nel futuro, sicuramente positivo per chi confida nel Signore (Cf. Dt 6,14).
Il « laccio del cacciatore”, sono le trappole poste dai nemici per giungere a compromettere il giusto.
“Dalla peste che distrugge”; più giustamente secondo l’originale ebraico dovrebbe tradursi: “Dalla parola che distrugge”, cioè dalla parola calunniatrice.
“Il terrore della notte”, sono gli assalti dei briganti, le incursioni dei nemici.
“La freccia che vola di giorno”, sono gli attacchi in pieno giorno dei nemici: di notte le frecce non si usano.
“La peste che vaga nelle tenebre”, l’uomo non vede il propagarsi del contagio; per questo “nelle tenebre”.
“Lo sterminio che devasta a mezzogiorno”, è l’azione delle carestie.
Di fronte all’imperversare delle sventure: “Mille cadranno al tuo fianco e diecimila alla tua destra, ma nulla ti potrà colpire”.
Indubbiamente il salmo presenta una situazione del giusto non costantemente frequente, per cui va aperta ad una lettura in chiave figurata, dal momento che le sventure colpiscono anche i giusti. Le sventure non colpiscono il giusto nel senso che in tutte le circostanze avrà l’aiuto di Dio per non cadere nell’infedeltà a Dio ed essere felice della sua presenza: Dio è il più grande bene.
Gli angeli custodiranno il giusto in tutti i suoi passi, cioè nei suoi viaggi, nelle sue iniziative. Anzi, tutto sarà facilitato dagli angeli, la cui azione è presentata con l’immagine degli angeli che stendono le loro mani a formare la strada dove percorre il giusto, affinché non inciampi nella pietra il suo piede.
Il giusto assistito da Dio camminerà indenne
nei pericoli: “Calpesterai leoni e vipere, schiaccerai leoncelli e draghi”. I “draghi”, sono un’immagine tratta dalla mitologia cananea (Vedi il Leviatan; Cf. Ps 73).
Il salmista alla fine “passa la parola” a Dio: “Lo libererò, perché a me si è legato, lo porrò al sicuro, perché ha conosciuto il mio nome…lo libererò e lo renderò glorioso. Lo sazierò di lunghi giorni e gli farò vedere la mia salvezza”.

ISAIA 6,1-8 (commento a)

http://www.monte-tabor.net/pdf/catechesi%208%20isaia%206,1-8.pdf

(Stagione 2007-07 )

Catechesi 8

ISAIA 6,1-8

Abramo, Mosè, Samuele, Isaia, Geremia, Ezechiele, gli Apostoli, Paolo di Tarso sono dei chiamati e bisogna sempre tornare ai grandi racconti biblici della loro vocazione se si vuol comprendere la forza e il senso di una chiamata. Non mediteremo mai abbastanza questa pagina folgorante che ci trasmette il libro di Isaia. Siamo verso il 740 a.C., in piena cerimonia al tempio: qui il profeta è colto dalla grandezza di Dio che supera ogni creatura (c’è un trono elevato, simbolo della divinità e regalità celeste;
il manto di Dio riempie il tempio: è la presenza dimorante di Dio, come l’incenso sul fuoco che riempie l’ambiente circostante con una nuvola di fumo – vedi v. 4).I Serafini sono esseri di fuoco che circondano Dio (il loro nome significa esseri brucianti,
ardenti: sono esseri celesti con ali e forma umana). Isaia è il primo nella Bibbia che li mette in relazione con Jahvè (già si parla di angeli in Esodo 25: esseri celesti che sono sopra l’Arca dell’alleanza e in Ezechiele sono attorno al carro di Dio, ma in entrambi i passi sono chiamatiCherubini). Questi Serafini circondano Dio senza riuscire a sostenere il fulgore del suo mistero, si dice infatti che si coprivano la faccia (come anche Mosè ed Elia di fronte alla manifestazione di Dio: vedi Es 3 e 1 Re 19). A questo punto risuona la grande acclamazione al Dio degli eserciti: Santo, Santo, Santo (in altre parole Dio è tre volte Santo: è un superlativo assoluto e indica che la santità di Dio è infinita, insuperabile). Il Signore degli eserciti: significa il Signore di tutte le creature, di tutto l’universo, del firmamento (l’esercito celeste), in un secondo tempo la parola eserciti indicò gli eserciti armati, le schiere d’Israele. Tutta la terra è piena della sua gloria: la gloria di Dio è lo splendore della sua presenza misteriosa e attiva che riempie l’universo (vedi anche Ap 4,2 e il Santo della Messa). La rivelazione di Dio è per Isaia inesprimibile, infattiegli usa le parole comuni delle manifestazioni divine (l’acclamazione, il terremoto, il fumo) e qualche immagine presa dallo splendore delle corti orientali (trono, manto, serafini). Tuttavia al di là delle parole si intuisce qualche cosa di grande e sublime. Vibravano gli stipiti delle porte alla voce di colui che gridava: il terremoto indica una manifestazione di Dio e della sua potenza; i Serafini proclamano all’unisono (infatti si dice: alla voce di colui che gridava) la gloria splendente di Dio. Il tempio si riempiva di fumo: è la nuvola della presenza di Dio, della sua gloria. Vediamo questa nuvola nella tenda del Convegno costruita da Mosè, durante il viaggio nel deserto
per accompagnare il cammino d’Israele e nel tempio di Salomone. La nuvola indica anche lo Spirito Santo come dice S. Paolo in 1 Cor 10,1-2. Ohimé! Io sono perduto, eppure i miei occhi hanno visto il Re, il Signore degli eserciti: l’uomo peccatore si sente perduto di fronte alla Santità di Dio (è il timore riverenziale provato di fronte a Dio da Mosè, Elia, Pietro dopo la pesca miracolosa), si trova come indifeso, perduto, davanti alla rivelazione di Dio (Nessuno può vedere Dio!). Nell’istante stesso in cui il profeta sperimenta la grandezza e la santità di Dio, è invaso dal sentimento di essere solamente peccato. Dio interviene con il suo fuoco santo per purificare il profeta (il quale è la bocca di Dio, quindi deve essere puro): un serafino tocca le labbra col carbone ardente (le labbra, la bocca indicano anche tutta la persona). Il fuoco indica la Croce che ci purifica e ci rinnova, come anche lo Spirito Santo. In questa scena c’è un richiamo ai riti del Battesimo: il celebrante fa un segno di croce sulle orecchie e sulle labbra perché il battezzando possa ascoltare Dio e rispondere alla sua voce (c’è una analogia con la guarigione del sordomuto, quando Gesù gli disse: « Effatà » cioè « Apriti »). Udii la voce del Signore che diceva: « Chi manderò e chi andrà per noi? ». Noi è un plurale di
maestà, alcuni commentatori vedono qui un accenno alla Trinità. Il profeta risponde: « Eccomi, manda me! »: prontezza, disponibilità, consegna, resa (è come dire: « Fa’ di me quello che vuoi » o « Sia fatta la tua volontà »). Isaia dimostra decisione, al contrario di Mosè e Geremia che tentennarono quando furono chiamati. Con la domanda di Jahvè c’è la chiamata e poi la missione
(Va’ e riferisci a questo popolo).pag.1Dio vuole aver bisogno dell’uomo per compiere il suo progetto di salvezza. La sua chiamata
purifica e prepara colui che è scelto. D’ora in poi Isaia sarà un altro uomo, non sarà mai più lo stesso (cfr. Giacobbe che zoppica, Mosè diventato umile, ecc.), investito della missione di rimproverare i suoi compatrioti che chiudono gli occhi e gli orecchi a Dio e alla sua legge. Soltanto quando il popolo decimato avrà perso ogni illusione e ogni appoggio umano, dal piccolo gruppo dei sopravvissuti (il resto d’Israele) potrà nascere la salvezza che viene da Dio. Come sempre nel corso della storia umana Dio non ha bisogno della nostra forza, degli sforzi umani per agire con potenza (cfr. Zc 4,6 e 2 Cor 12,9-10).In certi giorni la cecità dell’uomo (quindi anche la nostra cecità) sembra essere senza rimedio: è il momento in cui tocca al profeta parlare, è il tempo in cui Dio fa udire la sua voce per mezzo dei suoi servi i profeti (allora come oggi). Questo racconto della vocazione di Isaia (che andrebbe all’inizio del libro, come anche per Ezechiele: forse per indicare che Dio si rivela progressivamente) è l’introduzione ai capitoli 7 – 12, che sono denominati il Libretto dell’Emmanuele (cioè della vicinanza e della presenza di Dio in mezzo al suo popolo attraverso il Messia); in questi capitoli c’è l’essenza del messaggio di Isaia. Non dobbiamo temere, Dio è con noi sempre, Gesù ce l’ha promesso, importante è che noi rispondiamo ai suoi inviti con un generoso: « Eccomi, manda me! ». Scrivi una preghiera personale nella quale ti rivolgi al Padre celeste e gli chiedi, nel Nome di Gesù e con la potenza dello Spirito Santo, di rivelarti la sua manifesta
presenza che trasformi la tua vita a lode della sua gloria. Inoltre offri a Lui la tua disponibilità nell’accogliere la sua volontà e le missioni che ti affida per la salvezza dei fratelli.

Passi biblici complementari:
Sal 24 Chi salirà il monte del Signore?
Ap 4,6-11 L’adorazione celeste davanti al trono di Dio

DIO UNSE DI SPIRITO SANTO GESÙ DI NAZARETH : LUCA 3,21-22

http://www.sanbiagio.org/lectio/spirito2.pdf

DIO UNSE DI SPIRITO SANTO GESÙ DI NAZARETH

LUCA 3,21-22

prendiamo in considerazione la grande pagina del battesimo di gesù al giordano. tanto in matteo (3,11) che in marco (1,8) in luca (3,17) e in giovanni (1,33) è esplicitata un’affermazione importante: anche gesù battezzava, ma diversamente da giovanni, cioè con la forza dello spirito santo. tutti gli evangelisti narrano del battesimo di gesù: una scena succinta, ma di forte densità perché, come rimette in luce la teologia dopo il vaticano ii, ha un’enorme significato esistenziale per gesù. è qui infatti che egli accetta la sua vocazione entrando nella consapevolezza della propria missione di messia. l’evangelista ci ha appena detto che giovanni il battista è stato imprigionato da erode: lui che ha battezzato anche gesù nel giordano. è il battesimo che li accomuna e li diversifica. in luca, a differenza degli altri sinottici, il battesimo è descritto come già avvenuto; ma la sua enorme importanza viene colta anche dal fatto che qui è collocata la genealogia di gesù: da giuseppe fino ad adamo. c’è il peso di tutte le generazioni
affidato a lui che, accettando ora nello spirito santo la sua vocazione, redime con la sua obbedienza, la disobbedienza di adamo.
tre nuclei:
v. 21 il battista è scomparso dalla scena del giordano. tutto il popolo è ormai stato battezzato; anche gesù lo
è stato, mentre era in preghiera.
v. 22a si è aperto il cielo. è comparso lo spirito che aleggiava su gesù in forma di colomba.
v. 22b una voce, quella del padre, ha proclamato: « tu sei il figlio mio, l’amato, in te mi compiaccio ».
i versetti 21-22 sono il centro di tutto il cap.3. gesù si è messo in fila con i peccatori, facendosi carico del loro peccato e della loro morte, di cui quel battesimo è segno.
v.21 l’immersione nell’acqua, quasi una liquida tomba prenatale (cfr. ger. 20,17), è l’immersione in ciò che raffigura il ritorno all’abisso della morte. è il gesto di chi, non conoscendo peccato, si è fatto per noi maledizione e peccato (cfr. 2 cor.5,21).è l’immagine di un altro battesimo: quello della passione di cui gesù dirà: « c’è un battesimo che devo ricevere e come sono angosciato finché non sia compiuto » (12,50). l’immersione avviene mentre gesù sta pregando. è tipico di luca sottolineare questo suo modo di vivere i momenti esistenziali più importanti: pregando.
v.22a nel pensiero cristiano più antico questo versetto è importantissimo, perché dice che avviene in questo momento la misteriosa unzione di gesù nello spirito santo. pietro, in casa del centurione cornelio, affermerà: « dopo il battesimo predicato da giovanni dio unse di spirito santo e potenza gesù di nazareth, il quale passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo » (at. 10,37ss.). lo spirito santo era apparso sotto forma di colomba. l’aleggiare dello spirito con questa parvenza di colomba sulla persona di gesù immersa nell’acqua richiama l’aleggiare sulle acque del caos primordiale (cfr. gen.. 1,2). evoca anche la colomba portatrice di salvezza il cui ritorno tranquillizzò noè. come poi non assimilarla al simbolo dell’amore fedele? tuba in ogni stagione il suo amore, così come l’amore di dio, appunto lo spirito santo, canta la sua
perenne fedeltà per l’uomo e provoca una risposta di amore fedele. (cfr. ct.2,14).
v.22b l’amante, la voce del padre, nella presenza-azione dello spirito santo, riconosce gesù come l’amato per eccellenza. è in lui , l’amato, che a nostra volta siamo infinitamente amati. a tal punto che il padre non esita a dare il figlio sulla croce perché chiunque crede al suo mistero di morte e risurrezione abbia la vita (cfr. gv.3,16), e una vita filiale secondo lo spirito. « gesù si chiama cristo -scrive tertulliano- perché unto dal padre con lo spirito santo ». a ragione r. cantalamessa afferma che l’unzione ricevuta da gesù nel giordano è un’unzione trinitaria . »il padre ha unto, il figlio è stato unto, lo spirito santo è la stessa unzione. » . isaia non a caso dice: « lo spirito del signore è su di me, perché mi ha unto » (is. 61,1) . e il salmista afferma: « dio, il tuo
dio ti ha unto con olio di allegrezza »( sl.44,8).chiaramente approfondire questi testi evangelici sulla scorta dei più antichi padri, significa scoprire che il battesimo di gesù non è solo da celebrarsi come la festa dell’istituzione del battesimo cristiano. c’è ben di più:
« è dal momento del battesimo che gesù acquisì la certezza che doveva assumere il ruolo di servo di javéh ». lo asseriscono o. culmam e diversi altri autori. ora questo mistero dell’unzione dello spirito santo al giordano c’interessa e ci interpella da vicino. lo spirito santo, per il quale il verbo s’era fatto carne, prende con potenza ad agire in gesù, a guidarlo e a ispirarlo fino a quando, morente, egli « emette lo spirito »(gv. 19,30). non solo, ma gesù, mandato dal padre, trasmette le parole di dio e dà lo spirito senza misura (gv. 3,34). come dice origene: « ci sono stati uomini sapienti che, possedendo dio, ne
hanno riferito le parole; essi tuttavia avevano solo parzialmente lo spirito di dio (…). invece il salvatore, mandato a trasmettere le parole di dio, non dona lo spirito parzialmente, perché egli non lo dona agli altri avendolo ricevuto egli stesso; bensì dona lo spirito essendone la sorgente » lo spirito santo è il mistero del permanere di gesù, oggi, in mezzo a noi nella forza che egli ci dà con la parola e coi sacramenti. lo spirito santo, è stato
detto, è oggi la scia del profumo che gesù si è lasciato dietro, passando sulla terra. s. ignazio d’antiochia afferma: « il signore al giordano ha ricevuto sul suo capo un’unzione profumata per spirare sulla chiesa l’incorruttibilità ». . mirabilmente s. agostino dice: « non solo fu unto il suo capo: lo siamo stati anche noi che siamo il suo corpo. noi siamo il corpo di cristo perché tutti siamo unti e tutti noi, in lui, siamo di cristo e siamo cristo poiché il cristo totale è il capo e il corpo insieme ». ed è di capitale importanza credere (come credo all’esistenza della forza solare!) che l’unzione di spirito santo agisce in noi, è forza operativa in ordine alla nostra esistenza di consacrazione e servizio.
con quale preparazione e consapevolezza ricevo i sacramenti che ci rendono partecipi di questa unzioneprofumo? è con vero spirito di servizio che vivo in compagnia delle sorelle e dei fratelli? con quale impegno personale, divento a mia volta « cristo » , cioè unto, consacrato , effondo il profumo di una vita santa? ho il coraggio di effondere questo profumo di vita-testimonianza sulle membra del corpo mistico, spezzando l’alabastro della mia umanità troppo spesso legata ancora agli schemi « dell’uomo vecchio », con tutte le sue spinte egoistiche?
il « profumo di cristo » (cfr. 2 cor. 2,15) diventa espansione accattivante da parte del mio testimoniare gesù per opera e forza di spirito santo fuori dal sonnacchioso tran tran d’una vita che, se non abbagliata da cristo, è rassegnata e spenta? & solo chi nel mistero di cristo, l’amato del padre, accetta d’essere infinitamente amatoda lui può veramente impegnarsi (fuori da volontarismi e lassismi) alla vocazione fondamentale del cristiano (tanto più della religiosa) che è vocazione ad amare, nello spirito santo, come cristo, dando la vita. qual è la mia convinzione a riguardo?
facciamo nostra la bella preghiera della messa crismale del giovedì santo:
« o padre, che hai consacrato il tuo unico figlio con l’unzione dello spirito santo e lo hai costituito messia e signore, concedi a noi, partecipi della sua consacrazione,  di essere testimoni nel mondo della sua opera di salvezza ». avendone l’occasione, aspiro aria profumata di primavera o il semplice profumo di un fiore e, interiorizzando a lungo la mia sensazione olfattiva, prego:


« o spirito santo,
profumata unzione del padre sul capo di gesù,
rendimi profumo di lui
in mezzo a sorelle e fratelli »

INTRODUZIONE ALLA LECTIO DIVINA, II DOMENICA T.O. : ISAIA 62,1-5

http://digilander.libero.it/comunitakairos/archivio/lectio/lettura/Isaia%2062,1-5.htm

INTRODUZIONE ALLA LECTIO DIVINA,  II DOMENICA  T.O.

ISAIA 62,1-5

[1] Per amore di Sion non mi terrò in silenzio, per amore di Gerusalemme non mi darò pace, finché non sorga come stella la sua giustizia e la sua salvezza non risplenda come lampada. [2] Allora i popoli vedranno la tua giustizia, tutti i re la tua gloria;ti si chiamerà con un nome nuovo che la bocca del Signore indicherà. [3] Sarai una magnifica corona nella mano del Signore, un diadema regale nella palma del tuo Dio. [4] Nessuno ti chiamerà più “Abbandonata”, né la tua terra sarà più detta “Devastata”, ma tu sarai chiamata “Mio compiacimento “ e la tua terra  “Sposata”, perché il Signore si compiacerà di te e la tua terra avrà uno sposo. [5] Sì come un giovane sposa una vergine, così ti sposerà il tuo architetto; come gioisce lo sposo per la sposa, così il tuo Dio gioirà per te.

La voce dello sconosciuto profeta, che ha scandito le parole di Dio, raccolte nella terza parte del libro di Isaia,* si leva qui alta nel presentare ad Israele un radioso destino di gloria per Gerusalemme, la città amata con passione, perché città amata dal Signore.
 Il contesto immediato è quello post-esilico.** Ad Israele è stato dato, per grazia, di tornare, con un nuovo esodo, da quell’esilio babilonese tormentato dal ricordo di Sion fumante tra le sue macerie, penoso segno dell’abbandono di Dio.
Ora, a fronte di rovine da sanare (58,12), in una situazione di precarietà nazionale, con il rischio di soccombere davanti a nuovi ed antichi nemici, tra cui l’inestirpabile ingiustizia nei rapporti cittadini (59,1-15), l’oracolo del profeta rassicura la smarrita comunità d’Israele con una consolante visione di salvezza: mai più morte e distruzione, mai più deportazione e rovina per Sion e per il suo popolo. E’ la revoca per sempre di un giudizio di condanna che troviamo al centro del brano (v 4).
Ma prima, nel linguaggio luminoso delle immagini – stella, lampada, corona, diadema – si dispiega anche un forte messaggio teologico: seppure la “giustizia” umana appare irrealizzabile, presto brillerà la Giustizia (zedek) divina, che per Israele non è che la stessa fedeltà del Signore alle Sue antiche promesse (57,16). E con essa la Salvezza (j’sha’) (v 1).
Solo allora in Sion sarà ristabilita la giustizia umana e la sua gloria sarà visibilità dell’amore ricevuto come salvezza (v2)
L’ultima parte dell’oracolo (v 4b-5) rafforza, sul piano esistenziale, il messaggio, introducendo la metafora sponsale per indicare lo speciale rapporto di tenerezza tra il Signore e Gerusalemme:”Sì, come un giovane sposa una vergine così ti sposerà il tuo creatore”.
Ma il cuore dell’ascoltatore abituato a scrutare la parola scorrendo a ritroso le scritture, può trasalire, perché prima d’ora la metafora matrimoniale vi è stata sempre usata a vergogna di Israele, bollata come sposa infedele, adultera peggiore della prostituta (Ez 16, 15-63). A lei è stato detto: “Tu ti sei disonorata con molti amanti e osi tornare da me? (Ger 3,1). Uguale accusa le è stata volta per prima in Osea (2, 4-15), mentre il profeta stesso è stato associato a questa sofferenza:  “Va’, ama una donna che è amata da un altro ed è adultera; come il Signore ama gli Israeliti ed essi si rivolgono ad altri dei” (Os 3,1). Può trasalire però di speranza, perché già allora, impensabilmente, dopo la minaccia di devastazioni – ”La ridurrò a una sterpaglia e a un pascolo di animali selvatici” (Os 2,14) – il Signore ha promesso di liberare tutta la sua tenerezza repressa: ”Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nella benevolenza e nell’amore, ti fidanzerò con me nella fedeltà e tu conoscerai il Signore. E avverrà in quel giorno – oracolo del Signore – io risponderò al cielo ed esso risponderà alla terra; la terra risponderà con il grano, il vino nuovo e l’olio e questi risponderanno a Izreèl” (Os 2, 21-24). A questa parola, dalla terra del suo esilio, si era già ispirato consolante il Deutero-Isaia: ”Viene forse ripudiata la moglie sposata in gioventù? Per un breve istante ti ho abbandonata, ma ti riprenderò con immenso amore….con affetto perenne ho avuto pietà di te” (Is 54, 6-8).
Allora “vergine” è il nome nuovo di Sion, peccatrice perdonata, dato da chi ha potere di fare nuove tutte le cose.
Perché il Signore la sua fedeltà alle promesse, l’ha impegnata da sempre con Israele secondo la modalità dell’Alleanza. Anzi, di una Alleanza perenne, come è detto al cap 61, 9; e questa sponsale, non è che un’ultima forma di alleanza, come già appariva in Osea (2, 20). Più esplicita ”…giurai alleanza con te – dice il Signore Iddio – e divenisti mia” (Ez 16,8). Il tutto, come sempre, secondo le logiche divine: da un lato una ricchezza che vuole tutto donare, dall’altra una povertà, chiamata a tutto ricevere, prima che a ricambiare.
Ma un’ Alleanza anche che aspetta, come tutte le realtà veterotestamentarie, il compimento, l’incarnazione. Un’Alleanza che attende di farsi, anch’essa, nuova in Cristo.
 “L’Amato mio è per me e io per lui” (Ct 2, 16). Gesù, lo Sposo atteso, cui la Sposa appartiene (Gv 3, 25-30), e a cui, come a “unico sposo” deve essere presentata “quale vergine casta” (2Cor 11, 1-2), resa tale da un dono: “ le hanno dato una veste di lino puro splendente” (Ap.19,8).
“Beati gli invitati al banchetto delle nozze dell’agnello” (Ap 19,9).

——————————————————————————-
*Capp 56-66, detti del Trito-Isaia
** A partire dal 538 a.C.

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