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PRIMI SEGNI E PRODIGI DI GESÙ (LC 4,31-44)

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PRIMI SEGNI E PRODIGI DI GESÙ (LC 4,31-44)

Carlo Cravero

Si delinea un profilo del ministero di Gesù caratterizzato dai tratti del profeta liberatore. Essendo tale azione di Gesù possibile sotto l’azione dello Spirito, si sottolinea la sua qualità di guaritore della totalità della persona umana e non soltanto di taumaturgo. Ecco dunque perché, secondo Luca, la chiamata di Pietro è successiva a questa serie di miracoli. Quando Gesù manderà i discepoli a svolgere la loro prima missione, egli darà loro autorità di compiere gli stessi prodigi di esorcismo e guarigione, ma sempre in relazione con l’annuncio del regno di Dio (Lc 9,20).
Il profilo di Gesù presentato in questi episodi motiva e convalida il messaggio del Messia e la sua identità profetica, rendendo visibile come Dio attraverso queste opere visita il suo popolo (Lc 24,19; At 2,22). Inoltre, si sviluppa un nesso specifico tra sabato e santità, già chiaro nel Decalogo (Es 20,9.11; Dt 5,12). Esorcizzando il demonio e liberando l’uomo dalla possessione, Gesù si avvicina all’opera di Dio che fece uscire il popolo dalla schiavitù dell’Egitto «con mano potente e braccio teso» (Dt 7,19). Facendo le opere di Dio, Gesù manifesta la sua santità (v. 34) a cominciare dal silenzio imposto al nemico, che rappresenta tutte le forze ostili all’uomo.

Che c’è fra te e noi, Gesù nazareno? (4,31-37)
Dopo l’inaugurazione del ministero a Nàzaret Gesù discende a Cafarnao e Luca sintetizza in modo magistrale il ministero del Messia in gesti e parole: alla potenza e autorità della sua parola segue l’efficacia dei suoi gesti; il miracolo è parola in azione. Questi primi due miracoli, l’esorcismo e la febbre, hanno come referenti un uomo e una donna, segno eloquente dell’universalità dell’azione di Gesù; la salvezza portata da Cristo non fa distinzione di sessi.
Gesù scende a Cafarnao (4,31); precisando che è una città della Galilea, Luca localizza l’annuncio della parola. Essa avviene di sabato, il giorno del riposo della creazione. La venuta di Gesù nel sabato esprime così l’aurora del sabato definitivo, l’ottavo giorno della festa, in cui l’eternità di Dio ha fatto irruzione nel mondo: Gesù è l’eterno divenuto oggi.
La predicazione di Gesù in questo contesto vede il riconoscimento quale parola di autorità, senza alcun riferimento agli scribi. La reazione della gente a tale parola è segnalata dallo stupore[3]. Questo non indica necessariamente la fede, ma apre le porte a un cammino di ricerca; non sempre infatti questo stupore porta al riconoscimento dell’identità di Gesù, come già mostra l’episodio della sinagoga di Nàzaret.
L’indemoniato rappresenta al meglio la situazione dell’uomo alienato, completamente in balia dell’avversario e del male, e privo della sua libertà[4]. Questa situazione di dolore viene collocata dentro la sinagoga: nessun ambiente può dirsi al sicuro dal male, nessuno è salvo per meriti personali. Questa impurità, che si cela nei luoghi propri dell’ascolta della Parola e della vita della comunità riunita in preghiera, si rivela minacciosa di fronte alla santità di Gesù ed esplode in un alto grido di terrore, di chi vuole mettere paura. Il demonio conosce bene Gesù dalla frase che gli dice contro, ma conosce anche molto bene che Gesù è il più forte; per questo, non potendo vincerlo, non gli resta che urlare.
L’espressione «che c’è tra noi e te» impone uno stacco e un abisso assoluto tra il potere delle tenebre e del male rispetto a Gesù; è un’opposizione tra forze, resa ancora più eloquente dal forte utilizzo dei pronomi «noi» e «tu», quali rappresentanti accreditati di forze opposte. Il «noi» si contrappone al «Santo». Così il primo esorcismo già contiene in sé tutte le caratteriste dell’agire di Gesù. Ma nelle stesse parole del demonio è anche contenuto l’esito dell’incontro-scontro con il Cristo: non si può resistere a lui, ogni tentativo è vano, perché Gesù è nettamente più forte. L’avversario stesso lo riconosce in modo disarmante: egli viene per la sua rovina. Il diavolo non cerca nemmeno di lottare, perché conosce la superiorità di Gesù.
A differenza di Marco, Luca accentua ancora di più la potenza del Messia con l’effetto immediato della liberazione dopo una semplice parola d’ordine. Gesù impone il silenzio. Il verbo utilizzato è molto forte: letteralmente significa «mettere la museruola». Gesù dissocia il male dal malato e zittisce il male, non il malato! Proprio per questo Gesù è estremamente duro con il male: lui, che è venuto per liberare l’uomo (Lc 5,31), si rivolge direttamente al male per sciogliere l’uomo che ne è vittima. Davanti al Signore il male riconosce la sua difformità e, proprio in quanto male, urla la libertà e la santità di Dio come una rovina. La potenza della Parola è così evidente, che il demonio si sottomette silenziosamente e totalmente, tanto da uscire dal corpo dell’uomo senza contorcerlo e fargli alcun male, ma solo buttandolo nel mezzo.
Il commento della gente (vv. 36-37) aumenta il valore di tale gesto, a dimostrazione dell’autorità e della potenza della Parola. Ora, dal momento che si presenta con tale autorità verso i ministri del “regno” demoniaco, Gesù si rivela come il ministro del «regno di Dio» (v. 43), il forte predetto da Giovanni (Lc 3,16); questa stessa autorità verrà conferita in seguito ai suoi discepoli (Lc 9,1; 10,19).
Al demonio non si insegna, si ordina! L’esorcismo contiene così una lieta notizia: il male dell’uomo è vinto. Ecco l’importanza di questo episodio narrato all’inizio del ministero pubblico di Gesù; questo è il suo programma di vita, addirittura incluso nella duplice menzione del potere della sua parola (vv. 32.36). Indica il frutto maturo di questa parola: la riduzione al silenzio e la messa in fuga definitiva del male (v. 35).

A casa di Simone (4,38-41)
L’orizzonte spaziale si sposta dalla sinagoga a una casa privata, la casa di Simone. Gesù è il dominatore del male in ogni gesto e atteggiamento; se la potenza della Parola vince il male, si è finalmente liberi per servire. Questo servizio è il programma del Messia: rendere l’uomo come lui, ossia come colui che serve (Lc 22,27). Egli domina la febbre della donna con un comando, non c’è bisogno nemmeno di toccarla; basta la sua posizione: in piedi e davanti a lei, che invece giace impotente in preda alla febbre. Gesù non si avvicina solamente al letto dell’ammalata, ma le si accosta e minaccia la febbre, come aveva minacciato lo spirito immondo nella sinagoga. Così nell’emissione della parola di intimazione alla malattia Gesù si china di fronte al dolore dell’umanità. La sua autorità di Messia si esprime nel servizio al povero e al bisognoso; essere capo e maestro non è inteso nell’ottica del potere, ma del servizio. Nella persona di Gesù, che da ricco che era si è fatto povero per arricchire tutti noi (cf. 2Cor 8,9), ogni miracolo è frutto del chinarsi di Dio sull’umanità. Come per l’episodio precedente, al comando della Parola segue l’esecuzione immediata della liberazione.
Si noti come opportunamente Luca utilizzi lo stesso verbo di comando come nel v. 35, in modo tale da stabilire un legame tra l’esorcismo e la guarigione. Medesimo è l’esito: la fuga. Così al gesto e alla parola di Gesù segue la perfetta reintegrazione della donna all’interno del suo mondo familiare: essa si alza immediatamente e si mette a servizio del Signore; la vera libertà esiste come tale solo in un’ottica di servizio[5]. Il servizio della donna non significa solo che è guarita dal male fisico, ma indica una guarigione più profonda: la donna è liberata da quella febbre e da quello spirito che impediscono di servire e costringono a servirsi degli altri per essere serviti. Se il servirsi degli altri è sinonimo di schiavitù, servire è il principio della liberazione; il primo è espressione di egoismo, il secondo di amore. Nel servizio l’uomo diventa se stesso e rivela Dio, di cui è immagine e somiglianza[6].
La casa di Simone è il campo di battaglia dove l’uomo è alle prese con la malattia; è il luogo dello scontro, dove il male sembra essere notevolmente più forte dell’uomo, fino alla venuta di Gesù. La febbre paralizza e colui che ne è la causa impedisce di servire; così come la morte e la malattia, che impediscono all’uomo di rimanere in piedi. Solo Gesù può donare la forza per rialzarsi, cioè ritornare alla vera vita.
Simone non pronuncia una parola e non manifesta alcuna reazione alla guarigione della suocera. È ancora necessario che trascorra del tempo insieme con Gesù perché lo possa riconoscere come il Cristo di Dio (Lc 9,20); in ogni caso resta il primo ad aver accolto Gesù nella sua casa (v. 38). In questa bellissima immagine lucana con Simone la Chiesa è già presente in figura fin dal primo giorno del ministero di Gesù.
È evidente il parallelismo con la scena precedente: l’immediata guarigione indica l’assoluta superiorità di Gesù rispetto al male, l’attenzione all’integralità della persona umana e la portata universale della salvezza. Inoltre, questa donna diventa il modello di ogni credente: la liberazione operata da Gesù non raggiunge il suo scopo nella retta professione di fede che fanno i demoni (vv. 34.41; Gc 2,19), ma nel servizio. La suocera di Pietro è il frutto del vangelo: incarna lo Spirito di Gesù ed è tipo di tutti coloro che ne seguiranno la Parola.
Ecco allora perché la narrazione a questo punto prende in esame un moltitudine di persone che si presentano a Gesù. Prima un esorcismo per un uomo e una guarigione per una donna; ora miracoli per l’umanità! Ciò che Luca ha tratteggiato in due racconti, ora viene riportato con un racconto complessivo. Prima il male interiore, poi il male fisico, ora tutto insieme. Si completa così lo sguardo introduttivo su Gesù: gli uomini lo vedono come il salvatore, i demoni lo gridano Figlio di Dio e lo conoscono come Cristo. Gesù, da parte sua, si proclama evangelizzatore del regno di Dio, spinto dalla necessità di annunciare alle città la buona notizia (v. 43).
La notte indica anche il tempo indisponibile per l’uomo. Con le tenebre cessa, infatti, ogni attività umana e tutto si placa. La notte è anche simbolo della morte, tempo assolutamente indisponibile, che Gesù stesso conoscerà, dall’oscurarsi del sole del venerdì fino alla luce nuova del «primo giorno dopo il sabato». Il fatto prodigioso è proprio che Gesù operi di notte, al buio. Se di giorno aveva operato miracoli, ecco che di sera opera un’infinità di prodigi in favore di tutti gli uomini che ricorrono a lui e si prende cura di ciascuno (v. 40). Che Luca voglia dire anticipatamente che Gesù agisce definitivamente alla fine del suo giorno? Egli infatti salverà l’uomo di notte, durante la «sua» notte (Lc 4,1; 22,53; 23,44); questo sole che tramonta è il Cristo crocifisso che si china sulle notti dell’uomo e le illumina. Se la prospettiva del giorno dell’uomo è la sera, l’oscurità e la morte, la prospettiva di Dio in Cristo è la vittoria sul male e sulla morte: la notte così non è solo il luogo della verità dell’uomo che riconosce la sua debolezza; è anche il luogo della verità di Dio, che dal nulla fa tutte le cose.
Si nota una differenza di rilievo rispetto ai miracoli precedenti: qui Gesù impone le mani. Lo fa non in modo confuso o generalizzato, ma su ciascun malato, in modo personale. La sua è la mano di Dio che si tende sull’umanità ferita e stanca; il contatto indica la comunione con Dio e la liberazione: dove arriva Dio il male è sconfitto. I demoni dopo la loro espulsione riconoscono la forza di Gesù, però questo non li porta alla conversione. Nella distorsione demoniaca tale professione di fede diventa bestemmia; la sola conoscenza non opera la salvezza, perché soltanto il riconoscimento del vero essere di Gesù può dare la salvezza all’uomo.

Un nuovo giorno (4,42-44)
Si cambia decisamente scena con l’inizio del nuovo giorno (v. 42). Gesù si trova in un luogo non ben precisato, ma desertico; le folle lo raggiungono e tentano di trattenerlo, ma lui si sottrae: non si può limitare l’azione di Gesù, né tanto meno manipolarlo. A Nàzaret viene cacciato, mentre a pochi chilometri di distanza lo si vuole trattenere; da una parte lo si rifiuta, dall’altra lo si vorrebbe forzare a rimanere. La fede, invece, è adesione alla sua persona nel modo concreto del servizio. Gesù si sottrae a questo tentativo di sequestrare privatamente la salvezza, perché essa è un dono per tutti, non solo per alcuni: bisogna che lui annunci la Parola.
Tutto è concentrato nella rapida risposta di Gesù, dove il suo andare altrove trova piena corrispondenza con l’ubbidienza all’imperativo divino. È suo compito rimanere inserito nelle cose del Padre (Lc 2,49). Questo è l’orientamento del percorso per l’annuncio del vangelo: la meta è Gerusalemme, dove si compirà la volontà del Padre e da dove inizierà un viaggio universale per i suoi discepoli, fino ai confini della terra (cf. At 1,8). Questo passo rivela già una comprensione di Gesù in chiave post-pasquale.
Per la prima volta compare l’espressione «annunciare il regno di Dio» quale senso della missione di Gesù (ricorrerà altre 37 volte). Il regno di Dio è un evento che supera il semplice insegnamento, è sempre in relazione con la Parola; esso è legato in modo indissolubile con la persona di Gesù, le sue azioni riprendono e rendono attuali le promesse dei profeti. In questo consiste il vero compimento: Gesù avvera le profezie perché le fa sue; è compimento perché con lui l’antico diventa nuovo. Non è un semplice adeguamento delle promesse, perché il nuovo che dona Gesù è assolutamente l’antico che risplende con maggiore magnificenza.
Nella conclusione del v. 44. si delinea l’apertura della salvezza: essa era iniziata nella sinagoga di Nàzaret (4,14) e si conclude nelle sinagoghe della Giudea (4,44), passando attraverso le città della Galilea. È l’itinerario del Signore nella prospettiva del viaggio: come il Messia liberatore ha camminato per le strade, così la sua Parola dovrà correre fino ai confini del mondo (At 1,8).
[1] Risulta sicuramente interessante al riguardo studiare la proposta di struttura e commento realizzata da R. Meynet, Il Vangelo secondo Luca. Analisi retorica, EDB, Bologna 2003, pp. 203-213.
[2] Nella traduzione della Conferenza episcopale italiana è reso con «ordinare», «comandare».
[3] G. Rossé, Il Vangelo di Luca, Città Nuova, Roma 2001, p.162, fa notare che l’evangelista utilizza la parola «logos», che identifica la parola di Dio, come in Lc 5,1; 8,21. Negli Atti il termine indica il vangelo proclamato agli uomini (4,4.29).
[4] S. Fausti, Una comunità legge il Vangelo di Luca, EDB, Bologna 1994, p.110, dice che «il senso profondo dell’esorcismo è rendere l’uomo a se stesso, e quindi a Dio di cui è immagine, liberandolo da quel male che gli fa perdere Dio e quindi se stesso».
[5] È bene ricordare in chiave teologica il momento dell’esodo del popolo ebraico. Si diventa veramente liberi solo quando si serve Dio nella terra promessa nel passaggio dalla schiavitù al servizio.
[6] Per quanto concerne la dimensione del servizio è forte il richiamo di 1Gv 3,18. Fausti osserva come il servizio «è la caratteristica speciale e fondamentale di Gesù, lasciata in eredità ai suoi discepoli prima di morire (Lc 22,24-27; Gv 13,1-17)» (Fausti, Una comunità legge il Vangelo di Luca, p. 114).

1 SAMUELE 3, 3-10.19 – COMMENTO

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1 SAMUELE 3, 3-10.19

In quei giorni, 3 Samuele era coricato nel tempio del Signore, dove si trovava l’arca di Dio. 4 Allora il Signore chiamò: « Samuele! » e quegli rispose: « Eccomi », 5 poi corse da Eli e gli disse: « Mi hai chiamato, eccomi! ». Egli rispose: « Non ti ho chiamato, torna a dormire! ». Tornò e si mise a dormire.
6 Ma il Signore chiamò di nuovo: « Samuele! » e Samuele, alzatosi, corse da Eli dicendo: « Mi hai chiamato, eccomi! ». Ma quegli rispose di nuovo: « Non ti ho chiamato, figlio mio, torna a dormire! ». 7 In realtà Samuele fino allora non aveva ancora conosciuto il Signore, né gli era stata ancora rivelata la parola del Signore.
8 Il Signore tornò a chiamare: « Samuele! » per la terza volta; questi si alzò ancora e corse da Eli dicendo: « Mi hai chiamato, eccomi! ». Allora Eli comprese che il Signore chiamava il giovinetto. 9 Eli disse a Samuele: « Vattene a dormire e, se ti si chiamerà ancora, dirai: Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta ». Samuele andò a coricarsi al suo posto.
10 Venne il Signore, stette di nuovo accanto a lui e lo chiamò ancora come le altre volte: « Samuele, Samuele! ». Samuele rispose subito: « Parla, perché il tuo servo ti ascolta ».
19 Samuele acquistò autorità poiché il Signore era con lui, né lasciò andare a vuoto una sola delle sue parole.

COMMENTO
1 Samuele 3,3-10.19
La vocazione di Samuele
Il racconto della vocazione di Samuele fa parte della prima sezione del libro (cc. 1-7), nella quale egli svolge il ruolo di protagonista: essi riguardano anzitutto la sua infanzia e adolescenza (cc. 1-3) e poi la sua attività di giudice (c. 7). Fra queste due sezioni si collocano i cc. 4-6, che raccontano le vicende dell’arca dell’alleanza, caduta nelle mani dei filistei e da loro riconsegnata agli israeliti.
Nella prima parte della sezione (cc. 1-3) è conservata una serie di racconti trasmessi nell’ambito del santuario di Silo, situato circa 20 km a sud dell’odierna Naplus, che emerge alla fine del periodo dei giudici come il principale luogo di culto israelitico (cfr. Gs 18,1; 21,1-2). In esso JHWH è adorato come il «Signore degli eserciti» (cfr. 1Sam 1,3), cioè delle schiere di Israele: questo titolo si è formato in connessione con l’arca dell’alleanza, che rappresenta il trono di JHWH, Dio di Israele, che ha liberato il popolo e lo ha guidato verso la terra promessa (cfr. 4,4). La sezione raccoglie i seguenti brani: nascita di Samuele (1,1-28); cantico di Anna (2,1-10); descrizione dei soprusi commessi dai figli di Eli, Cofni e Pincas (2,12-17) e parallelamente la crescita di Samuele alla presenza di Dio (2,18-21); rimproveri di Eli ai figli (2,22-26) e annunzio del castigo (2,23-36).
Questi racconti mettono in luce una situazione di peccato, sullo sfondo della quale è narrata la vocazione di Samuele (3,1-4,1a), che rappresenta un significativo rilancio dell’azione di Dio in favore del suo popolo. Dopo l’introduzione (vv. 1-2) il brano si divide in tre parti: visione di Samuele (vv. 3-10); messaggio (vv. 11-18); conclusione (3,19 – 4,1a). La liturgia si limita a riprendere la prima parte e l’inizio della conclusione.
Il narratore introduce il racconto presentando i personaggi e la situazione che si è venuta a creare in Israele. Anzitutto introduce Samuele, diventato ormai un «giovinetto», osservando che egli continuava a servire il Signore sotto la guida del sacerdote Eli (v. 1a), come aveva cominciato a fare fin dalla sua infanzia (cfr 2,21.26). Poi il narratore soggiunge che la parola del Signore era rara (jaqar, preziosa) in quei giorni e le visioni non erano frequenti (v. 1b): l’assenza di voci profetiche è segno di sventura, in quanto significa che il popolo si è allontanato dal suo Dio. Infine viene presentato Eli, il quale è vecchio e cieco, e pertanto riposa in casa sua, mentre il giovane Samuele si trova nel tempio, presso l’arca dell’alleanza, perché la lampada di Dio non era ancora spenta (v. 2). La situazione è quindi apparentemente disperata: il sacerdote, a cui spetta la guida del popolo, è vecchio e cadente, Dio non fa sentire la sua voce, mentre l’arca dell’alleanza è affidata a un fanciullo. Unico segno di speranza sta nel fatto che la lampada di Dio continua a brillare. La situazione è catastrofica, ma non del tutto senza speranza.
In una situazione così disperata JHWH si fa sentire. Il suo intervento avviene precisamente nel tempio, dove si trova l’arca dell’alleanza e la lampada continua a splendere, e ha come destinatario proprio quel giovinetto che riposa presso di essa. Dio si rivolge a lui chiamandolo tre volte. Dopo la prima e la seconda volta Samuele, pensando che fosse Eli a chiamarlo, corre da lui e si mette volenterosamente a sua disposizione, ma Eli lo rimanda a riposare (vv. 4-6). Il lettore sa che è Dio a chiamarlo, ma Samuele ne è totalmente all’oscuro. A questo punto il narratore spiega questo fatto a prima vista paradossale: Samuele non poteva sapere chi era colui che lo interpellava perché fino ad allora non aveva «conosciuto» JHWH (v. 7). Ciò non significa certamente che il giovinetto non conoscesse le tradizioni di Israele che parlavano delle azioni potenti compiute da JHWH in favore del suo popolo. Samuele sapeva certamente tante cose di lui, ma non lo aveva ancora incontrato, non aveva avuto un’esperienza personale di Dio. La sua situazione è analoga a quella di Giobbe, il quale era un uomo integro e retto, che temeva Dio (Gb 1,1), ma dopo l’apparizione di JHWH riconosce che precedentemente lo conosceva solo per sentito dire (Gb 42,5).
Quando Samuele si precipita per la terza volta da Eli chiedendogli se lo ha chiamato, il sacerdote si rende conto che JHWH sta chiamando il giovinetto. Perciò gli dice di tornare a dormire e gli suggerisce, se dovesse sentire nuovamente la voce che lo chiama, di rispondere: «Parla, Signore, perché il tuo servo di ascolta» (v. 9). Anche se con ritardo, Eli si rende conto che la voce sentita da Samuele è la voce di Dio. Egli dunque, forse nella sua giovinezza, ha fatto un’esperienza personale di Dio: la vecchiaia e l’infedeltà al suo ruolo di guida nei confronti dei figli e, di riflesso, anche nei confronti di tutto il popolo, non gli impediscono di riconoscere l’intervento divino. Il fatto che Dio si rivolga a Samuele e non a lui non suscita apparentemente la sua gelosia: è naturale che Dio si rivolga non a lui, che porta su di sé il segno della riprovazione divina, ma a uno che, proprio perché sta già servendo Dio, sarà capace di ascoltare la sua voce.
Nei versetti successivi si racconta che Samuele fa come gli aveva suggerito Eli, e JHWH gli affida un messaggio per lui e tutta la sua casa. Dio non gli spiega dettagliatamente che cosa capiterà, ma si limita a confermargli che tutto ciò che era stato preannunziato si compirà al più presto, perché Eli ha visto ciò che i suoi figli compivano e non li ha puniti (vv. 12-14) Il riferimento è senza dubbio al brano precedente (2,27-36), in cui vengono preannunziate le sventure che colpiranno la famiglia di Eli. Il narratore ha preferito anticipare questo messaggio in modo da suggerire che Dio ha lasciato a Eli il tempo di cambiare comportamento e si è mosso solo quando è apparso chiaro che non c’era più nulla da fare. Da ciò si capisce come mai Dio affermi che l’iniquità della casa di Eli non potrà mai essere espiata, neppure con sacrifici e offerte.
Al mattino Samuele si immerge nella routine quotidiana del al tempio. Ma Eli gli chiede che cosa gli ha detto Dio nella notte. Presentendo che si tratta di cose dolorose, Eli lo incoraggia e al tempo stesso lo minaccia: se non parla, potranno capitare a lui cose peggiori di quelle che, probabilmente, riguardano soltanto Eli e la sua casa. A malincuore Samuele gli dice tutto e Eli risponde: «Egli è il Signore! Faccia ciò che gli pare bene» (v. 18). Questa risposta richiama quella di Giobbe dopo essere stato colpito dalla prova: «Il Signore ha dato, il Signore a tolto, sia benedetto il nome del Signore» (Gb 1,21). Con questa frase egli rivela, questa volta senza ambiguità, di essere un vero uomo di Dio, anche se sconvolto dal peccato.
Gli ultimi versetti appaiono nel testo attuale in modo piuttosto disordinato e per di più hanno un collegamento piuttosto blando con il racconto precedente: si ha l’impressione che essi siano stati aggiunti dal narratore come anticipo e sintesi degli sviluppi successivi. Nel primo di essi si dice che «Samuele acquistò autorità perché il Signore era con lui, né lasciò andare a vuoto una sola delle sue parole» (v. 19). Tutto Israele riconosce così che egli è un profeta e accoglie la sua parola come parola di Dio. In queste espressioni si coglie un’idea tipica della fede israelita: l’uomo di Dio è autorevole presso il popolo solo se e nella misura in cui è fedele al suo Dio.

Linee interpretative
Questo racconto è un modello significativo di vocazione profetica, anche se lo schema adottato è solo vagamente simile a quello delle grandi scene bibliche di vocazione (cfr Is 6). Alla chiamata di Dio si oppone, come per Geremia (cfr. Ger 1,6) l’ostacolo costituito dalla giovane età e dall’inesperienza del prescelto, il quale non capisce che è Dio a chiamarlo; ma alla fine l’ostacolo è tolto e Dio comunica a Samuele la propria parola. Nel messaggio di condanna rivolto a Eli è implicito il fatto che a Samuele passerà il ruolo che il sacerdote non ha saputo svolgere. Questo consiste essenzialmente nel ricevere e comunicare al popolo la parola di Dio, guidandolo in quel cammino di liberazione che era iniziato con Mosè.
In forza della sua chiamata Samuele appare come il vero capo carismatico del popolo. Egli svolgerà non solo il ruolo profetico, ma anche quello di sacerdote e di giudice. Nella persona di Samuele si trova quindi un esempio di leadership che abbraccia tutti gli aspetti della vita del popolo. In una cultura fondamentalmente teocratica egli rappresenta l’immagine del capo ideale, che è capace di provvedere ai bisogni non solo spirituali ma anche materiali del popolo. Questo ruolo si frantumerà molto presto con la richiesta da parte del popolo di un re. Ciò implicherà la divisione dei compiti, che però non metterà in crisi il carattere teocratico del governo di Israele; anche il re infatti sarà un rappresentante di Dio e dovrà continuamente interagire con figure profetiche che gli indicheranno la strada da percorrere per essere fedele a JHWH.

 

ISAIA 55,6-9 – (prima lettura di domenica, commento biblico)

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ISAIA 55,6-9

6 Cercate il Signore, mentre si fa trovare, invocatelo, mentre è vicino. 7 L’empio abbandoni la sua via e l’uomo iniquo i suoi pensieri; ritorni al Signore che avrà misericordia di lui e al nostro Dio che largamente perdona.
8 Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie — oracolo del Signore. 9 Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri.

COMMENTO
Isaia 55,6-9
La ricerca di Dio
Nella seconda parte del libro di Isaia (Is 40-55), opera di un profeta anonimo chiamato Deuteroisaia, si preannunzia e si prepara il ritorno nella loro terra dei giudei esiliati in Babilonia (538 a.C.). La sezione inizia con l’evocazione di una grande strada che si apre nel deserto, lungo la quale gli esuli si incamminano sotto la guida di Dio (Is 40), e termina con un poema nel quale si riafferma la fedeltà di Dio che porterà a compimento tutte le sue promesse (Is 55). Quest’ultimo capitolo si divide in tre parti: 1) il rinnovamento dell’alleanza davidica (vv. 1-5); 2) l’efficacia della parola di JHWH (vv. 6-11); 3) Rinnovamento di tutte le cose (vv. 12-13). Il testo liturgico riprende la prima metà della seconda parte di questo capitolo. Essa inizia con un’esortazione generale alla ricerca di Dio (v. 6), che diventa poi un invito alla conversione (v. 7), seguito da una motivazione di carattere teologico (vv. 8-9).
Il testo liturgico inizia con queste parole: «Cercate il Signore, mentre si fa trovare, invocatelo, mentre è vicino» (v. 6). Il tema del «ricercare» (darash) Dio nasce dalla consuetudine diffusa in tutte le religioni di visitare il santuario di una divinità per poterla incontrare nella statua che la rappresenta e ottenere da essa doni e grazie. L’incontro con la statua era l’occasione di una forte esperienza religiosa. Anche in Israele il termine indicava originariamente la visita al santuario di JHWH per richiedere una responso per mezzo di un oracolo (cfr. Dt 17,9;). Il termine assume però altre connotazioni, quali l’essere fedeli a Dio (cfr. Os 10,12; Am 5,4.6; Is 9,12), pregarlo (cfr. Sal 69,23-24; 105,4), compiere la sua volontà (cfr. Is 31,1; Ger 10,21). In questo contesto l’invito a ricercare Dio è parallelo a quello di invocarlo e ha come motivazione il fatto che egli si fa trovare, è vicino. Rivolto agli esuli, questo invito ha lo scopo di renderli attenti alla presenza di Dio nella storia e disponibili lasciarsi coinvolgere nella sua azione, che sta per configurarsi in un intervento risolutivo a loro favore, la liberazione e il ritorno nella loro terra.
L’esigenza di cercare Dio comporta quindi un impegno preciso: «L’empio abbandoni la sua via e l’uomo iniquo i suoi pensieri; ritorni al Signore che avrà misericordia di lui e al nostro Dio che largamente perdona» (v. 7). Il termine «empio» (rasha‘), in parallelismo con «uomo iniquo» (îsh awen) indica colui che non si preoccupa di compiere il volere di Dio nella sua vita quotidiana. In questo contesto indica quei giudei che si erano stabiliti nella terra d’esilio integrandosi nella società in cui si trovavano senza più pensare alla possibilità di un ritorno nella loro terra. L’empio e l’iniquo sono invitati ad abbandonare rispettivamente la loro via e i loro pensieri. Per la legge del parallelismo i due termini sono equivalenti; ma le «vie» sono piuttosto i comportamenti pratici, mentre «pensieri» indicano più direttamente i propositi e i progetti che ne sono la causa. Secondo la mentalità biblica pensieri e azione sono intimamente collegati: per trasformare la prassi è indispensabile mutare la mentalità, il cuore delle persone. Positivamente l’empio è invitato a «ritornare» (shûb) a Dio. Questo verbo indica la «conversione», che consiste in un cambiamento di rotta per ritornare sul proprio cammino e incontrare nuovamente JHWH. Per colui che è andato fuori strada non è facile convertirsi, soprattutto se sussiste l’immagine di un Dio vendicativo e crudele. Perciò il profeta sottolinea che JHWH è un Dio misericordioso e disponibile al perdono. Per colui che si è allontanato un gesto radicale di cambiamento è possibile solo se è sicuro di ottenere il perdono.
Per cogliere fino in fondo la misericordia infinita di Dio bisogna superare la tendenza spontanea a immaginare Dio con categorie umane. È questo il problema di ogni pratica religiosa. Il profeta lo affronta in questi termini: «Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie – oracolo del Signore. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri» (vv. 8-9). Anche Dio ha i suoi pensieri e le sue vie, ma sia gli uni che le altre sono totalmente diversi da quelli dell’uomo. I pensieri di Dio sono i suoi progetti in favore del cosmo e dell’uomo. Le sue vie sono i suoi interventi nella storia. Ciò che Dio pensa e per cui agisce è solo la salvezza del suo popolo e in prospettiva di tutta l’umanità. I pensieri e le vie di Dio non solo sono diversi, ma «sovrastano» quelli dell’uomo, sono più alti di essi come è più alto il cielo rispetto alla terra. I piani di Dio sono quindi sconosciuti all’uomo, e questo non solo perché Dio è un Dio misterioso (cfr Is 45,15), ma anche e soprattutto perché l’uomo è rivolto alle cose che gli interessano, mentre Dio cerca il vero bene di tutti. Dio progetta e dirige la storia in un modo superiore e sovrano. L’esilio e il ritorno lo rivelano a quelli che sanno comprendere.

Linee interpretative
In questo testo il Deuterosisaia presenta Dio da una parte come Colui che è immensamente superiore all’uomo, che ha pensieri e comportamenti diametralmente opposti ai suoi. D’altra parte però lo presenta anche come Colui che è vicino e si lascia trovare dall’uomo. In forza della sua trascendenza, Dio non può essere definito, perché inevitabilmente sarebbe ridotto a categorie umane. Di lui si può dire con più sicurezza quello che non è che non quello che è. Tutto quanto si dice di Lui non può essere che una metafora, un’analogia totalmente inadeguata al suo vero essere. Tuttavia questo Dio inaccessibile si fa vicino all’uomo e gli parla attraverso gli eventi della storia, interpretati dai suoi profeti. Costoro sono persone che hanno una percezione più diretta e immediata del divino così come si manifesta nel mondo e nella storia. La loro parola è luce e guida per tutto il popolo, specialmente nei momenti più cruciali, come è quello del ritorno dall’esilio. Coloro a cui si rivolgono devono ascoltarli: ciò non li esime però da una ricerca personale, senza della quale non potranno discernere i veri dai falsi profeti.
Nel contesto biblico la ricerca di Dio non consiste in una riflessione astratta circa la sua natura e i suoi attributi, ma piuttosto in una «conversione» vissuta, che si esplica nell’impegno quotidiano per vivere secondo i suoi comandamenti. Nella prospettiva profetica questi non coincidono con le numerose prescrizioni della legge mosaica, ma in quello che ne è il fondamento, il decalogo. L’empio non è colui che rifiuta a Dio gesti esterni di culto, ma colui che gli nega il vero sacrificio di lode. Per trovare Dio gli israeliti devono anzitutto instaurare rapporti autentici di giustizia e di solidarietà tra di loro. L’amore del prossimo, mediante il quale si ricostituisce l’unità del popolo, sta alla base di una vera conversione e rappresenta il primo effetto dell’intervento di Dio e la condizione indispensabile perché esso giunga a compimento.

LECTIO LIBRO DEI PROVERBI : “IL CONVITO DELLA SAPIENZA” – 9,1-6. 10-12

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LECTIO DIVINA 28 – LIBRO DEI PROVERBI

“IL CONVITO DELLA SAPIENZA” – 9,1-6. 10-12

Introductio.

Lodiamo Dio nostro Padre che ci ha chiamato ad ascoltare la sua Parola. Preghiamo Maria Vergine Madre perché ci assista nel ricevere lo Spirito Santo.
Vieni, Santo Spirito, nei nostri cuori e accendi
In essi il fuoco del tuo amore. Vieni, Spirito Santo,
e donaci per intercessione di Maria che ha saputo
contemplare, raccogliere gli eventi della vita di
Cristo e farne memoria operosa, la grazia di
Leggere e rileggere le Scritture per farne anche
In noi memoria viva e operosa.
Donaci, Spirito Santo, di lasciarci nutrire da questi
Eventi e di riesprimerli nella nostra vita.
E donaci, Ti preghiamo, una grazia ancora più
Grande: quella di cogliere l’opera di Dio nella
Chiesa visibile e operante nel mondo. Amen.

Lectio.
Come si è formato il Libro? In linea generale si può ricostruire la storia in questi termini: partendo da un materiale popolare di detti e sentenze in genere brevi, incisivi e figurati. Al tempo di Salomone si raccolsero assieme i primi scritti, sotto l’influsso della civiltà egiziana con cui il figlio ed erede di David ebbe rapporti molto stretti (1 Re 4,3).
Il lavoro di raccolta ed elaborazione della sentenza, che in ebraico si chiama “masal”, perdura per tutta la monarchia e risente delle civiltà con cui Israele ha relazione.
Se leggiamo con attenzione il Testo, ne ricaviamo un quadro e un’idea della sapienza abbastanza particolare. Si tratta, infatti, di conoscenza della vita, di abilità tecnica, di comportamento sociale in cui non entra alcun elemento religioso specifico. Se vogliamo, è una sapienza laica, accessibile anche all’uomo assennato, retto ed esperto fuori della rivelazione (capp. 10-29).
Probabilmente questa parte del testo fu completata prima dell’esilio di Babilonia (587 a.C.). Il Libro, nella sua forma attuale fu invece completato un secolo dopo, in pratica ad esilio ultimato, per definire l’aspetto morale della nuova comunità. Fu allora che fu aggiunta la prima parte, capp. 1-9, nella quale è descritta la radice e la natura della Sapienza, o meglio, la Sapienza nel suo fondamento teologico, dove troviamo i versetti che preghiamo oggi.
Il popolo deve avvertire che non esiste per lui una morale, per così dire, laica, ma solo una risposta di fedeltà alle proposte di Dio che si rendono note attraverso la Sapienza. In altre parole, la sapienza umana sta nell’accogliere e nel rispondere alla Sapienza divina, ed alla radice il timore del Signore. Questa idea cardine del prologo intende, infatti, mostrare in che cosa il sapiente d’Israele è diverso dai sapienti degli altri popoli, benché si regoli sulle stesse massime. Di fatto, non sono queste che lo definiscono savio, bensì il temere Dio e l’aderire alla Sapienza (=Signore Sapienza o Signore Follia: dipende dalle scelte): poste queste condizioni, i criteri degli altri popoli possono valere per lui, non prima.
Se è importante leggerli sapendo che rappresentano un certo grado di maturazione della coscienza del popolo di Dio, è altrettanto importante cogliere che essi aspettano il loro compimento. Tale compimento è, evidentemente, in due direzioni: quella della Sapienza divina che si rivela nel Figlio Salvatore, e quella della sapienza umana che si realizza nell’accettarne il dono di salvezza.

Leggiamo il cantico tutti insieme attentamente.
Meditatio.
Nei primi capitoli del Libro sono riassunte in maniera plastica i quadri vivi della Sapienza e della Stoltezza (=Signora Sapienza e Signora Follia). Ognuna di loro invita l’uomo, scervellato e capriccioso, ad un banchetto festoso. La Signora Sapienza gli pone davanti la vita, mentre sulla tavola della Signora Follia c’è solo la morte. Noi mediteremo l’invito della Signora Sapienza con qualche accenno alla Signora Follia per meglio comprendere il senso dei versetti oggetto della preghiera.

Il Canto dell’invito della Signora Sapienza consiste di tre parti:
-Costruzione della casa e allestimento del banchetto vv.1-2;
-Invio delle ancelle ad invitare la gente vv.3-6;
-Scelta della vita o della morte vv.10-12.

Diciamo subito fuori metafora che l’uomo non è solo. Nessuno può illudersi di muoversi in un mondo asettico e vuoto in cui può vivere senza decidere e senza scegliere, ma ognuno ( e l’esperienza d’ogni giorno lo insegna) si muove in un universo popolato di voci contrastanti che lo chiamano e lo sollecitano, con maggiore o minore intensità, con inviti più o meno densi di contenuto, tanto che è necessario schierarsi: sperare di potere rimanere neutrali è un’illusione pura e semplice. Com’è un’illusione sperare di vivere saggiamente senza contrasti o follemente senza conseguenze.
Per questo motivo, confrontiamo subito i vv. 1-6. 10-12 (Signora Sapienza), con i vv.13-18 (Signora Follia); quasi fossero le due tavole di un dittico, tenendo presente però che le due protagoniste, non vi sono raffigurate staticamente, solenni come le immagini delle icone, ma come due personaggi vivi e dotati, ciascuno, di una propria vitalità.
La Signora Sapienza è una donna che si dà da fare secondo un ordine mentale, noi diremmo: secondo una gerarchia di valori e un chiaro obiettivo. Il suo progettare e agire sono identificati da sette verbi: Edificare, scolpire, macellare, mescolare (il vino nell’antichità non si bevevo mai puro, ma sempre mescolato con acqua, miele, aromi; perciò doveva essere assaggiato, come alle nozze di Cana, per sapere se era stato trattato al punto giusto), imbandire, mandare, proclamare.
Sette è un bel numero, confermato da quello delle colonne della casa della Signora Sapienza: significa che costei sa quel che vuole, appunto, e che sa come arrivarci, fino ai dettagli eleganti. Tanto che prende l’iniziativa di inviare messaggeri e sa offrire ai suoi invitati cibo e bevande di qualità. La Signora Sapienza agisce apertamente, invita perché ha delle proposte autentiche da fare, in cui non c’è nulla da tenere nascosto. Incarna quindi un modo di essere che si propone non come pura apparenza, ma come progetto che sa attuarsi, durare e proporsi.
Della Signora Follia diremo soltanto che benché abbia i tratti in comune con la Signora Sapienza, le due donne rappresentano due realtà molto diverse e, anzi, due direzioni opposte per chi transita sulla strada della vita. Esse usano a tratti un linguaggio simile, talché si richiede grande attenzione per discernere la verità dei loro discorsi.
Ascoltare e dare retta all’una o all’altra, accettare cioè di sedere alla loro tavola e di condividere il loro cibo, non è perciò cosa da prendere alla leggera: è questione di vita o di morte.
Rileggiamo il cantico in silenzio attenti ai suggerimenti dello Spirito santo.

Contemplatio.
O mio Dio, tu mi inviti nella casa della Sapienza, dove mi viene imbandita una mensa con pane e vino: cibi semplici ma che danno la vita. Il tuo è un invito chiaro ed insistente: saggio è colui che presuppone una relazione con Te, che ha un atteggiamento umile ed accogliente nei Tuoi confronti; stolto è colui che ti si oppone, che disprezza il Tuo invito, che orienta le proprie scelte su basi differenti. Signore, ti supplico, fammi sapere quel che vuoi da me; fammi intendere che quando voglio ciò che tu vuoi, allora voglio il mio maggior bene, perché certamente Tu non vuoi che il meglio per me.
Io sono spesso incoerente: ragiono di virtù e santità, ma agisco in conformità a passioni e vizi poco combattuti. Ho gran cura di non oltrepassare il limite del peccato.
Il pane e il vino, che ci offri alla mensa della Sapienza, è il Corpo ed il Sangue di Gesù, Tuo Figlio Unigenito, nostro salvatore, cibo della nostra vita eterna, ma devo accoglierlo con atteggiamento umile, seguendone l’esempio, come ci insegna Maria, la nostra Mamma Celeste.
“ O Gesù, tu sei la luce a coloro che aprono gli occhi per vederti; ma a quelli che li chiudono, sei pietra d’inciampo” (Bossuet, meditazioni sul Vangelo).

Conclusio.
Temere Dio ed aderire alla Sapienza è questo l’invito rivolto al discepolo. Timoroso è il discepolo che accetta la disciplina, è il giovane che accetta la correzione, è il saggio che non presume di sapere, ma pondera prima di decidere. Il rispetto del Signore fa spazio a Dio nell’ambito intellettuale e sapienziale, con la consapevolezza che nessuna sapienza umana regge di fronte a YHWH, perché l’uomo, nonostante la sua intelligenza, non è in grado di padroneggiare tutte le situazioni. Aderire alla sapienza vuol dire accogliere Gesù come Salvatore, come Colui che ci rivela i misteri di Dio, i Suoi piani di salvezza per l’umanità, il senso autentico delle Scritture.

Grazie Santissima Trinità per questa ora di preghiera.
Sia lodato in eterno il Tuo nome.

COMMENTO A ROMANI 8,9.11-13

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COMMENTO A ROMANI 8,9.11-13

Fratelli, 9 voi non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene. 11 E se lo Spirito di colui che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi. 12 Così dunque fratelli, noi siamo debitori, ma non verso la carne per vivere secondo la carne; 13 poiché se vivete secondo la carne, voi morirete; se invece con l’aiuto dello Spirito voi fate morire le opere del corpo, vivrete.  

COMMENTO Romani 8,9.11-13 La vita secondo lo Spirito Nella seconda sezione della lettera ai Romani (cc. 6-8) Paolo mostra come la proposta di una giustificazione che avviene solo per mezzo della fede non spiana la strada al peccato, anzi lo elimina definitivamente insieme a due altre realtà che hanno collaborato con esso, il peccato e la morte (cc. 6-7). Nel c. 8 egli affronta il tema della vita nuova che si apre a colui che è diventato giusto mediante la fede. A tal fine egli riprende e rielabora alcune delle intuizioni che aveva già anticipato in 5,1-11. Nel nuovo capitolo l’apostolo mostra anzitutto come sia ormai lo Spirito a guidare l’uomo giustificato (vv. 1-13) e prosegue mettendo in luce come lo Spirito stesso trasformi intimamente non solo il credente ma anche tutto l’universo (vv. 14-25). Infine spiega come l’amore divino faccia sì che il credente sia vincitore su tutte le forze ostili che tentano di impedirgli il conseguimento della gloria finale (vv. 26-39). La liturgia utilizza a più riprese questo capitolo, selezionandone diversamente i versetti. La parte qui riportata si limita agli ultimi versetti della prima parte. Secondo Paolo lo Spirito, infuso nel credente per mezzo del battesimo, ha reso possibile ciò che la legge non poteva raggiungere, in quanto ha reso il credente capace di compiere pienamente la volontà di Dio riassunta in un unico precetto (vv. 1-4), con riferimento al comandamento dell’amore (cfr. 13,8-10). L’apostolo mostra poi che, in seguito a ciò, l’umanità si divide in due campi opposti: da una parte vi sono quelli che sono «secondo la carne» e dall’altra quelli che sono «secondo lo Spirito». I primi si danno pensiero delle cose della carne, ma questo pensiero li porta alla morte, poiché così facendo essi si rivoltano contro Dio; quelli invece che sono secondo lo Spirito pensano alle cose dello Spirito, e questo pensiero è per loro fonte di vita e di pace. Paolo conclude che coloro che vivono secondo la carne non possono piacere a Dio (cfr. vv. 5-8). A questo punto inizia il testo liturgico. Paolo si rivolge direttamente ai suoi interlocutori e li invita a considerare fino in fondo la nuova situazione in cui si trovano. Essi non sono più «nella carne», ma «nello Spirito», dal momento che questo stesso Spirito abita in loro. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene (v. 9). Lo Spirito di Dio quindi non è altro che lo Spirito di Cristo. Perciò proprio in forza dello Spirito che è in loro essi appartengono a Cristo. Ora però, se Cristo abita in loro, da una parte il loro corpo è morto a causa del peccato, dall’altra però in loro opera lo Spirito che è sorgente di vita in forza della giustizia (v. 10). Essi cioè restano soggetti alla morte, in quanto partecipi di questa umanità dominata dal peccato; ma in forza della giustizia che è stata loro conferita possiedono già la vita che è dono dello Spirito. Ora se lo Spirito di colui che ha risuscitato Gesù dai morti abita in loro, quello stesso che ha risuscitato Cristo dai morti, cioè Dio, «farà vivere i loro corpi mortali» mediante lo Spirito che dimora in loro (v. 11). In altre parole lo stesso Spirito, mediante il quale Dio ha risuscitato Gesù dai morti, darà una nuova vita anche a coloro nei quali, in forza della giustificazione, è venuto ad abitare. Il credente, pur vivendo ancora in una situazione contrassegnata dalla morte fisica, pregusta già mediante l’opera dello Spirito quella vita nuova e indefettibile di cui gode il Cristo risuscitato. L’apostolo infine, rivolgendosi di nuovo affettuosamente ai suoi interlocutori («fratelli»), afferma che noi siamo ancora debitori, non però verso la carne, per vivere secondo la carne (v. 12): egli dirà in seguito che l’unico debito del credente è l’amore vicendevole (cfr. Rm 13,8). Egli prosegue poi ricordando loro che, se vivono secondo la carne, andranno incontro alla morte; ma se con l’aiuto dello Spirito fanno morire le opere del corpo, vivranno (v. 13). Lo Spirito dà dunque la vera vita all’uomo, in quanto gli permette di liberarsi dai condizionamenti della carne, cioè di evitare il peccato che porta inevitabilmente alla morte.

Linee interpretative Dio ha certamente delle aspettative nei confronti dell’uomo. Paolo le vede sintetizzate nell’unico comandamento che ha come oggetto l’amore del prossimo. Ma proprio questo comandamento non può essere attuato dall’uomo perché egli è soggetto al peccato, che si manifesta nel desiderio egoistico, di cui l’amore è esattamente il contrario. Perciò Paolo afferma che la salvezza non viene dalla promulgazione di una legge, per quanto giusta e santa essa possa essere. Per salvarsi l’uomo ha bisogno di un supplemento di grazia, che Dio infonde mediante lo Spirito, il dono per eccellenza di cui è dotato chi aderisce a Cristo mediante la fede. Di conseguenza solo il credente osserva pienamente la legge poiché lo Spirito opera ormai in lui e gli ispira una nuova mentalità e un nuovo modo di agire. Pur vivendo ancora in una carne mortale, egli è già partecipe di quella vita immortale che lo Spirito ha conferito a Cristo mediante la risurrezione e darà un giorno a tutti coloro che gli appartengono. Questa tesi, affermata con grande forza da Paolo contro tutte le accuse che gli venivano fatte dai suoi avversari, mette chiaramente in luce la dignità della persona umana. All’uomo, in quanto creatura dotata di ragione e di libertà, non conviene un agire imposto da una legge esterna, con le sue minacce e punizioni. L’uomo deve poter agire per una spinta interiore, che lo orienti al bene pur lasciandolo libero di fare le sue scelte. Lo Spirito svolge questo compito, in quando rendendo viva l’esperienza di Cristo nel suo cuore, può muovere l’uomo dall’interno e al tempo stesso garantisce la sua libertà. Perciò è solo lo Spirito che può guidare l’uomo a compiere liberamente la volontà di Dio e a vincere il peccato.  

COMMENTO A ZACCARIA 9,9-10

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COMMENTO A ZACCARIA 9,9-10

Così dice il Signore: 9 Esulta grandemente figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina.

10 Farà sparire i carri da Efraim e i cavalli da Gerusalemme, l’arco di guerra sarà spezzato, annunzierà la pace alle genti, il suo dominio sarà da mare a mare e dal fiume ai confini della terra.

COMMENTO Zaccaria 9,9-10 Il Messia umile e vittorioso Il libro di Zaccaria si divide in due sezioni, di cui solo la prima (cc. 1-8) raccoglie gli oracoli di questo profeta. La seconda sezione (cc. 9-14), diversa dalla prima per stile e contenuto, è attribuita invece un autore anonimo del tempo di Alessandro Magno: la sua interpretazione è resa difficile dall’accentuato simbolismo e dal cattivo stato del testo. Essa si divide in tre parti: nella prima parte si annunzia la venuta del regno di Dio, che coincide con il raduno dei giudei dispersi e con la caduta dei regni di questo mondo (9,1-11,3); nella seconda (11,4-14,21) si parla della liberazione di Gerusalemme mediante la sofferenza dei suoi rappresentanti, il buon pastore (11,4-16; 13,7-9) e colui che è stato trafitto (12,10-14); nella terza infine si annunzia che JHWH combatterà contro le nazioni e stabilirà su tutto il mondo la sua regalità (14,1-21). All’inizio della prima di queste tre parti si descrive lo straordinario effetto della parola di JHWH (9,1-8): come un potente esercito conquistatore essa percorre il regno di Siria e le città della Filistea e della Fenicia per fare di esse il suo popolo, dopo averle purificate dall’idolatria e averne fatto un’unica famiglia con Israele; su di esse JHWH vigilerà come una sentinella perché non gli siano poi nuovamente tolte. Al termine del brano iniziale si situa il testo liturgico, che si stacca dal precedente a motivo sia dello stile che del contenuto, anche se idealmente si collega con esso in quanto ambedue annunziano l’avvento dell’era messianica. Il profeta non si rivolge più alle città della Siria, Fenicia e Filistea, ma a Sion-Gerusalemme (v. 9a), per annunziare non una nuova conquista, ma la venuta del suo re salvatore (v. 9ab), non sulle nubi del cielo e nei fenomeni cosmici, ma cavalcando un giumento (v. 9b). La sua missione non è la guerra (v. 10a), ma la pace universale (v. 10b). Le parole e le immagini sono quelle usate dai profeti precedenti per annunziare il re messianico. Di nuovo c’è qui l’affermazione della solenne investitura regale del Messia in Gerusalemme in una fastosa celebrazione liturgica. Il testo si apre con un invito alla gioia: «Esulta grandemente figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme» (v. 9a). L’invito alla gioia più intensa, specialmente se rivolto agli abitanti di Gerusalemme, evoca una cerimonia liturgica in cui si solennizza la regalità divina (cfr. Is 65,18; 66,10; Ab 3,18). L’espressione «figlia di Sion» come la successiva «figlia di Gerusalemme» è un semitismo per indicare gli appartenenti alla collina di Sion, cioè gli abitanti di Gerusalemme. Anche il verbo «giubilare» evoca la circostanza di una solenne liturgia (cfr. Esd 3,13) nella quale si esprime la gioia dell’avvento della regalità di JHWH (cfr. Sal 47,2; 66,1; 95,1-2; 98,4.6). I profeti invitano alla gioia e al giubilo quando annunziano la manifestazione gloriosa di Dio nell’era messianica (cfr. Is 44,23; Sof 3,14; Gl 2,1). Il motivo del giubilo viene indicato subito dopo con questa espressione: «Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca su un asino, un puledro figlio d’asina» (v. 9b). La particella «ecco» indica che l’evento di cui si sta per parlare è imminente. L’espressione «a te viene il tuo re» indica che l’evento in questione è la venuta a Gerusalemme del Messia. Da dove egli venga non è indicato; la sua apparizione è immediata e misteriosa, come quella di JHWH stesso. Così le antiche profezie del messianismo reale davidico sempre più si colorano di elementi sovrumani, mentre sempre più d’altro canto va sbiadendosi il colore politico e storico del personaggio. Il primo attributo che caratterizza il Messia è la giustizia. Il giusto è colui che ha raggiunto la perfezione religiosa in quanto compie nella maniera più completa quello che Dio esige da lui, diventando per questo oggetto delle benedizioni divine (cfr. Dt 6,25; Pr 10,6). Sono modello dell’uomo giusto sia Noè (cfr. Gen 6,9; 7,1) che Abramo (Gen 15,6). La giustizia è un attributo del re (cfr. 1Sam, 24,18; 2Sam 4,11; 2Sam 23,3): a maggior ragione quindi il Messia è presentato come il giusto per eccellenza (cfr. Ger 23,5). Il Messia non è solo giusto, ma anche «vittorioso» (lett. salvatore). La salvezza, come la giustizia, è attribuita a JHWH dal Deuteroisaia (cfr. Is 45,21): secondo questo testo anche il Messia partecipa di questa prerogativa in quanto egli collabora all’opera di JHWH che gli conferisce la vittoria sui suoi nemici. Infine qusto re è «mite»: mentre i due primi attributi rivelano i suoi rapporti con JHWH, la mitezza indica il suo ateggiamento nei confronti degli uomini. Questo attributo è appare come una caratteristica di Mosè nei suoi rapporti con Miriam ed Aronne, invidiosi della sua condizione privilegiata(cfr. Nm 12,3). Come lui anche il re messianico, benché giusto e quindi particolarmente protetto da Dio, non si esalta né davanti a Dio né davanti agli uomini. Egli «cavalca sopra un asino»: mentre guerrieri valorosi e crudeli (cfr. Gr 6,23; 50,42), e anche Dio stesso (cfr. Ab 3,8), manifestano la loro dignità servendosi di cavalli, egli mostra la sua umiltà e mitezza cavalcando un asinello. Così aveva fatto Abigail davanti a David (cfr. 1Sam 25,20-43) e Davide stesso in fuga davanti al figlio Assalonne (cfr. 2Sam 16,2). Allo stesso modo il re messianico si presenta come una persona umile e semplice, e non come un re terreno o un guerriero vittorioso. Per le regole del parallelismo le due espressioni «asino» e «figlio di un’asina» si equivalgono. Al re che entra trionfalmente in Gerusalemme vengono attribuite due azioni parallele, una negativa e l’altra positiva. Prima di tutto egli «farà sparire i carri da Efraim e i cavalli da Gerusalemme» (v. 10a). Il nome Efraim è quello di uno dei due figli di Giuseppe e indica la tribù maggioritaria del Nord e quindi per metonimia tutto il regno di Israele in contrasto con il regno di Giuda, indicato con il nome della sua capitale, Gerusalemme. Sia in Israele che in Giuda gli farà dunque sparire tutti gli strumenti di guerra. Ciò significa che nell’era messianica non vi sarà più divisione fra il regno di Israele e quello di Giuda e il re messianico regnerà quindi su tutto Israele. Oltre a far scomparire carri da guerra e cavalli, il re spezzerà per sempre l’arco, l’arma ordinaria in dotazione all’esercito di Israele (cfr. Os 2,20; 1Cr 5,18; ecc.). In senso negativo si dice dunque che il Messia eliminerà la guerra per sempre. In senso positivo si afferma invece che il Messia «annunzierà la pace alle genti, il suo dominio sarà da mare a mare e dal fiume ai confini della terra» (v. 10b). La sua missione principale sarà quella di proclamare la pacificazione fra i popoli, come già avevano annunziato Isaia (cfr. Is 11,6) e Osea (cfr. Os 2,20). La sua missione pacificatrice si estenderà da un mare, il Mediterraneo, a un altro mare, il golfo Persico, e dal fiume, il Nilo, sino ai confini della terra: tutte e quattro le indicazioni geografiche, che ritornano anche nel Sal 72,8, indicano simbolicamente l’universalità del regno messianico.

Linee interpretative In questo testo si preannunzia la venuta del « Messia », la cui attesa si era diffusa nel periodo postesilico tra tutto il popolo giudaico. Egli viene presentato come un re che prende possesso delle due nazioni israelitiche, Israele e Giuda, che vengono nuovamente unite per formare l’unico popolo eletto; inoltre viene indicato come colui che stabilirà il dominio di Dio su tutto il mondo. Per mezzo suo si realizza dunque il regno universale di Dio. La caratteristica fondamentale di questo regno è la pace. Questa viene descritta, alla luce dell’ideologia tipica dell’antico Oriente, come l’eliminazione forzata dei conflitti mediante la vittoria di un re su tutti i regni vicini. Era questo il modo in cui si pensava di poter rappacificare le nazioni in lotta e creare nuove condizioni di vita per tutti. Di questo tipo era la pace imposta dai grandi imperi dell’antichità e soprattutto dai romani (pax romana). Pur ispirandosi a questa ideologia il testo di Zaccaria la supera decisamente. Il re Messia è presentato come una persona giusta e mite, cioè non violento. Ciò che gli compete non è tanto la vittoria sui nemici, come lascia intendere la traduzione CEI, quanto piuttosto la capacità di dare una salvezza che consiste non nel reprimere la violenza con la violenza, ma nel creare rapporti nuovi tra le nazioni e gli individui. Di conseguenza la pace che egli porta elimina alla radice la possibilità stessa di nuove violenze. Ciò è possibile perché egli è un giusto, e ispira il suo intervento alla giustizia, che consiste essenzialmente nell’osservanza della legge di Dio. Egli attua così la figura ideale del re, quale era descritta nella Scritture (cfr Dt 17,14-20). Mediante la sua umiltà e non violenza il Messia descritto da Zaccaria manifesta la vera immagine di Dio, che attua la sua salvezza non mediante il ricorso a minacce e castighi, ma muovendo il cuore delle persone perché colgano un ideale e si impegnino in esso con tutte le forze.

 

L’AULA MAGNA DEL BIBLICO – (nel contesto della « lezione », il tema della Parola di Dio)

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L’AULA MAGNA DEL BIBLICO: RICORDI E ATTIVITÁ – LEZIONE

P. Klemens Stock

Lezione del professore R.P. Klemens Stock S.J. tenuta il 4 ottobre 2011 in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico 2011-12 e della Aula Magna completamente ristrutturata.

(nel contesto della « lezione », il tema della Parola di Dio)

1. La parola di Dio
La parola di Dio è composta da due elementi: una rivelazione e un comando. Dio rivela Gesù come il suo Figlio prediletto, e ordina ai discepoli di ascoltarlo. Vediamo ora questi due elementi.
1.1. La rivelazione del Figlio prediletto
Il termine “figlio” (hyios), al singolare, ricorre al singolare in Marco 31 volte: quasi sempre, 29 volte, viene applicato alla persona di Gesù, mentre negli altri due casi restanti, cioè in 9,17 e 10,46, viene usato per persone umane, di cui viene indicato anche il padre. Ma i modi in cui questo termine viene usato e le persone che lo utilizzano sono diversi. Solo Gesù usa le espressioni “il figlio dell’uomo” (14 volte) e “il figlio” (1 volta, in 13,32), sempre in funzione di soggetto della frase e facendo un’affermazione su di essi. Negli altri casi il termine non viene usato da Gesù, ma da altre persone, e non come soggetto, ma come parte del predicato, quando viene fatta un’affermazione per caratterizzare la persona di Gesù. Gli abitanti di Nazaret chiamano Gesù “il figlio di Maria” (6,3), caratterizzandolo mediante il rapporto vitale e fondamentale con sua madre. Bartimeo chiama Gesù “figlio di Davide” (10,47.48), facendo riferimento alla sua appartenenza a questa famiglia regale e alle aspettative legate ad essa. Più tardi Gesù ricorderà l’insegnamento degli scribi che il Cristo è figlio di Davide e lo metterà in dubbio (12,35-37). Alcuni demoni chiamano Gesù “figlio di Dio” durante la sua attività pubblica e vengono sgridati e messi a tacere da Gesù (3,11; 5,7). Il sommo sacerdote chiede a Gesù se egli è “il Cristo, il figlio del Benedetto” e qualifica la risposta affermativa di Gesù come bestemmia (14,61-64). Dopo la morte di Gesù, il centurione pagano sotto la croce (15,39) e l’evangelista, nella prima frase della sua opera (1,1), chiamano Gesù “figlio di Dio”.
Nel vangelo di Marco Gesù è quasi l’unica persona di cui si menziona la “figliolanza”. D’altra parte, tra le denominazioni che si applicano a lui (per esempio: maestro, Cristo, re, signore, profeta ecc.), quella di figlio è la più frequente. Ciò che interessa soprattutto è la sua ‘figliolanza’, la sua appartenenza secondo vari aspetti. Essenziali per la persona e per la conoscenza di Gesù sono i rapporti in cui egli si trova.
Anche Dio parla della figliolanza di Gesù e lo chiama “il mio Figlio prediletto” (ho hyios mou ho agapetos, 1,11; 9,7). Questa espressione è del tutto singolare: viene usata solo da Dio, e solo per Gesù, ed è l’unica affermazione di Dio nei confronti di Gesù. Essa esprime la singolare appartenenza di Gesù a Dio, il singolare rapporto che esiste tra Dio e Gesù. Questo è l’unico contenuto che Dio comunica ai discepoli. Nessuna cosa è tanto importante per il loro rapporto con Gesù quanto la loro conoscenza del rapporto di Dio con lui. Dio lo comunica ad essi con la sua autorità divina assoluta.
La parabola del proprietario di una vigna, dei suoi inviati e dei vignaioli malvagi (Mc 12,1-12) mostra e sottolinea che l’espressione ‘figlio prediletto’ non indica tanto una funzione o un incarico di Gesù, quanto il suo rapporto personale con Dio. Nella parabola, l’incarico è lo stesso per tutti gli inviati del proprietario: essi devono richiedere la parte della vendemmia che spetta al proprietario. Tutti gli inviati vengono chiamati “servi” (12,2.4), eccetto l’ultimo. Questi viene messo in rilievo in diversi modi: è l’ultimo che è rimasto al proprietario, viene espressamente chiamato figlio prediletto, ultimo inviato ed erede (12,6-7), e la sua uccisione provoca un intervento energico del padrone. In tutto ciò si manifesta il suo singolare rapporto personale con il proprietario della vigna, che rappresenta Dio.
Il titolo “il mio Figlio prediletto” esprime un singolare rapporto personale e cordiale tra Dio e Gesù. La conoscenza di questo rapporto non è dovuta all’intelligenza umana dei discepoli, né a una dichiarazione di Gesù, ma soltanto a una rivelazione che proviene da Dio Padre, il quale è l’unico che conosce il Figlio (cf. Mt 11,27; 16,17; Gal 1,15-16). Solo Dio sa qual è il rapporto di Gesù con Lui; solo il Padre può rivelare che Gesù è il suo Figlio prediletto. I discepoli hanno il compito di capire sempre più l’importanza del fatto che in Gesù essi hanno presso di sé il Figlio prediletto di Dio. Dio stesso indica loro la conseguenza più importante di questo fatto: “Ascoltatelo!”.
1.2. Il comando divino di ascoltarlo
Il comando “Ascoltatelo!” è l’unico comando di Dio che ci viene riferito da Marco. Esso non viene esplicitato con dei contenuti, ma è completamente riferito alla persona di colui che Dio ha appena rivelato. Il loro ascoltare deve essere caratterizzato dal sapere che Gesù è il Figlio prediletto di Dio. A questo fatto devono corrispondere l’attenzione, l’interesse e l’intensità del loro ascoltare. Al primo posto non ci sono i contenuti, ma la persona del Figlio prediletto che li comunica. Le sue parole devono essere recepite, in modo chiaro e consapevole, come le parole del Figlio prediletto di Dio. Vogliamo ora riflettere sull’importanza del fatto che Dio mette al centro la persona del suo Figlio prediletto, tenendo conto delle circostanze della trasfigurazione di Gesù.
Il comando di Dio “Ascoltatelo!” è preceduto da tanti richiami di Gesù all’ascoltare. Egli inizia il suo primo grande discorso, il discorso delle parabole (4,3-34), con l’esortazione: “Ascoltate!” (4,3) e ripete due volte: “Chi ha orecchi per ascoltare, ascolti” (4,9.23). Il tema principale di questo primo discorso è proprio quello di mostrare il modo giusto di ascoltare. Anche nel suo successivo discorso Gesù chiede: “Ascoltatemi tutti e intendete bene!” (7,14).
Dagli insegnamenti di Gesù si può desumere una certa dottrina sull’ascoltare. L’ascoltare deve essere seguito dall’accogliere e fruttificare (4,20). È minacciato da pericoli seri (4,15-19). Deve essere accompagnato dall’intendere (7,14: 8,17-21), che presuppone una grande attenzione a ciò che viene ascoltato (4,24-25). E colui che ascolta e intende, deve essere luce (4,21-23), deve comunicare agli altri ciò che ha ricevuto. Attraverso gli insegnamenti di Gesù i discepoli sono preparati a ricevere il comando di Dio. Quest’ultimo conferma le istruzioni di Gesù e rivela che colui che li istruisce è il Figlio prediletto di Dio e mette al centro dell’ascoltare la consapevolezza che Gesù è il Figlio prediletto di Dio.

2. La parola di Dio nel contesto della trasfigurazione di Gesù
La voce di Dio si rivolge ai tre discepoli, ma tutti gli avvenimenti che si verificano prima e dopo la parola rivolta da Dio sono in loro favore. Questo viene messo particolarmente in rilievo da Marco. I tre discepoli vengono condotti sul monte da Gesù (9,2). Egli viene trasfigurato davanti ai loro occhi (9,3). A loro appaiono Mosè ed Elia (9,4). Essi sono spaventati e Pietro parla a nome di tutti (9,5-6). Essi vedono con sé solo Gesù (9,8). A loro Gesù ordina di non parlare di questo episodio fino alla sua risurrezione (9,9). La voce di Dio rappresenta il culmine di tutti questi eventi, che sono orientati alla formazione dei tre discepoli, alla loro più profonda conoscenza della persona di Gesù.
Gesù ha portato con sé sul monte soltanto tre discepoli. Ma già il numero “tre” fa capire che si tratta di tre testimoni (cf. Dt 19,15; Mt 18,16; Gv 8,16-17). E il divieto di Gesù di parlare della loro esperienza prima della sua risurrezione implica il comando di darne testimonianza dopo la risurrezione (cf. 2 Pt 1,16-18). Mediante tutti questi avvenimenti la mente dei discepoli si deve aprire alla comprensione della persona di Gesù e del loro agire giusto.
La voce di Dio rivela un rapporto singolare di Gesù con Dio. Ma anche gli altri eventi accennano a una particolare appartenenza di Gesù al mondo di Dio. Gesù non trasforma se stesso, ma viene trasformato da Dio nella figura in cui appare ai tre discepoli (9,2). Le sue vesti sono di un bianco che a nessun uomo con tutti i suoi sforzi è possibile ottenere (9,3), e sono caratteristiche della figura che Gesù avrà nel mondo di Dio. Anche i suoi interlocutori, Mosè ed Elia, non appartengono al mondo terreno, ma a quello di Dio. Questi fenomeni preparano la rivelazione del rapporto singolare di Gesù con Dio, e vengono confermati e interpretati da essa.
Dobbiamo mostrare ancora in modo particolareggiato il significato speciale di alcune di queste circostanze. Di grande significato è il fatto che Dio rivolge la sua parola ai tre discepoli alla presenza di Mosè ed Elia. L’Antico Testamento menziona i due insieme solo in Ml 3,22-24. Mosè rappresenta la Legge (cf. Mc 1,44; 7,10; 10,3; 12,26); è il mediatore attraverso il quale Dio ha dato al suo popolo le norme dell’agire giusto. Elia rappresenta i Profeti, che hanno il compito di ricondurre il popolo ribelle e infedele al Signore loro Dio. Ad Elia spetta anche il compito speciale di preparare la venuta del Signore (cf. Ml 3,23-24; Mc 1,2; 9,11-13). Dio finora ha parlato e ha comunicato la sua volontà al suo popolo mediante Mosè e i profeti. Ad essi compete anche in modo particolare il titolo di “servo del Signore”. Mosè più volte viene designato con tale titolo (cf. Gs 14,7; Ml 3,22; Eb 3,5, Ap 15,3), ed Elia viene chiamato “servo del Signore” insieme con gli altri profeti (cf. 2 Re 17,23). Distinguendo chiaramente Gesù da questi suoi due principali servi, Dio lo chiama “il suo Figlio prediletto” (cf. Mc 12,1-6; Eb 1,1-2; 3,5-6), e alla presenza dei due servi incarica i tre discepoli di ascoltare il suo Figlio prediletto. Da quando il Figlio è venuto ed è presente nel mondo, l’attenzione dei discepoli non deve essere più rivolta ai servi, ma al Figlio. Così, in modo fondamentale e programmatico, si stabilisce il rapporto tra la rivelazione di Dio mediante la Legge e i Profeti (Antico Testamento) e la rivelazione di Dio mediante il suo Figlio (Nuovo Testamento). L’Antico Testamento non deve essere più ascoltato come parola di Dio in se stesso e indipendentemente dal Figlio, ma solo nella misura e nel modo in cui viene accolto e interpretato dal Figlio (cf. Mt 5,21-48; Mc 10,2-12; Gv 1,17; Gal 4,4-7; Eb 1,1-2).
Il rapporto con l’Antico Testamento, che si manifesta attraverso le persone, si manifesta anche attraverso il luogo e altre circostanze della trasfigurazione. Gesù ha condotto i tre discepoli su un alto monte, dove Dio si rivolge ad essi da una nube alla presenza di Mosè ed Elia. Così ci sono diverse allusioni al monte Sinai/Oreb, con il quale è particolarmente connessa la rivelazione di Dio. Sul Sinai la nube indica la presenza di Dio, e Dio parla dalla nube (cf. Es 19,9, 20,21, 24,16). Mosè ed Elia sono gli unici grandi personaggi dell’Antico Testamento che hanno un particolare legame con il Sinai/Oreb e con la rivelazione di Dio su questo monte. Mosè, in quanto mediatore tra Dio e il popolo, ha ricevuto la Legge sul Sinai, dove Dio ha stipulato la sua alleanza con il popolo d’Israele (Es 19–40). Elia, in quanto profeta perseguitato e minacciato di morte, è fuggito all’Oreb, dove ha avuto un incontro particolare con Dio e ha ricevuto nuovi compiti da Lui (1 Re 19,1-18). Pertanto ci sono tanti motivi per paragonare la rivelazione di Dio sul monte della trasfigurazione con la rivelazione di Dio sul Sinai. Prendiamo ora in considerazione solo l’inizio della rivelazione sinaitica.
Al Sinai Dio dice a Mosè (e a Israele): “Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione di schiavitù: non avrai altri dèi di fronte a me. Non ti farai idolo né immagine alcuna…” (Es 20,2-4; Dt 5,6-8). A queste parole fa seguito il decalogo e fanno seguito molte disposizioni legali. Sul monte alto Dio dice ai tre discepoli (che sono i testimoni): “Questi è il Figlio mio, il prediletto: ascoltatelo!” (Mc 9,7). Al Sinai Dio rivela innanzitutto se stesso e il suo rapporto con il popolo, cioè dice chi è lui per questo popolo e che cosa ha fatto in favore di questo popolo. Sul monte alto Dio non rivela se stesso, ma rivela Gesù come suo Figlio prediletto. Ma più precisamente dobbiamo dire che anche qui Dio rivela se stesso, perché, rivelando Gesù come suo Figlio prediletto, rivela se stesso in quanto Padre di Gesù, che ama suo Figlio. Dio rivela l’uguaglianza di Gesù con sé, rivela che Gesù si trova al suo stesso livello e al suo fianco. Al Sinai poi seguono molte disposizioni che riguardano il comportamento giusto del popolo d’Israele. Tutte sono fondate nella posizione che Dio ha nei confronti di questo popolo. I primi comandamenti regolano il comportamento del popolo nei riguardi di Dio stesso: “Non avrai altri dèi di fronte a me…” (Es 20,3-7). Anche sul monte alto il primo comandamento riguarda colui che è stato appena rivelato ed è fondato nel suo rapporto con Dio: “Ascoltatelo!” (Mc 9,7). Questo comandamento segue immediatamente la rivelazione e regola il comportamento verso la persona rivelata; pertanto corrisponde, per la sua posizione e per il suo contenuto, ai comandamenti del Sinai che regolano il comportamento verso Dio (cf. Es 20,3-7). Inoltre, esso condivide il carattere esclusivo dei comandamenti che riguardano Dio. Come Israele non deve avere altri dèi di fronte al Signore, così i discepoli devono ascoltare soltanto il Figlio prediletto di Dio. Non solo la rivelazione precedente (“Questi è il Figlio mio, il prediletto”), ma anche questo comandamento mettono Gesù accanto a Dio e hanno una singolare importanza. Questa importanza viene sottolineata e accresciuta dal fatto che c’è solo questo unico comandamento. Al Sinai alle parole iniziali di Dio fa seguito il decalogo e fanno seguito molte leggi. Al monte della trasfigurazione ogni comando di Dio sul giusto comportamento è riassunto nella parola: “Ascoltatelo!”. Continuando il paragone con il decalogo, possiamo dire che questa parola, in quanto corrisponde ai comandamenti che riguardano il comportamento verso Dio, appartiene alla cosiddetta prima tavola; e allora dobbiamo constatare che non c’è una seconda tavola. Possiamo anche dire che nell’Antico Testamento abbiamo le dieci parole (i dieci comandamenti) e parliamo di “decalogo”, mentre nel Nuovo Testamento abbiamo questa unica parola di Dio (questo unico comandamento), e in questo senso potremmo parlare di “monologo” del Nuovo Testamento, che dice appunto: “Ascoltatelo!”.
Questa considerazione sulla parola rivolta da Dio ai tre discepoli nel contesto della trasfigurazione ci fa capire di nuovo il carattere singolare di tale parola e anche la posizione singolare di Gesù. Dio dice questa unica parola, attraverso la quale rivela il suo Figlio prediletto (e se stesso come Padre di questo Figlio), e nella quale indica il giusto comportamento verso suo Figlio. Per tutto il resto i discepoli sono indirizzati al Figlio. Egli è per loro “la parola di Dio”, attraverso la quale essi ricevono la vera conoscenza di Dio e anche la conoscenza dell’agire giusto.
3. La parola di Dio e il cammino dei discepoli con Gesù

La trasfigurazione di Gesù, e con essa la parola rivolta da Dio ai tre discepoli, occupa un determinato posto nel cammino dei discepoli con Gesù. Quindi vogliamo esaminare anche quale sia la portata di tale parola per questo cammino, quale sia il suo influsso sulla conoscenza di Gesù e sul comportamento verso Gesù da parte dei discepoli.
La domanda: “Chi è Gesù?”, è fondamentale sin dall’inizio per il cammino dei discepoli con Gesù. Qui non abbiamo il tempo di mostrarne tutti i particolari. La parola di Dio costituisce il culmine per la rivelazione e per la conoscenza di Gesù, quanto al contenuto e quanto all’autorevolezza. Questa parola mostra qual è il rapporto personale che c’è tra Dio e Gesù. Nella passione di Gesù viene posta l’alternativa: Gesù è veramente il Figlio di Dio, o è un bestemmiatore di Dio? (cf. Mc 14,61-64; 15,39). L’intervento potente di Dio, che risuscita Gesù dai morti, conferma definitivamente la parola di Dio: Gesù è veramente il Figlio prediletto di Dio.
A partire dalla loro chiamata, i discepoli hanno ascoltato e accettato la parola di Gesù (Mc 1,16-20). Durante tutto il loro cammino con Gesù la caratteristica dei discepoli è che essi seguono Gesù e ricevono da lui, oltre all’insegnamento rivolto a tutto il popolo, una particolare istruzione (cf. 4,34; 7,17-23) ed esperienze particolari della sua persona (cf. 4,35-41; 6,45-52; 8,14-21). Talvolta l’evangelista riferisce che i discepoli non comprendono Gesù e che Gesù si meraviglia della loro incomprensione (cf. 4,13.40; 7,18; 8,17-21); ma non dice mai che i discepoli abbiano rifiutato di ascoltare Gesù. Così viene presentato il rapporto tra Gesù e i suoi discepoli durante la sua attività in Galilea (Mc 1,14–8,26).
Gesù lascia la Galilea assieme ai discepoli, si reca dapprima nella regione di Cesarea di Filippo (8,27) e poi inizia con loro il cammino verso Gerusalemme. Durante questo cammino egli si occupa solo dei discepoli, con poche eccezioni (cf. 9,14-27; 10,1-22.46-52). Gesù istruisce più volte soltanto loro, escludendo tutti gli altri (cf. 9,30-31), sul fatto che egli, secondo il piano salvifico di Dio (‘dei’), sarà riprovato dal sinedrio, sarà ucciso e dopo tre giorni risusciterà (8,31; 9,31; 10,33-34).
Dopo la prima istruzione di Gesù, Marco riferisce: “Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo” (8,32). Qui si verifica un completo cambiamento nell’atteggiamento dei discepoli. Non si tratta più di una loro incomprensione passiva, per così dire, ma di un loro rifiuto attivo: essi non vogliono ascoltare e accettare l’insegnamento di Gesù. Egli reagisce con grande fermezza, rimproverando Pietro: “Va’ dietro a me, satana. Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini” (8,33). “Su, dietro a me!” (1,17) è stata la prima parola che Gesù ha indirizzato a Simone e Andrea. In questo modo li ha chiamati e ha stabilito una volta per sempre il loro rapporto reciproco: egli è il maestro ed essi sono i discepoli; egli parla e determina il cammino ed essi lo ascoltano e lo seguono. Pietro si è allontanato da questo rapporto, e viene rimesso in esso, in modo esplicito e preciso, dalla parola di Gesù: “Va’ dietro a me!”. Le successive parole di Gesù mostrano quanto l’agire di Pietro sia contrario al piano e alla volontà di Dio. Gesù chiama Pietro “satana” – satana è caratterizzato dal fatto di essersi ribellato a Dio e di impegnarsi continuamente a spingere le creature di Dio ad agire contro Dio. Gesù dice a Pietro esplicitamente da che cosa è determinato il suo pensiero e desiderio: non dalla volontà di Dio, ma dal volere umano, naturale e spontaneo.
È proprio a questa profonda crisi che fa seguito, dopo sei giorni (9,2), la trasfigurazione di Gesù. La parola di Dio rivolta a Pietro, Giacomo e Giovanni è la risposta di Dio a questa crisi. Essi devono sapere che colui che viene respinto e ucciso dagli uomini non è solo il Cristo, come ha confessato Pietro (8,29), ma è il Figlio prediletto di Dio. Essi devono ascoltare e accettare il fatto che Gesù sarà respinto e ucciso e dopo tre giorni risusciterà, sebbene questo vada contro i loro desideri e le loro aspettative. La parola di Dio è innanzitutto la presentazione di colui che ha parlato in questo modo, e mostra che non il rifiuto, ma l’incondizionato ascolto è il giusto comportamento nei suoi confronti.
Ascoltare significa quindi riconoscere questo Gesù consegnato, riprovato e ucciso dagli uomini e risuscitato da Dio come il Figlio prediletto di Dio. Ascoltare significa anche accettare il suo cammino per se stessi ed essere pronti a seguirlo, rinunciando ad altri desideri per la propria vita (cf. 8,34-38).
Quanto sia difficile ascoltare Gesù, lo capiamo dal successivo comportamento dei discepoli. Essi non si occupano del secondo annuncio della sorte dolorosa di Gesù (9,31-32), ma discutono tra di loro su chi sia il più grande (9,34). Non ascoltano l’insegnamento di Gesù sul servizio (9,35-37), ma Giacomo e Giovanni gli chiedono i primi posti (10,35-40), provocando la rabbia degli altri dieci (10,41), e costringendo così Gesù a fare un altro insegnamento sul servizio (10,42-45). Il non-ascoltare raggiunge il suo culmine quando i discepoli, dopo l’arresto di Gesù, fuggono e non lo seguono più. Ma Gesù, predicendo la loro fuga (14,27), annuncia anche: “Dopo la mia risurrezione vi precederò in Galilea” (14,28). Con il comando: “Va’ dietro a me” (8,33), Gesù ha rimesso Pietro al posto che gli spetta. Con l’annuncio: “Vi precederò in Galilea”, dice che egli, in quanto Signore risorto, sarà di nuovo il loro maestro, e li invita di seguirlo di nuovo, a riprendere il posto di discepoli. La fedeltà e il perdono di Gesù superano la fuga dei discepoli e ridanno ad essi la possibilità di ascoltare Gesù risorto.
Abbiamo dunque esaminato la singolare parola di Dio: “Questi è il mio Figlio, il prediletto: ascoltatelo!”, e abbiamo notato la sua particolare concentrazione sulla persona di Gesù. Lo stesso fenomeno si manifesta nella situazione dei discepoli che l’evangelista segnala dopo la trasfigurazione: “Guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro” (9,8). Dopo la rivelazione data da Dio Padre, i discepoli sanno che Gesù è il Figlio prediletto di Dio, e che devono e possono ascoltarlo incondizionatamente. Ad essi basta avere Gesù solo, con loro.

Conclusione
In una delle sue lettere san Girolamo, patrono di noi esegeti, di cui abbiamo celebrato la festa venerdì scorso, scrive a proposito degli studi della Sacra Scrittura: “Vivere tra queste cose, meditare queste, non conoscere altro, non cercare altro, non vi pare che sia un’oasi di paradiso già qui in terra?” (Ep. 53,10). Papa Pio XII cita queste parole nella sua enciclica Divino afflante Spiritu (EB 569). Riprendendo questa parola di san Girolamo, posso dire: “40 anni al Biblico, 40 anni in Paradiso”. Ho cominciato il mio servizio al Biblico nel 1971, insegnando il proseminario di metodologia, e ho finito nel 2009/10, moderando un seminario. Al Biblico ho fatto l’esperienza di cui parla san Girolamo: l’esperienza della gioia di poter studiare la parola di Dio, di poter comunicare i frutti dello studio e di poter introdurre non pochi studenti ai modi e metodi dell’esegesi.
Con la conclusione della mia relazione giunge anche il momento del ringraziamento. La mia profonda gratitudine va innanzitutto a Dio. Esprimo poi un sentito grazie ai miei maestri, specialmente al P. Card. Vanhoye, a tutti i miei colleghi, a tutti quelli che hanno lavorato al Biblico in questi anni, specialmente alla Segreteria, alla Biblioteca e all’Amministrazione delle pubblicazioni, con i loro direttori. Un grazie particolare alla Sig.ra Maria Grazia Franzese e al Sig. Carlo Valentino. Infine, vivi ringraziamenti a tutti quelli che mi hanno ascoltato attentamente e pazientemente in questa Aula Magna, compresi gli ascoltatori di oggi.
Concludo con l’augurio che questa Aula Magna, splendidamente rinnovata, possa servire per molti anni all’attività del Pontificio Istituto Biblico, resa feconda dalla benedizione di Dio.

Pontificio Istituto Biblico – 2011

COMMENTO AD ATTI 2,42-27

http://www.arcidiocesibaribitonto.it/pubblicazioni/articoli-on-line/201c-erano-assidui-all2019insegnamento-degli-apostoli-alla-comunione-alla-frazione-del-pane-e-alla-preghiera201d-cfr-at-2-42-47

ARCIDIOCESI DI BITONTO BARI – COMMENTO

“ ERANO ASSIDUI ALL’INSEGNAMENTO DEGLI APOSTOLI, ALLA COMUNIONE, ALLA FRAZIONE DEL PANE E ALLA PREGHIERA” (CFR AT 2,42-47)

Nella celebrazione della prossima Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani (18-25 gennaio 2011) la nostra Chiesa locale è invitata, come ogni anno alla stessa data, a vivere in maniera tutta particolare la comunione di fede e di carità con i fratelli delle chiese ortodosse e delle comunità protestanti, presenti nel mondo intero ed, in particolare, nel territorio barese.
Lo farà, ascoltando l’insegnamento degli Apostoli, contenuto in Atti 2,42-47. Questo brano contiene uno dei tanti “sommari”, o sintesi, in cui viene descritta da Luca la vita della Chiesa primitiva (Cfr Atti 1,14; 2,1; 4,4;4,32-34;5,12-16;6,7;9,31;11,21;12,24); sommari che fondano la ecclesiologia di comunione.
Nella pericope di Atti 42-47 infatti Luca conclude il capitolo 2, narrando la discesa dello Spirito Santo nel giorno di Pentecoste, che le fa da contesto. L’evangelista commenta che, fortificati dalla potenza dello Spirito Santo (Cfr Atti 2,1-13), i discepoli del Signore stavano sempre insieme (cfr Atti 1,4.14), soprattutto nella preghiera e prima e dopo la discesa dello Spirito. Dono di tale straordinario evento fu la loro unità come non si stancheranno di ricordare ed esortare gli Apostoli (Cfr Ebr 10,23). Un primo elemento di questa fraternità sarà l’ascolto della Parola di Dio che li esorterà ad essere “assidui” alla “dottrina degli Apostoli”, all’insegnamento cioè affidato ad essi dal Signore. In tal modo la comunità cristiana diventerà anima di speranza per un mondo nuovo. Gli altri due elementi di comunione vengono indicati da Luca come lo “spezzare il pane” e la preghiera. Lo “spezzare il pane”, che in Atti 20,7 avviene di Domenica, diverrà la espressione ‘tecnica’, anche se poi perdutasi nel tempo, per indicare la celebrazione della Cena del Signore. Lo aveva insegnato il Signore stesso, restando a cena con i due discepoli di Emmaus (Cfr Lc 24,35). Questo gesto, che secondo gli usi ebraici, spettava al capo famiglia, aveva un valore altamente simbolico. Indicava l’unità, significata dal pane unico, moltiplicato per così dire nei partecipanti, i quali, ricevendone un pezzo dalle mani del padre e mangiandone, erano costituiti più fortemente in unità.
L’altro elemento di coesione sarà la preghiera in comune. Con questo termine generico, che proviene dal linguaggio cultuale del Vecchio Testamento, si intendeva e la vita di preghiera, intensa e prolungata della comunità, e la preghiera ‘tipica’ dei salmi e, in special modo il “Padre Nostro”, ossia la preghiera “eucaristica”.
Con questi 3 elementi, l’insegnamento degli apostoli, lo spezzare il pane e la preghiera del “Padre Nostro” vengono indicati i momenti essenziali della celebrazione eucaristica, memoriale del Signore Risorto: la Liturgia della Parola, la Prece eucaristica e la comunione, che saranno fissate per sempre dalla Tradizione delle Chiese fino ad oggi (Cfr Tommaso Federici, Cristo Risorto Amato e Celebrato. Vol. I. Eparchia di Piana degli Albanesi, Palermo 2001, pp.419-423).
Ma l’Eucarestia è oggi fra le comunità cristiane segno di unità? Il Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC), trattando del “L’Eucarestia e l’unità dei cristiani” (n°1398), ricorda che purtroppo le numerose e gravi divisioni esistenti fra i cristiani impediscono la partecipazione comune alla mensa del Signore. In particolare le Chiese orientali, pur conservando e celebrando validamente tutti e singoli i sette sacramenti, in virtù della successione apostolica, tuttavia non sono in piena comunione visibile con la Chiesa Cattolica Romana. Per questo è possibile con loro una “certa” comunione eucaristica: presentandosi opportune circostanze e con l’approvazione dell’autorità ecclesiastica, non solo sarà possibile, ma anche consigliabile l’ospitalità eucaristica (Codice del Diritto Canonico, canone 844,3).
Con le Comunità cristiane, uscite dalla Riforma protestante, la intercomunione non è possibile, perché tali chiese mancano del sacramento dell’Ordine Sacro “e non hanno conservato la genuina e integra sostanza del Mistero eucaristico” (Concilio Vaticano II, Decreto per l’Ecumenismo, n° 22).
Il Codice di Diritto Canonico elenca le condizioni necessarie perché i ministri cattolici possano amministrare il sacramento dell’Eucarestia (come del resto della Penitenza e dell’Unzione degli Infermi) ai cristiani non in piena comunione con la Chiesa romana (canone 844,4): la presenza di grave necessità, il giudizio del Vescovo Ordinario, la manifestazione della fede cattolica a riguardo dei sacramenti richiesti e le dovute disposizioni per accedervi.
“Quanto più dolorosamente si fanno sentire le divisioni della Chiesa che impediscono la comune partecipazione alla mensa del Signore, tanto più pressanti sono le preghiere al Signore perché ritornino i giorni della piena unità di tutti coloro che credono in lui” (CCC, n°1398).
Per questo, in occasione della Settimana di preghiera per l’Unità dei Cristiani (18-25 gennaio 2011), anche quest’anno il Centro Editoriale Libri Paoline e il Centro pro Unione hanno stampato il sussidio “Uniti nell’insegnamento degli Apostoli, nella comunione, nello spezzare il pane e nella preghiera” (cfr Atti 2,42), contenente, una introduzione teologico-pastorale, il testo biblico e le letture bibliche con il commento per ogni giorno della Settimana.
L’Arcidiocesi di Bari-Bitonto, con riferimento al testo pubblicato dalle Edizioni Paoline, da alcuni anni ha deciso di preparare un suo sussidio che contenga preghiere e proposte, più consone alla sua vocazione ecumenica di “ponte lanciato verso le chiese di Oriente”. Per questo il Centro Ecumenico della Basilica di S. Nicola “S. Manna” e l’Ufficio Diocesano per l’Ecumenismo e il Dialogo interreligioso, che insieme hanno curato la pubblicazione del volumetto “Erano assidui all’insegnamento degli apostoli, all’unione fraterna,alla frazione del pane e alla preghiera” ( Ediz. Levante Bari), sono lieti di offrirlo alle comunità parrocchiali, alle comunità religiose agli istituti secolari, alle arciconfraternite e alle associazioni laicali.

sac. Angelo Romita
Direttore dell’Ufficio Diocesano per l’Ecumenismo e il Dialogo interreligioso

TRASFIGURAZIONE DEL SIGNORE

http://www.tanogabo.it/religione/trasfigurazione.htm

TRASFIGURAZIONE DEL SIGNORE

La manifestazione particolare della sua vera identità, identità divina, identità gloriosa, identità che Gesù, anzi che Dio stesso concede oggi ai discepoli, ai tre discepoli più vicini a lui, gli apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni, e grazie a loro anche a noi…
Una celebrazione allora che ha come suo fondamento un avvenimento storico, una cosa realmente accaduta, un miracolo della vita pubblica di Gesù, prima della sua Pasqua, prima della sua morte e della risurrezione gloriosa, prima di questi ma che racchiude in sé significati profondi, significati che vanno al di là di questa sua morte e della risurrezione, perché il Signore si mostra, si fa vedere così come è veramente, glorioso.
Un punto fondamentale di questo evento, un punto che la caratterizza questa festa, che la caratterizza in modo particolare, univoco è la Teofania. Che cosa significa questa parola?

Teofania è la manifestazione, manifestazione di Dio, ma una manifestazione solenne, grande…

Nell’Antico Testamento abbiamo molti esempi, molti casi delle manifestazioni di Dio. Dio appariva spesso al popolo eletto. Lo sapevano vedere, riconoscere gli israeliti, forse più di noi… Uno dei segni della sua presenza, di Dio, era la nube, la nube che sia alzava sopra la tenda, nel deserto. O roveto ardente, o terremoto, o la vittoria miracolosa sui nemici… Erano tutte le manifestazioni, teofanie appunto di Dio che voleva essere vicino all’uomo, vicino a noi.
Ma tutte queste manifestazioni veterotestamentarie erano solo un anticipo, una preparazione alla manifestazione definitiva, alla manifestazione massima, la manifestazione della redenzione, della venuta del Signore Gesù Cristo, nato, vissuto tra noi, morto e risuscitato; Gesù, Uomo – Dio. Anche se noi aspettiamo ancora un’altra manifestazione del Signore, l’ultima manifestazione di Gesù, quella della fine dei tempi. Quando ritornerà il Signore con le schiere degli angeli, quando dividerà i buoni dai cattivi.
La manifestazione dunque… la teofania sul Monte, la conferma da parte di Dio Padre, della missione del Cristo della missione che Gesù ha da compiere nel mondo… «Questi è il mio figlio prediletto, ascoltatelo» è il massimo della Teofania. Dio Padre, in presenza dei profeti antichi, di Mosé, di Elia, dei profeti, coloro che hanno preparato la venuta del Messia; in presenza poi dei discepoli, degli Apostoli, dei testimoni prescelti… ecco Dio Padre proclama Cristo suo Figlio, anzi, Figlio prediletto, in cui egli si compiace…
C’è però un’altra parola che non vorrei ci sfuggisse. Questo è il Figlio prediletto, dice, ma dice anche: «Ascoltatelo». Il Padre ci dà un ordine preciso, l’ordine di ascoltare il messaggio del Figlio, di ascoltare Gesù. Anche la Madonna Ss.ma alle nozze di Cana, lei che «ascoltava, meditava e portava le parole di Dio nel proprio cuore, dice ai servi: ascoltatelo, «fate quello che vi dirà». Che significa dunque ascoltare Gesù? Ascoltare… non sentire…! Ascoltare è compiere i suoi comandamenti e particolarmente il primo dei comandamenti, quello dell’Amore. Ascoltare il Signore è comportarsi come egli si è comportato, come lui è vissuto sulla terra, vivere dall’esempio che Gesù ci ha lasciato… E lui ha trascorso tutta la sua vita facendo la volontà di Dio, facendo del bene a tutti, aiutando i bisognosi, sanando i malati, predicando la Buona Novella del Regno di Dio.
Tanti parteciperanno all’Eucaristia oggi. L’Eucaristia è la manifestazione, la nostra teofania di Dio. Non le accompagnano né terremoti, né nubi o saette. Qui però abbiamo tra noi, nelle nostre mani Dio stesso, Dio che si lascia pregare, sentire, toccare, gustare, perfino mangiare… Dio che mangiato nel pane inizia in noi l’opera sua, inizia in noi la nostra trasfigurazione, entra dentro di noi e ci trasfigura, trasforma dal di dentro, quasi dall’interno… Ecco la festa della trasfigurazione, di Dio, di Gesù, ma anche la festa della nostra trasfigurazione, la profezia di ciò che dobbiamo diventare noi.
E quando scenderemo dal monte, quando torneremo a casa nostra, ai nostri impegni, dopo l’Eucaristia, possiamo continuare ad essere trasfigurati, luminosi, bianchi, per contagiare con la nostra esperienza, con il nostro esempio anche gli altri.
Il Signore ce lo conceda. 

L’AVVENTURA DI ABRAMO NEL LIBRO DELLA GENESI 1 – LA VOCAZIONE DI ABRAMO (GEN 12,1-9)

http://www.diocesi.lodi.it/moduli/pubblicazioni/documenti/pubblicazioni_1395_0609AbrVoc.rtf.

L’AVVENTURA DI ABRAMO NEL LIBRO DELLA GENESI

1 – LA VOCAZIONE DI ABRAMO (GEN 12,1-9)

Abramo non compare in scena all’improvviso nel libro della Genesi, ma il suo ingresso viene anticipato, in modo poco appariscente, al termine del cap. 11 nella genealogia “da Sem ad Abramo” di tradizione sacerdotale. Da essa sappiamo che un certo Terach ebbe tre figli – Abramo ed altri due -, e che dalla terra natale in Ur dei Caldei, non lontano dall’attuale ben nota città iraqena di Nasiriyah, uscì con tutto il suo clan per migrare nel paese di Canaan (Gen11,31a), ma si fermarono a Carran, vicino all’attuale Sanliurfa, in Turchia non lontano dal confine con la Siria, e vi si stabilirono (Gen11,31b)
Il progetto iniziale del clan prevedeva quindi di percorrere tutta la “mezzaluna fertile” dal suo estremo est vicino al Golfo Persico al suo estremo ovest in Palestina, ma la realizzazione di Terach si ferma a metà del progetto. Dio però è di un altro parere, e allora ripropone il progetto interrotto da Terach a suo figlio Abramo.
1Il Signore disse ad Abram: «Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò. 2Farò di te un grande popolo e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione. 3Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra».
4Allora Abram partì, come gli aveva ordinato il Signore, e con lui partì Lot. Abram aveva settantacinque anni quando lasciò Carran. 5Abram dunque prese la moglie Sarai, e Lot, figlio di suo fratello, e tutti i beni che avevano acquistati in Carran e tutte le persone che lì si erano procurate e si incamminarono verso il paese di Canaan. Arrivarono al paese di Canaan 6e Abram attraversò il paese fino alla località di Sichem, presso la Quercia di More. Nel paese si trovavano allora i Cananei.
7Il Signore apparve ad Abram e gli disse: «Alla tua discendenza io darò questo paese». Allora Abram costruì in quel posto un altare al Signore che gli era apparso. 8Di là passò sulle montagne a oriente di Betel e piantò la tenda, avendo Betel ad occidente e Ai ad oriente. Lì costruì un altare al Signore e invocò il nome del Signore. 9Poi Abram levò la tenda per accamparsi nel Negheb.
Il testo biblico non dice perché Terach, padre di Abramo, si era fermato con tutti quelli del suo clan a metà della migrazione verso il paese di Canaan. E quando Terach muore all’età di 205 anni (11,32) ed Abram gli succede come capo clan, neppure allora essi muovono le tende.
Una conferma in tal senso ce la fornisce proprio l’inizio del nostro brano, quando il Signore dice ad Abram: “Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò”. Se riflettiamo su questa frase, non possiamo non esserne sorpresi, perché Carran non era “il suo paese” e “la sua patria”. Abram era nato e cresciuto nella città di Ur, a più di 400 km di distanza. Quanto alla casa di suo padre, ora era Abram il capoclan che prendeva le decisioni e “la casa di suo padre” lo avrebbe seguito nell’attuazione di queste. Ecco perché, una volta escluso che a Carran fossero “le radici” di Abram, l’unico motivo che li tratteneva a Carran era che “lì si stava bene”, c’era disponibilità di acqua, pascoli, luoghi adatti per le tende, buoni rapporti con i vicini .
“ . verso il paese che io ti indicherò.”: Sapendo dalle pagine seguenti della Genesi quale è la destinazione finale, viene da pensare che Dio voglia rilanciare con Abram il progetto originario di migrazione fino al paese di Canaan, voluto da Dio e “insabbiato” da Terach. Questa è solo una nostra supposizione, ma abbastanza ben suffragata dal testo.
Si pensa in genere che l’umanità, prima di Abram, sia stata sostanzialmente politeista e egli sia stato, almeno simbolicamente, il primo monoteista della storia dell’uomo. Ma qui il Signore si presenta ad Abram con il tono di chi è già conosciuto, di chi parla sapendo di essere ascoltato e di chi con grande autorevolezza può dare ordini perentori: “Vattene …” E che si attende di essere obbedito.
Guardando ora la situazione dal punto di vista di Abram: se un dio sconosciuto lo avesse avvicinato e gli avesse dato ordini gravosi, cosa gli poteva impedire di rispondere: “Ma tu chi sei?
Se, come sappiamo, Abram ha invece creduto e obbedito, possiamo ritenere che quello era un Dio già precedentemente conosciuto, probabilmente già da suo padre Terach. Se Abram ha creduto e obbedito, possiamo supporre che quel Dio si fosse già precedentemente rivelato come un Dio credibile. Se non fosse stato così, come Abram avrebbe potuto credere ed obbedire?
Spesso questo “vattene dal tuo paese …” viene interpretato come indicatore della vocazione radicale con la quale Dio chiede all’uomo di lasciare tutto senza nessuna garanzia per il futuro. Ma questo, come abbiamo già visto, è vero solo in parte: in realtà Abram, partendo da Carran, non vi lascia molto e ci sarebbe molto da discutere sul “suo paese” sulla “sua patria” e sulla “casa di suo padre”; il testo biblico poi aggiunge che prese la moglie Sarai, e Lot, figlio di suo fratello (suo fratello Aran che era morto a Ur), e tutti i beni che avevano acquistati in Carran e tutte le persone che lì si erano procurate e si incamminarono verso il paese di Canaan. In particolare l’espressione tutte le persone che lì si erano procurate lascia intendere un seguito numeroso ed un clan agiato e potente. Più oltre la Genesi al cap. 14 ci informerà che il clan di Abramo era temibile anche sotto l’aspetto militare.
In ogni caso, anche se possiamo essere tentati di pensare che il testo biblico abbia un poco sopravvalutato il distacco da Carran, il fatto di levare le tende non è stato certamente indolore. In quale modo il Signore può aver convinto Abram a farlo? Dicendogli:” Farò di te un grande popolo … “.
In parte si vedono, in parte si intuiscono i termini della grande promessa che Dio fa ad Abram, e che saranno il leitmotiv della vita del patriarca: una grande discendenza e una terra, insieme alla costante ed efficace Sua benedizione.
Sappiamo che il Dio di Abram e nostro Dio mantiene sempre le sue promesse, ma … occorre fare qualche precisazione.
Quanto alla discendenza, quella “vera” a cui allude la promessa, passa per Isacco, il figlio che Abramo avrà solo quando sarà centenario, quasi a tempo scaduto. E notiamo che, poco dopo (cap. 22), questo figlio sarà rimesso in discussione, quando sarà chiesto ad Abram di offrirlo in sacrificio.
Quanto alla terra, Abramo arriverà abbastanza presto a risiedervi, ma solo “da ospite”. La terra di Canaan apparterrà non a lui, ma ai suoi discendenti, solo dopo alcune generazioni, dopo la schiavitù d’Egitto, dopo l’esperienza del deserto …
E l’appartenenza di questa terra non sarà mai definitiva. Ne è prova tutta la Bibbia (pensiamo alle varie dominazioni straniere citate dal testo sacro) e lo provano oggi i mass-media (il possesso di quella terra è sempre molto precario e conteso).
Prendiamo anche nota del fatto che, in questo primo incontro con Dio (12,1-3), Abram non parla e non chiede precisazioni o garanzie. Si limita ad eseguire quanto gli è stato ordinato con uno stile che qualche commentatore definisce “militare”: Abram esegue gli ordini ricevuti, ma non sarà sempre così, perché già in Genesi 15 e ancor più in Genesi 18 vedremo Abram domandare, discutere, anche contrattare con il Signore (la salvezza di Sodoma e Gomorra).
Il testo ci presenta subito anche un secondo incontro in Betel (12,7-9), quando il Signore rinnova la sua promessa (discendenza e terra): “Alla tua discendenza io darò questo paese”.
Neppure in questa occasione sentiamo parlare Abram, ma non si può neppure dire che egli rimanga passivo. Abram costruì in quel posto un altare al Signore che gli era apparso È una eziologia che ci spiega la fondazione del santuario di Betel, ed è (crediamo) il primo atto di culto di Israele per il suo Dio.
Per Abramo non è ancora il momento per una residenza definitiva, infatti: “Abram levò la tenda per accamparsi nel Negheb, cioè nel deserto.
Terminiamo queste note con una citazione dell’autore della Lettera agli Ebrei: “Per fede Abramo, chiamato da Dio, obbedì, partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava.” (Eb11,3).

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