Archive pour la catégorie 'catechesi del mercoledì'

Benedetto XVI: Sant’Agostino, modello nel « rapporto tra fede e ragione »

30/01/2008, dal sito:

 

http://www.zenit.org/article-13332?l=italian
 

 

Benedetto XVI: Sant’Agostino, modello nel « rapporto tra fede e ragione » 

 

Intervento all’Udienza generale del mercoledì 

 

ROMA, mercoledì, 30 gennaio 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il discorso pronunciato questo mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell’Udienza generale nell’Aula Paolo VI, dove ha incontrato i pellegrini e i fedeli giunti dall’Italia e da ogni parte del mondo. 

Nella sua riflessione, continuando il ciclo di catechesi sui Padri della Chiesa, si è soffermato nuovamente sulla figura di Sant’Agostino. 

  

Cari amici, 

dopo la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani ritorniamo oggi alla grande figura di sant’Agostino. Il mio caro Predecessore Giovanni Paolo II gli ha dedicato nel 1986, cioè nel sedicesimo centenario della sua conversione, un lungo e denso documento, la Lettera apostolica Augustinum Hipponensem. Il Papa stesso volle definire questo testo “un ringraziamento a Dio per il dono fatto alla Chiesa, e per essa all’umanità intera, con quella mirabile conversione”. (AAS, 74, 1982, p. 802) Sul tema della conversione vorrei tornare in una prossima Udienza. È un tema fondamentale non solo per la sua vita personale, ma anche per la nostra. Nel Vangelo di domenica scorsa il Signore stesso ha riassunto la sua predicazione con la parola: “Convertitevi”. Seguendo il cammino di sant’Agostino, potremmo meditare su che cosa sia questa conversione: è una cosa definitiva, decisiva, ma la decisione fondamentale deve svilupparsi, deve realizzarsi in tutta la nostra vita. 

La catechesi oggi è dedicata invece al tema fede e ragione, che è un tema determinante, o meglio, il tema determinante per la biografia di sant’Agostino. Da bambino aveva imparato da sua madre Monica la fede cattolica. Ma da adolescente aveva abbandonato questa fede perché non poteva più vederne la ragionevolezza e non voleva una religione che non fosse anche per lui espressione della ragione, cioè della verità. La sua sete di verità era radicale e lo ha condotto quindi ad allontanarsi dalla fede cattolica. Ma la sua radicalità era tale che egli non poteva accontentarsi di filosofie che non arrivassero alla verità stessa, che non arrivassero fino a Dio. E a un Dio che non fosse soltanto un’ultima ipotesi cosmologica, ma che fosse il vero Dio, il Dio che dà la vita e che entra nella nostra stessa vita. Così tutto l’itinerario intellettuale e spirituale di sant’Agostino costituisce un modello valido anche oggi nel rapporto tra fede e ragione, tema non solo per uomini credenti ma per ogni uomo che cerca la verità, tema centrale per l’equilibrio e il destino di ogni essere umano. Queste due dimensioni, fede e ragione, non sono da separare né da contrapporre, ma piuttosto devono sempre andare insieme. Come ha scritto Agostino stesso dopo la sua conversione, fede e ragione sono “le due forze che ci portano a conoscere” (Contra Academicos, III, 20, 43). A questo proposito rimangono giustamente celebri le due formule agostiniane (Sermones, 43, 9) che esprimono questa coerente sintesi tra fede e ragione: crede ut intelligas (“credi per comprendere”) — il credere apre la strada per varcare la porta della verità — ma anche, e inseparabilmente, intellige ut credas (“comprendi per credere”), scruta la verità per poter trovare Dio e credere. 

Le due affermazioni di Agostino esprimono con efficace immediatezza e con altrettanta profondità la sintesi di questo problema, nella quale la Chiesa cattolica vede espresso il proprio cammino. Storicamente questa sintesi va formandosi, prima ancora della venuta di Cristo, nell’incontro tra fede ebraica e pensiero greco nel giudaismo ellenistico. Successivamente nella storia questa sintesi è stata ripresa e sviluppata da molti pensatori cristiani. L’armonia tra fede e ragione significa soprattutto che Dio non è lontano: non è lontano dalla nostra ragione e dalla nostra vita; è vicino ad ogni essere umano, vicino al nostro cuore e vicino alla nostra ragione, se realmente ci mettiamo in cammino. 

Proprio questa vicinanza di Dio all’uomo fu avvertita con straordinaria intensità da Agostino. La presenza di Dio nell’uomo è profonda e nello stesso tempo misteriosa, ma può essere riconosciuta e scoperta nel proprio intimo: non andare fuori – afferma il convertito – ma “torna in te stesso; nell’uomo interiore abita la verità; e se troverai che la tua natura è mutabile, trascendi te stesso. Ma ricordati, quando trascendi te stesso, che tu trascendi un’anima che ragiona. Tendi dunque là dove si accende la luce della ragione” (De vera religione, 39, 72). Proprio come egli stesso sottolinea, con un’affermazione famosissima, all’inizio delle Confessiones, autobiografia spirituale scritta a lode di Dio: “Ci hai fatti per te e inquieto è il nostro cuore, finché non riposa in te” (I, 1, 1). 

La lontananza di Dio equivale allora alla lontananza da se stessi: “Tu infatti – riconosce Agostino (Confessiones, III, 6, 11) rivolgendosi direttamente a Dio – eri all’interno di me più del mio intimo e più in alto della mia parte più alta”, interior intimo meo et superior summo meo; tanto che – aggiunge in un altro passo ricordando il tempo antecedente la conversione – “tu eri davanti a me; e io invece mi ero allontanato da me stesso, e non mi ritrovavo; e ancora meno ritrovavo te” (Confessiones, V, 2, 2). Proprio perché Agostino ha vissuto in prima persona questo itinerario intellettuale e spirituale, ha saputo renderlo nelle sue opere con tanta immediatezza, profondità e sapienza, riconoscendo in due altri celebri passi delle Confessiones (IV, 4, 9 e 14, 22) che l’uomo è “un grande enigma” (magna quaestio) e “un grande abisso” (grande profundum), enigma e abisso che solo Cristo illumina e salva. Questo è importante: un uomo che è lontano da Dio è anche lontano da sé, alienato da se stesso, e può ritrovare se stesso solo incontrandosi con Dio. Così arriva anche a sé, al suo vero io, alla sua vera identità. 

L’essere umano – sottolinea poi Agostino nel De civitate Dei (XII, 27) – è sociale per natura ma antisociale per vizio, ed è salvato da Cristo, unico mediatore tra Dio e l’umanità e “via universale della libertà e della salvezza”, come ha ripetuto il mio predecessore Giovanni Paolo II (Augustinum Hipponensem, 21): al di fuori di questa via, che mai è mancata al genere umano – afferma ancora Agostino nella stessa opera – “nessuno è stato mai liberato, nessuno viene liberato, nessuno sarà liberato” (De civitate Dei, X, 32, 2). In quanto unico mediatore della salvezza, Cristo è capo della Chiesa e a essa è misticamente unito al punto che Agostino può affermare: “Siamo diventati Cristo. Infatti se egli è il capo, noi le sue membra, l’uomo totale è lui e noi” (In Iohannis evangelium tractatus, 21, 8). 

Popolo di Dio e casa di Dio, la Chiesa nella visione agostiniana è dunque legata strettamente al concetto di Corpo di Cristo, fondata sulla rilettura cristologica dell’Antico Testamento e sulla vita sacramentale centrata sull’Eucaristia, nella quale il Signore ci dà il suo Corpo e ci trasforma in suo Corpo. È allora fondamentale che la Chiesa, popolo di Dio in senso cristologico e non in senso sociologico, sia davvero inserita in Cristo, il quale – afferma Agostino in una bellissima pagina – “prega per noi, prega in noi, è pregato da noi; prega per noi come nostro sacerdote, prega in noi come nostro capo, è pregato da noi come nostro Dio: riconosciamo pertanto in lui la nostra voce e in noi la sua” (Enarrationes in Psalmos, 85, 1). 

Nella conclusione della lettera apostolica Augustinum Hipponensem Giovanni Paolo II ha voluto chiedere allo stesso santo che cosa abbia da dire agli uomini di oggi e risponde innanzi tutto con le parole che Agostino affidò a una lettera dettata poco dopo la sua conversione: “A me sembra che si debbano ricondurre gli uomini alla speranza di trovare la verità” (Epistulae, 1, 1); quella verità che è Cristo stesso, Dio vero, al quale è rivolta una delle preghiere più belle e più famose delle Confessiones (X, 27, 38): “Tardi ti ho amato, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amato! Ed ecco tu eri dentro e io fuori, e lì ti cercavo, e nelle bellezze che hai creato, deforme, mi gettavo. Eri con me, ma io non ero con te. Da te mi tenevano lontano quelle cose che, se non fossero in te, non esisterebbero. Hai chiamato e hai gridato e hai rotto la mia sordità, hai brillato, hai mostrato il tuo splendore e hai dissipato la mia cecità, hai sparso il tuo profumo e ho respirato e aspiro a te, ho gustato e ho fame e sete, mi hai toccato e mi sono infiammato nella tua pace”. 

Ecco, Agostino ha incontrato Dio e durante tutta la sua vita ne ha fatto esperienza al punto che questa realtà – che è innanzi tutto incontro con una Persona, Gesù – ha cambiato la sua vita, come cambia quella di quanti, donne e uomini, in ogni tempo hanno la grazia di incontrarlo. Preghiamo che il Signore ci dia questa grazia e ci faccia trovare così la sua pace. 


[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:] 

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto i Vescovi qui convenuti in occasione del 40° anniversario di fondazione della Comunità di Sant’Egidio, assicurando il mio orante ricordo affinché si rafforzi in ciascuno il fermo desiderio di annunciare a tutti Gesù Cristo, unico Salvatore del mondo. Saluto con particolare affetto i fedeli della Parrocchia di Santa Caterina di Nardò – dove mi dicono che c’è un bellissimo mare – , con un pensiero speciale per i giovani musicisti. Cari amici, vi ringrazio per la vostra presenza ed auspico che questo incontro possa accrescere in ciascuno il desiderio di testimoniare con gioia il Vangelo nella vita di ogni giorno. Vi accompagno con la mia preghiera, affinché possiate edificare ogni vostro progetto sulle solide basi della fedeltà a Dio. Saluto poi gli Operatori Caritas della diocesi di Sabina-Poggio Mirteto e li incoraggio a proseguire con generosità la loro opera in favore dei più bisognosi. 

Mi rivolgo, infine, ai giovani, ai malati e agli sposi novelli

Ricorre domani la memoria liturgica di san Giovanni Bosco, sacerdote ed educatore. Guardate a lui, cari giovani, specialmente voi cresimandi di Serroni di Battipaglia, come a un autentico maestro di vita. Voi, cari ammalati, apprendete dalla sua esperienza spirituale a confidare in ogni circostanza in Cristo crocifisso. E voi, cari sposi novelli, ricorrete alla sua intercessione per assumere con impegno generoso la vostra missione di sposi. 

 

Benedetto XVI presenta la figura di Sant’Efrem, il Siro

dal sito:

http://www.zenit.org/article-12702?l=italian 

 

Benedetto XVI presenta la figura di Sant’Efrem, il Siro 

Catechesi per l’Udienza generale 

 

CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 28 novembre 2007 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il discorso pronunciato questo mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell’Udienza generale in piazza San Pietro, dove ha incontrato i pellegrini e i fedeli giunti dall’Italia e da ogni parte del mondo. 

Nella sua riflessione, continuando il ciclo di catechesi sui Padri della Chiesa, si è soffermato sulla figura di Sant’Efrem, il Siro. 

* * * 

Cari fratelli e sorelle, 

secondo l’opinione comune di oggi, il cristianesimo sarebbe una religione europea, che avrebbe poi esportato la cultura di questo Continente in altri Paesi. Ma la realtà è molto più complessa, poiché la radice della religione cristiana si trova nell’Antico Testamento e quindi a Gerusalemme e nel mondo semitico. Il cristianesimo si nutre sempre a questa radice dell’Antico Testamento. Anche la sua espansione nei primi secoli si è avuta sia verso occidente – verso il mondo greco-latino, dove ha poi ispirato la cultura europea – sia verso oriente, fino alla Persia, all’India, contribuendo così a suscitare una specifica cultura, in lingue semitiche, con una propria identità. Per mostrare questa pluriformità culturale dell’unica fede cristiana degli inizi, nella catechesi di mercoledì scorso ho parlato di un rappresentante di questo altro cristianesimo, Afraate il saggio persiano, da noi quasi sconosciuto. Nella stessa linea vorrei parlare oggi di sant’Efrem Siro, nato a Nisibi attorno al 306 in una famiglia cristiana. Egli fu il più importante rappresentante del cristianesimo di lingua siriaca e riuscì a conciliare in modo unico la vocazione del teologo e quella del poeta. Si formò e crebbe accanto a Giacomo, Vescovo di Nisibi (303-338), e insieme a lui fondò la scuola teologica della sua città. Ordinato diacono, visse intensamente la vita della locale comunità cristiana fino al 363, anno in cui Nisibi cadde nelle mani dei Persiani. Efrem allora emigrò a Edessa, dove proseguì la sua attività di predicatore. Morì in questa città l’anno 373, vittima del contagio contratto nella cura degli ammalati di peste. Non si sa con certezza se era monaco, ma in ogni caso è sicuro che è rimasto diacono per tutta la sua vita ed ha abbracciato la verginità e la povertà. Così appare nella specificità della sua espressione culturale la comune e fondamentale identità cristiana: la fede, la speranza — questa speranza che permette di vivere povero e casto in questo mondo ponendo ogni aspettativa nel Signore — e infine la carità, fino al dono di se stesso nella cura degli ammalati di peste. 

Sant’Efrem ci ha lasciato una grande eredità teologica: la sua considerevole produzione si può raggruppare in quattro categorie: opere scritte in prosa ordinaria (le sue opere polemiche, oppure i commenti biblici); opere in prosa poetica; omelie in versi; infine gli inni, sicuramente l’opera più ampia di Efrem. Egli è un autore ricco e interessante per molti aspetti, ma specialmente sotto il profilo teologico. La specificità del suo lavoro è che in esso si incontrano teologia e poesia. Volendoci accostare alla sua dottrina, dobbiamo insistere fin dall’inizio su questo: sul fatto cioè che egli fa teologia in forma poetica. La poesia gli permette di approfondire la riflessione teologica attraverso paradossi e immagini. Nello stesso tempo la sua teologia diventa liturgia, diventa musica: egli era infatti un grande compositore, un musicista. Teologia, riflessione sulla fede, poesia, canto, lode di Dio vanno insieme; ed è proprio in questo carattere liturgico che nella teologia di Efrem appare con limpidezza la verità divina. Nella sua ricerca di Dio, nel suo fare teologia, egli segue il cammino del paradosso e del simbolo. Le immagini contrapposte sono da lui largamente privilegiate, perché gli servono per sottolineare il mistero di Dio. 

Non posso adesso presentare molto di lui, anche perchè la poesia è difficilmente traducibile, ma per dare almeno un’idea della sua teologia poetica vorrei citare in parte due inni. Innanzitutto, anche in vista del prossimo Avvento, vi propongo alcune splendide immagini tratte dagli inni Sulla natività di Cristo. Davanti alla Vergine Efrem manifesta con tono ispirato la sua meraviglia: 

« Il Signore venne in lei 

per farsi servo. 

Il Verbo venne in lei 

per tacere nel suo seno. 

Il fulmine venne in lei 

per non fare rumore alcuno. 

Il pastore venne in lei 

ed ecco l’Agnello nato, che sommessamente piange. 

Poiché il seno di Maria 

ha capovolto i ruoli: 

Colui che creò tutte le cose 

ne è entrato in possesso, ma povero. 

L’Altissimo venne in lei (Maria), 

ma vi entrò umile. 

Lo splendore venne in lei, 

ma vestito con panni umili. 

Colui che elargisce tutte le cose 

conobbe la fame. 

Colui che abbevera tutti 

conobbe la sete. 

Nudo e spogliato uscì da lei, 

egli che riveste (di bellezza) tutte le cose » 

(Inno « De Nativitate« 11, 6-8). 

Per esprimere il mistero di Cristo Efrem usa una grande diversità di temi, di espressioni, di immagini. In uno dei suoi inni, egli collega in modo efficace Adamo (nel paradiso) a Cristo (nell’Eucaristia): 

« Fu chiudendo 

con la spada del cherubino, 

che fu chiuso 

il cammino dell’albero della vita. 

Ma per i popoli, 

il Signore di quest’albero 

si è dato come cibo 

lui stesso nell’oblazione (eucaristica). 

Gli alberi dell’Eden 

furono dati come alimento 

al primo Adamo. 

Per noi, il giardiniere 

del Giardino in persona 

si è fatto alimento 

per le nostre anime. 

Infatti tutti noi eravamo usciti 

dal Paradiso assieme con Adamo, 

che lo lasciò indietro. 

Adesso che la spada è stata tolta 

laggiù (sulla croce) dalla lancia 

noi possiamo ritornarvi » 

(Inno 49,9-11). 

Per parlare dell’Eucaristia Efrem si serve di due immagini: la brace o il carbone ardente, e la perla. Il tema della brace è preso dal profeta Isaia (cfr 6,6). E’ l’immagine del serafino, che prende la brace con le pinze, e semplicemente sfiora le labbra del profeta per purificarle; il cristiano, invece, tocca e consuma la Brace, che è Cristo stesso: 

« Nel tuo pane si nasconde lo Spirito 

che non può essere consumato; 

nel tuo vino c’è il fuoco che non si può bere. 

Lo Spirito nel tuo pane, il fuoco nel tuo vino: 

ecco una meraviglia accolta dalle nostre labbra. 

Il serafino non poteva avvicinare le sue dita alla brace, 

che fu avvicinata soltanto alla bocca di Isaia; 

né le dita l’hanno presa, né le labbra l’hanno inghiottita; 

ma a noi il Signore ha concesso di fare ambedue cose. 

Il fuoco discese con ira per distruggere i peccatori, 

ma il fuoco della grazia discende sul pane e vi rimane. 

Invece del fuoco che distrusse l’uomo, 

abbiamo mangiato il fuoco nel pane 

e siamo stati vivificati » 

(Inno « De Fide« 10,8-10). 

E ancora un ultimo esempio degli inni di sant’Efrem, dove parla della perla quale simbolo della ricchezza e della bellezza della fede: 

« Posi (la perla), fratelli miei, sul palmo della mia mano, 

per poterla esaminare. 

Mi misi ad osservarla dall’uno e dall’altro lato: 

aveva un solo aspetto da tutti i lati. 

(Così) è la ricerca del Figlio, imperscrutabile, 

perché essa è tutta luce. 

Nella sua limpidezza, io vidi il Limpido, 

che non diventa opaco; 

e nella sua purezza, 

il simbolo grande del corpo di nostro Signore, 

che è puro. 

Nella sua indivisibilità, io vidi la verità, 

che è indivisibile » 

(Inno « Sulla Perla » 1, 2-3). 

La figura di Efrem è ancora pienamente attuale per la vita delle varie Chiese cristiane. Lo scopriamo in primo luogo come teologo, che a partire dalla Sacra Scrittura riflette poeticamente sul mistero della redenzione dell’uomo operata da Cristo, Verbo di Dio incarnato. La sua è una riflessione teologica espressa con immagini e simboli presi dalla natura, dalla vita quotidiana e dalla Bibbia. Alla poesia e agli inni per la liturgia, Efrem conferisce un carattere didattico e catechetico; si tratta di inni teologici e insieme adatti per la recita o il canto liturgico. Efrem si serve di questi inni per diffondere, in occasione delle feste liturgiche, la dottrina della Chiesa. Nel tempo essi si sono rivelati un mezzo catechetico estremamente efficace per la comunità cristiana. 

E’ importante la riflessione di Efrem sul tema di Dio creatore: niente nella creazione è isolato, e il mondo è, accanto alla Sacra Scrittura, una Bibbia di Dio. Usando in modo sbagliato la sua libertà, l’uomo capovolge l’ordine del cosmo. Per Efrem è rilevante il ruolo della donna. Il modo in cui egli ne parla è sempre ispirato a sensibilità e rispetto: la dimora di Gesù nel seno di Maria ha innalzato grandemente la dignità della donna. Per Efrem, come non c’è Redenzione senza Gesù, così non c’è Incarnazione senza Maria. Le dimensioni divine e umane del mistero della nostra redenzione si trovano già nei testi di Efrem; in modo poetico e con immagini fondamentalmente scritturistiche, egli anticipa lo sfondo teologico e in qualche modo lo stesso linguaggio delle grandi definizioni cristologiche dei Concili del V secolo. 

Efrem, onorato dalla tradizione cristiana con il titolo di « cetra dello Spirito Santo », restò diacono della sua Chiesa per tutta la vita. Fu una scelta decisiva ed emblematica: egli fu diacono, cioè servitore, sia nel ministero liturgico, sia, più radicalmente, nell’amore a Cristo, da lui cantato in modo ineguagliabile, sia infine nella carità verso i fratelli, che introdusse con rara maestria nella conoscenza della divina Rivelazione. 

[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:] 

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto i religiosi Fatebenefratelli, le Suore della Carità Domenicane della Presentazione, i partecipanti alla Scuola di formazione promossa dal Movimento dei Focolari, i rappresentanti del Centro Italiano di Solidarietà di Viterbo e i fedeli provenienti da Cervia. Cari amici, auguro che la sosta presso i luoghi sacri vi rinsaldi nell’adesione a Cristo e alimenti la carità nelle vostre famiglie e nelle vostre comunità. Saluto gli incaricati della diffusione nel mondo de L’Osservatore Romano, accompagnati dal Direttore responsabile prof. Giovanni Maria Vian e dal Direttore generale Don Elio Torrigiani. Cari amici, vi ringrazio per il vostro impegno nel promuovere gli insegnamenti del Papa in tutto il mondo e vi accompagno con un particolare ricordo nella preghiera, perché il Signore vi ricolmi di copiosi doni spirituali. 

Saluto infine i giovani, i malati e gli sposi novelli. La figura dell’apostolo Andrea, la cui festa si celebrerà nei prossimi giorni, sia per voi, cari giovani, un modello di fedele e coraggiosa testimonianza cristiana. Sant’Andrea interceda per voi, cari ammalati, affinché la consolazione divina promessa da Gesù agli afflitti riempia i vostri cuori e vi fortifichi nella fede. E voi, cari sposi novelli, impegnatevi a corrispondere sempre al progetto di amore del quale Cristo vi ha resi partecipi con il sacramento del matrimonio.

 

 

[APPELLO DEL SANTO PADRE]

 

 Il 1° dicembre prossimo ricorrerà la Giornata Mondiale contro l’AIDS. Sono spiritualmente vicino a quanti soffrono per questa terribile malattia come pure alle loro famiglie, in particolare a quelle colpite dalla perdita di un congiunto. Per tutti assicuro la mia preghiera. 

Desidero, inoltre, esortare tutte le persone di buona volontà a moltiplicare gli sforzi per fermare la diffusione del virus HIV, a contrastare lo spregio che sovente colpisce quanti ne sono affetti, e a prendersi cura dei malati, specialmente quando sono ancora fanciulli. 

 

Publié dans:catechesi del mercoledì, ZENITH |on 29 novembre, 2007 |Pas de commentaires »

Benedetto XVI presenta la figura di Afraate, il Saggio persiano

dal sito:

http://www.zenit.org/article-12620?l=italian 

 

Benedetto XVI presenta la figura di Afraate, il Saggio persiano 

Intervento all’Udienza generale 

 

CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 21 novembre 2007 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il discorso pronunciato questo mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell’Udienza generale in piazza San Pietro, dove ha incontrato i pellegrini e i fedeli giunti dall’Italia e da ogni parte del mondo. 

Nella sua riflessione, continuando il ciclo di catechesi sui Padri della Chiesa, si è soffermato sulla figura di Afraate il Saggio persiano. 

  

* * * 

Cari fratelli e sorelle, 

nella nostra escursione nel mondo dei Padri della Chiesa, vorrei oggi guidarvi in una parte poco conosciuta di questo universo della fede, cioè nei territori in cui sono fiorite le Chiese di lingua semitica, non ancora influenzate dal pensiero greco. Queste Chiese, lungo il IV secolo, si sviluppano nel vicino Oriente, dalla Terra Santa al Libano e alla Mesopotamia. In quel secolo, che è un periodo di formazione a livello ecclesiale e letterario, tali comunità conoscono l’affermarsi del fenomeno ascetico-monastico con caratteristiche autoctone, che non subiscono l’influsso del monachesimo egiziano. Le comunità siriache del IV secolo rappresentano quindi il mondo semitico da cui è uscita la Bibbia stessa, e sono espressione di un cristianesimo la cui formulazione teologica non è ancora entrata in contatto con correnti culturali diverse, ma vive in forme proprie di pensiero. Sono Chiese in cui l’ascetismo sotto varie forme eremitiche (eremiti nel deserto, nelle caverne, reclusi, stiliti), e il monachesimo sotto forme di vita comunitaria, esercitano un ruolo di vitale importanza nello sviluppo del pensiero teologico e spirituale. 

Vorrei presentare questo mondo attraverso la grande figura di Afraate, conosciuto anche col soprannome di « Saggio », uno dei personaggi più importanti e allo stesso tempo più enigmatici del cristianesimo siriaco del IV secolo. 

Originario della regione di Ninive-Mossul, oggi in Iraq, visse nella prima metà del IV secolo. Abbiamo poche notizie sulla sua vita; intrattenne comunque rapporti stretti con gli ambienti ascetico-monastici della Chiesa siriaca, di cui ci ha conservato notizie nella sua opera e a cui dedica parte della sua riflessione. Secondo alcune fonti fu anzi a capo di un monastero, e infine fu anche consacrato Vescovo. Scrisse 23 discorsi conosciuti con il nome di Esposizioni o Dimostrazioni, in cui tratta diversi temi di vita cristiana, come la fede, l’amore, il digiuno, l’umiltà, la preghiera, la stessa vita ascetica, e anche il rapporto tra giudaismo e cristianesimo, tra Antico e Nuovo Testamento. Scrive in uno stile semplice, con delle frasi brevi e con parallelismi a volte contrastanti; riesce tuttavia a tessere un discorso coerente con uno sviluppo ben articolato dei vari argomenti che affronta. 

Afraate era originario di una comunità ecclesiale che si trovava alla frontiera tra il giudaismo ed il cristianesimo. Era una comunità molto legata alla Chiesa-madre di Gerusalemme, e i suoi Vescovi venivano scelti tradizionalmente fra i cosiddetti « familiari » di Giacomo, il « fratello del Signore » (cfr Mc 6,3): erano cioè persone collegate per sangue e per fede alla Chiesa gerosolimitana. La lingua di Afraate è quella siriaca, una lingua quindi semitica come l’ebraico dell’Antico Testamento e come l’aramaico parlato dallo stesso Gesù. La comunità ecclesiale in cui si trovò a vivere Afraate era una comunità che cercava di restare fedele alla tradizione giudeo-cristiana, di cui si sentiva figlia. Essa manteneva perciò uno stretto rapporto con il mondo ebraico e con i suoi Libri sacri. Significativamente Afraate si definisce « discepolo della Sacra Scrittura » dell’Antico e del Nuovo Testamento (Esposizione 22,26), che considera sua unica fonte di ispirazione, ricorrendovi in modo così abbondante da farne il centro della sua riflessione. 

Diversi sono gli argomenti che Afraate sviluppa nelle sue Esposizioni. Fedele alla tradizione siriaca, spesso presenta la salvezza operata da Cristo come una guarigione e, quindi, Cristo stesso come medico. Il peccato, invece, è visto come una ferita, che solo la penitenza può risanare: « Un uomo che è stato ferito in battaglia, dice Afraate, non ha vergogna di mettersi nelle mani di un saggio medico…; allo stesso modo, chi è stato ferito da Satana non deve vergognarsi di riconoscere la sua colpa e di allontanarsi da essa, domandando la medicina della penitenza » (Esposizione 7,3). Un altro aspetto importante nell’opera di Afraate è il suo insegnamento sulla preghiera, e in modo speciale su Cristo come maestro di preghiera. Il cristiano prega seguendo l’insegnamento di Gesù e il suo esempio di orante: « Il nostro Salvatore ha insegnato a pregare così, dicendo: «Prega nel segreto Colui che è nascosto, ma che vede tutto»; e ancora: «Entra nella tua camera e prega il tuo Padre nel segreto, e il Padre che vede nel segreto ti ricompenserà» (Mt 6,6)… Quello che il nostro Salvatore vuol mostrare è che Dio conosce i desideri e i pensieri del cuore » (Esposizione 4,10). 

Per Afraate la vita cristiana è incentrata nell’imitazione Cristo, nel prendere il suo giogo e nel seguirlo sulla via del Vangelo. Una delle virtù che più conviene al discepolo di Cristo è l’umiltà. Essa non è un aspetto secondario nella vita spirituale del cristiano: la natura dell’uomo è umile, ed è Dio che la esalta alla sua stessa gloria. L’umiltà, osserva Afraate, non è un valore negativo: « Se la radice dell’uomo è piantata nella terra, i suoi frutti salgono davanti al Signore della grandezza » (Esposizione 9,14). Restando umile, anche nella realtà terrena in cui vive, il cristiano può entrare in relazione col Signore: « L’umile è umile, ma il suo cuore si innalza ad altezze eccelse. Gli occhi del suo volto osservano la terra e gli occhi della mente l’altezza eccelsa » (Esposizione 9,2). 

La visione che Afraate ha dell’uomo e della sua realtà corporale è molto positiva: il corpo umano, sull’esempio di Cristo umile, è chiamato alla bellezza, alla gioia, alla luce: « Dio si avvicina all’uomo che ama, ed è giusto amare l’umiltà e restare nella condizione di umiltà. Gli umili sono semplici, pazienti, amati, integri, retti, esperti nel bene, prudenti, sereni, sapienti, quieti, pacifici, misericordiosi, pronti a convertirsi, benevoli, profondi, ponderati, belli e desiderabili » (Esposizione 9,14). Spesso in Afraate la vita cristiana viene presentata in una chiara dimensione ascetica e spirituale: la fede ne è la base, il fondamento; essa fa dell’uomo un tempio dove Cristo stesso abita. La fede quindi rende possibile una carità sincera, che si esprime nell’amore verso Dio e verso il prossimo. Un altro aspetto importante in Afraate è il digiuno, che è da lui inteso in senso ampio. Egli parla del digiuno dal cibo come di pratica necessaria per essere caritatevole e vergine, del digiuno costituito dalla continenza in vista della santità, del digiuno dalle parole vane o detestabili, del digiuno dalla collera, del digiuno dalla proprietà di beni in vista del ministero, del digiuno dal sonno per attendere alla preghiera. 

Cari fratelli e sorelle, ritorniamo ancora – per concludere – all’insegnamento di Afraate sulla preghiera. Secondo questo antico « Saggio », la preghiera si realizza quando Cristo abita nel cuore del cristiano, e lo invita a un impegno coerente di carità verso il prossimo. Scrive infatti: 

« Da’ sollievo agli affranti, visita i malati, 

sii sollecito verso i poveri: questa è la preghiera. 

La preghiera è buona, e le sue opere sono belle. 

La preghiera è accetta quando dà sollievo al prossimo. 

La preghiera è ascoltata 

quando in essa si trova anche il perdono delle offese. 

La preghiera è forte 

quando è piena della forza di Dio » (Esposizione 4,14-16). 

Con queste parole Afraate ci invita a una preghiera che diventa vita cristiana, vita realizzata, vita penetrata dalla fede, dall’apertura a Dio e, così, dall’amore per il prossimo. 

[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:] 

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto i fedeli di Avetrana, accompagnati da Mons. Michele Castoro, Vescovo di Oria ed auguro loro di attingere dalla preghiera nuovo slancio apostolico, per una sempre più incisiva testimonianza cristiana. Saluto i rappresentanti dell’Istituto Gesù–Maria e i fedeli della parrocchia del Preziosissimo Sangue in Roma, che ricordano significative ricorrenze, e li esorto a vivere con rinnovato slancio il comandamento dell’amore evangelico. Saluto le partecipanti al Capitolo Generale delle Suore Missionarie di San Carlo Borromeo–Scalabriniane, e prego perché siano generose dispensatrici di speranza, di solidarietà e di comunione. Saluto gli esponenti della Comunità Radio Mater di Erba ed esprimo apprezzamento per il servizio ecclesiale che svolgono diffondendo la devozione verso la Vergine Santa. Il mio pensiero va ora a quanti partecipano al Congresso internazionale del Cerimoniale di Stato, al Convegno nazionale del Notariato e all’Associazione nazionale Carabinieri della Provincia di Viterbo. Tutti ringrazio per la presenza, invocando su ciascuno copiose grazie celesti per un fecondo impegno a servizio del prossimo. 

Saluto infine i giovani, i malati e gli sposi novelli. Domenica prossima, ultima del tempo ordinario, celebreremo la solennità di Cristo, re dell’Universo. Cari giovani, ponete Gesù al centro della vostra vita. Cristo, che ha fatto della Croce un trono regale, insegni a voi, cari malati, a comprendere il valore redentivo della sofferenza vissuta in unione a Lui. Invito voi, cari sposi novelli, a porre Gesù al centro del vostro cammino matrimoniale. 

[APPELLO DEL SANTO PADRE:]

 

 Giungono dolorose notizie circa la precaria situazione umanitaria della Somalia, specialmente a Mogadiscio, sempre più afflitta dall’insicurezza sociale e dalla povertà. Seguo con trepidazione l’evolversi degli eventi e faccio appello a quanti hanno responsabilità politiche, a livello locale e internazionale, affinché si trovino soluzioni pacifiche e si rechi sollievo a quella cara popolazione. Incoraggio, altresì, gli sforzi di quanti, pur nell’insicurezza e nel disagio, rimangono in quella regione per portare aiuto e sollievo agli abitanti. 

 

Publié dans:catechesi del mercoledì |on 22 novembre, 2007 |Pas de commentaires »

Papa Benedetto: seconda catechesi su Girolamo – 14.1.07

dal sito:

http://www.zenit.org/article-12533?l=italian

 

 

Benedetto XVI: San Girolamo, « innamorato » della Parola di Dio

 

 Intervento all’Udienza generale 

 

CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 14 novembre 2007 (ZENIT.org).- L’Udienza Generale di questa mattina si è svolta alle ore 10.30 in Piazza San Pietro dove il Santo Padre ha incontrato gruppi di pellegrini e fedeli giunti dall’Italia e da ogni parte del mondo. 

Nel discorso in lingua italiana, il Papa, continuando il ciclo di catechesi sui Padri Apostolici, si è soffermato ancora una volta sulla figura di San Girolamo. 

  

 

* * * 

Cari fratelli e sorelle! 

Continuiamo oggi la presentazione della figura di san Girolamo. Come abbiamo detto mercoledì scorso, egli dedicò la sua vita allo studio della Bibbia, tanto che fu riconosciuto da un mio Predecessore, il Papa Benedetto XV, come «dottore eminente nell’interpretazione delle Sacre Scritture». Girolamo sottolineava la gioia e l’importanza di familiarizzarsi con i testi biblici: «Non ti sembra di abitare – già qui, sulla terra – nel regno dei cieli, quando si vive fra questi testi, quando li si medita, quando non si conosce e non si cerca nient’altro?» (Ep. 53,10). In realtà, dialogare con Dio, con la sua Parola, è in un certo senso presenza del Cielo, cioè presenza di Dio. Accostare i testi biblici, soprattutto il Nuovo Testamento, è essenziale per il credente, perché «ignorare la Scrittura è ignorare Cristo». E’ sua questa celebre frase, citata anche dal Concilio Vaticano II nella Costituzione Dei Verbum (n. 25). 

Veramente « innamorato » della Parola di Dio, egli si domandava: «Come si potrebbe vivere senza la scienza delle Scritture, attraverso le quali si impara a conoscere Cristo stesso, che è la vita dei credenti?» (Ep. 30,7). La Bibbia, strumento «con cui ogni giorno Dio parla ai fedeli» (Ep. 133,13), diventa così stimolo e sorgente della vita cristiana per tutte le situazioni e per ogni persona. Leggere la Scrittura è conversare con Dio: «Se preghi, – egli scrive a una nobile giovinetta di Roma – tu parli con lo Sposo; se leggi, è Lui che ti parla» (Ep. 22,25). Lo studio e la meditazione della Scrittura rendono l’uomo saggio e sereno (cfr In Eph., prol.). Certo, per penetrare sempre più profondamente la Parola di Dio è necessaria un’applicazione costante e progressiva. Così Gerolamo raccomandava al sacerdote Nepoziano: «Leggi con molta frequenza le divine Scritture; anzi, che il Libro Santo non sia mai deposto dalle tue mani. Impara qui quello che tu devi insegnare (Ep. 52,7). Alla matrona romana Leta dava questi consigli per l’educazione cristiana della figlia: «Assicurati che essa studi ogni giorno qualche passo della Scrittura… Alla preghiera faccia seguire la lettura, e alla lettura la preghiera… Che invece dei gioielli e dei vestiti di seta, essa ami i Libri divini» (Ep. 107,9.12). Con la meditazione e la scienza delle Scritture si «mantiene l’equilibrio dell’anima» (Ad Eph., prol.). Solo un profondo spirito di preghiera e l’aiuto dello Spirito Santo possono introdurci alla comprensione della Bibbia: «Nell’interpretazione della Sacra Scrittura noi abbiamo sempre bisogno del soccorso dello Spirito Santo» (In Mich. 1,1,10,15). 

Un appassionato amore per le Scritture pervase dunque tutta la vita di Girolamo, un amore che egli cercò sempre di destare anche nei fedeli. Raccomandava ad una sua figlia spirituale: «Ama la Sacra Scrittura e la saggezza ti amerà; amala teneramente, ed essa ti custodirà; onorala e riceverai le sue carezze. Che essa sia per te come le tue collane e i tuoi orecchini» (Ep. 130,20). E ancora: «Ama la scienza della Scrittura, e non amerai i vizi della carne» (Ep. 125,11). 

Per Girolamo un fondamentale criterio di metodo nell’interpretazione delle Scritture era la sintonia con il magistero della Chiesa. Non possiamo mai da soli leggere la Scrittura. Troviamo troppe porte chiuse e scivoliamo facilmente nell’errore. La Bibbia è stata scritta dal Popolo di Dio e per il Popolo di Dio, sotto l’ispirazione dello Spirito Santo. Solo in questa comunione col Popolo di Dio possiamo realmente entrare con il « noi » nel nucleo della verità che Dio stesso ci vuol dire. Per lui un’autentica interpretazione della Bibbia doveva essere sempre in armonica concordanza con la fede della Chiesa cattolica. Non si tratta di un’esigenza imposta a questo Libro dall’esterno; il Libro è proprio la voce del Popolo di Dio pellegrinante e solo nella fede di questo Popolo siamo, per così dire, nella tonalità giusta per capire la Sacra Scrittura. Perciò Girolamo ammoniva: « Rimani fermamente attaccato alla dottrina tradizionale che ti è stata insegnata, affinché tu possa esortare secondo la sana dottrina e confutare coloro che la contraddicono» (Ep. 52,7). In particolare, dato che Gesù Cristo ha fondato la sua Chiesa su Pietro, ogni cristiano – egli concludeva – deve essere in comunione «con la Cattedra di san Pietro. Io so che su questa pietra è edificata la Chiesa» (Ep. 15,2). Conseguentemente, senza mezzi termini, dichiarava: «Io sono con chiunque sia unito alla Cattedra di san Pietro» (Ep. 16). 

Girolamo ovviamente non trascura l’aspetto etico. Spesso anzi egli richiama il dovere di accordare la vita con la Parola divina e solo vivendola troviamo anche la capacità di capirla. Tale coerenza è indispensabile per ogni cristiano, e particolarmente per il predicatore, affinché le sue azioni, quando fossero discordanti rispetto ai discorsi, non lo mettano in imbarazzo. Così esorta il sacerdote Nepoziano: «Le tue azioni non smentiscano le tue parole, perché non succeda che, quando tu predichi in chiesa, qualcuno nel suo intimo commenti: « Perché dunque proprio tu non agisci così? ». Carino davvero quel maestro che, a pancia piena, disquisisce sul digiuno; anche un ladro può biasimare l’avarizia; ma nel sacerdote di Cristo la mente e la parola si devono accordare» (Ep. 52,7). In un’altra lettera Girolamo ribadisce: «Anche se possiede una dottrina splendida, resta svergognata quella persona che si sente condannare dalla propria coscienza» (Ep. 127,4). Sempre in tema di coerenza, egli osserva: il Vangelo deve tradursi in atteggiamenti di vera carità, perché in ogni essere umano è presente la Persona stessa di Cristo. Rivolgendosi, ad esempio, al presbitero Paolino (che divenne poi Vescovo di Nola e Santo), Girolamo così lo consiglia: «Il vero tempio di Cristo è l’anima del fedele: ornalo, questo santuario, abbelliscilo, deponi in esso le tue offerte e ricevi Cristo. A che scopo rivestire le pareti di pietre preziose, se Cristo muore di fame nella persona di un povero?» (Ep. 58,7). Girolamo concretizza: bisogna «vestire Cristo nei poveri, visitarlo nei sofferenti, nutrirlo negli affamati, alloggiarlo nei senza tetto» (Ep. 130,14). L’amore per Cristo, alimentato con lo studio e la meditazione, ci fa superare ogni difficoltà: «Amiamo anche noi Gesù Cristo, ricerchiamo sempre l’unione con lui: allora ci sembrerà facile anche ciò che è difficile» (Ep. 22,40). 

Girolamo, definito da Prospero di Aquitania «modello di condotta e maestro del genere umano» (Carmen de ingratis, 57), ci ha lasciato anche un insegnamento ricco e vario sull’ascetismo cristiano. Egli ricorda che un coraggioso impegno verso la perfezione richiede una costante vigilanza, frequenti mortificazioni, anche se con moderazione e prudenza, un assiduo lavoro intellettuale o manuale per evitare l’ozio (cfr Epp. 125,11 e 130,15), e soprattutto l’obbedienza a Dio: «Nulla… piace tanto a Dio quanto l’obbedienza…, che è la più eccelsa e l’unica virtù» (Hom. de oboedientia: CCL 78,552). Nel cammino ascetico può rientrare anche la pratica dei pellegrinaggi. In particolare, Girolamo diede impulso a quelli in Terra Santa, dove i pellegrini venivano accolti e ospitati negli edifici sorti accanto al monastero di Betlemme, grazie alla generosità della nobildonna Paola, figlia spirituale di Girolamo (cfr Ep. 108,14). 

Non può essere taciuto, infine, l’apporto dato da Girolamo in materia di pedagogia cristiana (cfr Epp. 107 e 128). Egli si propone di formare «un’anima che deve diventare il tempio del Signore» (Ep. 107,4), una «preziosissima gemma» agli occhi di Dio (Ep. 107,13). Con profondo intuito egli consiglia di preservarla dal male e dalle occasioni peccaminose, di escludere amicizie equivoche o dissipanti (cfr Ep. 107,4 e 8-9; cfr anche Ep. 128,3-4). Soprattutto esorta i genitori perché creino un ambiente di serenità e di gioia intorno ai figli, li stimolino allo studio e al lavoro, anche con la lode e l’emulazione (cfr Epp. 107,4 e 128,1), li incoraggino a superare le difficoltà, favoriscano in loro le buone abitudini e li preservino dal prenderne di cattive perché – e qui cita una frase di Publilio Siro sentita a scuola – «a stento riuscirai a correggerti di quelle cose a cui ti vai tranquillamente abituando» (Ep. 107,8). I genitori sono i principali educatori dei figli, i primi maestri di vita. Con molta chiarezza Girolamo, rivolgendosi alla madre di una ragazza ed accennando poi al padre, ammonisce, quasi esprimendo un’esigenza fondamentale di ogni creatura umana che si affaccia all’esistenza: «Essa trovi in te la sua maestra, e a te guardi con meraviglia la sua inesperta fanciullezza. Né in te, né in suo padre veda mai atteggiamenti che la portino al peccato, qualora siano imitati. Ricordatevi che… potete educarla più con l’esempio che con la parola» (Ep. 107,9). Tra le principali intuizioni di Girolamo come pedagogo si devono sottolineare l’importanza attribuita a una sana e integrale educazione fin dalla prima infanzia, la peculiare responsabilità riconosciuta ai genitori, l’urgenza di una seria formazione morale e religiosa, l’esigenza dello studio per una più completa formazione umana. Inoltre un aspetto abbastanza disatteso nei tempi antichi, ma ritenuto vitale dal nostro autore, è la promozione della donna, a cui riconosce il diritto ad una formazione completa: umana, scolastica, religiosa, professionale. E vediamo proprio oggi come l’educazione della personalità nella sua integralità, l’educazione alla responsabilità davanti a Dio e davanti all’uomo, sia la vera condizione di ogni progresso, di ogni pace, di ogni riconciliazione ed esclusione della violenza. Educazione davanti a Dio e davanti all’uomo: è la Sacra Scrittura che ci offre la guida dell’educazione e così del verso umanesimo. 

Non possiamo concludere queste rapide annotazioni sul grande Padre della Chiesa senza far cenno all’efficace contributo da lui recato alla salvaguardia degli elementi positivi e validi delle antiche culture ebraica, greca e romana nella nascente civiltà cristiana. Girolamo ha riconosciuto ed assimilato i valori artistici, la ricchezza dei sentimenti e l’armonia delle immagini presenti nei classici, che educano il cuore e la fantasia a nobili sentimenti. Soprattutto, egli ha posto al centro della sua vita e della sua attività la Parola di Dio, che indica all’uomo i sentieri della vita, e gli rivela i segreti della santità. Di tutto questo non possiamo che essergli profondamente grati, proprio nel nostro oggi. 

[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:] 


Rivolgo ora un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare saluto i rappresentanti dell’Unione Apostolica del Clero ed auguro che contribuisca a tener viva nei sacerdoti la coscienza della loro vocazione alla santità, condizione indispensabile per essere nel mondo segno credibile dell’amore di Cristo. Saluto poi i fedeli di Ficulle, qui convenuti in occasione del Millennio di fondazione dell’Abbadia di S. Nicolò al Monte e, mentre li ringrazio per la loro visita, li esorto a trarre dalla loro storia sempre nuovo impulso per progredire nel cammino della testimonianza cristiana. Saluto inoltre i membri dell’Associazione Cuochi italiani, venuti a Roma da tutte le Regioni d’Italia in occasione del loro simposio d’autunno. Cari amici, nel vostro lavoro siate messaggeri non solo della gioia serena del convivio, ma anche della condivisione fraterna e solidale. 

Il mio affettuoso pensiero va ora ai familiari delle vittime di Nassirya, che ricordano i loro cari nel quarto anniversario della loro tragica morte. La memoria di questi nostri fratelli e di quanti hanno sacrificato il bene supremo della vita per il nobile intento della pace contribuisca a sostenere il cammino della rinascita, piena di speranza, del caro popolo iracheno. 

Saluto, infine i giovani, gli ammalati e gli sposi novelli. Celebreremo domani la festa del vescovo sant’Alberto Magno, apostolo di pace tra le popolazioni del suo tempo. Il suo esempio sia stimolo per voi, cari giovani, specialmente per voi cari studenti del Collegio Mondo Unito dell’Adriatico e per voi alunni della Facoltà di Filosofia della Pontificia Università Salesiana, ad essere artefici di riconciliazione e di giustizia. Sia per voi, cari ammalati, incoraggiamento a confidare nel Signore, che mai ci abbandona nel momento della prova. Sia per voi, cari sposi novelli, spinta a trovare nel Vangelo la gioia di accogliere e servire generosamente la vita, dono incommensurabile di Dio. 

 

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Papa Benedetto prima catechesi su San Girolamo – 7.1.07

dal sito:

http://www.zenit.org/article-12455?l=italian 

 

 

Benedetto XVI presenta San Girolamo, “grande biblista”

 

 CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 7 novembre 2007 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l’intervento pronunciato questa mattina da Benedetto XVI in piazza San Pietro in Vaticano in occasione dell’udienza generale con i pellegrini e i fedeli giunti dall’Italia e da ogni parte del mondo. 

* * * 

Cari fratelli e sorelle!

Fermeremo oggi la nostra attenzione su san Girolamo, un Padre della Chiesa che ha posto al centro della sua vita la Bibbia: l’ha tradotta nella lingua latina, l’ha commentata nelle sue opere, e soprattutto si è impegnato a viverla concretamente nella sua lunga esistenza terrena, nonostante il ben noto carattere difficile e focoso ricevuto dalla natura..

Girolamo nacque a Stridone verso il 347 da una famiglia cristiana, che gli assicurò un’accurata formazione, inviandolo anche a Roma a perfezionare i suoi studi. Da giovane sentì l’attrattiva della vita mondana (cfr Ep. 22,7), ma prevalse in lui il desiderio e l’interesse per la religione cristiana. Ricevuto il battesimo verso il 366, si orientò alla vita ascetica e, recatosi ad Aquileia, si inserì in un gruppo di ferventi cristiani, da lui definito quasi «un coro di beati» (Chron. Ad ann. 374) riunito attorno al Vescovo Valeriano. Partì poi per l’Oriente e visse da eremita nel deserto di Calcide, a sud di Aleppo (cfr Ep. 14,10), dedicandosi seriamente agli studi. Perfezionò la sua conoscenza del greco, iniziò lo studio dell’ebraico (cfr Ep. 125,12), trascrisse codici e opere patristiche (cfr Ep. 5,2). La meditazione, la solitudine, il contatto con la Parola di Dio fecero maturare la sua sensibilità cristiana. Sentì più pungente il peso dei trascorsi giovanili (cfr Ep. 22,7), e avvertì vivamente il contrasto tra mentalità pagana e vita cristiana: un contrasto reso celebre dalla drammatica e vivace « visione », della quale egli ci ha lasciato il racconto. In essa gli sembrò di essere flagellato al cospetto di Dio, perché «ciceroniano e non cristiano» (cfr Ep. 22,30).

Nel 382 si trasferì a Roma: qui il Papa Damaso, conoscendo la sua fama di asceta e la sua competenza di studioso, lo assunse come segretario e consigliere; lo incoraggiò a intraprendere una nuova traduzione latina dei testi biblici per motivi pastorali e culturali. Alcune persone dell’aristocrazia romana, soprattutto nobildonne come Paola, Marcella, Asella, Lea ed altre, desiderose di impegnarsi sulla via della perfezione cristiana e di approfondire la loro conoscenza della Parola di Dio, lo scelsero come loro guida spirituale e maestro nell’approccio metodico ai testi sacri. Queste nobildonne impararono anche il greco e l’ebraico.

Dopo la morte di Papa Damaso, Girolamo lasciò Roma nel 385 e intraprese un pellegrinaggio, dapprima in Terra Santa, silenziosa testimone della vita terrena di Cristo, poi in Egitto, terra di elezione di molti monaci (cfr Contra Rufinum 3,22; Ep. 108,6-14). Nel 386 si fermò a Betlemme, dove, per la generosità della nobildonna Paola, furono costruiti un monastero maschile, uno femminile e un ospizio per i pellegrini che si recavano in Terra Santa, «pensando che Maria e Giuseppe non avevano trovato dove sostare» (Ep. 108,14). A Betlemme restò fino alla morte, continuando a svolgere un’intensa attività: commentò la Parola di Dio; difese la fede, opponendosi vigorosamente a varie eresie; esortò i monaci alla perfezione; insegnò la cultura classica e cristiana a giovani allievi; accolse con animo pastorale i pellegrini che visitavano la Terra Santa. Si spense nella sua cella, vicino alla grotta della Natività, il 30 settembre 419/420.

La preparazione letteraria e la vasta erudizione consentirono a Girolamo la revisione e la traduzione di molti testi biblici: un prezioso lavoro per la Chiesa latina e per la cultura occidentale. Sulla base dei testi originali in greco e in ebraico e grazie al confronto con precedenti versioni, egli attuò la revisione dei quattro Vangeli in lingua latina, poi del Salterio e di gran parte dell’Antico Testamento. Tenendo conto dell’originale ebraico e greco, dei Settanta, la classica versione greca dell’Antico Testamento risalente al tempo precristiano, e delle precedenti versioni latine, Girolamo, affiancato poi da altri collaboratori, poté offrire una traduzione migliore: essa costituisce la cosiddetta « Vulgata« , il testo « ufficiale » della Chiesa latina, che è stato riconosciuto come tale dal Concilio di Trento e che, dopo la recente revisione, rimane il testo « ufficiale » della Chiesa di lingua latina. E’ interessante rilevare i criteri a cui il grande biblista si attenne nella sua opera di traduttore. Li rivela egli stesso quando afferma di rispettare perfino l’ordine delle parole delle Sacre Scritture, perché in esse, dice, « anche l’ordine delle parole è un mistero » (Ep. 57,5), cioè una rivelazione. Ribadisce inoltre la necessità di ricorrere ai testi originali: «Qualora sorgesse una discussione tra i Latini sul Nuovo Testamento, per le lezioni discordanti dei manoscritti, ricorriamo all’originale, cioè al testo greco, in cui è stato scritto il Nuovo Patto. Allo stesso modo per l’Antico Testamento, se vi sono divergenze tra i testi greci e latini, ci appelliamo al testo originale, l’ebraico; così tutto quello che scaturisce dalla sorgente, lo possiamo ritrovare nei ruscelli» (Ep. 106,2). Girolamo, inoltre, commentò anche parecchi testi biblici. Per lui i commentari devono offrire molteplici opinioni, «in modo che il lettore avveduto, dopo aver letto le diverse spiegazioni e dopo aver conosciuto molteplici pareri – da accettare o da respingere –, giudichi quale sia il più attendibile e, come un esperto cambiavalute, rifiuti la moneta falsa» (Contra Rufinum 1,16).

Confutò con energia e vivacità gli eretici che contestavano la tradizione e la fede della Chiesa. Dimostrò anche l’importanza e la validità della letteratura cristiana, divenuta una vera cultura ormai degna di essere messa confronto con quella classica: lo fece componendo il De viris illustribus, un’opera in cui Girolamo presenta le biografie di oltre un centinaio di autori cristiani. Scrisse pure biografie di monaci, illustrando accanto ad altri itinerari spirituali anche l’ideale monastico; inoltre tradusse varie opere di autori greci. Infine nell’importante Epistolario, un capolavoro della letteratura latina, Girolamo emerge con le sue caratteristiche di uomo colto, di asceta e di guida delle anime.

Che cosa possiamo imparare noi da San Girolamo? Mi sembra soprattutto questo: amare la Parola di Dio nella Sacra Scrittura. Dice San Girolamo: « Ignorare le Scritture è ignorare Cristo ». Perciò è importante che ogni cristiano viva in contatto e in dialogo personale con la Parola di Dio, donataci nella Sacra Scrittura. Questo nostro dialogo con essa deve sempre avere due dimensioni: da una parte, dev’essere un dialogo realmente personale, perché Dio parla con ognuno di noi tramite la Sacra Scrittura e ha un messaggio ciascuno. Dobbiamo leggere la Sacra Scrittura non come parola del passato, ma come Parola di Dio che si rivolge anche a noi e cercare di capire che cosa il Signore voglia dire a noi. Ma per non cadere nell’individualismo dobbiamo tener presente che la Parola di Dio ci è data proprio per costruire comunione, per unirci nella verità nel nostro cammino verso Dio. Quindi essa, pur essendo sempre una Parola personale, è anche una Parola che costruisce comunità, che costruisce la Chiesa. Perciò dobbiamo leggerla in comunione con la Chiesa viva. Il luogo privilegiato della lettura e dell’ascolto della Parola di Dio è la liturgia, nella quale, celebrando la Parola e rendendo presente nel Sacramento il Corpo di Cristo, attualizziamo la Parola nella nostra vita e la rendiamo presente tra noi. Non dobbiamo mai dimenticare che la Parola di Dio trascende i tempi. Le opinioni umane vengono e vanno. Quanto è oggi modernissimo, domani sarà vecchissimo. La Parola di Dio, invece, è Parola di vita eterna, porta in sé l’eternità, ciò che vale per sempre. Portando in noi la Parola di Dio, portiamo dunque in noi l’eterno, la vita eterna.

E così concludo con una parola di San Girolamo a San Paolino di Nola. In essa il grande Esegeta esprime proprio questa realtà, che cioè nella Parola di Dio riceviamo l’eternità, la vita eterna. Dice San Girolamo: «Cerchiamo di imparare sulla terra quelle verità la cui consistenza persisterà anche nel cielo» (Ep. 53,10).

[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]

Rivolgo ora un cordiale pensiero ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto i fedeli della diocesi di Terni-Narni-Amelia, accompagnati dal loro Vescovo Mons. Vincenzo Paglia. Cari amici, seguendo il cammino pastorale della vostra Comunità diocesana, riscoprite sempre più l’importanza della Liturgia eucaristica, cuore della domenica, e culmine e fonte della vita della Chiesa. Il mistero eucaristico vi introduca ad un rinnovato ascolto della Parola di Dio e vi orienti ad intraprendere con maggiore audacia la via della carità vissuta. Saluto, poi, voi, partecipanti al Corso di formazione permanente per missionari promosso dalla Pontificia Università Salesiana, ed auspico che queste giornate di studio e di aggiornamento vi spingano ad annunziare, con crescente entusiasmo, il Vangelo a tutti i popoli. Saluto, inoltre, voi, Seminaristi di Lodi, e vi incoraggio a prepararvi con serietà e impegno per essere domani fedeli servitori di Dio e del prossimo.

Il mio pensiero si rivolge, infine, ai giovani, ai malati e agli sposi novelli. Cari giovani, progettate il vostro futuro in fedeltà al Vangelo, lasciandovi guidare dall’insegnamento di Gesù. Voi, cari ammalati, offrite la vostra sofferenza al Signore, perché grazie pure alla vostra partecipazione ai suoi patimenti, Egli possa compiere la sua azione salvifica nel mondo. E voi, cari sposi novelli, guidati da una fede viva, cercate di formare comunità familiari animate da intenso fervore evangelico. 

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Benedetto XVI presenta la figura di San Massimo, Vescovo di Torino

dal sito:

http://www.zenit.org/article-12388?l=italian 

Benedetto XVI presenta la figura di San Massimo, Vescovo di Torino  Intervento all’Udienza generale 

CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 31 ottobre 2007 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il discorso pronunciato questo mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell’Udienza generale svoltasi in piazza San Pietro, dove ha incontrato i pellegrini e i fedeli giunti dall’Italia e da ogni parte del mondo.Nella sua riflessione, continuando il ciclo di catechesi sui Padri Apostolici, si è soffermato sulla figura di San Massimo, Vescovo di Torino. 

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Cari fratelli e sorelle!
Tra la fine del quarto secolo e l’inizio del quinto, un altro Padre della Chiesa, dopo sant’Ambrogio, contribuì decisamente alla diffusione e al consolidamento del cristianesimo nell’Italia settentrionale: è san Massimo, che incontriamo Vescovo a Torino nel 398, un anno dopo la morte di Ambrogio. Ben poche sono le notizie su di lui; in compenso è giunta fino a noi una sua raccolta di circa novanta Sermoni. Da essi emerge quel legame profondo e vitale del Vescovo con la sua città, che attesta un punto di contatto evidente tra il ministero episcopale di Ambrogio e quello di Massimo.

In quel tempo gravi tensioni turbavano l’ordinata convivenza civile. Massimo, in questo contesto, riuscì a coagulare il popolo cristiano attorno alla sua persona di pastore e di maestro. La città era minacciata da gruppi sparsi di barbari che, entrati dai valichi orientali, si spingevano fino alle Alpi occidentali. Per questo Torino era stabilmente presidiata da guarnigioni militari, e diventava, nei momenti critici, il rifugio delle popolazioni in fuga dalle campagne e dai centri urbani sguarniti di protezione.

Gli interventi di Massimo, di fronte a questa situazione, testimoniano l’impegno di reagire al degrado civile e alla disgregazione. Anche se resta difficile determinare la composizione sociale dei destinatari dei Sermoni, pare che la predicazione di Massimo – per superare il rischio della genericità – si rivolgesse in modo specifico a un nucleo selezionato della comunità cristiana di Torino, costituito da ricchi proprietari terrieri, che avevano i loro possedimenti nella campagna torinese e la casa in città. Fu una lucida scelta pastorale del Vescovo, che intravide in questo tipo di predicazione la via più efficace per mantenere e rinsaldare il proprio legame con il popolo.

Per illustrare in tale prospettiva il ministero di Massimo nella sua città, vorrei addurre ad esempio i Sermoni 17 e 18, dedicati a un tema sempre attuale, quello della ricchezza e della povertà nelle comunità cristiane. Anche in questo àmbito la città era percorsa da gravi tensioni. Le ricchezze venivano accumulate e occultate. «Uno non pensa al bisogno dell’altro», constata amaramente il Vescovo nel suo diciassettesimo Sermone. «Infatti molti cristiani non solo non distribuiscono le cose proprie, ma rapinano anche quelle degli altri. Non solo, dico, raccogliendo i loro danari non li portano ai piedi degli apostoli, ma anche trascinano via dai piedi dei sacerdoti i loro fratelli che cercano aiuto». E conclude: «Nella nostra città ci sono molti ospiti o pellegrini. Fate ciò che avete promesso» aderendo alla fede, «perché non si dica anche a voi ciò che fu detto ad Anania: « Non avete mentito agli uomini, ma a Dio »» (Sermone 17,2-3).

Nel Sermone successivo, il diciottesimo, Massimo stigmatizza forme ricorrenti di sciacallaggio sulle altrui disgrazie. «Dimmi, cristiano», così il Vescovo apostrofa i suoi fedeli, «dimmi: perché hai preso la preda abbandonata dai predoni? Perché hai introdotto nella tua casa un « guadagno », come pensi tu stesso, sbranato e contaminato?». «Ma forse», prosegue, «tu dici di aver comperato, e per questo pensi di evitare l’accusa di avarizia. Ma non è in questo modo che si può far corrispondere la compera alla vendita. E’ una buona cosa comperare, ma in tempo di pace ciò che si vende liberamente, non durante un saccheggio ciò che è stato rapinato… Agisce dunque da cristiano e da cittadino chi compera per restituire» (Sermone 18,3). Senza darlo troppo a vedere, Massimo giunge così a predicare una relazione profonda tra i doveri del cristiano e quelli del cittadino. Ai suoi occhi, vivere la vita cristiana significa anche assumere gli impegni civili. Viceversa, ogni cristiano che, «pur potendo vivere col suo lavoro, cattura la preda altrui col furore delle fiere»; che «insidia il suo vicino, che ogni giorno tenta di rosicchiare i confini altrui, di impadronirsi dei prodotti», non gli appare neanche più simile alla volpe che sgozza le galline, ma al lupo che si avventa sui porci (Sermone 41,4).

Rispetto al prudente atteggiamento di difesa assunto da Ambrogio per giustificare la sua famosa iniziativa di riscattare i prigionieri di guerra, emergono chiaramente i mutamenti storici intervenuti nel rapporto tra il Vescovo e le istituzioni cittadine. Sostenuto ormai da una legislazione che sollecitava i cristiani a redimere i prigionieri, Massimo, nel crollo delle autorità civili dell’Impero romano, si sentiva pienamente autorizzato ad esercitare in tale senso un vero e proprio potere di controllo sulla città. Questo potere sarebbe poi diventato sempre più ampio ed efficace, fino a supplire la latitanza dei magistrati e delle istituzioni civili. In questo contesto Massimo non solo si adopera per rinfocolare nei fedeli l’amore tradizionale verso la patria cittadina, ma proclama anche il preciso dovere di far fronte agli oneri fiscali, per quanto gravosi e sgraditi essi possano apparire (Sermone 26,2).

Insomma, il tono e la sostanza dei Sermoni suppongono un’accresciuta consapevolezza della responsabilità politica del Vescovo nelle specifiche circostanze storiche. Egli è «la vedetta» collocata nella città. Chi mai sono queste vedette, si chiede infatti Massimo nel Sermone 92, «se non i beatissimi Vescovi, che, collocati per così dire su un’elevata rocca di sapienza per la difesa dei popoli, vedono da lontano i mali che sopraggiungono?». E nel Sermone 89 il Vescovo di Torino illustra ai fedeli i suoi compiti, avvalendosi di un paragone singolare tra la funzione episcopale e quella delle api: «Come l’ape», egli dice, i Vescovi «osservano la castità del corpo, porgono il cibo della vita celeste, usano il pungiglione della legge. Sono puri per santificare, dolci per ristorare, severi per punire». Così san Massimo descrive il compito del Vescovo nel suo tempo.

In definitiva, l’analisi storica e letteraria dimostra una crescente consapevolezza della responsabilità politica dell’autorità ecclesiastica, in un contesto nel quale essa andava di fatto sostituendosi a quella civile. E’ questa infatti la linea di sviluppo del ministero del Vescovo nell’Italia nord-occidentale, a partire da Eusebio, che «come un monaco» abitava la sua Vercelli, fino a Massimo di Torino, posto «come sentinella» sulla rocca più alta della città. E’ evidente che il contesto storico, culturale e sociale è oggi profondamente diverso. Il contesto odierno è piuttosto quello disegnato dal mio venerato Predecessore, Papa Giovanni Paolo II, nell’Esortazione post-sinodale Ecclesia in Europa, là dove egli offre un’articolata analisi delle sfide e dei segni di speranza per la Chiesa in Europa oggi (6-22). In ogni caso, a parte le mutate condizioni, restano sempre validi i doveri del credente verso la sua città e la sua patria. L’intreccio degli impegni dell’ »onesto cittadino » con quelli del « buon cristiano » non è affatto tramontato.

In conclusione, vorrei ricordare ciò che dice la Costituzione pastorale Gaudium et spes per illuminare uno dei più importanti aspetti dell’unità di vita del cristiano: la coerenza tra fede e comportamento, tra Vangelo e cultura. Il Concilio esorta i fedeli a «compiere fedelmente i propri doveri terreni, facendosi guidare dallo spirito del Vangelo. Sbagliano coloro che, sapendo che qui noi non abbiamo una cittadinanza stabile, ma che cerchiamo quella futura, pensano di potere per questo trascurare i propri doveri terreni, e non riflettono che invece proprio la fede li obbliga ancora di più a compierli, secondo la vocazione di ciascuno» (n. 43). Seguendo il magistero di san Massimo e di molti altri Padri, facciamo nostro l’auspicio del Concilio, che sempre di più i fedeli siano desiderosi di «esplicare tutte le loro attività terrene, unificando gli sforzi umani, domestici, professionali, scientifici e tecnici in una sola sintesi vitale insieme con i beni religiosi, sotto la cui altissima direzione tutto viene coordinato a gloria di Dio» (ibid.), e così al bene dell’umanità.

[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]

Rivolgo il mio cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto i rappresentanti dell’Associazione Nazionale Famiglie dei Caduti e Dispersi in Guerra, e li incoraggio a proseguire generosamente nella loro significativa opera di solidarietà. Saluto poi i fedeli della parrocchia Santa Maria della Misericordia, di Roma ed auspico che il 70° anniversario di fondazione della loro comunità parrocchiale susciti in tutti un rinnovato impegno nel costruire il Regno di Dio con un amore sempre più fedele alla Chiesa.

Rivolgo, infine, il mio saluto ai giovani, agli ammalati ed agli sposi novelli. Le imminenti celebrazioni della Solennità di Tutti i Santi e della Commemorazione dei fedeli defunti, sia per ciascuno occasione propizia per innalzare lo sguardo al cielo e contemplare le realtà future, ultime e definitive che ci attendono. 

Publié dans:catechesi del mercoledì |on 2 novembre, 2007 |Pas de commentaires »

« Sono venuto a portare il fuoco sulla terra »

Sant’Ambrogio (circa 340-397), vescovo di Milano e dottore della Chiesa
Trattato su San Luca, 7:131-132 ; SC 52

« Sono venuto a portare il fuoco sulla terra »

« Sono venuto a portare il fuoco sulla terra, e come vorrei che fosse già acceso ». Il Signore vuole che siamo vigilanti, attenti in ogni momento alla venuta del Salvatore…Ma poiché il guadagno è misero, e debole il merito quando soltanto il timore del supplizio impedisce di perdersi, mentre l’amore ha un valore superiore, il Signore stesso…infiamma il nostro desiderio di acquistare Dio quando dice : « Sono venuto a portare il fuoco sulla terra ». Non certo il fuoco che distrugge, bensì quello che produce la volontà buona, quello che rende migliori i vasi d’oro della casa del Signore, consumando il fieno e la paglia (1 Cor 3, 12), divorando tutta la vanità del mondo, accumulata dalla passione del piacere terreno, opera della carne che deve perire.

Questo fuoco divino bruciava le ossa dei profeti, come dichiara Geremia : « C’era come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa ». (Ger 20, 9). Infatti c’é un fuoco del Signore, di cui si dice : « Davanti a lui cammina il fuoco » (Sal 96, 3). Il Signore stesso è un fuoco « che arde senza consumarsi » (Es 3, 2). Il fuoco del Signore è luce eterna ; le lucerne dei credenti si accendono a questo fuoco : « Siate pronti, con la cintura ai fianchi e le lucerne accese » (Lc 12, 35). Una lucerna è necessaria perché i giorni di questa vita sono ancora notte. Il Signore stesso, secondo la testimonianza dei discepoli di Èmmaus, aveva messo questo fuoco nel loro cuore : « Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture ? » (Lc 24, 32) Ci mostrano con evidenza qual’è l’azione di questo fuoco, che rischiara il profondo del cuore dell’uomo. Perciò il Signore verrà con il fuoco (Is 66, 15) per consumare i vizi nel momento della risurrezione, per colmare con la sua presenza i desideri di ciascuno, e proiettare la sua luce sui meriti e i misteri.

Publié dans:catechesi del mercoledì |on 25 octobre, 2007 |Pas de commentaires »

Benedetto XVI presenta la figura di Sant’Ambrogio, Vescovo di Milano

dal sito: 

10/2007
 
http://www.zenit.org/article-12305?l=italian

Benedetto XVI presenta la figura di Sant’Ambrogio, Vescovo di Milano

Intervento all’Udienza generale

CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 24 ottobre 2007 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il discorso pronunciato questo mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell’Udienza generale svoltasi in piazza San Pietro, dove ha incontrato i pellegrini e i fedeli giunti dall’Italia e da ogni parte del mondo.

Nella sua riflessione, continuando il ciclo di catechesi sui Padri Apostolici, si è soffermato sulla figura di Sant’Ambrogio, Vescovo di Milano.

* * *

Cari fratelli e sorelle,

il santo Vescovo Ambrogio – del quale vi parlerò quest’oggi – morì a Milano nella notte fra il 3 e il 4 aprile del 397. Era l’alba del Sabato santo. Il giorno prima, verso le cinque del pomeriggio, si era messo a pregare, disteso sul letto, con le braccia aperte in forma di croce. Partecipava così, nel solenne triduo pasquale, alla morte e alla risurrezione del Signore. «Noi vedevamo muoversi le sue labbra», attesta Paolino, il diacono fedele che su invito di Agostino ne scrisse la Vita, «ma non udivamo la sua voce». A un tratto, la situazione parve precipitare. Onorato, Vescovo di Vercelli, che si trovava ad assistere Ambrogio e dormiva al piano superiore, venne svegliato da una voce che gli ripeteva: «Alzati, presto! Ambrogio sta per morire…». Onorato scese in fretta – prosegue Paolino – «e porse al santo il Corpo del Signore. Appena lo prese e deglutì, Ambrogio rese lo spirito, portando con sé il buon viatico. Così la sua anima, rifocillata dalla virtù di quel cibo, gode ora della compagnia degli angeli» (Vita 47). In quel Venerdì santo del 397 le braccia spalancate di Ambrogio morente esprimevano la sua mistica partecipazione alla morte e alla risurrezione del Signore. Era questa la sua ultima catechesi: nel silenzio delle parole, egli parlava ancora con la testimonianza della vita.

Ambrogio non era vecchio quando morì. Non aveva neppure sessant’anni, essendo nato intorno al 340 a Treviri, dove il padre era prefetto delle Gallie. La famiglia era cristiana. Alla morte del padre, la mamma lo condusse a Roma quando era ancora ragazzo, e lo preparò alla carriera civile, assicurandogli una solida istruzione retorica e giuridica. Verso il 370 fu inviato a governare le province dell’Emilia e della Liguria, con sede a Milano. Proprio lì ferveva la lotta tra ortodossi e ariani, soprattutto dopo la morte del Vescovo ariano Aussenzio. Ambrogio intervenne a pacificare gli animi delle due fazioni avverse, e la sua autorità fu tale che egli, pur semplice catecumeno, venne acclamato dal popolo Vescovo di Milano.

Fino a quel momento Ambrogio era il più alto magistrato dell’Impero nell’Italia settentrionale. Culturalmente molto preparato, ma altrettanto sfornito nell’approccio alle Scritture, il nuovo Vescovo si mise a studiarle alacremente. Imparò a conoscere e a commentare la Bibbia dalle opere di Origene, il maestro indiscusso della «scuola alessandrina». In questo modo Ambrogio trasferì nell’ambiente latino la meditazione delle Scritture avviata da Origene, iniziando in Occidente la pratica della lectio divina. Il metodo della lectio giunse a guidare tutta la predicazione e gli scritti di Ambrogio, che scaturiscono precisamente dall’ascolto orante della Parola di Dio. Un celebre esordio di una catechesi ambrosiana mostra egregiamente come il santo Vescovo applicava l’Antico Testamento alla vita cristiana: «Quando si leggevano le storie dei Patriarchi e le massime dei Proverbi, abbiamo trattato ogni giorno di morale – dice il Vescovo di Milano ai suoi catecumeni e ai neofiti – affinché, formati e istruiti da essi, voi vi abituaste ad entrare nella via dei Padri e a seguire il cammino dell’obbedienza ai precetti divini» (I misteri 1,1). In altre parole, i neofiti e i catecumeni, a giudizio del Vescovo, dopo aver imparato l’arte del vivere bene, potevano ormai considerarsi preparati ai grandi misteri di Cristo. Così la predicazione di Ambrogio – che rappresenta il nucleo portante della sua ingente opera letteraria – parte dalla lettura dei Libri sacri («i Patriarchi», cioè i Libri storici, e «i Proverbi», vale a dire i Libri sapienziali), per vivere in conformità alla divina Rivelazione.

E’ evidente che la testimonianza personale del predicatore e il livello di esemplarità della comunità cristiana condizionano l’efficacia della predicazione. Da questo punto di vista è significativo un passaggio delle Confessioni di sant’Agostino. Egli era venuto a Milano come professore di retorica; era scettico, non cristiano. Stava cercando, ma non era in grado di trovare realmente la verità cristiana. A muovere il cuore del giovane retore africano, scettico e disperato, e a spingerlo alla conversione definitivamente, non furono anzitutto le belle omelie (pure da lui assai apprezzate) di Ambrogio. Fu piuttosto la testimonianza del Vescovo e della sua Chiesa milanese, che pregava e cantava, compatta come un solo corpo. Una Chiesa capace di resistere alle prepotenze dell’imperatore e di sua madre, che nei primi giorni del 386 erano tornati a pretendere la requisizione di un edificio di culto per le cerimonie degli ariani. Nell’edificio che doveva essere requisito – racconta Agostino – «il popolo devoto vegliava, pronto a morire con il proprio Vescovo». Questa testimonianza delle Confessioni è preziosa, perché segnala che qualche cosa andava muovendosi nell’intimo di Agostino, il quale prosegue: «Anche noi, pur ancora spiritualmente tiepidi, eravamo partecipi dell’eccitazione di tutto il popolo» (Confessioni 9,7).

Dalla vita e dall’esempio del Vescovo Ambrogio, Agostino imparò a credere e a predicare. Possiamo riferirci a un celebre sermone dell’Africano, che meritò di essere citato parecchi secoli dopo nella Costituzione conciliare Dei Verbum: «E’ necessario – ammonisce infatti la Dei Verbum al n. 25 – che tutti i chierici e quanti, come i catechisti, attendono al ministero della Parola, conservino un continuo contatto con le Scritture, mediante una sacra lettura assidua e lo studio accurato, « affinché non diventi – ed è qui la citazione agostiniana – vano predicatore della Parola all’esterno colui che non l’ascolta di dentro »». Aveva imparato proprio da Ambrogio questo « ascoltare di dentro », questa assiduità nella lettura della Sacra Scrittura in atteggiamento orante, così da accogliere realmente nel proprio cuore ed assimilare la Parola di Dio.

Cari fratelli e sorelle, vorrei proporvi ancora una sorta di «icona patristica», che, interpretata alla luce di quello che abbiamo detto, rappresenta efficacemente «il cuore» della dottrina ambrosiana. Nel sesto libro delle Confessioni Agostino racconta del suo incontro con Ambrogio, un incontro certamente di grande importanza nella storia della Chiesa. Egli scrive testualmente che, quando si recava dal Vescovo di Milano, lo trovava regolarmente impegnato con catervae di persone piene di problemi, per le cui necessità egli si prodigava. C’era sempre una lunga fila che aspettava di parlare con Ambrogio per trovare da lui consolazione e speranza. Quando Ambrogio non era con loro, con la gente (e questo accadeva per lo spazio di pochissimo tempo), o ristorava il corpo con il cibo necessario, o alimentava lo spirito con le letture. Qui Agostino fa le sue meraviglie, perché Ambrogio leggeva le Scritture a bocca chiusa, solo con gli occhi (cfr Confess. 6,3).

Di fatto, nei primi secoli cristiani la lettura era strettamente concepita ai fini della proclamazione, e il leggere ad alta voce facilitava la comprensione pure a chi leggeva. Che Ambrogio potesse scorrere le pagine con gli occhi soltanto, segnala ad Agostino ammirato una capacità singolare di lettura e di familiarità con le Scritture. Ebbene, in quella «lettura a fior di labbra», dove il cuore si impegna a raggiungere l’intelligenza della Parola di Dio – ecco «l’icona» di cui andiamo parlando -, si può intravedere il metodo della catechesi ambrosiana: è la Scrittura stessa, intimamente assimilata, a suggerire i contenuti da annunciare per condurre alla conversione dei cuori.

Così, stando al magistero di Ambrogio e di Agostino, la catechesi è inseparabile dalla testimonianza di vita. Può servire anche per il catechista ciò che ho scritto nella Introduzione al cristianesimo, a proposito del teologo. Chi educa alla fede non può rischiare di apparire una specie di clown, che recita una parte «per mestiere». Piuttosto – per usare un’immagine cara a Origene, scrittore particolarmente apprezzato da Ambrogio – egli deve essere come il discepolo amato, che ha poggiato il capo sul cuore del Maestro, e lì ha appreso il modo di pensare, di parlare, di agire. Alla fine di tutto, il vero discepolo è colui che annuncia il Vangelo nel modo più credibile ed efficace.

Come l’apostolo Giovanni, il Vescovo Ambrogio – che mai si stancava di ripetere: «Omnia Christus est nobis!; Cristo è tutto per noi!» – rimane un autentico testimone del Signore. Con le sue stesse parole, piene d’amore per Gesù, concludiamo così la nostra catechesi: «Omnia Christus est nobis! Se vuoi curare una ferita, egli è il medico; se sei riarso dalla febbre, egli è la fonte; se sei oppresso dall’iniquità, egli è la giustizia; se hai bisogno di aiuto, egli è la forza; se temi la morte, egli è la vita; se desideri il cielo, egli è la via; se sei nelle tenebre, egli è la luce… Gustate e vedete come è buono il Signore: beato è l’uomo che spera in lui!» (De virginitate 16,99). Speriamo anche noi in Cristo. Saremo così beati e vivremo nella pace.

[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]

Rivolgo ora un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare saluto i membri del Servizio di animazione missionaria comunitaria–Movimento per un mondo migliore, suscitato dallo zelo sacerdotale di Padre Riccardo Lombardi, e mentre li incoraggio a proseguire nel loro apostolato intenso e capillare, auspico che il loro impegno contribuisca efficacemente alla nuova evangelizzazione. Saluto poi i componenti dell’Associazione Nazionale Famiglie degli Emigrati, ed auguro che questo incontro ravvivi in ciascuno sentimenti di fede e di profonda comunione ecclesiale. Il mio pensiero va inoltre ai rappresentanti degli Istituti Don Orione, di Chirignano e di Santa Maria La Longa, come pure all’Associazione Cardio-trapiantati italiani, che esorto a testimoniare con le loro iniziative la gioia che scaturisce dalla solidarietà e dall’aiuto reciproco specialmente nei momenti di difficoltà.

Infine mi rivolgo ai giovani, ai malati e agli sposi novelli. Oggi la liturgia ci ricorda il Vescovo sant’Antonio Maria Claret, che si adoperò con costante generosità per la salvezza delle anime. La sua gloriosa testimonianza evangelica sostenga voi, cari giovani, nel cercare di essere ogni giorno fedeli a Cristo; incoraggi voi, cari ammalati, a seguire il Signore con fiducia nel tempo della sofferenza; aiuti voi, cari sposi novelli, a fare della vostra famiglia il luogo dove cresce l’amore verso Dio e verso i fratelli.

Publié dans:catechesi del mercoledì |on 24 octobre, 2007 |Pas de commentaires »

Benedetto XVI riflette su Sant’Ilario di Poitiers, Vescovo del IV secolo

dal sito: 

http://www.zenit.org/article-12161?l=italian

 Benedetto XVI riflette su Sant’Ilario di Poitiers, Vescovo del IV secolo 

Intervento all’Udienza generale del mercoledì 

 

CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 10 ottobre 2007 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il discorso pronunciato questo mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell’Udienza generale svoltasi in piazza San Pietro, dove ha incontrato i pellegrini e i fedeli giunti dall’Italia e da ogni parte del mondo.

Nella sua riflessione, continuando il ciclo di catechesi sui Padri Apostolici, si è soffermato sulla figura di Sant’Ilario di Poitiers. 

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Cari fratelli e sorelle,

oggi vorrei parlare di un grande Padre della Chiesa di Occidente, sant’Ilario di Poitiers una delle grandi figure di Vescovi del IV secolo. Nel confronto con gli ariani, che consideravano il Figlio di Dio Gesù una creatura, sia pure eccellente, ma solo creatura, Ilario ha consacrato tutta la sua vita alla difesa della fede nella divinità di Gesù Cristo, Figlio di Dio e Dio come il Padre, che lo ha generato fin dall’eternità.

Non disponiamo di dati sicuri sulla maggior parte della vita di Ilario. Le fonti antiche dicono che nacque a Poitiers, probabilmente verso l’anno 310. Di famiglia agiata, ricevette una solida formazione letteraria, ben riconoscibile nei suoi scritti. Non sembra che sia cresciuto in un ambiente cristiano. Egli stesso ci parla di un cammino di ricerca della verità, che lo condusse man mano al riconoscimento del Dio creatore e del Dio incarnato, morto per darci la vita eterna. Battezzato verso il 345, fu eletto Vescovo della sua città natale intorno al 353-354. Negli anni successivi Ilario scrisse la sua prima opera, il Commento al Vangelo di Matteo. Si tratta del più antico commento in lingua latina che ci sia pervenuto di questo Vangelo. Nel 356 Ilario assiste come Vescovo al sinodo di Béziers, nel sud della Francia, il « sinodo dei falsi apostoli », come egli stesso lo chiama, dal momento che l’assemblea fu dominata dai vescovi filoariani, che negavano la divinità di Gesù Cristo. Questi « falsi apostoli » chiesero all’imperatore Costanzo la condanna all’esilio del Vescovo di Poitiers. Così Ilario fu costretto a lasciare la Gallia durante l’estate del 356.

Esiliato in Frigia, nell’attuale Turchia, Ilario si trovò a contatto con un contesto religioso totalmente dominato dall’arianesimo. Anche lì la sua sollecitudine di Pastore lo spinse a lavorare strenuamente per il ristabilimento dell’unità della Chiesa, sulla base della retta fede formulata dal Concilio di Nicea. A questo scopo egli avviò la stesura della sua opera dogmatica più importante e conosciuta: il De Trinitate (Sulla Trinità). In essa Ilario espone il suo personale cammino verso la conoscenza di Dio e si preoccupa di mostrare che la Scrittura attesta chiaramente la divinità del Figlio e la sua uguaglianza con il Padre non soltanto nel Nuovo Testamento, ma anche in molte pagine dell’Antico, in cui già appare il mistero di Cristo. Di fronte agli ariani egli insiste sulla verità dei nomi di Padre e di Figlio e sviluppa tutta la sua teologia trinitaria partendo dalla formula del Battesimo donataci dal Signore stesso: « Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo ».

Il Padre e il Figlio sono della stessa natura. E se alcuni passi del Nuovo Testamento potrebbero far pensare che il Figlio sia inferiore al Padre, Ilario offre regole precise per evitare interpretazioni fuorvianti: alcuni testi della Scrittura parlano di Gesù come Dio, altri invece mettono in risalto la sua umanità. Alcuni si riferiscono a Lui nella sua preesistenza presso il Padre; altri prendono in considerazione lo stato di abbassamento (kenosi), la sua discesa fino alla morte; altri, infine, lo contemplano nella gloria della risurrezione. Negli anni del suo esilio Ilario scrisse anche il Libro dei Sinodi, nel quale riproduce e commenta per i suoi confratelli Vescovi della Gallia le confessioni di fede e altri documenti dei sinodi riuniti in Oriente intorno alla metà del IV secolo. Sempre fermo nell’opposizione agli ariani radicali, sant’Ilario mostra uno spirito conciliante nei confronti di coloro che accettavano di confessare che il Figlio era somigliante al Padre nell’essenza, naturalmente cercando di condurli verso la piena fede, secondo la quale non vi è soltanto una somiglianza, ma una vera uguaglianza del Padre e del Figlio nella divinità. Anche questo mi sembra caratteristico: lo spirito di conciliazione che cerca di comprendere quelli che ancora non sono arrivati e li aiuta, con grande intelligenza teologica, a giungere alla piena fede nella divinità vera del Signore Gesù Cristo.

Nel 360 o il 361, Ilario potè finalmente tornare dall’esilio in patria e subito riprese l’attività pastorale nella sua Chiesa, ma l’influsso del suo magistero si estese di fatto ben oltre i confini di essa. Un sinodo celebrato a Parigi nel 360 o nel 361 riprende il linguaggio del Concilio di Nicea. Alcuni autori antichi pensano che questa svolta antiariana dell’episcopato della Gallia sia stata in larga parte dovuta alla fortezza e alla mansuetudine del Vescovo di Poitiers. Questo era appunto il suo dono: coniugare fortezza nella fede e mansuetudine nel rapporto interpersonale. Negli ultimi anni di vita egli compose ancora i Trattati sui Salmi, un commento a cinquantotto Salmi, interpretati secondo il principio evidenziato nell’introduzione dell’opera: «Non c’è dubbio che tutte le cose che si dicono nei Salmi si devono intendere secondo l’annunzio evangelico, in modo che, qualunque sia la voce con cui lo spirito profetico ha parlato, tutto sia comunque riferito alla conoscenza della venuta del Signore nostro Gesù Cristo, incarnazione, passione e regno, e alla gloria e potenza della nostra risurrezione» (Instructio Psalmorum 5). Egli vede in tutti i Salmi questa trasparenza del mistero di Cristo e del suo Corpo che è la Chiesa. In diverse occasioni Ilario si incontrò con san Martino: proprio vicino a Poitiers il futuro Vescovo di Tours fondò un monastero, che esiste ancor oggi. Ilario morì nel 367. La sua memoria liturgica si celebra il 13 gennaio. Nel 1851 il beato Pio IX lo proclamò Dottore della Chiesa.

Per riassumere l’essenziale della sua dottrina, vorrei dire che Ilario trova il punto di partenza della sua riflessione teologica nella fede battesimale. Nel De Trinitate Ilario scrive: Gesù «ha comandato di battezzare nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo (cfr Mt 28,19), cioè nella confessione dell’Autore, dell’Unigenito e del Dono. Uno solo è l’Autore di tutte le cose, perché uno solo è Dio Padre, dal quale tutto procede. E uno solo il Signore nostro Gesù Cristo, mediante il quale tutto fu fatto (1 Cor 8,6), e uno solo è lo Spirito (Ef 4,4), dono in tutti… In nulla potrà essere trovata mancante una pienezza così grande, in cui convergono nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo l’immensità nell’Eterno, la rivelazione nell’Immagine, la gioia nel Dono» (De Trinitate 2,1). Dio Padre, essendo tutto amore, è capace di comunicare in pienezza la sua divinità al Figlio. Trovo particolarmente bella la seguente formula di sant’Ilario: « Dio non sa essere altro se non amore, non sa essere altro se non Padre. E chi ama non è invidioso, e chi è Padre lo è nella sua totalità. Questo nome non ammette compromessi, quasi che Dio sia padre in certi aspetti, e in altri non lo sia» (ivi 9,61).

Per questo il Figlio è pienamente Dio senza alcuna mancanza o diminuzione: «Colui che viene dal perfetto è perfetto, perché chi ha tutto, gli ha dato tutto» (ivi 2,8). Soltanto in Cristo, Figlio di Dio e Figlio dell’uomo, trova salvezza l’umanità. Assumendo la natura umana, Egli ha unito a sé ogni uomo, «si è fatto la carne di tutti noi» (Tractatus in Psalmos 54,9); «ha assunto in sé la natura di ogni carne, e divenuto per mezzo di essa la vite vera, ha in sé la radice di ogni tralcio» (ivi 51,16). Proprio per questo il cammino verso Cristo è aperto a tutti – perché egli ha attirato tutti nel suo essere uomo – anche se è richiesta sempre la conversione personale: «Mediante la relazione con la sua carne, l’accesso a Cristo è aperto a tutti, a patto che si spoglino dell’uomo vecchio (cfr Ef 4,22) e lo inchiodino alla sua croce (cfr Col 2,14); a patto che abbandonino le opere di prima e si convertano, per essere sepolti con lui nel suo battesimo, in vista della vita (cfr Col 1,12; Rm 6,4)» (ivi 91,9).

La fedeltà a Dio è un dono della sua grazia. Perciò sant’Ilario chiede, alla fine del suo trattato sulla Trinità, di potersi mantenere sempre fedele alla fede del battesimo. E’ una caratteristica di questo libro: la riflessione si trasforma in preghiera e la preghiera ritorna riflessione. Tutto il libro è un dialogo con Dio. Vorrei concludere l’odierna catechesi con una di questa preghiere, che diviene così anche preghiera nostra: «Fa’, o Signore – recita Ilario in modo ispirato – che io mi mantenga sempre fedele a ciò che ho professato nel simbolo della mia rigenerazione, quando sono stato battezzato nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo. Che io adori te, nostro Padre, e insieme con te il tuo Figlio; che io meriti il tuo Spirito Santo, il quale procede da te mediante il tuo Unigenito… Amen» (De Trinitate 12,57).

[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare saluto le Figlie di San Giuseppe che in questi giorni hanno celebrato il loro Capitolo Generale. Care sorelle, sull’esempio del vostro fondatore, il beato Clemente Marchisio, diffondete con rinnovato ardore l’amore per l’Eucarestia, sacramento e vincolo di perfetta carità. Saluto i rappresentanti della Famiglia Domenicana, giunti così numerosi in occasione dell’Ottavo centenario della fondazione del primo monastero domenicano da parte di S. Domenico.

Cari amici, formulo voti che questa significativa circostanza contribuisca ad infondere in voi rinnovato fervore spirituale per una generosa testimonianza cristiana. Saluto inoltre la Delegazione del Centro sportivo Italiano e dell’Associazione Calcio Ancona e li incoraggio ad operare affinchè il gioco del calcio diventi sempre più strumento di educazione ai valori etici e spirituali della vita. Saluto altresì i fedeli provenienti da San Salvatore Telesino ed invoco su tutti la continua assistenza del Signore.

Saluto infine i giovani, i malati e gli sposi novelli. Domani ricorre la memoria liturgica del beato Giovanni XXIII. La sua indimenticabile testimonianza evangelica sostenga voi, cari giovani, nell’impegno di quotidiana fedeltà a Cristo; incoraggi voi, cari ammalati, specialmente voi cari piccoli amici dell’Istituto per la cura dei tumori di Milano, a seguire pazientemente Gesù nel cammino della prova e della sofferenza; aiuti voi, cari sposi novelli, a fare della vostra famiglia il luogo del costante incontro con l’Amore di Dio e dei fratelli.

[APPELLO DEL SANTO PADRE:]

E’ in corso a Ravenna in questi giorni la decima Sessione Plenaria della Commissione Mista Internazionale per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa nel suo insieme, che affronta un tema teologico di particolare interesse ecumenico: « Conseguenze ecclesiologiche e canoniche della natura sacramentale della Chiesa – Comunione ecclesiale, conciliarità e autorità ». Vi chiedo di unirvi alla mia preghiera affinchè questo importante incontro aiuti a camminare verso la piena comunione tra cattolici e ortodossi, e si possa giungere presto a condividere lo stesso Calice del Signore. 

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Cristo cura l’umanità ferita

San Severio di Antiochia (circa 465-538), vescovo
Dicorsi, 89

Cristo cura l’umanità ferita

Infine un Samaritano passò… Cristo apposta dà il nome di Samaritano a se stesso…, di cui avevano detto, per oltraggiarlo: « Sei un Samaritano e hai un demonio » (Gv 8,48)… Il Samaritano viaggiatore, che era dunque Cristo – perché veramente viaggiava– ha visto l’umanità che giaceva a terra. Non è passato oltre, perché lo scopo che aveva dato al suo viaggio era di ‘visitarci » (Lc 1, 68.78); Per noi infatti egli è sceso sulla terra e da noi ha dimorato. Infatti non solo « è apparso sulla terra », ma « ha vissuto fra gli uomini » (Ba 3,38)…

Sulle nostre piaghe egli ha versato il vino, il vino della Parola, e poiché la gravità delle ferite non avrebbe sopportato tutta la sua forza, vi ha mescolato l’olio, la sua mitezza e il « suo amore per gli uomini » (Tt 3,4)… Poi ha condotto l’uomo a una locanda. Dà questo nome di locanda alla Chiesa, divenuta il luogo di abitazione e il rifugio di tutti i popoli… E, giunti alla locanda, il buon Samaritano ha mostrato alla persona che aveva salvato, una sollecitudine più grande ancora: Cristo in persona era nella Chiesa, concedendo ogni grazia… E al padrone della locanda, simbolo degli apostoli e dei pastori e dottori che li hanno succeduti dona, al momento di partire, cioè di salire in cielo, due denari perché abbia cura del malato. Con questi due denari, intendiamo i due Testamenti, l’Antico e il Nuovo, quello della Legge e dei Profeti, e quello che ci è stato dato dai vangeli e dagli scritti degli apostoli. Tutti e due sono dello stesso Dio e portano la sola immagine dell’unico Dio del Cielo – così come le monete d’argento portano l’immagine del re – e imprimono nei nostri cuori la stessa immagine regale mediante le sante parole, poiché un solo e medesimo Spirito le ha pronunciate… Sono le due monete di un solo re, date nello stesso tempo e allo stesso modo da Cristo al padrone della locanda.

Nell’ultimo giorno, i pastori delle sante chiese diranno al Maestro al suo ritorno: « Signore, mi hai consegnato due monete, vedi che spendendole, ne ho guadagnate altre due », con le quali ho fatto crescere il gregge. E il Signore risponderà: « Bene, servo buono e fedele, sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone » (Mt 25,21).

Publié dans:catechesi del mercoledì |on 8 octobre, 2007 |Pas de commentaires »
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