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Benedetto XVI riflette sulla figura di Sant’Alberto Magno

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Benedetto XVI riflette sulla figura di Sant’Alberto Magno

Catechesi per l’Udienza generale del mercoledì

CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 24 marzo 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell’Udienza generale in piazza San Pietro, dove ha incontrato gruppi di pellegrini e fedeli giunti dall’Italia e da ogni parte del mondo.

Nel discorso in lingua italiana, il Papa, continuando il ciclo di catechesi sulla cultura cristiana nel Medioevo, si è soffermato sulla figura di Sant’Alberto Magno.

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Cari fratelli e sorelle,

uno dei più grandi maestri della teologia medioevale è sant’Alberto Magno. Il titolo di « grande » (magnus), con il quale egli è passato alla storia, indica la vastità e la profondità della sua dottrina, che egli associò alla santità della vita. Ma già i suoi contemporanei non esitavano ad attribuirgli titoli eccellenti; un suo discepolo, Ulrico di Strasburgo, lo definì « stupore e miracolo della nostra epoca ».

Nacque in Germania all’inizio del XIII secolo, e ancora molto giovane si recò in Italia, a Padova, sede di una delle più famose università del Medioevo. Si dedicò allo studio delle cosiddette « arti liberali »: grammatica, retorica, dialettica, aritmetica, geometria, astronomia e musica, cioè della cultura generale, manifestando quel tipico interesse per le scienze naturali, che sarebbe diventato ben presto il campo prediletto della sua specializzazione. Durante il soggiorno a Padova, frequentò la chiesa dei Domenicani, ai quali poi si unì con la professione dei voti religiosi. Le fonti agiografiche lasciano capire che Alberto maturò gradualmente questa decisione. Il rapporto intenso con Dio, l’esempio di santità dei Frati domenicani, l’ascolto dei sermoni del Beato Giordano di Sassonia, successore di san Domenico nella guida dell’Ordine dei Predicatori, furono i fattori decisivi che lo aiutarono a superare ogni dubbio, vincendo anche resistenze familiari. Spesso, negli anni della giovinezza, Dio ci parla e ci indica il progetto della nostra vita. Come per Alberto, anche per tutti noi la preghiera personale nutrita dalla Parola del Signore, la frequenza ai Sacramenti e la guida spirituale di uomini illuminati sono i mezzi per scoprire e seguire la voce di Dio. Ricevette l’abito religioso dal beato Giordano di Sassonia.

Dopo l’ordinazione sacerdotale, i Superiori lo destinarono all’insegnamento in vari centri di studi teologici annessi ai conventi dei Padri domenicani. Le brillanti qualità intellettuali gli permisero di perfezionare lo studio della teologia nell’università più celebre dell’epoca, quella di Parigi. Fin da allora sant’Alberto intraprese quella straordinaria attività di scrittore, che avrebbe poi proseguito per tutta la vita.

Gli furono assegnati compiti prestigiosi. Nel 1248 fu incaricato di aprire uno studio teologico a Colonia, uno dei capoluoghi più importanti della Germania, dove egli visse a più riprese, e che divenne la sua città di adozione. Da Parigi portò con sé a Colonia un allievo eccezionale, Tommaso d’Aquino. Basterebbe solo il merito di essere stato maestro di san Tommaso, per nutrire profonda ammirazione verso sant’Alberto. Tra questi due grandi teologi si instaurò un rapporto di reciproca stima e amicizia, attitudini umane che aiutano molto lo sviluppo della scienza. Nel 1254 Alberto fu eletto Provinciale della « Provincia Teutoniae » – teutonica – dei Padri domenicani, che comprendeva comunità diffuse in un vasto territorio del Centro e del Nord-Europa. Egli si distinse per lo zelo con cui esercitò tale ministero, visitando le comunità e richiamando costantemente i confratelli alla fedeltà, agli insegnamenti e agli esempi di san Domenico.

Le sue doti non sfuggirono al Papa di quell’epoca, Alessandro IV, che volle Alberto per un certo tempo accanto a sé ad Anagni – dove i Papi si recavano di frequente – a Roma stessa e a Viterbo, per avvalersi della sua consulenza teologica. Lo stesso Sommo Pontefice lo nominò Vescovo di Ratisbona, una grande e famosa diocesi, che si trovava, però, in un momento difficile. Dal 1260 al 1262 Alberto svolse questo ministero con infaticabile dedizione, riuscendo a portare pace e concordia nella città, a riorganizzare parrocchie e conventi, e a dare nuovo impulso alle attività caritative.

Negli anni 1263-1264 Alberto predicava in Germania ed in Boemia, incaricato dal Papa Urbano IV, per ritornare poi a Colonia e riprendere la sua missione di docente, di studioso e di scrittore. Essendo un uomo di preghiera, di scienza e di carità, godeva di grande autorevolezza nei suoi interventi, in varie vicende della Chiesa e della società del tempo: fu soprattutto uomo di riconciliazione e di pace a Colonia, dove l’Arcivescovo era entrato in duro contrasto con le istituzioni cittadine; si prodigò durante lo svolgimento del II Concilio di Lione, nel 1274, convocato dal Papa Gregorio X per favorire l’unione tra la Chiesa latina e quella greca, dopo la separazione del grande scisma d’Oriente del 1054; egli chiarì il pensiero di Tommaso d’Aquino, che era stato oggetto di obiezioni e persino di condanne del tutto ingiustificate.

Morì nella cella del suo convento della Santa Croce a Colonia nel 1280, e ben presto fu venerato dai confratelli. La Chiesa lo propose al culto dei fedeli con la beatificazione, nel 1622, e con la canonizzazione, nel 1931, quando il Papa Pio XI lo proclamò Dottore della Chiesa. Si trattava di un riconoscimento indubbiamente appropriato a questo grande uomo di Dio e insigne studioso non solo delle verità della fede, ma di moltissimi altri settori del sapere; infatti, dando uno sguardo ai titoli delle numerosissime opere, ci si rende conto che la sua cultura ha qualcosa di prodigioso, e che i suoi interessi enciclopedici lo portarono a occuparsi non solamente di filosofia e di teologia, come altri contemporanei, ma anche di ogni altra disciplina allora conosciuta, dalla fisica alla chimica, dall’astronomia alla mineralogia, dalla botanica alla zoologia. Per questo motivo il Papa Pio XII lo nominò patrono dei cultori delle scienze naturali ed è chiamato anche « Doctor universalis » proprio per la vastità dei suoi interessi e del suo sapere.

Certamente, i metodi scientifici adoperati da sant’Alberto Magno non sono quelli che si sarebbero affermati nei secoli successivi. Il suo metodo consisteva semplicemente nell’osservazione, nella descrizione e nella classificazione dei fenomeni studiati, ma così ha aperto la porta per i lavori futuri.

Egli ha ancora molto da insegnare a noi. Soprattutto, sant’Alberto mostra che tra fede e scienza non vi è opposizione, nonostante alcuni episodi di incomprensione che si sono registrati nella storia. Un uomo di fede e di preghiera, quale fu sant’Alberto Magno, può coltivare serenamente lo studio delle scienze naturali e progredire nella conoscenza del micro e del macrocosmo, scoprendo le leggi proprie della materia, poiché tutto questo concorre ad alimentare la sete e l’amore di Dio. La Bibbia ci parla della creazione come del primo linguaggio attraverso il quale Dio – che è somma intelligenza, che è Logos – ci rivela qualcosa di sé. Il libro della Sapienza, per esempio, afferma che i fenomeni della natura, dotati di grandezza e bellezza, sono come le opere di un artista, attraverso le quali, per analogia, noi possiamo conoscere l’Autore del creato (cfr Sap. 13,5). Con una similitudine classica nel Medioevo e nel Rinascimento si può paragonare il mondo naturale a un libro scritto da Dio, che noi leggiamo in base ai diversi approcci delle scienze (cfr Discorso ai partecipanti alla Plenaria della Pontificia Accademia delle Scienze, 31 Ottobre 2008). Quanti scienziati, infatti, sulla scia di sant’Alberto Magno, hanno portato avanti le loro ricerche ispirati da stupore e gratitudine di fronte al mondo che, ai loro occhi di studiosi e di credenti, appariva e appare come l’opera buona di un Creatore sapiente e amorevole! Lo studio scientifico si trasforma allora in un inno di lode. Lo aveva ben compreso un grande astrofisico dei nostri tempi, di cui è stata introdotta la causa di beatificazione, Enrico Medi, il quale scrisse: « Oh, voi misteriose galassie …, io vi vedo, vi calcolo, vi intendo, vi studio e vi scopro, vi penetro e vi raccolgo. Da voi io prendo la luce e ne faccio scienza, prendo il moto e ne fo sapienza, prendo lo sfavillio dei colori e ne fo poesia; io prendo voi stelle nelle mie mani, e tremando nell’unità dell’essere mio vi alzo al di sopra di voi stesse, e in preghiera vi porgo al Creatore, che solo per mezzo mio voi stelle potete adorare » (Le opere. Inno alla creazione).

Sant’Alberto Magno ci ricorda che tra scienza e fede c’è amicizia, e che gli uomini di scienza possono percorrere, attraverso la loro vocazione allo studio della natura, un autentico e affascinante percorso di santità.

La sua straordinaria apertura di mente si rivela anche in un’operazione culturale che egli intraprese con successo, cioè nell’accoglienza e nella valorizzazione del pensiero di Aristotele. Ai tempi di sant’Alberto, infatti, si stava diffondendo la conoscenza di numerose opere di questo grande filosofo greco vissuto nel quarto secolo prima di Cristo, soprattutto nell’ambito dell’etica e della metafisica. Esse dimostravano la forza della ragione, spiegavano con lucidità e chiarezza il senso e la struttura della realtà, la sua intelligibilità, il valore e il fine delle azioni umane. Sant’Alberto Magno ha aperto la porta per la recezione completa della filosofia di Aristotele nella filosofia e teologia medioevale, una recezione elaborata poi in modo definitivo da S. Tommaso. Questa recezione di una filosofia, diciamo, pagana pre-cristiana fu un’autentica rivoluzione culturale per quel tempo. Eppure, molti pensatori cristiani temevano la filosofia di Aristotele, la filosofia non cristiana, soprattutto perché essa, presentata dai suoi commentatori arabi, era stata interpretata in modo da apparire, almeno in alcuni punti, come del tutto inconciliabile con la fede cristiana. Si poneva cioè un dilemma: fede e ragione sono in contrasto tra loro o no?

Sta qui uno dei grandi meriti di sant’Alberto: con rigore scientifico studiò le opere di Aristotele, convinto che tutto ciò che è realmente razionale è compatibile con la fede rivelata nelle Sacre Scritture. In altre parole, sant’Alberto Magno, ha così contribuito alla formazione di una filosofia autonoma, distinta dalla teologia e unita con essa solo dall’unità della verità. Così è nata nel XIII secolo una chiara distinzione tra questi due saperi, filosofia e teologia, che, in dialogo tra di loro, cooperano armoniosamente alla scoperta dell’autentica vocazione dell’uomo, assetato di verità e di beatitudine: ed è soprattutto la teologia, definita da sant’Alberto « scienza affettiva », quella che indica all’uomo la sua chiamata alla gioia eterna, una gioia che sgorga dalla piena adesione alla verità.

Sant’Alberto Magno fu capace di comunicare questi concetti in modo semplice e comprensibile. Autentico figlio di san Domenico, predicava volentieri al popolo di Dio, che rimaneva conquistato dalla sua parola e dall’esempio della sua vita.

Cari fratelli e sorelle, preghiamo il Signore perché non vengano mai a mancare nella santa Chiesa teologi dotti, pii e sapienti come sant’Alberto Magno e aiuti ciascuno di noi a fare propria la « formula della santità » che egli seguì nella sua vita: « Volere tutto ciò che io voglio per la gloria di Dio, come Dio vuole per la sua gloria tutto ciò che Egli vuole », conformarsi cioè sempre alla volontà di Dio per volere e fare tutto solo e sempre per la Sua gloria.

Benedetto XVI parla di San Bonaventura da Bagnoregio

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Benedetto XVI parla di San Bonaventura da Bagnoregio

Catechesi all’Udienza generale del mercoledì

CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 3 marzo 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell’Udienza generale nell’aula Paolo VI, dove ha incontrato gruppi di pellegrini e fedeli giunti dall’Italia e da ogni parte del mondo.

Nel discorso in lingua italiana, il Papa, riprendendo il ciclo di catechesi sulla cultura cristiana nel Medioevo, si è soffermato sulla figura di San Bonaventura da Bagnoregio.

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Cari fratelli e sorelle,

quest’oggi vorrei parlare di san Bonaventura da Bagnoregio. Vi confido che, nel proporvi questo argomento, avverto una certa nostalgia, perché ripenso alle ricerche che, da giovane studioso, ho condotto proprio su questo autore, a me particolarmente caro. La sua conoscenza ha inciso non poco nella mia formazione. Con molta gioia qualche mese fa mi sono recato in pellegrinaggio al suo luogo natio, Bagnoregio, una cittadina italiana, nel Lazio, che ne custodisce con venerazione la memoria.

Nato probabilmente nel 1217 e morto nel 1274, egli visse nel XIII secolo, un’epoca in cui la fede cristiana, penetrata profondamente nella cultura e nella società dell’Europa, ispirò imperiture opere nel campo della letteratura, delle arti visive, della filosofia e della teologia. Tra le grandi figure cristiane che contribuirono alla composizione di questa armonia tra fede e cultura si staglia appunto Bonaventura, uomo di azione e di contemplazione, di profonda pietà e di prudenza nel governo.

Si chiamava Giovanni da Fidanza. Un episodio che accadde quando era ancora ragazzo segnò profondamente la sua vita, come egli stesso racconta. Era stato colpito da una grave malattia e neppure suo padre, che era medico, sperava ormai di salvarlo dalla morte. Sua madre, allora, ricorse all’intercessione di san Francesco d’Assisi, da poco canonizzato. E Giovanni guarì. La figura del Poverello di Assisi gli divenne ancora più familiare qualche anno dopo, quando si trovava a Parigi, dove si era recato per i suoi studi. Aveva ottenuto il diploma di Maestro d’Arti, che potremmo paragonare a quello di un prestigioso Liceo dei nostri tempi. A quel punto, come tanti giovani del passato e anche di oggi, Giovanni si pose una domanda cruciale: « Che cosa devo fare della mia vita? ». Affascinato dalla testimonianza di fervore e radicalità evangelica dei Frati Minori, che erano giunti a Parigi nel 1219, Giovanni bussò alle porte del Convento francescano di quella città, e chiese di essere accolto nella grande famiglia dei discepoli di san Francesco. Molti anni dopo, egli spiegò le ragioni della sua scelta: in san Francesco e nel movimento da lui iniziato ravvisava l’azione di Cristo. Scriveva così in una lettera indirizzata ad un altro frate: « Confesso davanti a Dio che la ragione che mi ha fatto amare di più la vita del beato Francesco è che essa assomiglia agli inizi e alla crescita della Chiesa. La Chiesa cominciò con semplici pescatori, e si arricchì in seguito di dottori molto illustri e sapienti; la religione del beato Francesco non è stata stabilita dalla prudenza degli uomini, ma da Cristo » (Epistula de tribus quaestionibus ad magistrum innominatum, in Opere di San Bonaventura. Introduzione generale, Roma 1990, p. 29).

Pertanto, intorno all’anno 1243 Giovanni vestì il saio francescano e assunse il nome di Bonaventura. Venne subito indirizzato agli studi, e frequentò la Facoltà di Teologia dell’Università di Parigi, seguendo un insieme di corsi molto impegnativi. Conseguì i vari titoli richiesti dalla carriera accademica, quelli di « baccelliere biblico » e di « baccelliere sentenziario ». Così Bonaventura studiò a fondo la Sacra Scrittura, le Sentenze di Pietro Lombardo, il manuale di teologia di quel tempo, e i più importanti autori di teologia e, a contatto con i maestri e gli studenti che affluivano a Parigi da tutta l’Europa, maturò una propria riflessione personale e una sensibilità spirituale di grande valore che, nel corso degli anni successivi, seppe trasfondere nelle sue opere e nei suoi sermoni, diventando così uno dei teologi più importanti della storia della Chiesa. È significativo ricordare il titolo della tesi che egli difese per essere abilitato all’insegnamento della teologia, la licentia ubique docendi, come si diceva allora. La sua dissertazione aveva come titolo Questioni sulla conoscenza di Cristo. Questo argomento mostra il ruolo centrale che Cristo ebbe sempre nella vita e nell’insegnamento di Bonaventura. Possiamo dire senz’altro che tutto il suo pensiero fu profondamente cristocentrico.

In quegli anni a Parigi, la città di adozione di Bonaventura, divampava una violenta polemica contro i Frati Minori di san Francesco d’Assisi e i Frati Predicatori di san Domenico di Guzman. Si contestava il loro diritto di insegnare nell’Università, e si metteva in dubbio persino l’autenticità della loro vita consacrata. Certamente, i cambiamenti introdotti dagli Ordini Mendicanti nel modo di intendere la vita religiosa, di cui ho parlato nelle catechesi precedenti, erano talmente innovativi che non tutti riuscivano a comprenderli. Si aggiungevano poi, come qualche volta accade anche tra persone sinceramente religiose, motivi di debolezza umana, come l’invidia e la gelosia. Bonaventura, anche se circondato dall’opposizione degli altri maestri universitari, aveva già iniziato a insegnare presso la cattedra di teologia dei Francescani e, per rispondere a chi contestava gli Ordini Mendicanti, compose uno scritto intitolato La perfezione evangelica. In questo scritto dimostra come gli Ordini Mendicanti, in specie i Frati Minori, praticando i voti di povertà, di castità e di obbedienza, seguivano i consigli del Vangelo stesso. Al di là di queste circostanze storiche, l’insegnamento fornito da Bonaventura in questa sua opera e nella sua vita rimane sempre attuale: la Chiesa è resa più luminosa e bella dalla fedeltà alla vocazione di quei suoi figli e di quelle sue figlie che non solo mettono in pratica i precetti evangelici ma, per la grazia di Dio, sono chiamati ad osservarne i consigli e testimoniano così, con il loro stile di vita povero, casto e obbediente, che il Vangelo è sorgente di gioia e di perfezione.

Il conflitto fu acquietato, almeno per un certo tempo, e, per intervento personale del Papa Alessandro IV, nel 1257, Bonaventura fu riconosciuto ufficialmente come dottore e maestro dell’Università parigina. Tuttavia egli dovette rinunciare a questo prestigioso incarico, perché in quello stesso anno il Capitolo generale dell’Ordine lo elesse Ministro generale.

Svolse questo incarico per diciassette anni con saggezza e dedizione, visitando le province, scrivendo ai fratelli, intervenendo talvolta con una certa severità per eliminare abusi. Quando Bonaventura iniziò questo servizio, l’Ordine dei Frati Minori si era sviluppato in modo prodigioso: erano più di 30.000 i Frati sparsi in tutto l’Occidente con presenze missionarie nell’Africa del Nord, in Medio Oriente, e anche a Pechino. Occorreva consolidare questa espansione e soprattutto conferirle, in piena fedeltà al carisma di Francesco, unità di azione e di spirito. Infatti, tra i seguaci del santo di Assisi si registravano diversi modi di interpretarne il messaggio ed esisteva realmente il rischio di una frattura interna. Per evitare questo pericolo, il Capitolo generale dell’Ordine a Narbona, nel 1260, accettò e ratificò un testo proposto da Bonaventura, in cui si raccoglievano e si unificavano le norme che regolavano la vita quotidiana dei Frati minori. Bonaventura intuiva, tuttavia, che le disposizioni legislative, per quanto ispirate a saggezza e moderazione, non erano sufficienti ad assicurare la comunione dello spirito e dei cuori. Bisognava condividere gli stessi ideali e le stesse motivazioni. Per questo motivo, Bonaventura volle presentare l’autentico carisma di Francesco, la sua vita ed il suo insegnamento. Raccolse, perciò, con grande zelo documenti riguardanti il Poverello e ascoltò con attenzione i ricordi di coloro che avevano conosciuto direttamente Francesco. Ne nacque una biografia, storicamente ben fondata, del santo di Assisi, intitolata Legenda Maior, redatta anche in forma più succinta, e chiamata perciò Legenda minor. La parola latina, a differenza di quella italiana, non indica un frutto della fantasia, ma, al contrario, « Legenda » significa un testo autorevole, « da leggersi » ufficialmente. Infatti, il Capitolo generale dei Frati Minori del 1263, riunitosi a Pisa, riconobbe nella biografia di san Bonaventura il ritratto più fedele del Fondatore e questa divenne, così, la biografia ufficiale del Santo.

Qual è l’immagine di san Francesco che emerge dal cuore e dalla penna del suo figlio devoto e successore, san Bonaventura? Il punto essenziale: Francesco è un alter Christus, un uomo che ha cercato appassionatamente Cristo. Nell’amore che spinge all’imitazione, egli si è conformato interamente a Lui. Bonaventura additava questo ideale vivo a tutti i seguaci di Francesco. Questo ideale, valido per ogni cristiano, ieri, oggi, sempre, è stato indicato come programma anche per la Chiesa del Terzo Millennio dal mio Predecessore, il Venerabile Giovanni Paolo II. Tale programma, egli scriveva nella Lettera Tertio Millennio ineunte, si incentra « in Cristo stesso, da conoscere, amare, imitare, per vivere in lui la vita trinitaria, e trasformare con lui la storia fino al suo compimento nella Gerusalemme celeste » (n. 29).

Nel 1273 la vita di san Bonaventura conobbe un altro cambiamento. Il Papa Gregorio X lo volle consacrare Vescovo e nominare Cardinale. Gli chiese anche di preparare un importantissimo evento ecclesiale: il II Concilio Ecumenico di Lione, che aveva come scopo il ristabilmento della comunione tra la Chiesa Latina e quella Greca. Egli si dedicò a questo compito con diligenza, ma non riuscì a vedere la conclusione di quell’assise ecumenica, perché morì durante il suo svolgimento. Un anonimo notaio pontificio compose un elogio di Bonaventura, che ci offre un ritratto conclusivo di questo grande santo ed eccellente teologo: « Uomo buono, affabile, pio e misericordioso, colmo di virtù, amato da Dio e dagli uomini… Dio infatti gli aveva donato una tale grazia, che tutti coloro che lo vedevano erano pervasi da un amore che il cuore non poteva celare » (cfr J.G. Bougerol, Bonaventura, in A. Vauchez (a cura), Storia dei santi e della santità cristiana. Vol. VI. L’epoca del rinnovamento evangelico, Milano 1991, p. 91).

Raccogliamo l’eredità di questo santo Dottore della Chiesa, che ci ricorda il senso della nostra vita con le seguenti parole: « Sulla terra… possiamo contemplare l’immensità divina mediante il ragionamento e l’ammirazione; nella patria celeste, invece, mediante la visione, quando saremo fatti simili a Dio, e mediante l’estasi … entreremo nel gaudio di Dio » (La conoscenza di Cristo, q. 6, conclusione, in Opere di San Bonaventura. Opuscoli Teologici /1, Roma 1993, p. 187).

Benedetto XVI riflette sugli insegnamenti di san Domenico di Guzman

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Benedetto XVI riflette sugli insegnamenti di san Domenico di Guzman

Catechesi per l’Udienza generale del mercoledì

ROMA, mercoledì, 3 febbraio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell’Udienza generale nell’aula Paolo VI, dove ha incontrato gruppi di pellegrini e fedeli giunti dall’Italia e da ogni parte del mondo.

Nel discorso in lingua italiana, il Papa, continuando il ciclo di catechesi sulla cultura cristiana nel Medioevo, si è soffermato sulla figura di san Domenico di Guzman.

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Cari fratelli e sorelle,

la settimana scorsa ho presentato la luminosa figura di Francesco d’Assisi, quest’oggi vorrei parlarvi di un altro santo che, nella stessa epoca, ha dato un contributo fondamentale al rinnovamento della Chiesa del suo tempo. Si tratta di san Domenico, il fondatore dell’Ordine dei Predicatori, noti anche come Frati Domenicani.

Il suo successore nella guida dell’Ordine, il beato Giordano di Sassonia, offre un ritratto completo di san Domenico nel testo di una famosa preghiera: « Infiammato dello zelo di Dio e di ardore soprannaturale, per la tua carità senza confini e il fervore dello spirito veemente ti sei consacrato tutt’intero col voto della povertà perpetua all’osservanza apostolica e alla predicazione evangelica ». E’ proprio questo tratto fondamentale della testimonianza di Domenico che viene sottolineato: parlava sempre con Dio e di Dio. Nella vita dei santi, l’amore per il Signore e per il prossimo, la ricerca della gloria di Dio e della salvezza delle anime camminano sempre insieme.

Domenico nacque in Spagna, a Caleruega, intorno al 1170. Apparteneva a una nobile famiglia della Vecchia Castiglia e, sostenuto da uno zio sacerdote, si formò in una celebre scuola di Palencia. Si distinse subito per l’interesse nello studio della Sacra Scrittura e per l’amore verso i poveri, al punto da vendere i libri, che ai suoi tempi costituivano un bene di grande valore, per soccorrere, con il ricavato, le vittime di una carestia.

Ordinato sacerdote, fu eletto canonico del capitolo della Cattedrale nella sua diocesi di origine, Osma. Anche se questa nomina poteva rappresentare per lui qualche motivo di prestigio nella Chiesa e nella società, egli non la interpretò come un privilegio personale, né come l’inizio di una brillante carriera ecclesiastica, ma come un servizio da rendere con dedizione e umiltà. Non è forse una tentazione quella della carriera, del potere, una tentazione da cui non sono immuni neppure coloro che hanno un ruolo di animazione e di governo nella Chiesa? Lo ricordavo qualche mese fa, durante la consacrazione di alcuni Vescovi: « Non cerchiamo potere, prestigio, stima per noi stessi. Sappiamo come le cose nella società civile, e, non di rado nella Chiesa, soffrono per il fatto che molti di coloro ai quali è stata conferita una responsabilità, lavorano per se stessi e non per la comunità » (Omelia. Cappella Papale per l’Ordinazione episcopale di cinque Ecc.mi Presuli, 12 Settembre 2009).

Il Vescovo di Osma, che si chiamava Diego, un vero e zelante pastore, notò ben presto le qualità spirituali di Domenico, e volle avvalersi della sua collaborazione. Insieme si recarono nell’Europa del Nord, per compiere missioni diplomatiche affidate loro dal re di Castiglia. Viaggiando, Domenico si rese conto di due enormi sfide per la Chiesa del suo tempo: l’esistenza di popoli non ancora evangelizzati, ai confini settentrionali del continente europeo, e la lacerazione religiosa che indeboliva la vita cristiana nel Sud della Francia, dove l’azione di alcuni gruppi eretici creava disturbo e l’allontanamento dalla verità della fede. L’azione missionaria verso chi non conosce la luce del Vangelo e l’opera di rievangelizzazione delle comunità cristiane divennero così le mète apostoliche che Domenico si propose di perseguire. Fu il Papa, presso il quale il Vescovo Diego e Domenico si recarono per chiedere consiglio, che domandò a quest’ultimo di dedicarsi alla predicazione agli Albigesi, un gruppo eretico che sosteneva una concezione dualistica della realtà, cioè con due principi creatori ugualmente potenti, il Bene e il Male. Questo gruppo, di conseguenza, disprezzava la materia come proveniente dal principio del male, rifiutando anche il matrimonio, fino a negare l’incarnazione di Cristo, i sacramenti nei quali il Signore ci « tocca » tramite la materia, e la risurrezione dei corpi. Gli Albigesi stimavano la vita povera e austera – in questo senso erano anche esemplari – e criticavano la ricchezza del Clero di quel tempo. Domenico accettò con entusiasmo questa missione, che realizzò proprio con l’esempio della sua esistenza povera e austera, con la predicazione del Vangelo e con dibattiti pubblici. A questa missione di predicare la Buona Novella egli dedicò il resto della sua vita. I suoi figli avrebbero realizzato anche gli altri sogni di san Domenico: la missione ad gentes, cioè a coloro che ancora non conoscevano Gesù, e la missione a coloro che vivevano nelle città, soprattutto quelle universitarie, dove le nuove tendenze intellettuali erano una sfida per la fede dei colti.

Questo grande santo ci rammenta che nel cuore della Chiesa deve sempre bruciare un fuoco missionario, il quale spinge incessantemente a portare il primo annuncio del Vangelo e, dove necessario, ad una nuova evangelizzazione: è Cristo, infatti, il bene più prezioso che gli uomini e le donne di ogni tempo e di ogni luogo hanno il diritto di conoscere e di amare! Ed è consolante vedere come anche nella Chiesa di oggi sono tanti – pastori e fedeli laici, membri di antichi ordini religiosi e di nuovi movimenti ecclesiali – che con gioia spendono la loro vita per questo ideale supremo: annunciare e testimoniare il Vangelo!

A Domenico di Guzman si associarono poi altri uomini, attratti dalla stessa aspirazione. In tal modo, progressivamente, dalla prima fondazione di Tolosa, ebbe origine l’Ordine dei Predicatori. Domenico, infatti, in piena obbedienza alle direttive dei Papi del suo tempo, Innocenzo III e Onorio III, adottò l’antica Regola di sant’Agostino, adattandola alle esigenze di vita apostolica, che portavano lui e i suoi compagni a predicare spostandosi da un posto all’altro, ma tornando, poi, ai propri conventi, luoghi di studio, preghiera e vita comunitaria. In particolar modo, Domenico volle dare rilievo a due valori ritenuti indispensabili per il successo della missione evangelizzatrice: la vita comunitaria nella povertà e lo studio.

Anzitutto, Domenico e i Frati Predicatori si presentavano come mendicanti, cioè senza vaste proprietà di terreni da amministrare. Questo elemento li rendeva più disponibili allo studio e alla predicazione itinerante e costituiva una testimonianza concreta per la gente. Il governo interno dei conventi e delle provincie domenicane si strutturò sul sistema di capitoli, che eleggevano i propri Superiori, confermati poi dai Superiori maggiori; un’organizzazione, quindi, che stimolava la vita fraterna e la responsabilità di tutti i membri della comunità, esigendo forti convinzioni personali. La scelta di questo sistema nasceva proprio dal fatto che i Domenicani, come predicatori della verità di Dio, dovevano essere coerenti con ciò che annunciavano. La verità studiata e condivisa nella carità con i fratelli è il fondamento più profondo della gioia. Il beato Giordano di Sassonia dice di san Domenico: « Egli accoglieva ogni uomo nel grande seno della carità e, poiché amava tutti, tutti lo amavano. Si era fatto una legge personale di rallegrarsi con le persone felici e di piangere con coloro che piangevano » (Libellus de principiis Ordinis Praedicatorum autore Iordano de Saxonia, ed. H.C. Scheeben, [Monumenta Historica Sancti Patris Nostri Dominici, Romae, 1935]).

In secondo luogo, Domenico, con un gesto coraggioso, volle che i suoi seguaci acquisissero una solida formazione teologica, e non esitò a inviarli nelle Università del tempo, anche se non pochi ecclesiastici guardavano con diffidenza queste istituzioni culturali. Le Costituzioni dell’Ordine dei Predicatori danno molta importanza allo studio come preparazione all’apostolato. Domenico volle che i suoi Frati vi si dedicassero senza risparmio, con diligenza e pietà; uno studio fondato sull’anima di ogni sapere teologico, cioè sulla Sacra Scrittura, e rispettoso delle domande poste dalla ragione. Lo sviluppo della cultura impone a coloro che svolgono il ministero della Parola, ai vari livelli, di essere ben preparati. Esorto dunque tutti, pastori e laici, a coltivare questa « dimensione culturale » della fede, affinché la bellezza della verità cristiana possa essere meglio compresa e la fede possa essere veramente nutrita, rafforzata e anche difesa. In quest’Anno Sacerdotale, invito i seminaristi e i sacerdoti a stimare il valore spirituale dello studio. La qualità del ministero sacerdotale dipende anche dalla generosità con cui ci si applica allo studio delle verità rivelate.

Domenico, che volle fondare un Ordine religioso di predicatori-teologi, ci rammenta che la teologia ha una dimensione spirituale e pastorale, che arricchisce l’animo e la vita. I sacerdoti, i consacrati e anche tutti i fedeli possono trovare una profonda « gioia interiore » nel contemplare la bellezza della verità che viene da Dio, verità sempre attuale e sempre viva. Il motto dei Frati Predicatori – contemplata aliis tradere – ci aiuta a scoprire, poi, un anelito pastorale nello studio contemplativo di tale verità, per l’esigenza di comunicare agli altri il frutto della propria contemplazione.

Quando Domenico morì nel 1221, a Bologna, la città che lo ha dichiarato patrono, la sua opera aveva già avuto grande successo. L’Ordine dei Predicatori, con l’appoggio della Santa Sede, si era diffuso in molti Paesi dell’Europa a beneficio della Chiesa intera. Domenico fu canonizzato nel 1234, ed è lui stesso che, con la sua santità, ci indica due mezzi indispensabili affinché l’azione apostolica sia incisiva. Anzitutto, la devozione mariana, che egli coltivò con tenerezza e che lasciò come eredità preziosa ai suoi figli spirituali, i quali nella storia della Chiesa hanno avuto il grande merito di diffondere la preghiera del santo Rosario, così cara al popolo cristiano e così ricca di valori evangelici, una vera scuola di fede e di pietà. In secondo luogo, Domenico, che si prese cura di alcuni monasteri femminili in Francia e a Roma, credette fino in fondo al valore della preghiera di intercessione per il successo del lavoro apostolico. Solo in Paradiso comprenderemo quanto la preghiera delle claustrali accompagni efficacemente l’azione apostolica! A ciascuna di esse rivolgo il mio pensiero grato e affettuoso.

Cari fratelli e sorelle, la vita di Domenico di Guzman sproni noi tutti ad essere ferventi nella preghiera, coraggiosi a vivere la fede, profondamente innamorati di Gesù Cristo. Per sua intercessione, chiediamo a Dio di arricchire sempre la Chiesa di autentici predicatori del Vangelo.

[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare saluto i Vescovi partecipanti all’incontro internazionale promosso dalla Comunità di sant’Egidio, ed auspico che questi giorni di riflessione e di preghiera siano fruttuosi per il ministero che ciascuno è chiamato a svolgere nella propria Diocesi. Saluto i rappresentanti dell’Unione sportiva « Anagni Calcio » e gli artisti del « Circo Americano », della Famiglia Togni, e li incoraggio ad operare con generoso impegno nei rispettivi ambiti per contribuire a costruire un futuro migliore per tutti.

Desidero, infine, indirizzare il mio pensiero a voi, cari giovani, malati e sposi novelli. Ricorre oggi la memoria liturgica del martire S. Biagio e nei prossimi giorni ricorderemo altri martiri: sant’Agata, S. Paolo Miki e compagni giapponesi. Il coraggio di questi eroici testimoni di Cristo aiuti voi, cari giovani, ad aprire il cuore all’eroismo della santità; sostenga voi, cari malati, ad offrire il dono prezioso della preghiera e della sofferenza per la Chiesa; e dia a voi, cari sposi novelli, la forza di improntare le vostre famiglie ai valori cristiani.

Benedetto XVI presenta la figura di San Francesco d’Assisi

dal sito:

http://www.zenit.org/article-21166?l=italian

Benedetto XVI presenta la figura di San Francesco d’Assisi

Catechesi per l’Udienza generale del mercoledì

CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 27 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell’Udienza generale nell’aula Paolo VI, dove ha incontrato gruppi di pellegrini e fedeli giunti dall’Italia e da ogni parte del mondo.

Nel discorso in lingua italiana, il Papa, riprendendo la catechesi sulla cultura cristiana nel Medioevo, si è soffermato sulla figura di San Francesco d’Assisi.

* * *

Cari fratelli e sorelle,

in una recente catechesi, ho già illustrato il ruolo provvidenziale che l’Ordine dei Frati Minori e l’Ordine dei Frati Predicatori, fondati rispettivamente da san Francesco d’Assisi e da san Domenico da Guzman, ebbero nel rinnovamento della Chiesa del loro tempo. Oggi vorrei presentarvi la figura di Francesco, un autentico « gigante » della santità, che continua ad affascinare moltissime persone di ogni età e di ogni religione.

« Nacque al mondo un sole ». Con queste parole, nella Divina Commedia (Paradiso, Canto XI), il sommo poeta italiano Dante Alighieri allude alla nascita di Francesco, avvenuta alla fine del 1181 o agli inizi del 1182, ad Assisi. Appartenente a una ricca famiglia – il padre era commerciante di stoffe –, Francesco trascorse un’adolescenza e una giovinezza spensierate, coltivando gli ideali cavallereschi del tempo. A vent’anni prese parte ad una campagna militare, e fu fatto prigioniero. Si ammalò e fu liberato. Dopo il ritorno ad Assisi, cominciò in lui un lento processo di conversione spirituale, che lo portò ad abbandonare gradualmente lo stile di vita mondano, che aveva praticato fino ad allora. Risalgono a questo periodo i celebri episodi dell’incontro con il lebbroso, a cui Francesco, sceso da cavallo, donò il bacio della pace, e del messaggio del Crocifisso nella chiesetta di San Damiano. Per tre volte il Cristo in croce si animò, e gli disse: « Va’, Francesco, e ripara la mia Chiesa in rovina ». Questo semplice avvenimento della parola del Signore udita nella chiesa di S. Damiano nasconde un simbolismo profondo. Immediatamente san Francesco è chiamato a riparare questa chiesetta, ma lo stato rovinoso di questo edificio è simbolo della situazione drammatica e inquietante della Chiesa stessa in quel tempo, con una fede superficiale che non forma e non trasforma la vita, con un clero poco zelante, con il raffreddarsi dell’amore; una distruzione interiore della Chiesa che comporta anche una decomposizione dell’unità, con la nascita di movimenti ereticali. Tuttavia, in questa Chiesa in rovina sta nel centro il Crocifisso e parla: chiama al rinnovamento, chiama Francesco ad un lavoro manuale per riparare concretamente la chiesetta di san Damiano, simbolo della chiamata più profonda a rinnovare la Chiesa stessa di Cristo, con la sua radicalità di fede e con il suo entusiasmo di amore per Cristo. Questo avvenimento, accaduto probabilmente nel 1205, fa pensare ad un altro avvenimento simile verificatosi nel 1207: il sogno del Papa Innocenzo III. Questi vede in sogno che la Basilica di San Giovanni in Laterano, la chiesa madre di tutte le chiese, sta crollando e un religioso piccolo e insignificante puntella con le sue spalle la chiesa affinché non cada. E’ interessante notare, da una parte, che non è il Papa che dà l’aiuto affinché la chiesa non crolli, ma un piccolo e insignificante religioso, che il Papa riconosce in Francesco che Gli fa visita. Innocenzo III era un Papa potente, di grande cultura teologica, come pure di grande potere politico, tuttavia non è lui a rinnovare la Chiesa, ma il piccolo e insignificante religioso: è san Francesco, chiamato da Dio. Dall’altra parte, però, è importante notare che san Francesco non rinnova la Chiesa senza o contro il Papa, ma solo in comunione con lui. Le due realtà vanno insieme: il Successore di Pietro, i Vescovi, la Chiesa fondata sulla successione degli Apostoli e il carisma nuovo che lo Spirito Santo crea in questo momento per rinnovare la Chiesa. Insieme cresce il vero rinnovamento.

Ritorniamo alla vita di san Francesco. Poiché il padre Bernardone gli rimproverava troppa generosità verso i poveri, Francesco, dinanzi al Vescovo di Assisi, con un gesto simbolico si spogliò dei suoi abiti, intendendo così rinunciare all’eredità paterna: come nel momento della creazione, Francesco non ha niente, ma solo la vita che gli ha donato Dio, alle cui mani egli si consegna. Poi visse come un eremita, fino a quando, nel 1208, ebbe luogo un altro avvenimento fondamentale nell’itinerario della sua conversione. Ascoltando un brano del Vangelo di Matteo – il discorso di Gesù agli apostoli inviati in missione –, Francesco si sentì chiamato a vivere nella povertà e a dedicarsi alla predicazione. Altri compagni si associarono a lui, e nel 1209 si recò a Roma, per sottoporre al Papa Innocenzo III il progetto di una nuova forma di vita cristiana. Ricevette un’accoglienza paterna da quel grande Pontefice, che, illuminato dal Signore, intuì l’origine divina del movimento suscitato da Francesco. Il Poverello di Assisi aveva compreso che ogni carisma donato dallo Spirito Santo va posto a servizio del Corpo di Cristo, che è la Chiesa; pertanto agì sempre in piena comunione con l’autorità ecclesiastica. Nella vita dei santi non c’è contrasto tra carisma profetico e carisma di governo e, se qualche tensione viene a crearsi, essi sanno attendere con pazienza i tempi dello Spirito Santo.

In realtà, alcuni storici nell’Ottocento e anche nel secolo scorso hanno cercato di creare dietro il Francesco della tradizione, un cosiddetto Francesco storico, così come si cerca di creare dietro il Gesù dei Vangeli, un cosiddetto Gesù storico. Tale Francesco storico non sarebbe stato un uomo di Chiesa, ma un uomo collegato immediatamente solo a Cristo, un uomo che voleva creare un rinnovamento del popolo di Dio, senza forme canoniche e senza gerarchia. La verità è che san Francesco ha avuto realmente una relazione immediatissima con Gesù e con la parola di Dio, che voleva seguire sine glossa, così com’è, in tutta la sua radicalità e verità. E’ anche vero che inizialmente non aveva l’intenzione di creare un Ordine con le forme canoniche necessarie, ma, semplicemente, con la parola di Dio e la presenza del Signore, egli voleva rinnovare il popolo di Dio, convocarlo di nuovo all’ascolto della parola e all’obbedienza verbale con Cristo. Inoltre, sapeva che Cristo non è mai « mio », ma è sempre « nostro », che il Cristo non posso averlo « io » e ricostruire « io » contro la Chiesa, la sua volontà e il suo insegnamento, ma solo nella comunione della Chiesa costruita sulla successione degli Apostoli si rinnova anche l’obbedienza alla parola di Dio.

E’ anche vero che non aveva intenzione di creare un nuovo ordine, ma solamente rinnovare il popolo di Dio per il Signore che viene. Ma capì con sofferenza e con dolore che tutto deve avere il suo ordine, che anche il diritto della Chiesa è necessario per dar forma al rinnovamento e così realmente si inserì in modo totale, col cuore, nella comunione della Chiesa, con il Papa e con i Vescovi. Sapeva sempre che il centro della Chiesa è l’Eucaristia, dove il Corpo di Cristo e il suo Sangue diventano presenti. Tramite il Sacerdozio, l’Eucaristia è la Chiesa. Dove Sacerdozio e Cristo e comunione della Chiesa vanno insieme, solo qui abita anche la parola di Dio. Il vero Francesco storico è il Francesco della Chiesa e proprio in questo modo parla anche ai non credenti, ai credenti di altre confessioni e religioni.

Francesco e i suoi frati, sempre più numerosi, si stabilirono alla Porziuncola, o chiesa di Santa Maria degli Angeli, luogo sacro per eccellenza della spiritualità francescana. Anche Chiara, una giovane donna di Assisi, di nobile famiglia, si mise alla scuola di Francesco. Ebbe così origine il Secondo Ordine francescano, quello delle Clarisse, un’altra esperienza destinata a produrre frutti insigni di santità nella Chiesa.

Anche il successore di Innocenzo III, il Papa Onorio III, con la sua bolla Cum dilecti del 1218 sostenne il singolare sviluppo dei primi Frati Minori, che andavano aprendo le loro missioni in diversi paesi dell’Europa, e persino in Marocco. Nel 1219 Francesco ottenne il permesso di recarsi a parlare, in Egitto, con il sultano musulmano Melek-el-Kâmel, per predicare anche lì il Vangelo di Gesù. Desidero sottolineare questo episodio della vita di san Francesco, che ha una grande attualità. In un’epoca in cui era in atto uno scontro tra il Cristianesimo e l’Islam, Francesco, armato volutamente solo della sua fede e della sua mitezza personale, percorse con efficacia la via del dialogo. Le cronache ci parlano di un’accoglienza benevola e cordiale ricevuta dal sultano musulmano. È un modello al quale anche oggi dovrebbero ispirarsi i rapporti tra cristiani e musulmani: promuovere un dialogo nella verità, nel rispetto reciproco e nella mutua comprensione (cfr Nostra Aetate, 3). Sembra poi che nel 1220 Francesco abbia visitato la Terra Santa, gettando così un seme, che avrebbe portato molto frutto: i suoi figli spirituali, infatti, fecero dei Luoghi in cui visse Gesù un ambito privilegiato della loro missione. Con gratitudine penso oggi ai grandi meriti della Custodia francescana di Terra Santa.

Rientrato in Italia, Francesco consegnò il governo dell’Ordine al suo vicario, fra Pietro Cattani, mentre il Papa affidò alla protezione del Cardinal Ugolino, il futuro Sommo Pontefice Gregorio IX, l’Ordine, che raccoglieva sempre più aderenti. Da parte sua il Fondatore, tutto dedito alla predicazione che svolgeva con grande successo, redasse una Regola, poi approvata dal Papa.

Nel 1224, nell’eremo della Verna, Francesco vede il Crocifisso nella forma di un serafino e dall’incontro con il serafino crocifisso, ricevette le stimmate; egli diventa così uno col Cristo crocifisso: un dono, quindi, che esprime la sua intima identificazione col Signore.

La morte di Francesco – il suo transitus – avvenne la sera del 3 ottobre 1226, alla Porziuncola. Dopo aver benedetto i suoi figli spirituali, egli morì, disteso sulla nuda terra. Due anni più tardi il Papa Gregorio IX lo iscrisse nell’albo dei santi. Poco tempo dopo, una grande basilica in suo onore veniva innalzata ad Assisi, meta ancor oggi di moltissimi pellegrini, che possono venerare la tomba del santo e godere la visione degli affreschi di Giotto, pittore che ha illustrato in modo magnifico la vita di Francesco.

È stato detto che Francesco rappresenta un alter Christus, era veramente un’icona viva di Cristo. Egli fu chiamato anche « il fratello di Gesù ». In effetti, questo era il suo ideale: essere come Gesù; contemplare il Cristo del Vangelo, amarlo intensamente, imitarne le virtù. In particolare, egli ha voluto dare un valore fondamentale alla povertà interiore ed esteriore, insegnandola anche ai suoi figli spirituali. La prima beatitudine del Discorso della Montagna – Beati i poveri in spirito perché di essi è il regno dei cieli (Mt 5,3) – ha trovato una luminosa realizzazione nella vita e nelle parole di san Francesco. Davvero, cari amici, i santi sono i migliori interpreti della Bibbia; essi, incarnando nella loro vita la Parola di Dio, la rendono più che mai attraente, così che parla realmente con noi. La testimonianza di Francesco, che ha amato la povertà per seguire Cristo con dedizione e libertà totali, continua ad essere anche per noi un invito a coltivare la povertà interiore per crescere nella fiducia in Dio, unendo anche uno stile di vita sobrio e un distacco dai beni materiali.

In Francesco l’amore per Cristo si espresse in modo speciale nell’adorazione del Santissimo Sacramento dell’Eucaristia. Nelle Fonti francescane si leggono espressioni commoventi, come questa: « Tutta l’umanità tema, l’universo intero tremi e il cielo esulti, quando sull’altare, nella mano del sacerdote, vi è Cristo, il Figlio del Dio vivente. O favore stupendo! O sublimità umile, che il Signore dell’universo, Dio e Figlio di Dio, così si umili da nascondersi per la nostra salvezza, sotto una modica forma di pane » (Francesco di Assisi, Scritti, Editrici Francescane, Padova 2002, 401).

In quest’anno sacerdotale, mi piace pure ricordare una raccomandazione rivolta da Francesco ai sacerdoti: « Quando vorranno celebrare la Messa, puri in modo puro, facciano con riverenza il vero sacrificio del santissimo Corpo e Sangue del Signore nostro Gesù Cristo » (Francesco di Assisi, Scritti, 399). Francesco mostrava sempre una grande deferenza verso i sacerdoti, e raccomandava di rispettarli sempre, anche nel caso in cui fossero personalmente poco degni. Portava come motivazione di questo profondo rispetto il fatto che essi hanno ricevuto il dono di consacrare l’Eucaristia. Cari fratelli nel sacerdozio, non dimentichiamo mai questo insegnamento: la santità dell’Eucaristia ci chiede di essere puri, di vivere in modo coerente con il Mistero che celebriamo.

Dall’amore per Cristo nasce l’amore verso le persone e anche verso tutte le creature di Dio. Ecco un altro tratto caratteristico della spiritualità di Francesco: il senso della fraternità universale e l’amore per il creato, che gli ispirò il celebre Cantico delle creature. È un messaggio molto attuale. Come ho ricordato nella mia recente Enciclica Caritas in veritate, è sostenibile solo uno sviluppo che rispetti la creazione e che non danneggi l’ambiente (cfr nn. 48-52), e nel Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace di quest’anno ho sottolineato che anche la costruzione di una pace solida è legata al rispetto del creato. Francesco ci ricorda che nella creazione si dispiega la sapienza e la benevolenza del Creatore. La natura è da lui intesa proprio come un linguaggio nel quale Dio parla con noi, nel quale la realtà diventa trasparente e possiamo noi parlare di Dio e con Dio.

Cari amici, Francesco è stato un grande santo e un uomo gioioso. La sua semplicità, la sua umiltà, la sua fede, il suo amore per Cristo, la sua bontà verso ogni uomo e ogni donna l’hanno reso lieto in ogni situazione. Infatti, tra la santità e la gioia sussiste un intimo e indissolubile rapporto. Uno scrittore francese ha detto che al mondo vi è una sola tristezza: quella di non essere santi, cioè di non essere vicini a Dio. Guardando alla testimonianza di san Francesco, comprendiamo che è questo il segreto della vera felicità: diventare santi, vicini a Dio!

Ci ottenga la Vergine, teneramente amata da Francesco, questo dono. Ci affidiamo a Lei con le parole stesse del Poverello di Assisi: « Santa Maria Vergine, non vi è alcuna simile a te nata nel mondo tra le donne, figlia e ancella dell’altissimo Re e Padre celeste, Madre del santissimo Signor nostro Gesù Cristo, sposa dello Spirito Santo: prega per noi… presso il tuo santissimo diletto Figlio, Signore e Maestro » (Francesco di Assisi, Scritti, 163).

[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]

Rivolgo un cordiale benvenuto a i pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto i vari gruppi di militari qui presenti, augurando a ciascuno di arricchire il proprio servizio al paese con la personale testimonianza.

Saluto, infine, voi, cari giovani, cari malati e cari sposi novelli, ed auspico che ciascuno nella propria condizione, contribuisca con generosità a diffondere la gioia di amare e servire Gesù Cristo.

[APPELLO DEL SANTO PADRE]

Sessantacinque anni fa, il 27 gennaio 1945, venivano aperti i cancelli del campo di concentramento nazista della città polacca di Oswiecim, nota con il nome tedesco di Auschwitz, e vennero liberati i pochi superstiti. Tale evento e le testimonianze dei sopravvissuti rivelarono al mondo l’orrore di crimini di inaudita efferatezza, commessi nei campi di sterminio creati dalla Germania nazista.

Oggi, si celebra il « Giorno della memoria », in ricordo di tutte le vittime di quei crimini, specialmente dell’annientamento pianificato degli Ebrei, e in onore di quanti, a rischio della propria vita, hanno protetto i perseguitati, opponendosi alla follia omicida. Con animo commosso pensiamo alle innumerevoli vittime di un cieco odio razziale e religioso, che hanno subito la deportazione, la prigionia, la morte in quei luoghi aberranti e disumani. La memoria di tali fatti, in particolare del dramma della Shoah che ha colpito il popolo ebraico, susciti un sempre più convinto rispetto della dignità di ogni persona, perché tutti gli uomini si percepiscano una sola grande famiglia. Dio onnipotente illumini i cuori e le menti, affinché non si ripetano più tali tragedie!

Catechesi del Papa sulla nascita degli Ordini francescano e domenicano

dal sito:

http://www.zenit.org/article-20986?l=italian

Catechesi del Papa sulla nascita degli Ordini francescano e domenicano

In occasione dell’Udienza generale del mercoledì

CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 13 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell’Udienza generale nell’aula Paolo VI, dove ha incontrato gruppi di pellegrini e fedeli giunti dall’Italia e da ogni parte del mondo.

Continuando la catechesi sulla cultura cristiana nel Medioevo, il Papa si è soffermato su due grandi Ordini mendicanti (francescani e domenicani).

* * *

Cari fratelli e sorelle,

all’inizio del nuovo anno guardiamo alla storia del Cristianesimo, per vedere come si sviluppa una storia e come può essere rinnovata. In essa possiamo vedere che sono i santi, guidati dalla luce di Dio, gli autentici riformatori della vita della Chiesa e della società. Maestri con la parola e testimoni con l’esempio, essi sanno promuovere un rinnovamento ecclesiale stabile e profondo, perché essi stessi sono profondamente rinnovati, sono in contatto con la vera novità: la presenza di Dio nel mondo. Tale consolante realtà, che in ogni generazione cioè nascono santi e portano la creatività del rinnovamento, accompagna costantemente la storia della Chiesa in mezzo alle tristezze e agli aspetti negativi del suo cammino. Vediamo, infatti, secolo per secolo, nascere anche le forze della riforma e del rinnovamento, perché la novità di Dio è inesorabile e dà sempre nuova forza per andare avanti. Così accadde anche nel secolo tredicesimo, con la nascita e lo straordinario sviluppo degli Ordini Mendicanti: un modello di grande rinnovamento in una nuova epoca storica. Essi furono chiamati così per la loro caratteristica di « mendicare », di ricorrere, cioè, umilmente al sostegno economico della gente per vivere il voto di povertà e svolgere la propria missione evangelizzatrice. Degli Ordini Mendicanti che sorsero in quel periodo, i più noti e i più importanti sono i Frati Minori e i Frati Predicatori, conosciuti come Francescani e Domenicani. Essi sono così chiamati dal nome dei loro Fondatori, rispettivamente Francesco d’Assisi e Domenico di Guzman. Questi due grandi santi ebbero la capacità di leggere con intelligenza « i segni dei tempi », intuendo le sfide che doveva affrontare la Chiesa del loro tempo.

Una prima sfida era rappresentata dall’espansione di vari gruppi e movimenti di fedeli che, sebbene ispirati da un legittimo desiderio di autentica vita cristiana, si ponevano spesso al di fuori della comunione ecclesiale. Erano in profonda opposizione alla Chiesa ricca e bella che si era sviluppata proprio con la fioritura del monachesimo. In recenti Catechesi mi sono soffermato sulla comunità monastica di Cluny, che aveva sempre più attirato giovani e quindi forze vitali, come pure beni e ricchezze. Si era così sviluppata, logicamente, in un primo momento, una Chiesa ricca di proprietà e anche immobile. Contro questa Chiesa si contrappose l’idea che Cristo venne in terra povero e che la vera Chiesa avrebbe dovuto essere proprio la Chiesa dei poveri; il desiderio di una vera autenticità cristiana si oppose così alla realtà della Chiesa empirica. Si tratta dei cosiddetti movimenti pauperistici del Medioevo. Essi contestavano aspramente il modo di vivere dei sacerdoti e dei monaci del tempo, accusati di aver tradito il Vangelo e di non praticare la povertà come i primi cristiani, e questi movimenti contrapposero al ministero dei Vescovi una propria « gerarchia parallela ». Inoltre, per giustificare le proprie scelte, diffusero dottrine incompatibili con la fede cattolica. Ad esempio, il movimento dei Catari o Albigesi ripropose antiche eresie, come la svalutazione e il disprezzo del mondo materiale – l’opposizione contro la ricchezza diventa velocemente opposizione contro la realtà materiale in quanto tale – la negazione della libera volontà, e poi il dualismo, l’esistenza di un secondo principio del male equiparato a Dio. Questi movimenti ebbero successo, specie in Francia e in Italia, non solo per la solida organizzazione, ma anche perché denunciavano un disordine reale nella Chiesa, causato dal comportamento poco esemplare di vari esponenti del clero.

I Francescani e i Domenicani, sulla scia dei loro Fondatori, mostrarono, invece, che era possibile vivere la povertà evangelica, la verità del Vangelo come tale, senza separarsi dalla Chiesa; mostrarono che la Chiesa rimane il vero, autentico luogo del Vangelo e della Scrittura. Anzi, Domenico e Francesco trassero proprio dall’intima comunione con la Chiesa e con il Papato la forza della loro testimonianza. Con una scelta del tutto originale nella storia della vita consacrata, i Membri di questi Ordini non solo rinunciavano al possesso di beni personali, come facevano i monaci sin dall’antichità, ma neppure volevano che fossero intestati alla comunità terreni e beni immobili. Intendevano così testimoniare una vita estremamente sobria, per essere solidali con i poveri e confidare solo nella Provvidenza, vivere ogni giorno della Provvidenza, della fiducia di mettersi nelle mani di Dio. Questo stile personale e comunitario degli Ordini Mendicanti, unito alla totale adesione all’insegnamento della Chiesa e alla sua autorità, fu molto apprezzato dai Pontefici dell’epoca, come Innocenzo III e Onorio III, i quali offrirono il loro pieno sostegno a queste nuove esperienze ecclesiali, riconoscendo in esse la voce dello Spirito. E i frutti non mancarono: i gruppi pauperistici che si erano separati dalla Chiesa rientrarono nella comunione ecclesiale o, lentamente, si ridimensionarono fino a scomparire. Anche oggi, pur vivendo in una società in cui spesso prevale l’ »avere » sull’ »essere », si è molto sensibili agli esempi di povertà e di solidarietà, che i credenti offrono con scelte coraggiose. Anche oggi non mancano simili iniziative: i movimenti, che partono realmente dalla novità del Vangelo e lo vivono con radicalità nell’oggi, mettendosi nelle mani di Dio, per servire il prossimo. Il mondo, come ricordava Paolo VI nell’Evangelii nuntiandi, ascolta volentieri i maestri, quando sono anche testimoni. È questa una lezione da non dimenticare mai nell’opera di diffusione del Vangelo: vivere per primi ciò che si annuncia, essere specchio della carità divina.

Francescani e Domenicani furono testimoni, ma anche maestri. Infatti, un’altra esigenza diffusa nella loro epoca era quella dell’istruzione religiosa. Non pochi fedeli laici, che abitavano nelle città in via di grande espansione, desideravano praticare una vita cristiana spiritualmente intensa. Cercavano dunque di approfondire la conoscenza della fede e di essere guidati nell’arduo, ma entusiasmante cammino della santità. Gli Ordini Mendicanti seppero felicemente venire incontro anche a questa necessità: l’annuncio del Vangelo nella semplicità e nella sua profondità e grandezza era uno scopo, forse lo scopo principale di questo movimento. Con grande zelo, infatti, si dedicarono alla predicazione. Erano molto numerosi i fedeli, spesso vere e proprie folle, che si radunavano per ascoltare i predicatori nelle chiese e nei luoghi all’aperto, pensiamo a sant’Antonio, per esempio. Venivano trattati argomenti vicini alla vita della gente, soprattutto la pratica delle virtù teologali e morali, con esempi concreti, facilmente comprensibili. Inoltre, si insegnavano forme per nutrire la vita di preghiera e la pietà. Ad esempio, i Francescani diffusero molto la devozione verso l’umanità di Cristo, con l’impegno di imitare il Signore. Non sorprende allora che fossero numerosi i fedeli, donne ed uomini, che sceglievano di farsi accompagnare nel cammino cristiano da frati Francescani e Domenicani, direttori spirituali e confessori ricercati e apprezzati. Nacquero, così, associazioni di fedeli laici che si ispiravano alla spiritualità di san Francesco e di san Domenico, adattata al loro stato di vita. Si tratta del Terzo Ordine, sia francescano che domenicano. In altri termini, la proposta di una « santità laicale » conquistò molte persone. Come ha ricordato il Concilio Ecumenico Vaticano II, la chiamata alla santità non è riservata ad alcuni, ma è universale (cfr Lumen gentium, 40). In tutti gli stati di vita, secondo le esigenze di ciascuno di essi, si trova la possibilità di vivere il Vangelo. Anche oggi ogni cristiano deve tendere alla « misura alta della vita cristiana », a qualunque stato di vita appartenga!

L’importanza degli Ordini Mendicanti crebbe così tanto nel Medioevo che Istituzioni laicali, come le organizzazioni del lavoro, le antiche corporazioni e le stesse autorità civili, ricorrevano spesso alla consulenza spirituale dei Membri di tali Ordini per la stesura dei loro regolamenti e, a volte, per la soluzione di contrasti interni ed esterni. I Francescani e i Domenicani diventarono gli animatori spirituali della città medievale. Con grande intuito, essi misero in atto una strategia pastorale adatta alle trasformazioni della società. Poiché molte persone si spostavano dalle campagne nelle città, essi collocarono i loro conventi non più in zone rurali, ma urbane. Inoltre, per svolgere la loro attività a beneficio delle anime, era necessario spostarsi secondo le esigenze pastorali. Con un’altra scelta del tutto innovativa, gli Ordini mendicanti abbandonarono il principio di stabilità, classico del monachesimo antico, per scegliere un altro modo. Minori e Predicatori viaggiavano da un luogo all’altro, con fervore missionario. Di conseguenza, si diedero un’organizzazione diversa rispetto a quella della maggior parte degli Ordini monastici. Al posto della tradizionale autonomia di cui godeva ogni monastero, essi riservarono maggiore importanza all’Ordine in quanto tale e al Superiore Generale, come pure alla struttura delle provincie. Così i Mendicanti erano maggiormente disponibili per le esigenze della Chiesa Universale. Questa flessibilità rese possibile l’invio dei frati più adatti per lo svolgimento di specifiche missioni e gli Ordini Mendicanti raggiunsero l’Africa settentrionale, il Medio Oriente, il Nord Europa. Con questa flessibilità il dinamismo missionario venne rinnovato.

Un’altra grande sfida era rappresentata dalle trasformazioni culturali in atto in quel periodo. Nuove questioni rendevano vivace la discussione nelle università, che sono nate alla fine del XII secolo. Minori e Predicatori non esitarono ad assumere anche questo impegno e, come studenti e professori, entrarono nelle università più famose del tempo, eressero centri di studi, produssero testi di grande valore, diedero vita a vere e proprie scuole di pensiero, furono protagonisti della teologia scolastica nel suo periodo migliore, incisero significativamente nello sviluppo del pensiero. I più grandi pensatori, san Tommaso d’Aquino e san Bonaventura, erano mendicanti, operando proprio con questo dinamismo della nuova evangelizzazione, che ha rinnovato anche il coraggio del pensiero, del dialogo tra ragione e fede. Anche oggi c’è una « carità della e nella verità », una « carità intellettuale » da esercitare, per illuminare le intelligenze e coniugare la fede con la cultura. L’impegno profuso dai Francescani e dai Domenicani nelle università medievali è un invito, cari fedeli, a rendersi presenti nei luoghi di elaborazione del sapere, per proporre, con rispetto e convinzione, la luce del Vangelo sulle questioni fondamentali che interessano l’uomo, la sua dignità, il suo destino eterno. Pensando al ruolo dei Francescani e Domenicani nel Medioevo, al rinnovamento spirituale che suscitarono, al soffio di vita nuova che comunicarono nel mondo, un monaco disse: « In quel tempo il mondo invecchiava. Due Ordini sorsero nella Chiesa, di cui rinnovarono la giovinezza come quella di un’aquila » (Burchard d’Ursperg, Chronicon).

Cari fratelli e sorelle, invochiamo proprio all’inizio di quest’anno lo Spirito Santo, eterna giovinezza della Chiesa: egli faccia sentire ad ognuno l’urgenza di offrire una testimonianza coerente e coraggiosa del Vangelo, affinché non manchino mai santi, che facciano risplendere la Chiesa come sposa sempre pura e bella, senza macchia e senza ruga, capace di attrarre irresistibilmente il mondo verso Cristo, verso la sua salvezza.

Benedetto XVI: Dio si fa Bambino per vincerci con l’amore

dal sito:

http://www.zenit.org/article-20849?l=italian

Benedetto XVI: Dio si fa Bambino per vincerci con l’amore

In occasione dell’Udienza generale del mercoledì

ROMA, mercoledì, 23 dicembre 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato questo mercoledì da Benedetto XVI incontrando i fedeli e i pellegrini riunitisi nell’aula Paolo VI per la tradizionale Udienza generale.

Nella sua riflessione il Papa si è soffermato sul mistero del Natale ormai prossimo.

* * *

Cari fratelli e sorelle,

con la Novena di Natale, che stiamo celebrando in questi giorni, la Chiesa ci invita a vivere in modo intenso e profondo la preparazione alla Nascita del Salvatore, ormai imminente. Il desiderio, che tutti portiamo nel cuore, è che la prossima festa del Natale ci doni, in mezzo all’attività frenetica dei nostri giorni, serena e profonda gioia per farci toccare con mano la bontà del nostro Dio e infonderci nuovo coraggio.

Per comprendere meglio il significato del Natale del Signore vorrei fare un breve cenno all’origine storica di questa solennità. Infatti, l’Anno liturgico della Chiesa non si è sviluppato inizialmente partendo dalla nascita di Cristo, ma dalla fede nella sua risurrezione. Perciò la festa più antica della cristianità non è il Natale, ma è la Pasqua; la risurrezione di Cristo fonda la fede cristiana, è alla base dell’annuncio del Vangelo e fa nascere la Chiesa. Quindi essere cristiani significa vivere in maniera pasquale, facendoci coinvolgere nel dinamismo che è originato dal Battesimo e che porta a morire al peccato per vivere con Dio (cfr Rm 6,4).

Il primo ad affermare con chiarezza che Gesù nacque il 25 dicembre è stato Ippolito di Roma, nel suo commento al Libro del profeta Daniele, scritto verso il 204. Qualche esegeta nota, poi, che in quel giorno si celebrava la festa della Dedicazione del Tempio di Gerusalemme, istituita da Giuda Maccabeo nel 164 avanti Cristo. La coincidenza di date verrebbe allora a significare che con Gesù, apparso come luce di Dio nella notte, si realizza veramente la consacrazione del tempio, l’Avvento di Dio su questa terra.

Nella cristianità la festa del Natale ha assunto una forma definita nel IV secolo, quando essa prese il posto della festa romana del « Sol invictus », il sole invincibile; si mise così in evidenza che la nascita di Cristo è la vittoria della vera luce sulle tenebre del male e del peccato. Tuttavia, la particolare e intensa atmosfera spirituale che circonda il Natale si è sviluppata nel Medioevo, grazie a san Francesco d’Assisi, che era profondamente innamorato dell’uomo Gesù, del Dio-con-noi. Il suo primo biografo, Tommaso da Celano, nella Vita seconda racconta che san Francesco «Al di sopra di tutte le altre solennità celebrava con ineffabile premura il Natale del Bambino Gesù, e chiamava festa delle feste il giorno in cui Dio, fatto piccolo infante, aveva succhiato a un seno umano» (Fonti Francescane, n. 199, p. 492). Da questa particolare devozione al mistero dell’Incarnazione ebbe origine la famosa celebrazione del Natale a Greccio. Essa, probabilmente, fu ispirata a san Francesco dal suo pellegrinaggio in Terra Santa e dal presepe di Santa Maria Maggiore in Roma. Ciò che animava il Poverello di Assisi era il desiderio di sperimentare in maniera concreta, viva e attuale l’umile grandezza dell’evento della nascita del Bambino Gesù e di comunicarne la gioia a tutti.

Nella prima biografia, Tommaso da Celano parla della notte del presepe di Greccio in un modo vivo e toccante, offrendo un contributo decisivo alla diffusione della tradizione natalizia più bella, quella del presepe. La notte di Greccio, infatti, ha ridonato alla cristianità l’intensità e la bellezza della festa del Natale, e ha educato il Popolo di Dio a coglierne il messaggio più autentico, il particolare calore, e ad amare ed adorare l’umanità di Cristo. Tale particolare approccio al Natale ha offerto alla fede cristiana una nuova dimensione. La Pasqua aveva concentrato l’attenzione sulla potenza di Dio che vince la morte, inaugura la vita nuova e insegna a sperare nel mondo che verrà. Con san Francesco e il suo presepe venivano messi in evidenza l’amore inerme di Dio, la sua umiltà e la sua benignità, che nell’Incarnazione del Verbo si manifesta agli uomini per insegnare un nuovo modo di vivere e di amare.

Il Celano racconta che, in quella notte di Natale, fu concessa a Francesco la grazia di una visione meravigliosa. Vide giacere immobile nella mangiatoia un piccolo bambino, che fu risvegliato dal sonno proprio dalla vicinanza di Francesco. E aggiunge: «Né questa visione discordava dai fatti perché, a opera della sua grazia che agiva per mezzo del suo santo servo Francesco, il fanciullo Gesù fu risuscitato nel cuore di molti, che l’avevano dimenticato, e fu impresso profondamente nella loro memoria amorosa» (Vita prima, op. cit., n. 86, p. 307). Questo quadro descrive con molta precisione quanto la fede viva e l’amore di Francesco per l’umanità di Cristo hanno trasmesso alla festa cristiana del Natale: la scoperta che Dio si rivela nelle tenere membra del Bambino Gesù. Grazie a san Francesco, il popolo cristiano ha potuto percepire che a Natale Dio è davvero diventato l’ »Emmanuele », il Dio-con-noi, dal quale non ci separa alcuna barriera e alcuna lontananza. In quel Bambino, Dio è diventato così prossimo a ciascuno di noi, così vicino, che possiamo dargli del tu e intrattenere con lui un rapporto confidenziale di profondo affetto, così come facciamo con un neonato.

In quel Bambino, infatti, si manifesta Dio-Amore: Dio viene senza armi, senza la forza, perché non intende conquistare, per così dire, dall’esterno, ma intende piuttosto essere accolto dall’uomo nella libertà; Dio si fa Bambino inerme per vincere la superbia, la violenza, la brama di possesso dell’uomo. In Gesù Dio ha assunto questa condizione povera e disarmante per vincerci con l’amore e condurci alla nostra vera identità. Non dobbiamo dimenticare che il titolo più grande di Gesù Cristo è proprio quello di « Figlio », Figlio di Dio; la dignità divina viene indicata con un termine, che prolunga il riferimento all’umile condizione della mangiatoia di Betlemme, pur corrispondendo in maniera unica alla sua divinità, che è la divinità del « Figlio ».

La sua condizione di Bambino ci indica, inoltre, come possiamo incontrare Dio e godere della Sua presenza. E’ alla luce del Natale che possiamo comprendere le parole di Gesù: «Se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli» (Mt 18,3). Chi non ha capito il mistero del Natale, non ha capito l’elemento decisivo dell’esistenza cristiana. Chi non accoglie Gesù con cuore di bambino, non può entrare nel regno dei cieli: questo è quanto Francesco ha voluto ricordare alla cristianità del suo tempo e di tutti tempi, fino ad oggi. Preghiamo il Padre perché conceda al nostro cuore quella semplicità che riconosce nel Bambino il Signore, proprio come fece Francesco a Greccio. Allora potrebbe succedere anche a noi quanto Tommaso da Celano – riferendosi all’esperienza dei pastori nella Notte Santa (cfr Lc 2,20) – racconta a proposito di quanti furono presenti all’evento di Greccio: « ciascuno se ne tornò a casa sua pieno di ineffabile gioia » (Vita prima, op. cit., n. 86, p. 479).

E’ questo l’augurio che formulo con affetto a tutti voi, alle vostre famiglie e a quanti vi sono cari. Buon Natale a voi tutti!

[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]

Rivolgo ora un cordiale saluto ai pellegrini di lingua italiana e, con speciale pensiero ai fedeli di Boiano e ai ragazzi di Verbania-Pallanza. Esorto tutti ad essere ovunque gioiosi testimoni del Vangelo.

Desidero, poi, salutare i giovani, i malati e gli sposi novelli. A pochi giorni dalla solennità del Natale, possa l’amore, che Dio manifesta all’umanità nella nascita di Cristo, accrescere in voi, cari giovani, il desiderio di servire generosamente i fratelli. Sia per voi, cari malati, fonte di conforto e di serenità. Ispiri voi, cari sposi novelli, a consolidare la vostra promessa di amore e di reciproca fedeltà.

Benedetto XVI riflette sul pensiero di Guglielmo di Saint-Thierry

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Benedetto XVI riflette sul pensiero di Guglielmo di Saint-Thierry

Catechesi per l’Udienza generale del mercoledì

CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 2 dicembre 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato questo mercoledì da Benedetto XVI incontrando i fedeli e i pellegrini in piazza San Pietro per la tradizionale Udienza generale.

Continuando la catechesi sulla cultura cristiana nel Medioevo, il Papa si è soffermato su Guglielmo di Saint-Thierry, teologo monastico del XII sec.

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Cari fratelli e sorelle,

in una precedente Catechesi ho presentato la figura di Bernardo di Chiaravalle, il « Dottore della dolcezza », grande protagonista del secolo dodicesimo. Il suo biografo – amico ed estimatore – fu Guglielmo di Saint-Thierry, sul quale mi soffermo nella riflessione di questa mattina.

Guglielmo nacque a Liegi tra il 1075 e il 1080. Di nobile famiglia, dotato di un’intelligenza viva e di un innato amore per lo studio, frequentò famose scuole dell’epoca, come quelle della sua città natale e di Reims, in Francia. Entrò in contatto personale anche con Abelardo, il maestro che applicava la filosofia alla teologia in modo così originale da suscitare molte perplessità e opposizioni. Anche Guglielmo espresse le proprie riserve, sollecitando il suo amico Bernardo a prendere posizione nei confronti di Abelardo. Rispondendo a quel misterioso e irresistibile appello di Dio, che è la vocazione alla vita consacrata, Guglielmo entrò nel monastero benedettino di Saint-Nicaise di Reims nel 1113, e qualche anno dopo divenne abate del monastero di Saint-Thierry, in diocesi di Reims. In quel periodo era molto diffusa l’esigenza di purificare e rinnovare la vita monastica, per renderla autenticamente evangelica. Guglielmo operò in questo senso all’interno del proprio monastero, e in genere nell’Ordine benedettino. Tuttavia incontrò non poche resistenze di fronte ai suoi tentativi di riforma, e così, nonostante il consiglio contrario dell’amico Bernardo, nel 1135, lasciò l’abbazia benedettina, smise l’abito nero e indossò quello bianco, per unirsi ai cistercensi di Signy. Da quel momento fino alla morte, avvenuta nel 1148, si dedicò alla contemplazione orante dei misteri di Dio, da sempre oggetto dei suoi più profondi desideri, e alla composizione di scritti di letteratura spirituale, importanti nella storia della teologia monastica.

Una delle sue prime opere è intitolata De natura et dignitate amoris (La natura e la dignità dell’amore). Vi è espressa una delle idee fondamentali di Guglielmo, valida anche per noi. L’energia principale che muove l’animo umano – egli dice – è l’amore. La natura umana, nella sua essenza più profonda, consiste nell’amare. In definitiva, un solo compito è affidato a ogni essere umano: imparare a voler bene, ad amare, sinceramente, autenticamente, gratuitamente. Ma solo alla scuola di Dio questo compito viene assolto e l’uomo può raggiungere il fine per cui è stato creato. Scrive infatti Guglielmo: « L’arte delle arti è l’arte dell’amore… L’amore è suscitato dal Creatore della natura. L’amore è una forza dell’anima, che la conduce come per un peso naturale al luogo e al fine che le è proprio » (La natura e la dignità dell’amore 1, PL 184,379). Imparare ad amare richiede un lungo e impegnativo cammino, che è articolato da Guglielmo in quattro tappe, corrispondenti alle età dell’uomo: l’infanzia, la giovinezza, la maturità e la vecchiaia. In questo itinerario la persona deve imporsi un’ascesi efficace, un forte controllo di sé per eliminare ogni affetto disordinato, ogni cedimento all’egoismo, e unificare la propria vita in Dio, sorgente, mèta e forza dell’amore, fino a giungere al vertice della vita spirituale, che Guglielmo definisce come « sapienza ». A conclusione di questo itinerario ascetico, si sperimenta una grande serenità e dolcezza. Tutte le facoltà dell’uomo – intelligenza, volontà, affetti – riposano in Dio, conosciuto e amato in Cristo.

Anche in altre opere, Guglielmo parla di questa radicale vocazione all’amore per Dio, che costituisce il segreto di una vita riuscita e felice, e che egli descrive come un desiderio incessante e crescente, ispirato da Dio stesso nel cuore dell’uomo. In una meditazione egli dice che l’oggetto di questo amore è l’Amore con la « A » maiuscola, cioè Dio. È lui che si riversa nel cuore di chi ama, e lo rende atto a riceverlo. Si dona a sazietà e in modo tale, che di questa sazietà il desiderio non viene mai meno. Questo slancio d’amore è il compimento dell’uomo » (De contemplando Deo 6, passim, SC 61bis, pp. 79-83). Colpisce il fatto che Guglielmo, nel parlare dell’amore a Dio attribuisca una notevole importanza alla dimensione affettiva. In fondo, cari amici, il nostro cuore è fatto di carne, e quando amiamo Dio, che è l’Amore stesso, come non esprimere in questa relazione con il Signore anche i nostri umanissimi sentimenti, come la tenerezza, la sensibilità, la delicatezza? Il Signore stesso, facendosi uomo, ha voluto amarci con un cuore di carne!

Secondo Guglielmo, poi, l’amore ha un’altra proprietà importante: illumina l’intelligenza e permette di conoscere meglio e in modo profondo Dio e, in Dio, le persone e gli avvenimenti. La conoscenza che procede dai sensi e dall’intelligenza riduce, ma non elimina, la distanza tra il soggetto e l’oggetto, tra l’io e il tu. L’amore invece produce attrazione e comunione, fino al punto che vi è una trasformazione e un’assimilazione tra il soggetto che ama e l’oggetto amato. Questa reciprocità di affetto e di simpatia permette allora una conoscenza molto più profonda di quella operata dalla sola ragione. Si spiega così una celebre espressione di Guglielmo: « Amor ipse intellectus est – già in se stesso l’amore è principio di conoscenza ». Cari amici, ci domandiamo: non è proprio così nella nostra vita? Non è forse vero che noi conosciamo realmente solo chi e ciò che amiamo? Senza una certa simpatia non si conosce nessuno e niente! E questo vale anzitutto nella conoscenza di Dio e dei suoi misteri, che superano la capacità di comprensione della nostra intelligenza: Dio lo si conosce se lo si ama!

Una sintesi del pensiero di Guglielmo di Saint-Thierry è contenuta in una lunga lettera indirizzata ai Certosini di Mont-Dieu, presso i quali egli si era recato in visita e che volle incoraggiare e consolare. Il dotto benedettino Jean Mabillon già nel 1690 diede a questa lettera un titolo significativo: Epistola aurea (Lettera d’oro). In effetti, gli insegnamenti sulla vita spirituale in essa contenuti sono preziosi per tutti coloro che desiderano crescere nella comunione con Dio, nella santità. In questo trattato Guglielmo propone un itinerario in tre tappe. Occorre – egli dice – passare dall’uomo « animale » a quello « razionale », per approdare a quello « spirituale ». Che cosa intende dire il nostro autore con queste tre espressioni? All’inizio una persona accetta la visione della vita ispirata dalla fede con un atto di obbedienza e di fiducia. Poi con un processo di interiorizzazione, nel quale la ragione e la volontà giocano un grande ruolo, la fede in Cristo è accolta con profonda convinzione e si sperimenta un’armoniosa corrispondenza tra ciò che si crede e si spera e le aspirazioni più segrete dell’anima, la nostra ragione, i nostri affetti. Si giunge così alla perfezione della vita spirituale, quando le realtà della fede sono fonte di intima gioia e di comunione reale e appagante con Dio. Si vive solo nell’amore e per amore. Guglielmo fonda questo itinerario su una solida visione dell’uomo, ispirata agli antichi Padri greci, soprattutto ad Origene, i quali, con un linguaggio audace, avevano insegnato che la vocazione dell’uomo è diventare come Dio, che lo ha creato a sua immagine e somiglianza. L’immagine di Dio presente nell’uomo lo spinge verso la somiglianza, cioè verso un’identità sempre più piena tra la propria volontà e quella divina. A questa perfezione, che Guglielmo chiama « unità di spirito », non si giunge con lo sforzo personale, sia pure sincero e generoso, perché è necessaria un’altra cosa. Questa perfezione si raggiunge per l’azione dello Spirito Santo, che prende dimora nell’anima e purifica, assorbe e trasforma in carità ogni slancio e ogni desiderio d’amore presente nell’uomo. « Vi è poi un’altra somiglianza con Dio », leggiamo nell’Epistola aurea, « che viene detta non più somiglianza, ma unità di spirito, quando l’uomo diventa uno con Dio, uno spirito, non soltanto per l’unità di un identico volere, ma per non essere in grado di volere altro. In tal modo l’uomo merita di diventare non Dio, ma ciò che Dio è: l’uomo diventa per grazia ciò che Dio è per natura » (Epistola aurea 262-263, SC 223, pp. 353-355).

Cari fratelli e sorelle, questo autore, che potremmo definire il « Cantore dell’amore, della carità », ci insegna ad operare nella nostra vita la scelta di fondo, che dà senso e valore a tutte le altre scelte: amare Dio e, per amore suo, amare il nostro prossimo; solo così potremo incontrare la vera gioia, anticipo della beatitudine eterna. Mettiamoci quindi alla scuola dei Santi per imparare ad amare in modo autentico e totale, per entrare in questo itinerario del nostro essere. Con una giovane santa, Dottore della Chiesa, Teresa di Gesù Bambino, diciamo anche noi al Signore che vogliamo vivere d’amore. E concludo proprio con una preghiera di questa Santa: « Io ti amo, e tu lo sai, divino Gesù! Lo Spirito d’amore mi incendia col suo fuoco. Amando Te attiro il Padre, che il mio debole cuore conserva, senza scampo. O Trinità! Sei prigioniera del mio amore. Vivere d’amore, quaggiù, è un darsi smisurato, senza chiedere salario … quando si ama non si fanno calcoli. Io ho dato tutto al Cuore divino, che trabocca di tenerezza! E corro leggermente. Non ho più nulla, e la mia sola ricchezza è vivere d’amore ».

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Benedetto XVI e i due teologi Ugo e Riccardo di San Vittore

Catechesi per l’Udienza generale del mercoledì

CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 25 novembre 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato questo mercoledì da Benedetto XVI incontrando i fedeli e i pellegrini nell’Aula Paolo VI per la tradizionale Udienza generale.

Continuando la catechesi sulla cultura cristiana nel Medioevo, il Papa ha illustrato le figure di due teologi legati al monastero di San Vittore a Parigi: Ugo e Riccardo di San Vittore.
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Cari fratelli e sorelle,

in queste Udienze del mercoledì sto presentando alcune figure esemplari di credenti, che si sono impegnati a mostrare la concordia tra la ragione e la fede e a testimoniare con la loro vita l’annuncio del Vangelo. Oggi intendo parlarvi di Ugo e di Riccardo di San Vittore. Tutti e due sono tra quei filosofi e teologi noti con il nome di Vittorini, perché vissero e insegnarono nell’abbazia di San Vittore, a Parigi, fondata all’inizio del secolo XII da Guglielmo di Champeaux. Guglielmo stesso fu un maestro rinomato, che riuscì a dare alla sua abbazia una solida identità culturale. A San Vittore, infatti, fu inaugurata una scuola per la formazione dei monaci, aperta anche a studenti esterni, dove si realizzò una sintesi felice tra i due modi di fare teologia, di cui ho già parlato in precedenti catechesi: e cioè la teologia monastica, orientata maggiormente alla contemplazione dei misteri della fede nella Scrittura, e la teologia scolastica, che utilizzava la ragione per cercare di scrutare tali misteri con metodi innovativi, di creare un sistema teologico.

Della vita di Ugo di San Vittore abbiamo poche notizie. Sono incerti la data e il luogo della nascita: forse in Sassonia o nelle Fiandre. Si sa che, giunto a Parigi – la capitale europea della cultura del tempo –, trascorse il resto dei suoi anni presso l’abbazia di San Vittore, dove fu prima discepolo e poi insegnante. Già prima della morte, avvenuta nel 1141, raggiunse una grande notorietà e stima, al punto da essere chiamato un « secondo sant’Agostino »: come Agostino, infatti, egli meditò molto sul rapporto tra fede e ragione, tra scienze profane e teologia. Secondo Ugo di San Vittore, tutte le scienze, oltre a essere utili per la comprensione delle Scritture, hanno un valore in se stesse e vanno coltivate per allargare il sapere dell’uomo, come pure per corrispondere al suo anelito di conoscere la verità. Questa sana curiosità intellettuale lo indusse a raccomandare agli studenti di non restringere mai il desiderio di imparare e nel suo trattato di metodologia del sapere e di pedagogia, intitolato significativamente Didascalicon (circa l’insegnamento), raccomandava: « Impara volentieri da tutti ciò che non sai. Sarà più sapiente di tutti colui che avrà voluto imparare qualcosa da tutti. Chi riceve qualcosa da tutti, finisce per diventare più ricco di tutti » (Eruditiones Didascalicae, 3,14: PL 176,774).

La scienza di cui si occupano i filosofi e i teologi detti Vittorini è in modo particolare la teologia, che richiede anzitutto lo studio amoroso della Sacra Scrittura. Per conoscere Dio, infatti, non si può che partire da ciò che Dio stesso ha voluto rivelare di sé attraverso le Scritture. In questo senso, Ugo di San Vittore è un tipico rappresentante della teologia monastica, interamente fondata sull’esegesi biblica. Per interpretare la Scrittura, egli propone la tradizionale articolazione patristico-medievale, cioè il senso storico-letterale, anzitutto, poi quello allegorico e anagogico, e infine quello morale. Si tratta di quattro dimensioni del senso della Scrittura, che anche oggi si riscoprono di nuovo, per cui si vede che nel testo e nella narrazione offerta si nasconde un’indicazione più profonda: il filo della fede, che ci conduce verso l’alto e ci guida su questa terra, insegnandoci come vivere. Tuttavia, pur rispettando queste quattro dimensioni del senso della Scrittura, in modo originale rispetto ai suoi contemporanei, egli insiste – e questa è una cosa nuova – sull’importanza del senso storico-letterale. In altre parole, prima di scoprire il valore simbolico, le dimensioni più profonde del testo biblico, occorre conoscere e approfondire il significato della storia narrata nella Scrittura: diversamente – avverte con un efficace paragone – si rischia di essere come degli studiosi di grammatica che ignorano l’alfabeto. A chi conosce il senso della storia descritta nella Bibbia, le vicende umane appaiono segnate dalla Provvidenza divina, secondo un suo disegno ben ordinato. Così, per Ugo di San Vittore, la storia non è l’esito di un destino cieco o di un caso assurdo, come potrebbe apparire. Al contrario, nella storia umana opera lo Spirito Santo, che suscita un meraviglioso dialogo degli uomini con Dio, loro amico. Questa visione teologica della storia mette in evidenza l’intervento sorprendente e salvifico di Dio, che realmente entra e agisce nella storia, quasi si fa parte della nostra storia, ma sempre salvaguardando e rispettando la libertà e la responsabilità dell’uomo.

Per il nostro autore, lo studio della Sacra Scrittura e del suo significato storico-letterale rende possibile la teologia vera e propria, ossia l’illustrazione sistematica delle verità, conoscere la loro struttura, l’illustrazione dei dogmi della fede, che egli presenta in solida sintesi nel trattato De Sacramentis christianae fidei (I sacramenti della fede cristiana), dove si trova, fra l’altro, una definizione di « sacramento » che, ulteriormente perfezionata da altri teologi, contiene spunti ancor oggi molto interessanti. « Il sacramento », egli scrive, « è un elemento corporeo o materiale proposto in maniera esterna e sensibile, che rappresenta con la sua somiglianza una grazia invisibile e spirituale, la significa, perché a tal fine è stato istituito, e la contiene, perché è capace di santificare » (9,2: PL 176,317). Da una parte la visibilità nel simbolo, la « corporeità » del dono di Dio, nel quale tuttavia, dall’altra parte, si nasconde la grazia divina che proviene da una storia: Gesù Cristo stesso ha creato i simboli fondamentali. Tre dunque sono gli elementi che concorrono a definire un sacramento, secondo Ugo di San Vittore: l’istituzione da parte di Cristo, la comunicazione della grazia, e l’analogia tra l’elemento visibile, quello materiale, e l’elemento invisibile, che sono i doni divini. Si tratta di una visione molto vicina alla sensibilità contemporanea, perché i sacramenti vengono presentati con un linguaggio intessuto di simboli e di immagini capaci di parlare immediatamente al cuore degli uomini. È importante anche oggi che gli animatori liturgici, e in particolare i sacerdoti, valorizzino con sapienza pastorale i segni propri dei riti sacramentali – questa visibilità e tangibilità della Grazia – curandone attentamente la catechesi, affinché ogni celebrazione dei sacramenti sia vissuta da tutti i fedeli con devozione, intensità e letizia spirituale.

Un degno discepolo di Ugo di San Vittore è Riccardo, proveniente dalla Scozia. Egli fu priore dell’abbazia di San Vittore dal 1162 al 1173, anno della sua morte. Anche Riccardo, naturalmente, assegna un ruolo fondamentale allo studio della Bibbia, ma, a differenza del suo maestro, privilegia il senso allegorico, il significato simbolico della Scrittura con il quale, ad esempio, interpreta la figura anticotestamentaria di Beniamino, figlio di Giacobbe, quale simbolo della contemplazione e vertice della vita spirituale. Riccardo tratta questo argomento in due testi, Beniamino minore e Beniamino maggiore, nei quali propone ai fedeli un cammino spirituale che invita anzitutto ad esercitare le varie virtù, imparando a disciplinare e a ordinare con la ragione i sentimenti ed i moti interiori affettivi ed emotivi. Solo quando l’uomo ha raggiunto equilibrio e maturazione umana in questo campo, è pronto per accedere alla contemplazione, che Riccardo definisce come « uno sguardo profondo e puro dell’anima riversato sulle meraviglie della sapienza, associato a un senso estatico di stupore e di ammirazione » (Benjamin Maior 1,4: PL 196,67).

La contemplazione quindi è il punto di arrivo, il risultato di un arduo cammino, che comporta il dialogo tra la fede e la ragione, cioè – ancora una volta – un discorso teologico. La teologia parte dalle verità che sono oggetto della fede, ma cerca di approfondirne la conoscenza con l’uso della ragione, appropriandosi del dono della fede. Questa applicazione del ragionamento alla comprensione della fede viene praticata in modo convincente nel capolavoro di Riccardo, uno dei grandi libri della storia, il De Trinitate (La Trinità). Nei sei libri che lo compongono egli riflette con acutezza sul Mistero di Dio uno e trino. Secondo il nostro autore, poiché Dio è amore, l’unica sostanza divina comporta comunicazione, oblazione e dilezione tra due Persone, il Padre e il Figlio, che si trovano fra loro in uno scambio eterno di amore. Ma la perfezione della felicità e della bontà non ammette esclusivismi e chiusure; richiede anzi l’eterna presenza di una terza Persona, lo Spirito Santo. L’amore trinitario è partecipativo, concorde, e comporta sovrabbondanza di delizia, godimento di gioia incessante. Riccardo cioè suppone che Dio è amore, analizza l’essenza dell’amore, che cosa è implicato nella realtà amore, arrivando così alla Trinità delle Persone, che è realmente l’espressione logica del fatto che Dio è amore.

Riccardo tuttavia è consapevole che l’amore, benché ci riveli l’essenza di Dio, ci faccia « comprendere » il Mistero della Trinità, è pur sempre un’analogia per parlare di un Mistero che supera la mente umana, e – da poeta e mistico quale è – ricorre anche ad altre immagini. Paragona ad esempio la divinità a un fiume, a un’onda amorosa che sgorga dal Padre, fluisce e rifluisce nel Figlio, per essere poi felicemente diffusa nello Spirito Santo.

Cari amici, autori come Ugo e Riccardo di San Vittore elevano il nostro animo alla contemplazione delle realtà divine. Nello stesso tempo, l’immensa gioia che ci procurano il pensiero, l’ammirazione e la lode della Santissima Trinità, fonda e sostiene l’impegno concreto di ispirarci a tale modello perfetto di comunione nell’amore per costruire le nostre relazioni umane di ogni giorno. La Trinità è veramente comunione perfetta! Come cambierebbe il mondo se nelle famiglie, nelle parrocchie e in ogni altra comunità i rapporti fossero vissuti seguendo sempre l’esempio delle tre Persone divine, in cui ognuna vive non solo con l’altra, ma per l’altra e nell’altra! Lo ricordavo qualche mese fa all’Angelus: « Solo l’amore ci rende felici, perché viviamo in relazione, e viviamo per amare e per essere amati » (L’Oss. Rom., 8-9 giugno 2009, p. 1). È l’amore a compiere questo incessante miracolo: come nella vita della Santissima Trinità, la pluralità si ricompone in unità, dove tutto è compiacenza e gioia. Con sant’Agostino, tenuto in grande onore dai Vittorini, possiamo esclamare anche noi: « Vides Trinitatem, si caritatem vides – contempli la Trinità, se vedi la carità » (De Trinitate VIII, 8,12).

Benedetto XVI: la bellezza, via per trovare Dio

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Benedetto XVI: la bellezza, via per trovare Dio

Catechesi per l’Udienza generale del mercoledì

CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 18 novembre 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato questo mercoledì da Benedetto XVI incontrando i fedeli e i pellegrini nell’Aula Paolo VI per la tradizionale Udienza generale.

Il Pontefice ha incentrato la sua meditazione sulle Cattedrali europee nel Medioevo cristiano.

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Cari fratelli e sorelle!

Nelle catechesi delle scorse settimane ho presentato alcuni aspetti della teologia medievale. Ma la fede cristiana, profondamente radicata negli uomini e nelle donne di quei secoli, non diede origine soltanto a capolavori della letteratura teologica, del pensiero e della fede. Essa ispirò anche una delle creazioni artistiche più elevate della civiltà universale: le cattedrali, vera gloria del Medioevo cristiano. Infatti, per circa tre secoli, a partire dal principio del secolo XI si assistette in Europa a un fervore artistico straordinario. Un antico cronista descrive così l’entusiasmo e la laboriosità di quel tempo: « Accadde che in tutto il mondo, ma specialmente in Italia e nelle Gallie, si incominciasse a ricostruire le chiese, sebbene molte, per essere ancora in buone condizioni, non avessero bisogno di tale restaurazione. Era come una gara tra un popolo e l’altro; si sarebbe creduto che il mondo, scuotendosi di dosso i vecchi cenci, volesse rivestirsi dappertutto della bianca veste di nuove chiese. Insomma, quasi tutte le chiese cattedrali, un gran numero di chiese monastiche, e perfino oratori di villaggio, furono allora restaurati dai fedeli » (Rodolfo il Glabro, Historiarum 3,4).

Vari fattori contribuirono a questa rinascita dell’architettura religiosa. Anzitutto, condizioni storiche più favorevoli, come una maggiore sicurezza politica, accompagnata da un costante aumento della popolazione e dal progressivo sviluppo delle città, degli scambi e della ricchezza. Inoltre, gli architetti individuavano soluzioni tecniche sempre più elaborate per aumentare le dimensioni degli edifici, assicurandone allo stesso tempo la saldezza e la maestosità. Fu però principalmente grazie all’ardore e allo zelo spirituale del monachesimo in piena espansione che vennero innalzate chiese abbaziali, dove la liturgia poteva essere celebrata con dignità e solennità, e i fedeli potevano sostare in preghiera, attratti dalla venerazione delle reliquie dei santi, mèta di incessanti pellegrinaggi. Nacquero così le chiese e le cattedrali romaniche, caratterizzate dallo sviluppo longitudinale, in lunghezza, delle navate per accogliere numerosi fedeli; chiese molto solide, con muri spessi, volte in pietra e linee semplici ed essenziali. Una novità è rappresentata dall’introduzione delle sculture. Essendo le chiese romaniche il luogo della preghiera monastica e del culto dei fedeli, gli scultori, più che preoccuparsi della perfezione tecnica, curarono soprattutto la finalità educativa. Poiché bisognava suscitare nelle anime impressioni forti, sentimenti che potessero incitare a fuggire il vizio, il male, e a praticare la virtù, il bene, il tema ricorrente era la rappresentazione di Cristo come giudice universale, circondato dai personaggi dell’Apocalisse. Sono in genere i portali delle chiese romaniche a offrire questa raffigurazione, per sottolineare che Cristo è la Porta che conduce al Cielo. I fedeli, oltrepassando la soglia dell’edificio sacro, entrano in un tempo e in uno spazio differenti da quelli della vita ordinaria. Oltre il portale della chiesa, i credenti in Cristo, sovrano, giusto e misericordioso, nell’intenzione degli artisti potevano gustare un anticipo della beatitudine eterna nella celebrazione della liturgia e negli atti di pietà svolti all’interno dell’edificio sacro.

Nel secoli XII e XIII, a partire dal nord della Francia, si diffuse un altro tipo di architettura nella costruzione degli edifici sacri, quella gotica, con due caratteristiche nuove rispetto al romanico, e cioè lo slancio verticale e la luminosità. Le cattedrali gotiche mostravano una sintesi di fede e di arte armoniosamente espressa attraverso il linguaggio universale e affascinante della bellezza, che ancor oggi suscita stupore. Grazie all’introduzione delle volte a sesto acuto, che poggiavano su robusti pilastri, fu possibile innalzarne notevolmente l’altezza. Lo slancio verso l’alto voleva invitare alla preghiera ed era esso stesso una preghiera. La cattedrale gotica intendeva tradurre così, nelle sue linee architettoniche, l’anelito delle anime verso Dio. Inoltre, con le nuove soluzioni tecniche adottate, i muri perimetrali potevano essere traforati e abbelliti da vetrate policrome. In altre parole, le finestre diventavano grandi immagini luminose, molto adatte ad istruire il popolo nella fede. In esse – scena per scena – venivano narrati la vita di un santo, una parabola, o altri eventi biblici. Dalle vetrate dipinte una cascata di luce si riversava sui fedeli per narrare loro la storia della salvezza e coinvolgerli in questa storia.

Un altro pregio delle cattedrali gotiche è costituito dal fatto che alla loro costruzione e alla loro decorazione, in modo differente ma corale, partecipava tutta la comunità cristiana e civile; partecipavano gli umili e i potenti, gli analfabeti e i dotti, perché in questa casa comune tutti i credenti erano istruiti nella fede. La scultura gotica ha fatto delle cattedrali una « Bibbia di pietra », rappresentando gli episodi del Vangelo e illustrando i contenuti dell’anno liturgico, dalla Natività alla Glorificazione del Signore. In quei secoli, inoltre, si diffondeva sempre di più la percezione dell’umanità del Signore, e i patimenti della sua Passione venivano rappresentati in modo realistico: il Cristo sofferente (Christus patiens) divenne un’immagine amata da tutti, ed atta a ispirare pietà e pentimento per i peccati. Né mancavano i personaggi dell’Antico Testamento, la cui storia divenne in tal modo familiare ai fedeli che frequentavano le cattedrali come parte dell’unica, comune storia di salvezza. Con i suoi volti pieni di bellezza, di dolcezza, di intelligenza, la scultura gotica del secolo XIII rivela una pietà felice e serena, che si compiace di effondere una devozione sentita e filiale verso la Madre di Dio, vista a volte come una giovane donna, sorridente e materna, e principalmente rappresentata come la sovrana del cielo e della terra, potente e misericordiosa. I fedeli che affollavano le cattedrali gotiche amavano trovarvi anche espressioni artistiche che ricordassero i santi, modelli di vita cristiana e intercessori presso Dio. E non mancarono le manifestazioni « laiche » dell’esistenza; ecco allora apparire, qua e là, rappresentazioni del lavoro dei campi, delle scienze e delle arti. Tutto era orientato e offerto a Dio nel luogo in cui si celebrava la liturgia. Possiamo comprendere meglio il senso che veniva attribuito a una cattedrale gotica, considerando il testo dell’iscrizione incisa sul portale centrale di Saint-Denis, a Parigi: « Passante, che vuoi lodare la bellezza di queste porte, non lasciarti abbagliare né dall’oro, né dalla magnificenza, ma piuttosto dal faticoso lavoro. Qui brilla un’opera famosa, ma voglia il cielo che quest’opera famosa che brilla faccia splendere gli spiriti, affinché con le verità luminose s’incamminino verso la vera luce, dove il Cristo è la vera porta ».

Cari fratelli e sorelle, mi piace ora sottolineare due elementi dell’arte romanica e gotica utili anche per noi. Il primo: i capolavori artistici nati in Europa nei secoli passati sono incomprensibili se non si tiene conto dell’anima religiosa che li ha ispirati. Un artista, che ha testimoniato sempre l’incontro tra estetica e fede, Marc Chagall, ha scritto che « i pittori per secoli hanno intinto il loro pennello in quell’alfabeto colorato che era la Bibbia ». Quando la fede, in modo particolare celebrata nella liturgia, incontra l’arte, si crea una sintonia profonda, perché entrambe possono e vogliono parlare di Dio, rendendo visibile l’Invisibile. Vorrei condividere questo nell’incontro con gli artisti del 21 novembre, rinnovando ad essi quella proposta di amicizia tra la spiritualità cristiana e l’arte, auspicata dai miei venerati Predecessori, in particolare dai Servi di Dio Paolo VI e Giovanni Paolo II. Il secondo elemento: la forza dello stile romanico e lo splendore delle cattedrali gotiche ci rammentano che la via pulchritudinis, la via della bellezza, è un percorso privilegiato e affascinante per avvicinarsi al Mistero di Dio. Che cos’è la bellezza, che scrittori, poeti, musicisti, artisti contemplano e traducono nel loro linguaggio, se non il riflesso dello splendore del Verbo eterno fatto carne? Afferma sant’Agostino: « Interroga la bellezza della terra, interroga la bellezza del mare, interroga la bellezza dell’aria diffusa e soffusa. Interroga la bellezza del cielo, interroga l’ordine delle stelle, interroga il sole, che col suo splendore rischiara il giorno; interroga la luna, che col suo chiarore modera le tenebre della notte. Interroga le fiere che si muovono nell’acqua, che camminano sulla terra, che volano nell’aria: anime che si nascondono, corpi che si mostrano; visibile che si fa guidare, invisibile che guida. Interrogali! Tutti ti risponderanno: Guardaci: siamo belli! La loro bellezza li fa conoscere. Questa bellezza mutevole chi l’ha creata, se non la Bellezza Immutabile? » (Sermo CCXLI, 2: PL 38, 1134).

Cari fratelli e sorelle, ci aiuti il Signore a riscoprire la via della bellezza come uno degli itinerari, forse il più attraente ed affascinante, per giungere ad incontrare ed amare Dio.

[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]

Rivolgo ora un cordiale saluto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, sono lieto di rivolgere il mio benvenuto ai Signori Cardinali, ai Vescovi e a tutti i membri dell’Assemblea Plenaria della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, presieduta dal Cardinale Ivan Dias. La vostra presenza mi offre l’opportunità di rinnovare a ciascuno l’espressione della mia viva gratitudine per il generoso impegno con il quale operate a favore della diffusione del messaggio evangelico. Affido alla protezione di Maria Santissima, Regina degli Apostoli, questa vostra Plenaria, invocando la sua materna assistenza su quanti sono coinvolti nell’azione missionaria in ogni angolo della terra. Saluto i sacerdoti dell’Arcidiocesi di Taranto, accompagnati dal loro Pastore Mons. Benigno Papa, e li esorto a cercare con sollecitudine « le cose di lassù » (Col, 3,1) per essere testimoni sempre più credibili del primato di Dio. Saluto i rappresentanti della Federazione Italiana degli Addetti al Culto ed esprimo il mio cordiale compiacimento per l’opera importante che essi svolgono nella preparazione e nella cura degli spazi liturgici, come pure dei Beni culturali custoditi nelle chiese.

Saluto, infine, i giovani, i malati e gli sposi novelli. Nell’odierna Liturgia celebriamo la Dedicazione della Basilica di San Pietro in Vaticano e di quella di San Paolo sulla via Ostiense. Questa festa ci offre l’occasione di porre in luce il significato ed il valore della Chiesa. Cari giovani, amate la Chiesa e cooperate con entusiasmo alla sua edificazione. Cari malati, vivete l’offerta della vostra sofferenza come un contributo prezioso alla crescita spirituale delle comunità cristiane. E voi, cari sposi novelli, siate nel mondo un segno vivo dell’amore di Cristo.

Dopodomani si terrà presso le Nazioni Unite la Giornata Mondiale di Preghiera e di Azione per i Bambini, in occasione del 20° anniversario dell’adozione della Convenzione sui diritti del fanciullo. Il mio pensiero va a tutti i bambini del mondo, specialmente a quanti vivono in condizioni difficili e soffrono a causa della violenza, degli abusi, della malattia, della guerra o della fame.

Vi invito ad unirvi alla mia preghiera e, al tempo stesso, faccio appello alla Comunità internazionale affinchè si moltiplichino gli sforzi per offrire un’adeguata risposta ai drammatici problemi dell’infanzia. Non manchi il generoso impegno di tutti affinchè siano riconosciuti i diritti dei fanciulli e rispettata sempre più la loro dignità.

Benedetto XVI e il contributo dell’Ordine di Cluny alla vita monastica

dal sito:

http://www.zenit.org/article-20280?l=italian

Benedetto XVI e il contributo dell’Ordine di Cluny alla vita monastica

Catechesi per l’Udienza generale del mercoledì

CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 11 novembre 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato questo mercoledì da Benedetto XVI nell’incontrare i fedeli e i pellegrini nell’Aula Paolo VI per la tradizionale Udienza generale.

Nella sua catechesi, il Papa, continuando a parlare dello sviluppo della teologia nel XII secolo, si è soffermato sul contributo al rinnovamento della vita monastica dato dall’Ordine di Cluny.

* * *

Cari fratelli e sorelle,

questa mattina vorrei parlarvi di un movimento monastico che ebbe grande importanza nei secoli del Medioevo, e di cui ho già fatto cenno in precedenti catechesi. Si tratta dell’Ordine di Cluny, che, all’inizio del XII secolo, momento della sua massima espansione, contava quasi 1200 monasteri: una cifra veramente impressionante! A Cluny, proprio 1100 anni fa, nel 910, fu fondato un monastero posto sotto la guida dell’abate Bernone, in seguito alla donazione di Guglielmo il Pio, Duca di Aquitania. In quel momento il monachesimo occidentale, fiorito qualche secolo prima con san Benedetto, era molto decaduto per diverse cause: le instabili condizioni politiche e sociali dovute alle continue invasioni e devastazioni di popoli non integrati nel tessuto europeo, la povertà diffusa e soprattutto la dipendenza delle abbazie dai signori locali, che controllavano tutto ciò che apparteneva ai territori di loro competenza. In tale contesto, Cluny rappresentò l’anima di un profondo rinnovamento della vita monastica, per ricondurla alla sua ispirazione originaria.

A Cluny venne ripristinata l’osservanza della Regola di san Benedetto con alcuni adattamenti già introdotti da altri riformatori. Soprattutto si volle garantire il ruolo centrale che deve occupare la Liturgia nella vita cristiana. I monaci cluniacensi si dedicavano con amore e grande cura alla celebrazione delle Ore liturgiche, al canto dei Salmi, a processioni tanto devote quanto solenni e, soprattutto, alla celebrazione della Santa Messa. Promossero la musica sacra; vollero che l’architettura e l’arte contribuissero alla bellezza e alla solennità dei riti; arricchirono il calendario liturgico di celebrazioni speciali come, ad esempio, all’inizio di novembre, la Commemorazione dei fedeli defunti, che anche noi abbiamo da poco celebrato; incrementarono il culto della Vergine Maria. Fu riservata tanta importanza alla liturgia, perché i monaci di Cluny erano convinti che essa fosse partecipazione alla liturgia del Cielo. Ed i monaci si sentivano responsabili di intercedere presso l’altare di Dio per i vivi e per i defunti, dato che moltissimi fedeli chiedevano loro con insistenza di essere ricordati nella preghiera. Del resto, proprio con questo scopo Guglielmo il Pio aveva voluto la nascita dell’Abbazia di Cluny. Nell’antico documento, che ne attesta la fondazione, leggiamo: « Stabilisco con questo dono che a Cluny sia costruito un monastero di regolari in onore dei santi apostoli Pietro e Paolo, e che ivi si raccolgano monaci che vivono secondo la Regola di san Benedetto (…) che lì un venerabile asilo di preghiera con voti e suppliche sia frequentato, e si ricerchi e si brami con ogni desiderio e intimo ardore la vita celeste, e assiduamente orazioni, invocazioni e suppliche siano dirette al Signore ». Per custodire ed alimentare questo clima di preghiera, la regola cluniancense accentuò l’importanza del silenzio, alla cui disciplina i monaci si sottoponevano volentieri, convinti che la purezza delle virtù, a cui aspiravano, richiedeva un intimo e costante raccoglimento. Non meraviglia che ben presto una fama di santità avvolse il monastero di Cluny, e che molte altre comunità monastiche decisero di seguire le sue consuetudini. Molti principi e Papi chiesero agli abati di Cluny di diffondere la loro riforma, sicché in poco tempo si estese una fitta rete di monasteri legati a Cluny o con veri e propri vincoli giuridici o con una sorta di affiliazione carismatica. Si andava così delineando un’Europa dello spirito nelle varie regioni della Francia, in Italia, in Spagna, in Germania, in Ungheria.

Il successo di Cluny fu assicurato anzitutto dalla spiritualità elevata che vi si coltivava, ma anche da alcune altre condizioni che ne favorirono lo sviluppo. A differenza di quanto era avvenuto fino ad allora, il monastero di Cluny e le comunità da esso dipendenti furono riconosciuti esenti dalla giurisdizione dei Vescovi locali e sottoposti direttamente a quella del Romano Pontefice. Ciò comportava un legame speciale con la sede di Pietro e, grazie proprio alla protezione e all’incoraggiamento dei Pontefici, gli ideali di purezza e di fedeltà, che la riforma cluniacense intendeva perseguire, poterono diffondersi rapidamente. Inoltre, gli abati venivano eletti senza alcuna ingerenza da parte delle autorità civili, diversamente da quello che avveniva in altri luoghi. Persone veramente degne si succedettero alla guida di Cluny e delle numerose comunità monastiche dipendenti: l’abate Oddone di Cluny, di cui ho parlato in una Catechesi di due mesi fa, e altre grandi personalità, come Emardo, Maiolo, Odilone e soprattutto Ugo il Grande, i quali svolsero il loro servizio per lunghi periodi, assicurando stabilità alla riforma intrapresa e alla sua diffusione. Oltre a Oddone, sono venerati come santi Maiolo, Odilone e Ugo.

La riforma cluniacense ebbe effetti positivi non solo nella purificazione e nel risveglio della vita monastica, bensì anche nella vita della Chiesa universale. Infatti, l’aspirazione alla perfezione evangelica rappresentò uno stimolo a combattere due gravi mali che affliggevano la Chiesa di quel periodo: la simonia, cioè l’acquisizione di cariche pastorali dietro compenso, e l’immoralità del clero secolare. Gli abati di Cluny con la loro autorevolezza spirituale, i monaci cluniacensi che divennero Vescovi, alcuni di loro persino Papi, furono protagonisti di tale imponente azione di rinnovamento spirituale. E i frutti non mancarono: il celibato dei sacerdoti tornò a essere stimato e vissuto, e nell’assunzione degli uffici ecclesiastici vennero introdotte procedure più trasparenti.

Significativi pure i benefici apportati alla società dai monasteri ispirati alla riforma cluniacense. In un’epoca in cui solo le istituzioni ecclesiastiche provvedevano agli indigenti fu praticata con impegno la carità. In tutte le case, l’elemosiniere era tenuto a ospitare i viandanti e i pellegrini bisognosi, i preti e i religiosi in viaggio, e soprattutto i poveri che venivano a chiedere cibo e tetto per qualche giorno. Non meno importanti furono altre due istituzioni, tipiche della civiltà medioevale, promosse da Cluny: le cosiddette « tregue di Dio » e la « pace di Dio ». In un’epoca fortemente segnata dalla violenza e dallo spirito di vendetta, con le « tregue di Dio » venivano assicurati lunghi periodi di non belligeranza, in occasione di determinate feste religiose e di alcuni giorni della settimana. Con « la pace di Dio » si chiedeva, sotto la pena di una censura canonica, di rispettare le persone inermi e i luoghi sacri.

Nella coscienza dei popoli dell’Europa si incrementava così quel processo di lunga gestazione, che avrebbe portato a riconoscere, in modo sempre più chiaro, due elementi fondamentali per la costruzione della società, e cioè il valore della persona umana e il bene primario della pace. Inoltre, come accadeva per le altre fondazioni monastiche, i monasteri cluniacensi disponevano di ampie proprietà che, messe diligentemente a frutto, contribuirono allo sviluppo dell’economia. Accanto al lavoro manuale, non mancarono neppure alcune tipiche attività culturali del monachesimo medioevale come le scuole per i bambini, l’allestimento delle biblioteche, gli scriptoria per la trascrizione dei libri.

In tal modo, mille anni fa, quando era in pieno svolgimento il processo di formazione dell’identità europea, l’esperienza cluniacense, diffusa in vaste regioni del continente europeo, ha apportato il suo contributo importante e prezioso. Ha richiamato il primato dei beni dello spirito; ha tenuto desta la tensione verso le cose di Dio; ha ispirato e favorito iniziative e istituzioni per la promozione dei valori umani; ha educato ad uno spirito di pace. Cari fratelli e sorelle, preghiamo perché tutti coloro che hanno a cuore un autentico umanesimo e il futuro dell’Europa sappiano riscoprire, apprezzare e difendere il ricco patrimonio culturale e religioso di questi secoli.  

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