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CARLO MARIA MARTINI – ESERCIZI SPIRITUALI CON IL PADRE NOSTRO – I MEDITAZIONE

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CARLO MARIA MARTINI

NON SPRECATE PAROLE

ESERCIZI SPIRITUALI CON IL PADRE NOSTRO

I MEDITAZIONE

I contesti evangelici del Padre Nostro

La prima meditazione che vi propongo sarà piuttosto breve, direi introduttiva e anche un po’ esegetica, formale, pur restando valido quanto abbiamo detto. La dividerò in tre parti.
Una prima parte di lectio, dove ci fermeremo sui versetti di Lc 11 e di Mt 6 riferiti al Padre Nostro.
Poi una seconda parte di meditatio, in cui proporrò qualche riflessione sintetica sui contesti del Padre Nostro, sull’occasione in cui viene insegnato. Per concludere con una contemplatio nella quale vorrei mettere a fuoco quali atteggiamenti ci sono suggeriti per questi giorni dai brani evangelici.
Sappiamo che i vangeli in cui il Padre Nostro è riportato sono due. E c’è da stupirsi, perché vorremmo che fossero tre, vorremmo che pure in Marco ci fosse il Padre Nostro. Gli esegeti discutono se non l’ha riferito perché non lo conosceva oppure perché non era preoccupato di tramandare tutte le parole di Gesù.

Il Padre Nostro nel vangelo di Luca
Leggiamo anzitutto Lc 11. Il contesto in cui il Padre Nostro viene insegnato si situa durante il viaggio di Gesù a Gerusalemme che inizia in 9,51, quindi già abbastanza avanti nella sua biografia. Ricordiamo che a Gerusalemme c’è una tradizione, testimoniata dalla basilica del Pater noster, secondo cui la preghiera sarebbe stata insegnata là, sul monte degli Ulivi, verso la fine della vita di Gesù. In ogni caso, per Luca l’insegnamento del Padre Nostro è tardivo.
- «Un giorno Gesù si trovava in un luogo a pregare» (11, 1a). Questo è avvenuto molte volte nella vita di Gesù: per esempio la notte precedente la scelta dei dodici apostoli (cf Lc 6, 12); la notte seguente la moltiplicazione dei pani, sempre presso il lago («Salì sul monte, solo, a pregare» – Mt 14,23); la mattina dell’inizio del suo ministero a Cafarnao, quando si alza presto e va in un luogo appartato a pregare («Al mattino si alzò quando era ancora buio e, uscito di casa, si ritirò in un luogo deserto e là pregava» – Mc 1,35); al Getsemani, sul Tabor e in altre circostanze ancora.
- E proprio in una di queste occasioni, «quando ebbe finito» – nessuno ha voluto interromperlo, vedendolo molto raccolto e concentrato – «uno dei discepoli gli disse: « Signore, insegnaci a pregare »» (11, 1b).
È interessante che la domanda sia posta da uno dei discepoli, non da tutti e non da un discepolo qualificato come Pietro o Giacomo o Giovanni. Egli esprime il desiderio comune, che gli altri non osavano manifestare.
- E continua: «Come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli» (11,1c). Noi non sappiamo nulla della preghiera insegnata dal Battista ai suoi discepoli, ma è probabile che egli, come avveniva nella comunità di Qumran, desse indicazioni in proposito. Qui comunque si suppone che il Battista insegnava a pregare.
Non è facile capire che cosa il discepolo chiedeva veramente. Potremmo rivolgerci a lui e domandargli: spiegaci che cosa volevi. Volevi che Gesù ti insegnasse con quale contenuto bisogna pregare? Lo si dedurrebbe dalla risposta; e tuttavia ci stupisce, perché di contenuti gli Ebrei ne avevano già tanti, basti pensare all’immensa ricchezza dei salmi. Oppure la tua domanda era sul modo di pregare, quel modo che Gesù indica in Mt 6, 6: «Quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto»?
Era dunque sull’atteggiamento esteriore: in ginocchio, con gli occhi chiusi, in un luogo appartato?
Oppure era sull’atteggiamento interiore, che sviluppa distesamente Luca quando raccomanda la perseveranza dell’ orazione (11,5-8) e afferma: «Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete» (v. 9)?
Quale delle tre ipotesi interpreta la richiesta del discepolo? Probabilmente tutte e tre. In ogni caso Gesù prende la domanda come riferita al contenuto.
- «Ed egli disse loro: « Quando pregate, dite: Padre, sia santificato il tuo nome, / venga il tuo Regno; / dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano, / e perdonaci i nostri peccati, / perché anche noi perdoniamo ogni nostro debitore, / e non ci indurre in tentazione» (11,2-4).
L’istruzione viene poi prolungata nel riferimento all’ atteggiamento interiore con cui pregare, piuttosto ampio mentre la preghiera è di per sé brevissima – tre versetti, cinque domande espresse in modo lapidario.
Cerchiamo di capire le parole di Gesù.
- Comincia da un esempio concreto: «Poi aggiunse: « Se uno di voi ha un amico e va da lui a mezzanotte a dirgli: Amico, prestami tre pani, perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da mettergli davanti, e se quegli dall’ interno gli risponde: Non m’importunare, la porta è già chiusa e i miei bambini sono a letto con me, non posso alzarmi per darteli; vi dico che, se anche non si alzèrà a darglieli per amicizia, si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono almeno per la sua insistenza »» (vv. 5-8). È un esempio concreto più lungo del Padre Nostro.
Gesù passa quindi all’esortazione diretta, triplice: «Ebbene, io vi dico: Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chi chiede ottiene, chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto» (vv. 9-10).
E ancora un esempio molto incisivo: «Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà al posto del pesce una serpe? O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione?» (vv. 11-12).
Infine la conclusione: «Se dunque voi, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito santo a coloro che glielo chiedono!» (v. 13). È interessante che non sia ripresa nessuna delle domande del Padre Nostro, ma si parla dello Spirito santo. Forse per questo una variante di manoscritti molto antichi aggiunge, dopo la richiesta del pane quotidiano: «Il tuo Spirito santo venga su di noi e ci purifichi».
Gesù inizia da un contesto concreto, dalla sua preghiera, e risponde a una domanda, prima con un contenuto, poi esplicando a lungo gli atteggiamenti di perseveranza instancabile nell’ orazione. Atteggiamenti di perseveranza che saranno ripresi anche altrove nel vangelo secondo Luca, come nella parabola del giudice iniquo e della vedova importuna: «Disse loro una parabola stilla necessità di pregare sempre, senza stancarsi: « C’era in una città un giudice, che non temeva Dio e non aveva riguardo per nessuno. In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: Fammi giustizia contro il mio avversario. Per un certo tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: Anche se non temo Dio e non ho rispetto di nessuno, poiché questa vedova è così molesta le farò giustizia, perché non venga continuamente a importunarmi. E il Signore soggiunse: Avete udito ciò che dice il giudice disonesto. E Dio non farà giustizia ai suoi eletti che gridano giorno e notte verso di lui, e li farà a lungo aspettare? Vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra? »» (18,1-8). È questo l’atteggiamento di cui Gesù sottolinea l’importanza.

Il Padre Nostro nel vangelo di Matteo
Il contesto matteano del Padre Nostro si colloca nel quadro del Discorso della montagna, che comprende i capitoli da 5 a 7 del vangelo.
Dopo le antitesi del c. 5, Gesù passa, nel c. 6, a descrivere tre atti di culto, di religione: elemosina, preghiera e digiuno. Di ciascuno insiste che non vanno compiuti per essere visti dagli uomini. In tale contesto, a proposito del secondo atto di culto, è inserito il Padre Nostro.
- Anche in questo caso la descrizione è assai ampia. Dapprima Gesù stigmatizza la preghiera per così dire dei religiosi ipocriti del suo popolo: «Quando pregate, non siate simili agli ipocriti che amano pregare stando ritti nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, per essere visti dagli uomini». Segue il giudizio negativo: «In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa» (6,5); a dire: ciò che hanno fatto non serve a niente.
In un secondo momento sottolinea l’atteggiamento positivo: «Tu invece, quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà» (v. 6).
È un’istruzione anzitutto sull’atteggiamento esteriore, e successivamente interiore, della preghiera: nel silenzio, nel raccoglimento, nel nascondimento.
- Riprende quindi l’esortazione riferendosi ai pagani: «Pregando, poi, non sprecate parole come i pagani, i quali credono di essere ascoltati a forza di parole» (v. 7). Accenna probabilmente alle monotone invocazioni nei templi che venivano recitate all’infinito. Ricordo di aver visto in qualche rappresentazione o in qualche film, e anche visitando monasteri o templi orientali, la ruota della preghiera che viene girata ininterrottamente, così che l’invocazione sia sempre ripetuta davanti a Dio.
«Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno ancor prima che gliele chiediate» (v. 8). Viene perciò criticata la preghiera che pretende di far conoscere a Dio ciò di cui abbiamo bisogno. Notiamo che c’è una certa tensione rispetto al passo di Luca che affermava: insistete nella preghiera. Gesù ammonisce: non pensate che la vostra insistenza sia magica.
- Proprio in tale contesto insegna il Padre Nostra «Voi dunque pregate così: Padre nostro che sei nei cieli / sia santificato il tuo nome; / venga il tuo Regno; / sia fatta la tua volontà, / come in cielo così in terra. / Dacci oggi il nostro pane quotidiano, / e rimetti a noi i nostri debiti / come noi li rimettiamo ai nostri debitori, / e non ci indurre in tentazione, / ma liberaci dal male» (vv. 9-13). Preghiera più lunga di quella di Luca che comprende due domande più tre; in Matteo sono tre più tre e addirittura, secondo alcuni, se si calcola l’ultima sdoppiandola, sono tre più quattro cioè sette.
Gesù continua parafrasando la penultima richiesta: «Se voi infatti perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe» (vv. 14-15).

Qualche osservazione esegetica
Passando al momento della meditatio, possiamo domandarci: quale dei due contesti è il più originario? Quale delle due formule la più antica?
- Gli esegeti ritengono – penso con buone ragioni- che il contesto lucano è il più antico: non siamo all’inizio dell’attività pubblica, in un primo discorso programmatico, ma forse già un po’ avanti nel ministero. E si tratta di un’occasione concreta, la preghiera di Gesù, immersa nell’ esperienza vissuta. In Matteo invece l’insegnamento sembra inserito all’interno di un discorso: «Non sprecate parole… ma dite così» (cf 6,7-9).
Riteniamo perciò più probabile il contesto di Luca, pur se la questione non disturba molto l’esegesi.
Anche sull’ antichità della formula si è discusso: è più antica la formula breve o la formula lunga?
Oggi ci si accorda su una specie di compromesso: è più antica la formula breve di Luca, ma è più originaria la formula matteana; Matteo ha parole più arcaiche, Luca ha il contenuto più antico.
Noi useremo dell’una e dell’altra delle formule; mi è sembrato tuttavia utile introdurvi alla complessità della ricerca.
- Gli esegeti fanno inoltre notare che la preghiera in Luca è la terza di tre pericopi successive: la parabola del samaritano – la carità – (10, 29-37); il dialogo con Marta e Maria – l’ascolto della Parola – (10,38-42); la preghiera del Padre Nostro (11,1-4). Quasi a mettere in luce che carità, ascolto della Parola e preghiera sono inscindibili.
- Nel Padre Nostro di Matteo c’è poi una peculiarità interessante. Un’ analisi attenta mostra infatti che il Padre Nostro sta esattamente al centro del Discorso della montagna.
È un insegnamento per noi, perché siamo ammoniti che il Discorso della montagna non lo vive se non chi prega.

Indicazioni per la preghiera
In conclusione, vi suggerisco qualche applicazione per la preghiera personale.
Tutti noi, come il discepolo inno minato, abbiamo detto tante volte: «Signore, insegnaci a pregare!». Che cosa chiedevamo?
- Penso che molta gente, quando pone tale domanda, non di rado desidera anzitutto raggiungere quell’unità interiore, quel raccoglimento, quel possesso di sé, quella gioia di tenersi bene in mano che è caratteristica di una preghiera profonda. Si tratta di atteggiamenti positivi e utili, ma siamo ancora nell’ambito di una preghiera psicologica, tesa a ottenere alcuni benefici: imparare a essere calmo, tranquillo, raccolto, pacificato, coordinato, senza una sarabanda di pensieri che mi frulla per la testa . Di fatto coloro che si dedicano alle pratiche yoga o zen imparano simili cose: il raccoglimento, il dimenticare tutto, l’astrarsi dal mondo esteriore, il concentrarsi su un unico punto, magari sul nulla, l’eliminare ogni pensiero per vivere nella calma più assoluta.
Forse noi pure abbiamo bisogno di tali atteggiamenti per pregare bene. Ci vuole un minimo di concentrazione e unità, proprio perché la preghiera è anche salute psicologica.
- Noi vogliamo tuttavia chiedere a Gesù di insegnarci a pregare nello Spirito, soprattutto di insegnarci la disposizione interiore e quali siano le richieste da presentare.
Spesso quando iniziò la preghiera apro il testo della lettera ai Romani, là dove si dice che nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare (cf 8,26a) e dico: Signore, vedi che non so pregare. Però tu hai promesso lo Spirito in aiuto alla mia debolezza e lo Spirito intercede per me «con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri dello Spirito, perché egli intercede per i credenti secondo i disegni di Dio» (8, 26b-27).
Quindi per me, per noi imparare a pregare vuol dire imparare ad affidarci allo Spirito che ci muove a recitare il Padre Nostro, fino a raggiungere quel bellissimo stato d’animo su cui ho meditato molte volte, in tanti momenti della mia vita: «Non preoccupatevi di come o di che cosa dovrete dire, perché vi sarà suggerito in quel momento ciò che dovrete dire: non siete infatti voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi» (Mt 10,19-20).
- Oltre a questa disposizione fondamentale di abbandono allo Spirito, per il cammino degli esercizi, vorrei suggerirne qualche altra che Gesù ha messo in luce.
Abbiamo visto che ne ha evidenziate soprattutto quattro: il nascondimento, la sobrietà delle parole, la perseveranza e la fiducia filiale.
Pregando davanti a Dio, ognuno può scegliere quale di questi atteggiamenti gli è più necessario.
Certamente è necessaria la fiducia filiale: il Padre non mi lascerà mancare il pane quotidiano quando glielo chiedo.
Altrettanto necessaria è la perseveranza: in questi giorni proveremo fatica, caldo, sonno, nervosismo, aridità. Donaci, Signore, di perseverare!
E naturalmente abbiamo bisogno del nascondimento, perché gli esercizi sono la preghiera nascosta per eccellenza, sconosciuta al mondo e conosciuta solo da Dio.
Abbiamo inoltre bisogno di una certa sobrietà, che consiste non tanto nel pregare poco, bensì nell’imparare una preghiera distesa, non nervosa, che non cerca di forzare Dio, ma si affida amabilmente a Lui.

Semplicità del Natale – Una meditazione da Gerusalemme del cardinale Carlo Maria Martini – Gerusalemme 2006

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Semplicità del Natale

«Il presepio è qualcosa di molto semplice, che tutti i bambini capiscono». Una meditazione da Gerusalemme del cardinale Carlo Maria Martini

del cardinale Carlo Maria Martini sj

Gerusalemme, dicembre 2006

Il presepio è qualcosa di molto semplice, che tutti i bambini capiscono. È composto magari di molte figurine disparate, di diversa grandezza e misura: ma l’essenziale è che tutti in qualche modo tendono e guardano allo stesso punto, alla capanna dove Maria e Giuseppe, con il bue e l’asino, attendono la nascita di Gesù o lo adorano nei primi momenti dopo la sua nascita.
Come il presepio, tutto il mistero del Natale, della nascita di Gesù a Betlemme, è estremamente semplice, e per questo è accompagnato dalla povertà e dalla gioia. Non è facile spiegare razionalmente come le tre cose stiano insieme. Ma cerchiamo di provarci.
Il mistero del Natale è certamente un mistero di povertà e di impoverimento: Cristo, da ricco che era, si fece povero per noi, per farsi simile a noi, per amore nostro e soprattutto per amore dei più poveri.
Tutto qui è povero, semplice e umile, e per questo non è difficile da comprendere per chi ha l’occhio della fede: la fede del bambino, a cui appartiene il Regno dei cieli. Come ha detto Gesù: «Se il tuo occhio è semplice anche il tuo corpo è tutto nella luce» (Mt 6, 22). La semplicità della fede illumina tutta la vita e ci fa accettare con docilità le grandi cose di Dio. La fede nasce dall’amore, è la nuova capacità di sguardo che viene dal sentirsi molto amati da Dio.
Il frutto di tutto ciò si ha nella parola dell’evangelista Giovanni nella sua prima lettera, quando descrive quella che è stata l’esperienza di Maria e di Giuseppe nel presepio: «Abbiamo veduto con i nostri occhi, abbiamo contemplato, toccato con le nostre mani il Verbo della vita, perché la vita si è fatta visibile». E tutto questo è avvenuto perché la nostra gioia sia perfetta. Tutto è dunque per la nostra gioia, per una gioia piena (cfr. 1Gv 1, 1-3). Questa gioia non era solo dei contemporanei di Gesù, ma è anche nostra: anche oggi questo Verbo della vita si rende visibile e tangibile nella nostra vita quotidiana, nel prossimo da amare, nella via della Croce, nella preghiera e nell’eucaristia, in particolare nell’eucaristia di Natale, e ci riempie di gioia.
Povertà, semplicità, gioia: sono parole semplicissime, elementari, ma di cui abbiamo paura e quasi vergogna. Ci sembra che la gioia perfetta non vada bene, perché sono sempre tante le cose per cui preoccuparsi, sono tante le situazioni sbagliate, ingiuste. Come potremmo di fronte a ciò godere di vera gioia? Ma anche la semplicità non va bene, perché sono anche tante le cose di cui diffidare, le cose complicate, difficili da capire, sono tanti gli enigmi della vita: come potremmo di fronte a tutto ciò godere del dono della semplicità? E la povertà non è forse una condizione da combattere e da estirpare dalla terra?
Ma gioia profonda non vuol dire non condividere il dolore per l’ingiustizia, per la fame del mondo, per le tante sofferenze delle persone. Vuol dire semplicemente fidarsi di Dio, sapere che Dio sa tutte queste cose, che ha cura di noi e che susciterà in noi e negli altri quei doni che la storia richiede. Ed è così che nasce lo spirito di povertà: nel fidarsi in tutto di Dio. In Lui noi possiamo godere di una gioia piena, perché abbiamo toccato il Verbo della vita che risana da ogni malattia, povertà, ingiustizia, morte.
Se tutto è in qualche modo così semplice, deve poter essere semplice anche il crederci. Sentiamo spesso dire oggi che credere è difficile in un mondo così, che la fede rischia di naufragare nel mare dell’indifferenza e del relativismo odierno o di essere emarginata dai grandi discorsi scientifici sull’uomo e sul cosmo. Non si può negare che può essere oggi più laborioso mostrare con argomenti razionali la possibilità di credere, in un mondo così.
Ma dobbiamo ricordare la parola di san Paolo: per credere bastano il cuore e la bocca. Quando il cuore, mosso dal tocco dello Spirito datoci in abbondanza (cfr. Rm 5, 5; Gv 3, 34), crede che Dio ha risuscitato dai morti Gesù e la bocca lo proclama, siamo salvi (cfr. Rm 10, 8-12). Tutte le complicazioni, tutti gli approfondimenti che talora ci confondono, tutto ciò che è stato sovrimposto attraverso il pensiero orientale e occidentale, attraverso la teologia e la filosofia, sono riflessioni buone, ma non ci devono far dimenticare che credere è in fondo un gesto semplice, un gesto del cuore che si butta e una parola che proclama: Gesù è risorto, Gesù è Signore! È un atto talmente semplice che non distingue fra dotti e ignoranti, tra persone che hanno compiuto un cammino di purificazione o che devono ancora compierlo. Il Signore è di tutti, è ricco di amore verso tutti coloro che lo invocano.
Giustamente noi cerchiamo di approfondire il mistero della fede, cerchiamo di leggerlo in tutte le pagine della Scrittura, lo abbiamo declinato lungo vie talora tortuose. Ma la fede, ripeto, è semplice, è un atto di abbandono, di fiducia, e dobbiamo ritrovare questa semplicità. Essa illumina tutte le cose e permette di affrontare la complessità della vita senza troppe preoccupazioni o paure.
Per credere non si richiede molto. Ci vuole il dono dello Spirito Santo che egli non fa mancare ai nostri cuori e da parte nostra occorre fare attenzione a pochi segni ben collocati. Guardiamo a ciò che successe accanto al sepolcro vuoto di Gesù: Maria Maddalena diceva con affanno e pianto: «Hanno portato via il Signore e non sappiamo dove l’hanno posto». Pietro entra nel sepolcro, vede le bende e il sudario piegato in un luogo a parte e ancora non capisce. Capisce però l’altro discepolo, più intuitivo e semplice, quello che Gesù amava. Egli «vide e credette», riferisce il Vangelo, perché i piccoli segni presenti nel sepolcro fecero nascere in lui la certezza che il Signore era risorto. Non ha avuto bisogno di un trattato di teologia, non ha scritto migliaia di pagine sull’evento. Ha visto piccoli segni, piccoli come quelli del presepio, ma è stato sufficiente perché il suo cuore era già preparato a comprendere il mistero dell’amore infinito di Dio.
Talora noi siamo alla ricerca di segni complicati, e va anche bene. Ma può bastare poco per credere se il cuore è disponibile e se si dà ascolto allo Spirito che infonde fiducia e gioia nel credere, senso di soddisfazione e di pienezza. Se siamo così semplici e disponibili alla grazia, entriamo nel numero di coloro cui è donato di proclamare quelle verità essenziali che illuminano l’esistenza e ci permettono di toccare con mano il mistero manifestato dal Verbo fatto carne. Sperimentiamo come la gioia perfetta è possibile anche in questo mondo, nonostante le sofferenze e i dolori di ogni giorno.

“Lo Spirito Santo in noi” del card. Carlo Maria Martini

http://www.unitalsi.info/public/web/documenti/620121161741501_SCHEDA.pdf

“Lo Spirito Santo in noi” del card. Carlo Maria Martini

Abbiamo un grande bisogno di te, Spirito Santo, per conoscere la via per la quale camminare.
Ne abbiamo bisogno tutti perché il nostro cuore sia aperto,
inondato dalla tua consolazione,
affinché, al di là delle parole e dei concetti che sentiamo,
noi cogliamo la tua presenza, o Spirito Santo che vivi nella Chiesa,
che vivi dentro di noi, che sei l’ospite permanente
che continuamente modella in noi la figura e la forma di Gesù.
E ci rivolgiamo a te, Maria, Madre della Chiesa,
che hai vissuto la pienezza inebriante dello Spirito santo,
che hai sentito la sua forza in te, che l’hai visto operante nel tuo Figlio Gesù;
apri il nostro cuore e la nostra mente alla sua azione.
Fa’ che tutto ciò che noi pensiamo, facciamo o ascoltiamo,
tutti i gesti e tutte le parole,
non siano se non apertura e disponibilità a questo unico e santo Spirito
che forma la Chiesa nel mondo, che costruisce il Corpo di Cristo nella storia,
che promuove la testimonianza di fede che consola e conforta,
che ci riempie il cuore di fiducia e di pace anche in mezzo alla tribolazioni e difficoltà.
Donaci, Padre, il Santo Spirito; te lo chiediamo insieme con Maria e con tutti i santi
nel nome del tuo Figlio, Gesù Cristo nostro Signore

Publié dans:Cardinale Carlo Maria Martini † |on 3 septembre, 2012 |Pas de commentaires »

Carlo Maria Martini: C’è un momento nell’anno per fermarsi e cercare

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CARLO MARIA MARTINI

RITROVARE SE STESSI

C’è un momento nell’anno per fermarsi e cercare

PREMESSA
Questo libro del Cardinale Carlo Maria Martini Arcivescovo di Milano, è rivolto a chi credente o non, ritenga dimensione inalienabile della propria esperienza umana quell’interiorità che non cessa di interrogarsi e di riflettere.
I credenti vi troveranno nutrimento solido per una meditazione sul proprio itinerario quaresimale, perché la fede possa essere una fede matura, adulta, che si pone domande e insieme sa rendere ragione di se stessa.
Chi non crede, potrà essere invitato a confrontarsi con l’approccio cristiano a tematiche che sono per tutti di bruciante attualità: silenzio e preghiera sono realtà ricercate oggi da molti, comunque si voglia interpretare tale ricerca; la riconciliazione pare drammaticamente quale condizione irrinunciabile per la sopravvivenza delle persone e delle società; e così il riconoscimento, la denuncia e la lotta contro il peccato – sia esso personale, strutturale o ideologico -, cioè contro tutto ciò che in qualunque modo degradi e umili la dignità dell’uomo.

L’AMORE DI DIO PER L’UOMO
Per spiegare chi è Dio occorre riferirsi alla Bibbia, a quell’insieme di libri dell’ Antico e del Nuovo Testamento – scritti nell’ arco di oltre un millennio – che contengono l’unica Parola di Dio e l’esplicitazione del suo disegno di salvezza.
Ovviamente la Scrittura non tratta il problema dell’esistenza di Dio; piuttosto racconta qual è il volto del vero Dio. Non un Dio vendicativo, permaloso, esigente, che richiede dall’uomo ciò che l’uomo non può dare, e nemmeno un Dio lontano, che si disinteressa del mondo. Il Dio della Bibbia è ricco di amore e di misericordia, va in cerca dell’uomo che ha creato e che vuol rendere felice.
La vita, la morte, l’amicizia, il dolore, l’amore, la famiglia, il lavoro, le varie situazioni personali, la solitudine, i segreti movimenti del cuore, i grandi fenomeni sociali ed epocali, tutta questa vita umana ci viene consegnata dalla Parola di Dio scritta nella Bibbia in una luce nuova e vera.
Non a caso la Scrittura è l’insostituibile sorgente culturale della Chiesa, la sua prima espressione culturale privilegiata e perenne, il modulo di riferimento di ogni cambio culturale.
Vorrei quindi presentare il vero volto di Dio nei vangeli di Marco, di Giovanni e di Luca. I vangeli, prima di
essere scritti, si sono tramandati oralmente. Il termine «vangelo», nella versione greca, significa letteralmente «il lieto annunzio» che un messaggero porta, «la buona notizia», e questa buona notizia, portata e predicata da Gesù, è Gesù stesso, si identifica con la persona di Cristo come compimento delle promesse messianiche e intervento definitivo di Dio nella storia.
La designazione di «vangelo» per i manuali scritti da Matteo, Marco, Luca e Giovanni, che ha il suo inizio nel n secolo, vuole indicare la strettissima relazione che essi hanno con il messaggio di Gesù e degli apostoli.

Il mistero di Dio nel vangelo secondo Marco
È interessante riflettere sul mistero di Dio nel vangelo secondo Marco; meglio ancora, vedere quale parte ha il senso di Dio nel cammino che Marco propone al catecumeno, cioè a chi si prepara ad abbracciare la fede.
Anzitutto notiamo quanto, di fatto, si parli poco di Dio in questo vangelo, quanto sembri scarsa l’istruzione su Dio.
Se consideriamo le menzioni, ci accorgiamo che in Marco il nome di Dio occorre 37 volte, contro 46 in Matteo e 108 in Luca.
Lo stesso accade per la menzione di Padre: la parola ricorre 13 volte in Marco, ma appena cinque volte è riferita a Dio, mentre Giovanni ha centinaia di occorrenze del nome di Padre riferite a Dio; perché, evidentemente, una catechesi su Dio Padre fa parte dell’istruzione del cristiano illuminato.
Come mai questo silenzio su Dio? perché se ne parla poco?
Dobbiamo riportarci alla situazione concreta del catecumeno nella Chiesa primitiva. I catecumeni della Chiesa primitiva, soprattutto quelli a cui si rivolge il vangelo di Marco – provenienti in gran parte dal paganesimo -, avevano già un grande senso religioso. Non era loro estraneo il pensiero, la parola, il vocabolo, la menzione continua di Dio; come dice bene san Paolo parlando appunto dei pagani: «Ce ne sono molti che sono detti Dio, sia nel cielo che sulla terra, e ve ne sono molti tenuti per dèi, e molti Signori (kyrioi)..,» (1 Corinzi 8) 5). Tant’è vero che Paolo, entrando in Atene si irrita per la presenza continua di simulacri di divinità e chiama gli Ateniesi estremamente superstiziosi.
Il catecumenato veniva dunque impartito a gente che, in fondo, Dio l’aveva in bocca anche troppo. Il problema non era tanto di educare al senso della divinità, ma di lottare contro una religiosità erronea.
Possiamo subito chiederci: è davvero peggiore la nostra situazione odierna di ateismo diffuso? Forse è più facile parlare del Dio vero in una situazione di ateismo che non in una situazione di superstizione dove il parlarne può essere travisato, stravolto.
Come veniva fatta al catecumeno, allora, l’istruzione su Dio?
Era compiuta probabilmente basandosi in gran parte sull’ Antico Testamento, in particolare sui salmi. Il libro dei Salmi educava il catecumeno al vero senso di Dio e la comunità primitiva – anche di cristiani provenienti dal paganesimo – leggeva sovente e conosceva benissimo i singoli salmi. Lo testimoniano le citazioni frequentissime che ne fa il Nuovo Testamento e che non sarebbero altrimenti spiegabili.
Vogliamo perciò scorrere brevemente i testi principali del vangelo di Marco – una quindicina circa – dove ci sono accenni diretti o indiretti a Dio, così da comprendere gli aspetti che vengono sottolineati perché ritenuti più importanti nel cammino iniziale verso Dio e verso l’intimità con il Signore Gesù.

L’iniziativa misteriosa di Dio
Chi è Dio? È colui che prende una iniziativa misteriosa: «Ecco, io mando il mio angelo davanti a te» (Marco 1,2). Dio non è nominato, ma è colui che prende una iniziativa misteriosa, non ben definita; qualcosa sta per succedere; Dio in qualche maniera ci viene incontro.
Egli è il Dio che viene. «Preparate la via del Signore» (1,3): Dio sta venendo. Questa indicazione, chiara e misteriosa insieme, su Dio che si muove di sua iniziativa verso noi, riappare più avanti: «(Gesù) vide aprirsi i cieli…» (1, 10). Il Padre che è nei cieli si fa presente alla nostra realtà, alla nostra esperienza, si mette in comunicazione con noi dal cielo.
E comunica con noi attraverso il Figlio: «Tu sei il Figlio mio prediletto, in te mi sono compiaciuto» (1, 11). E nel Figlio che noi capiremo qualcosa dell’inconoscibile mistero di Dio. Dio appare come mistero inconoscibile che, a un certo punto, prende una iniziativa misteriosa nei nostri confronti e ci viene vicino per scuoterci. Non è molto; ma è detto tutto ciò che può suscitare un senso di attesa, di preparazione.
Il catecumeno non è invitato a dire subito: «Dio è qui, Dio è questo o quello»; bensì a comprendere che Dio è colui che sta per prendere possesso della sua vita e gli va incontro con una misteriosa iniziativa.

Un Dio che perdona
«Gesù viene in Galilea predicando il Vangelo di Dio» (1,14); indirettamente sappiamo che Dio è il Dio del Vangelo.
«Si è avvicinato il Regno di Dio» (1, 15); Dio è il Dio del Regno. Si tratta di due indicazioni assai importanti: Dio ti porta una buona notizia la quale sta per cambiare la tua situazione; Dio sta per mettere le cose a posto, misteriosamente.
Dio quindi è colui che entra nella tua vita con un messaggio sconvolgente, pieno di letizia, e che viene a riordinare le cose della tua vita. Non si sa ancora ciò che Dio vuole, ma ci si prepara in piena disponibilità a una novità misteriosa che deve entrare nel nostro intimo.
Un altro accenno misterioso, del tutto indiretto, l’abbiamo più avanti: «Gesù al mattino si alzò quando ancora era buio e, uscito di casa, si ritirò in un luogo deserto e là pregava» (1,35). Dio è colui che il Cristo prega. Gesù, presentato come Figlio modello, è in misteriosa unione con Dio; e noi, pur senza sapere molto di più, ci troviamo immersi in un’ atmosfera di attesa, rispetto, riverenza, tensione per il mistero di Dio che, in Cristo, ci si sta rivelando.
Ancora, nel capitolo seguente: «…Chi può perdonare i peccati se non Dio solo?» (2, 7). La frase è proferita dagli avversari, ma serve per sottolineare che Dio è colui che può perdonare.
Da questi pochi accenni vediamo che viene operato un rovesciamento della mentalità pagana, per la quale Dio era l’essere a disposizione dell’uomo, sul quale l’uomo poteva mettere le mani, farselo propizio, chiedendo e ottenendo da Lui ciò che voleva; un Dio di fronte al quale l’uomo era in stato di attività manipolatrice.
Ora, invece, l’uomo è posto in stato di totale passività, di attesa, ascolto, riverenza, rispetto. E Dio che sta per fare, sta per mettere in opera il suo Regno.
Noi dobbiamo umilmente ascoltare senza capire, essere pronti ad andare là dove Egli ci vuole portare.
Dal capitolo 2 in avanti sono pochissime le menzioni su Dio perché è in opera Gesù, che si accinge a rivelarne il mistero nella sua persona; di conseguenza la catechesi su Dio non appare in primo piano. Una volta che l’uomo si è reso disponibile, incomincia la via della sequela del Figlio, che ci permette di purificarci da un falso modo di comprendere Dio, per arrivare a conoscerlo nella verità.

Un Dio buono e fedele
Ci sono, tuttavia, nei capitoli 11, 12, 13 del vangelo di Marco quattro menzioni di Dio che ricalcano temi biblico-anticotestamentari.
Esse ci permettono di constatare che nel vangelo marciano non si perdevano di vista alcuni temi fondamentali, quali punti di partenza per una catechesi del «Dio di nostro Signore Gesù Cristo».
Il primo tema fondamentale lo leggiamo nella risposta di Gesù: «Nessuno è buono se non Dio» (lO) 18), che rivela al catecumeno la bontà di Dio, l’unico buono da amare «con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente e con tutte le forze» come è detto in 12, 30.
Un altro passo di catechesi anticotestamentaria lo ritroviamo nel capitolo seguente: l’esortazione o indicazione: «abbiate fede in Dio» (11, 22). Notiamo che il testo greco è assai più misterioso perché dice: échete pistin Theou; cioè, capovolge la questione: chi è Dio? E colui che merita fede e fiducia, colui che merita totale abbandono: il catecumeno deve abbandonarsi al mistero di Dio che vuole agire in lui.
Ancora, un accenno anticotestamentario è nel capitolo 13; il Dio della creazione è ricordato in maniera molto indiretta: «Dall’inizio della creazione fino al giorno d’oggi» (13, 19).
I temi biblici del Dio Unico, Buono, Fedele, Creatore, Realtà suprema da amare, erano allora molto presenti; Marco ci dà, infatti, un modello di catechesi per gente che credeva in questi valori. Su di essi è costruita l’idea evangelica del Dio che viene, prende un’iniziativa piena di mistero, del Dio al quale bisogna abbandonarsi e che ci guida per mezzo del Cristo.

Un Dio a cui tutto è possibile
Infine, due testi basilari e rivelatori dell’identità di Dio in Marco.
Nel capitolo 14 la preghiera: «Abbà, Padre! Tutto ti è possibile, allontana da me questo calice! Non però quello che io voglio, ma quello che tu vuoi» (v. 36).
Il Dio che sta dietro a questa rappresentazione dataci dalle parole di Gesù è colui a cui tutto è possibile (idea anticotestamentaria), il Dio che può allontanare il calice, ma che in realtà non lo fa. E il Dio al quale bisogna rimettersi totalmente perché ha su di noi disposizione completa e ci guida per vie misteriose, come ha guidato il Cristo.
Il catecumeno è invitato a passare da un’idea umanamente prefabbricata di Dio, in cui tutto è predisposto, in cui egli può appoggiarsi e ottenere ciò che vuole, facendo questo o quell’altro atto di culto, a un Dio che misteriosamente interviene e lo conduce con bontà e lo porta là dove Lui vuole attraverso l’iniziativa evangelica di salvezza che per l’uomo è sempre imprevedibile e sconcertante.
L’ultimo testo, in cui Gesù ci parla di Dio, è il più drammatico del vangelo. Sulla croce grida: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (l5) 34). Come mai si chiude con questo brano la serie dei pochi accenni al mistero di Dio in Marco?
Perché in esso abbiamo il culmine della rivelazione: il Dio che viene presentato nel vangelo, a cui tutto è possibile, che ha in mano ogni cosa e al quale noi ci affidiamo totalmente, non è obbligato a fare ciò che noi attendiamo e può anche esteriormente abbandonarci come ha abbandonato il suo Figlio. E chiaro che nelle parole di Gesù c’è pure un forte senso di speranza, tuttavia non bisogna dimenticare che sono parole di abbandono. Dio ha lasciato il Cristo in una situazione di amarezza, di desolazione esteriore, di derelizione umana come se l’avesse effettivamente abbandonato.
Il catecumeno è sollecitato a riflettere attentamente: guarda che la via per cui ti metti non è facile, non è una via in cui Dio ti assicurerà, di successo in successo, una riuscita già da te programmata; ti metti nelle mani di un Dio misterioso che è buono, che vuole di te il meglio, però non a modo tuo.

Il volto di Dio nel vangelo secondo Giovanni

Il punto di partenza e di arrivo della predicazione giovannea .
1. Il punto di partenza della predicazione giovannea lo leggiamo nel Prologo del suo vangelo che, a differenza di quello di Marco, è scritto per il cristiano che ha già compreso il senso della fede, ha già compiuto un cammino di sequela di Gesù. La predicazione di Giovanni è una disciplina spirituale che aiuta a riconoscere le implicazioni serie, derivanti dalla presenza del Verbo tra noi.
Egli infatti ci racconta le origini, ciò che era al principio, che spiega ogni cosa e dà la ragione di tutto quanto esiste. Ci racconta il senso del mondo dovuto a Colui che è il Logos, la Parola, il Verbo di Dio, perché Logos significa anche «senso».
Nel Prologo Giovanni pone in relazione l’origine del mondo con la venuta di Gesù sulla terra: «Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (1, 14), e la sua è la sintesi della penetrazione più alta sul mistero della pre-esistenza di Gesù nel Nuovo Testamento.
Il termine Logos, che fa da protagonista nell’azione del dramma racchiuso nei 18 versetti del Prologo, è davvero disperante, perché ha molteplici significati: la mente, la ragione, il conto della spesa, e molte altre cose disparate. C’è da domandarsi perché mai Giovanni abbia scelto questa parola invece di sceglierne altre più precise. Per esempio, se voleva indicare la «parola di Dio», perché non ha scelto rema, che forse era il termine più adatto per indicare espressamente la parola creativa di Dio? Se voleva indicare la «sapienza», perché non ha scelto sophia o altre parole analoghe? Ci troviamo invece di fronte a una vera e propria ridda di significati; mi sembra tuttavia non inutile prendere in considerazione i principali, senza pretendere di col. locarci sul piano esegetico, bensì su quello della meditazione esistenziale.
Per un greco il significato più evidente, che egli recepiva dal diffuso contesto filosofico, era quello di logos delle cose, cioè la ragione ultima d’essere della realtà.
Gli esegeti, di solito, non insistono su tale significato e sostengono che la derivazione del logos giovanneo sarebbe piuttosto di tipo sapienziale, o in genere anticotestamentaria. Di fatto, però, è impossibile immaginare che un cristiano di Efeso di quel tempo, sentendo parlare del logos in senso assoluto, non pensasse alla ragione ultima delle cose, al perché del mondo, e non cominciasse di qui la sua riflessione.
Elenco, quindi, cinque fondamentali significati: ragione d’essere della realtà; parola creatrice: Dio creò tutto con la parola; sapienza che presiede alla creazione, sapienza ordinatrice; parola illuminante e vivificante; parola rivelatrice: il Figlio di Dio viene tra noi in Gesù (s’incarna) ed è Gesù che rivela il Padre.
Mi sembra che Giovanni veda l’intera serie di questi significati come se fossero ordinatamente infilati l’uno
nell’altro; noi possiamo prenderli in considerazione uno dopo l’altro, in modo da ricostruire il disegno giovanneo.

- Logos è la ragione ultima delle cose, la, ragione ultima della mia esistenza così com’ è in Dio.
E certamente un primo messaggio, forse implicito, ma evidentissimo, da cui si deve partire.
La mia esistenza – e tutta la situazione umana – ha una ragione, ha un significato in Dio.
- Logos è la parola creatrice, e il significato ultimo di tutta la realtà, di tutte le cose, della mia situazione umana, sta nella dipendenza da Dio. Dipendenza da riconoscersi nella lode e nella riverenza. Se la ragione ultima di ogni cosa è una parola creatrice di Dio, il senso di dipendenza totale da Dio, da riconoscersi con riverenza e lode, è il primo atteggiamento sul quale gli altri si posono costruire e senza il quale nessuna disciplina spirituale può essere costruita.
- Logos è la sapienza ordinatrice: presso Dio è la ragione ultima non solo dell’ essere delle cose, ma dell’essere «qui e adesso». Tutte le situazioni dell’esistenza, tutto ciò che gégonen («è avvenuto») e avviene ora, ha un senso nella sapienza ordinatrice di Dio. Questa considerazione è amplissima e chiarificatrice, perché a partire da essa nessuna situazione umana è priva di senso, anche la più strana apparentemente; sia la mia situazione di uomo, sia la situazione dell’umanità e del mondo, sia la situazione della Chiesa: tutto ha un significato nella sapienza ordinatrice di Dio. Se manca tale fiducia, si rimane preda dello spavento che ci prende di fronte all’impressione del disordine illimitato.
- Logos è phos (luce) e zoé (vita). Malgrado le oscurità della situazione presente dell’uomo, malgrado la tragedia umana che ci circonda, malgrado le prove della Chiesa e le situazioni quasi assurde nelle quali si trova il mondo e possiamo trovarci anche noi, esiste al fondo di tutto uri «vangelo», che assicura esserci una ragione luminosa e vivificante di tutte queste cose, se solo sappiamo coglierla e lasciarci trasformare da essa.
- Logos è Gesù Cristo tra noi che ci parla del Padre. Le parole di Gesù, che ascoltiamo nella Scrittura, e la sua stessa realtà personale costituiscono il senso luminoso ed edificante, di tutta l’esperienza umana come noi la percepiamo. E questo lo sfondo sicuro – e necessario su cui si innesta tutta la costruzione successiva. Senza la fiducia di fondo nella sapienza creatrice, che regola le situazioni presenti e si manifesta in Cristo come «vangelo», non c’è speranza di fare meglio, non c’è speranza di cambiare se stessi e non c’è speranza per il mondo. La nostra speranza, infatti, sta tutta nel radicarsi di ogni cosa nella ragione ultima, che è la creazione divina e la presenza tra noi di Gesù Cristo, il quale rivela le parole di Dio e crea una situazione di verità e di grazia nel mondo: Gesù «pieno di grazia e di verità» (1,14).
Questo è dunque l’atteggiamento da assumere di fronte al vangelo di Giovanni: un atteggiamento ispirato al senso che tutto da Dio dipende e a Dio va, e che la nostra azione può inserirsi in maniera sensata, ragionevole, giusta in tale movimento, qualunque sia la nostra condizione presente.
2. Nel desiderio di cogliere il punto di arrivo della predicazione di Giovanni, dobbiamo sapere che nel suo vangelo (che è il vangelo dei simboli, delle similitudini e delle figure), la seconda,parte (capp. 13-21) manifesta la prima (capp. 1-12). E soprattutto nei discorsi dal cap. 13 al cap. 17 -là dove si dice di Gesù: «Adesso non parli più in parabole, non parli più in similitudini» – che dobbiamo cercare e trovare il senso dei segni che precedono. Tra i discorsi prendo come punto di riferimento il testo di Giovanni 15, 15: «Non vi chiamo più servi ma vi ho chiamati amici». Qui viene espresso concretamente il punto di arrivo della disciplina spirituale a cui Giovanni sottopone il discepolo: il Verbo è ricevuto tra noi nell’intimità misteriosa dell’amicizia.
Il termine «amico» è raro nel Nuovo Testamento: lo si usa per indicare situazioni profane della vita. Giovanni è l’unico evangelista che con il termine philos, philein designa il rapporto con Cristo; perciò può essere interessante approfondirne il significato e domandarci quali siano in Giovanni le figure di amici del Signore, che egli concretamente ci mette davanti per mostrare in maniera plastica dove ci vuole condurre.
Ci accorgiamo allora che il quarto vangelo ci presenta una galleria di ritratti di amici del Signore, che approfondiscono ciascuno un aspetto dell’intimità col Verbo tra noi.
Ho individuato soprattutto sei nomi.
- Il primo che ci viene presentato è «l’amico dello sposo», cioè Giovanni Battista (3,29), che gode per la prossimità dello sposo. Gode, pur se non ne vede chiaramente la presenza manifestata, pur se resta fuori dalla porta, perché, come egli afferma, «io devo diminuire e lui crescere» (3,30) C’è qui un aspetto importante dell’amicizia con Gesù, che sarebbe utile paragonare con la figura di Nicodemo. Mentre Nicodemo è tutto preoccupato di sé, della propria situazione, della propria raggiunta rispettabilità, Giovanni è colui che gode perché l’altro si afferma: l’altro cresce e lui diminuisce.
- Il secondo esempio di amicizia è quello dei due discepoli di Giovanni che Gesù accoglie nel suo eremo: «Venite e vedete. Vennero e videro e stettero con lui tutto quel giorno» (1,38 ss.). È un altro aspetto dell’amicizia con Gesù: lo stare con lui, a lungo, volentieri, il godere con lui nella solitudine.
- La terza figura è duplice: Marta e Maria. Ciascuna rivela un aspetto particolare del rapporto dell’ amicizia. Maria (contrariamente a ciò che ci presenta Luca) esprime il servizio amoroso: ella è colei che due volte unge i piedi di Gesù. Marta è quella che gli va incontro familiarmente, gli parla con franchezza e semplicità in un dialogo pieno di ascolto e fiducia.
- La quarta figura è Lazzaro, di cui è detto espressamente: on phileis, «quello che Gesù amava» (11, 3; 11,36), o philos, «l’amico» di Gesù (11, 11). Mentre negli altri casi si può vedere qualche esplicitazione dell’amore per Gesù (Giovanni gli prepara la via, i due discepoli amano stare con lui, Maria lo serve, Marta gli parla familiarmente), in Lazzaro è difficile cogliere quale sia l’aspetto dell’ amicizia che viene sottolineato, perché Lazzaro non fa niente: non parla, non agisce, non si sa chi sia, non ha un carattere preciso. Forse la caratteristica tipica di questa amicizia è data dal fatto che Gesù fa tutto. In fondo il tratto più profondo dell’ amicizia è lasciarsi scegliere: «Non voi avete scelto me ma io ho scelto voi» (15, 16). E si noti che questo testo segue immediatamente il v. 15, che contiene un passo fondamentale sull’amicizia. Lazzaro rappresenta, a mio avviso, la persona che è amata da Gesù perché Gesù così vuole, e che accetta la sua iniziativa.
- La quinta figura, tra tutte preminente, è il discepolo che ascolta e che fa strada: si tratta del «discepolo che Gesù amava», ricordato parecchie volte (13,23; 19,26; 21, 7; 21,20). Una figura che ha nel messaggio del quarto vangelo il valore di un punto di arrivo. Essa ci fa vedere come la strada di accoglienza del mistero dell’Incarnazione ci porti fino a quell’intimità col Signore descritta soprattutto nell’ultima cena e nella scena fina le del vangelo (cap. 21).
- Aggiungiamo, infine, una figura per la quale si usano gli stessi verbi philein e agapan: Pietro.
Nel dialogo del capitolo finale (21, 15 55.) – che è forse il luogo neotestamentario dove sono ripetuti più volte i verbi philein e agapan -, Pietro è immagine dell’amore apostolico (mentre il «discepolo che Gesù amava» è piuttosto il tipo dell’intimità mistica col Signore, colui che ha capito profondamente il mistero del Verbo); cioè dell’amore che, avendo intuito il mistero, si dona al servizio apostolico, al servizio ecclesiale.
Concludendo, Giovanni ci spinge verso l’acquisizione di un’intimità col Signore davvero nuova, un’intimità, un rapporto che dev’essere coltivato, ma che in verità ci è preparato come dono da Dio stesso.

Dio è Padre
li mistero del Dio tra noi, del Verbo fatto carne, delineato da Giovanni si può cogliere facendo appello a tutte le nostre interiori forze di assoluto, di desiderio della trascendenza e di adorazione, che si riassumono nel desiderio di Dio.
A me preme sottolineare il messaggio di Gesù sul Padre perché tutto ciò che Gesù dice in questo vangelo ha un solo oggetto: Dio, il Padre, il Padre suo. A chi accetta che Dio solo è grande, il Figlio rivela il mistero. E quando gli viene chiesto: «Mostraci il Padre!» (14,8), Gesù risponde: «Chi ha visto me ha visto il Padre» (v. 9).
Gesù è presenza del Dio unico e inaccessibile a noi, cioè Dio fatto visibile e messo a nostra disposizione.
Naturalmente queste parole sono estremamente banali per chi non è passato attraverso il crogiolo del perfetto desiderio di Dio: esse rimangono qualcosa di cui non si vede il significato profondo. Ed è per questo che solo Giovanni tra gli evangelisti parla del Verbo fatto carne; gli altri più semplicemente parlano di Gesù uomo, che si mostra Figlio di Dio. Giovanni suppone una religiosità più matura e più pensata, che abbia acquisito il senso dell’ assolutezza.
Quali sono le conseguenze della parola di Gesù: «Chi ha visto me ha visto il Padre»? Le conseguenze sono che Giovanni può dire: «Abbiamo visto la sua gloria, gloria come dell’Unigenito del Padre» (1, 14). Ogni atteggiamento di Gesù, quindi, è rivelazione del Padre.
Possiamo allora contemplare tutta la vita di Gesù adorando il mistero del Dio tra noi, del Dio manifestato. Gesù che accoglie Nicodemo, è il Dio invisibile che ci accoglie come amico. Gesù che ai discepoli i quali gli chiedono: «Dove stai?» risponde fraternamente: «Venite e vedete», è l’Eterno, colui che desideriamo dal più profondo del cuore. Gesù, che trasforma le situazioni umane (l’imbarazzo di Cana come l’incapacità a muoversi del paralitico), è Dio, l’Eterno, il Trascendente, che si ricorda della nostra miseria e ci fa dono liberamente della sua potenza. Gesù che dissipa le tenebre del cieco nato, è Dio che illumina benevolmente il nostro cammino. Insomma Gesù è il «Dio tra noi», e nel suo volto contempliamo l’amabilità di Dio stesso.
Non soltanto Gesù si è fatto uomo, ma Gesù per me si è fatto uomo. Egli ci manifesta il volto del Padre, il volto di Dio – quel Dio che vogliamo vedere – mostrandoci che è Dio per noi, che dà quanto ha di più caro per noi: ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio, e da darlo come vita tra noi.
Qual è il senso della nostra situazione umana rivelatoci da Gesù, che è Dio tra noi e Dio per noi? Che noi siamo amati da Dio. Amati da Dio, qualunque sia l’oscurità e l’insignificanza della nostra situazione presente, malgrado la derelizione nella quale pensiamo di essere. E un messaggio trasformante che, pur non cambiando nulla all’ esterno, cambia in realtà il significato del mio essere: benché mi senta abbandonato e disperso in un mondo senza senso, nel quale sembrano dominare il caso e la necessità, io sono amato da Dio: Dio si dà per me e dà per me quanto ha di più caro. Un messaggio che evidentemente si allarga.
Gesù è non solo Dio tra noi, ma ci chiama a essere noi in lui; ciascuno di noi è amato da Dio, è cercato, è accolto, è chiamato, è desiderato nella sua solitudine, laddove nessuno può aiutarci. Anzi, proprio la situazione umana della derelizione è riscattata dal Dio tra noi e con noi e per noi, ed è resa feconda di comunione tra noi in Gesù. Mi riferisco al testo di Giovanni 11, 51-52: «Gesù viene per radunare i figli di Dio dispersi», cioè per darci il senso di essere amati da lui sia come singoli derelitti sia come gruppo di uomini sbandati e raccolti in unità.
C’è ancora un aspetto del mistero del Verbo fatto uomo per me: il mistero del servizio, su cui ci soffermiamo.

Dio serve l’uomo
Nell’episodio della lavanda dei piedi Gesù rivela, attraverso un gesto, come Dio sia a servizio dell’uomo, ed è questo un mistero paradossale.
«Mentre cenavano, quando già il diavolo aveva messo in cuore a Giuda Iscariota, figlio di Simone, di tradirlo, Gesù sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava, si alzò da tavola, depose le vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse alla vita. Poi versò dell’ acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugatoio di cui si era cinto.
Venne dunque da Simon Pietro e questi gli disse: « Signore, tu lavi i piedi a me? ». Rispose Gesù: « Quello che io faccio, tu ora non lo capisci, ma lo capirai dopo ». Gli disse Simon Pietro: « Non mi laverai mai i piedi! ». Gli rispose Gesù: « Se non ti laverò, non avrai parte con me ». Gli disse Simon Pietro: « Signore, non solo i piedi, ma anche le mani e il capo »» (Giovanni 13,2-9).
1. «Mentre cenavano». Giovanni non dice se si tratta di una cena pasquale: gli basta aver sottolineato che l’episodio si svolge durante una cena familiare, semplice, spontanea, amicale. La cena evoca l’atmosfera di fiducia, di intimità, di pace; ci si trova insieme perché ci si vuol bene e si desidera vivere un momento di serenità attorno a una tavola.
2. «Quando già il diavolo aveva messo in cuore a Giuda Iscariota, figlio di Simone, di tradirlo».
Alla circostanza esteriore di serenità, fa da contrasto la menzione dell’inimicizia presente in quella scena di pace e di fiducia. Inimicizia significata dal diavolo e da Giuda. Il diavolo è colui di cui l’evangelista Giovanni ha già parlato molte volte chiamandolo «mentitore e omicida fin dal principio», colui che divide, mette contro, fa pensar male. E questo principio maligno è già entrato nel cuore di Giuda suscitando il desiderio, la scelta, la decisione di tradire Gesù.
Giuda è uno dei Dodici, un apostolo chiamato, privilegiato, amato dal maestro che gli ha dato ampiamente fiducia. Perché ci viene presentata una circostanza tanto dolorosa della cena? E vero che questo fatto non sarà più menzionato in seguito e il racconto si concentrerà sul gesto di Gesù che lava i piedi a Simon Pietro, ma qui si vuol far capire al lettore che la lavanda dei piedi metterà il Maestro in ginocchio davanti a Giuda. In ginocchio, in atteggiamento umile e pieno di tenerezza di fronte a colui nel cui cuore c’è satana. La vicenda ha una colorazione tragica perché contrappone la bontà di Gesù alla crudeltà, alla durezza, alla chiusura dell’ apostolo. È una scena in cui si giocano quindi tutte le grandi realtà della storia umana: l’amore, l’apertura, l’attenzione agli altri, e la chiusura, la cattiveria, la malvagità.
In piccoli gesti appena percettibili, in un’ atmosfera casalinga, si evidenzia ciò che divide la storia umana e la sconvolge.
3. «Gesù sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava». La consapevolezza di Gesù si riferisce a due realtà.
La prima è la coscienza piena di essere il Messia, Signore della storia, colui nelle cui mani sono i destini dell’umanità. Gesù sa che il Padre gli ha dato tutto nelle mani.
La seconda è la coscienza della sua origine divina e quindi, accennata implicitamente, della sua figliolanza divina: sapeva di essere venuto da Dio e sapeva che il termine della sua vita era Dio, il Padre, la gloria.
Gesù compie il gesto della lavanda avendo piena consapevolezza della sua origine, del suo termine, della sua responsabilità, della sua missione.
Questa consapevolezza è la coscienza autentica che uno ha di sé come valore, come forza, come dono.
Per essa e grazie a essa anche le azioni più piccole assumono un grande orizzonte e sono compiute con gioia, coraggio, entusiasmo.
Il contrario è la non consapevolezza che si esprime nel nervosismo delle azioni, nell’inquietudine della vita, nel disfattismo, nel fare le cose una dopo l’altra, per abitudine. Le azioni quotidiane che ne derivano, e anche le grandi, sono compiute senza voglia e si degradano.
Nell’esemplarità di Gesù viene toccato un punto nevralgico della persona umana. E Giovanni sottolinea che la chiara consapevolezza che Gesù ha di sé, dà valore alla passione. La passione ha valore non semplicemente perché, di fatto, Gesù è messo a morte ma perché è di fronte agli eventi consapevolmente e coscientemente: tutti i suoi gesti, piccoli e grandi, a cominciare dalla lavanda dei piedi sono portati, sostenuti dalla consapevolezza.
Potremmo dividere le donne e gli uomini di questo mondo in tre categorie:
- Coloro la cui consapevolezza è quasi nulla: ignorano la chiamata del Signore, la dignità della vita e la loro esistenza è sprecata ogni giorno nella pura banalità, senza ideali, senza slanci, senza orizzonti.
- Coloro la cui consapevolezza è falsa, meschina oppure camuffata, e perdono il senso degli eventi, delle cose quotidiane. Per esempio, è consapevolezza falsa, camuffata quella di Pilato che, mentre Gesù è crocifisso con altri due, discute e litiga con i Giudei per l’iscrizione sulla croce (cfr. Giovanni 19, 17-22).
La passione di Gesù è piena di contrapposizioni tra il mistero che si compie nella dignità della sua consapevolezza e le miserie che, invece, per false o mancate consapevolezze umane, degenerano attorno alla croce.
- La consapevolezza autentica di Gesù ha un esempio mirabile nella consapevolezza di Maria nel Magnificat: «ha fatto in me grandi cose colui che è potente».
È la gioia di essere come si è per grazia di Dio, nelle realtà grandi come nelle piccole. Le piccole vengono vissute con orizzonti immensi, le grandi con la semplicità del bambino, del fanciullo.
4. «Si alzò da tavola, depose le vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse alla vita. Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugatoio di cui si era cinto». Il quarto momento è la descrizione del gesto, solennissima perché tutti i particolari vengono sottolineati: l’asciugatoio, il catino, l’acqua, il versarla, l’asciugare.
Ci pare di vedere Gesù mentre lo compie con una lentezza e con una dignità liturgica che lascia stupiti i discepoli, quasi senza parole, finché Pietro non prorompe nell’ esclamazione di meraviglia.
«Venne dunque da Simon Pietro…». Pietro è ogni uomo che, di fronte al mistero di un Dio che lo ama fino a servirlo, si ribella. Riflettiamo sui tre momenti di domande e di risposte tra Gesù e Pietro.
5. «Signore, tu lavi i piedi a me?.. Non mi laverai mai i piedi!». Pietro rifiuta completamente il gesto di Gesù, per un motivo che noi riteniamo giusto e valido: dovrebbe essere lui a fare quel servizio al Maestro e non viceversa! Insieme, però, Pietro esprime un suo modo di capire Gesù: secondo lui, non dovrebbe agire in maniera tanto servile, umile, non dovrebbe abbassarsi fino a lavare i piedi dei discepoli. Penetrando di più nella sua coscienza, ci accorgiamo che in sostanza non accetta che Gesù sia servo, che si faccia servo, perché dovrebbe essere l’uomo il primo a servire Dio, e non il Signore a compiere il primo passo.
Questa resistenza dell’ apostolo era emersa in forma più clamorosa nel momento in cui il Maestro aveva preannunciato la sua passione. Giovanni non riporta l’episodio e quindi trasferisce nel racconto della lavanda l’opposizione di Pietro messa in luce dagli altri vangeli: «Gesù cominciò a dire apertamente ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei sommi sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risuscitare il terzo giorno. Ma Pietro lo trasse in disparte e cominciò a protestare dicendo: « Dio te ne scampi, Signore; questo non ti accadrà mai ». Ma egli, voltatosi, disse a Pietro: « Lungi da me Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio ma secondo gli uomini »» (Matteo 16) 21-23; cfr. Marco 8, 31- 9, 1). Pietro non vuole accettare che ci sia qualcuno che ami l’uomo così; esprime la reale difficoltà di ciascuno di noi a lasciarsi amare, la difficoltà di ritenere di dover qualcosa a qualcuno, a credere che Dio ami davvero tanto l’uomo.
La coscienza debole di Pietro, la sua consapevolezza ancora oscura di quali sono i suoi veri rapporti con Gesù, è la stessa che ci impedisce di vivere veramente lo spirito di fede, l’abbandono della fede, nella certezza che Dio ci ama infinitamente e che è sempre lui a compiere il primo passo verso di noi, a prendere l’iniziativa del dono.
Pietro, come ciascuno di noi, fa fatica a uscire dall’ orgoglio dell’ autosufficienza, quasi invincibile per l’uomo, non riesce ad accettare che sia il Signore a salvargli la vita, a darla per lui.
6. «Signore, non solo i piedi, ma anche le mani e il capo». Adesso Pietro ha paura di perdere Gesù e vorrebbe addirittura essere lavato tutto.
È l’oscillare dell’uomo e della coscienza tra i due estremi: l’incredulità che Dio ci ami e che dia la vita per noi e una certa insicurezza di fondo. Quante volte noi abbiamo paura di non essere amati, di non essere graditi a Dio, quante volte dubitiamo che Dio accolga la nostra vita!
La coscienza debole del credente va da uno all’ altro dei due estremi senza potersi fermare, e solo Gesù può medicare, correggere, guarire.
Egli incomincia con Pietro quella medicazione che continuerà per tutta la passione, fino alla morte: la morte, e soltanto essa, opererà la completa guarigione.
Qual è il modo con cui Gesù cura la consapevolezza debole di Pietro?
Anzitutto la cura gradualmente, non pretende di fare tutto subito: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci, ma lo capirai dopo». Gesù quindi dice a Pietro: fidati per adesso, accetta, io so di che cosa hai bisogno e ti porterò a comprendere il mistero del mio amore.
In secondo luogo Gesù cura la consapevolezza debole di Pietro aprendogli l’orizzonte della speranza: «Se non ti laverò, non avrai parte con me». «L’aver parte con me» è l’eredità di Dio, del Regno, è la parola che nella Bibbia indica l’eredità dei santi, la pienezza delle promesse divine.
Ampliando gli orizzonti di Pietro alle grandi promesse divine, Gesù cerca di metterlo nella condizione di accettare il suo amore e così lo riconduce alla sobrietà della consapevolezza che non deve oscillare dalla depressione o dalla presunzione verso l’angoscia, bensì deve accontentarsi di ciò che sta sperimentando e di cui comprenderà gradualmente il senso.
Che cosa significa il gesto della lavanda dei piedi? Anzitutto è certamente un gesto rivoluzionario, che rovescia i comportamenti abituali, i normali rapporti tra Maestro e discepoli, tra padrone e servi. Gesù dirà che ordinariamente il Maestro è onorato, servito e tuttavia,qui fa un gesto da schiavo.
È inoltre un gesto sconvolgente sul piano religioso perché leggendolo con la fede della Chiesa noi vi vediamo Dio che serve l’uomo. L’affermazione sembra blasfema e non si addice a ciò che pensiamo di Dio.
Eppure, colui che è venuto da Dio e ritorna a Dio, si pone in posizione di umilissimo servizio verso l’uomo e, anzi, verso l’uomo nemico, Giuda. Dio serve l’uomo che gli è avverso, che gli si oppone, e assume nei suoi confronti un atteggiamento indifeso, umile, disponibile.
Se l’episodio non ci fosse stato tramandato da un libro evangelico, l’uomo non avrebbe mai potuto immaginare una cosa simile. Entriamo nel mistero del Dio rivelato, del Dio che si manifesta servendoci.
La lavanda dei piedi significa che il servire è azione divina e questo ha conseguenze incalcolabili sia dal punto di vista antropologico sia dal punto di vista ecclesiologico. Il servizio è divino, non il comandare, non il potere.
Che tipo di uomo, e di Chiesa, nasce dal gesto della lavanda dei piedi? Una figura che ci introduce nel mistero della prossimità: Dio si fa prossimo nel servire le realtà più umili, si fa prossimo come il buon samaritano. Questo mistero è la chiave del mistero della croce, della passione, di tutta la vita di Gesù, è la chiave del mistero della Chiesa.
La misericordia di Dio nel vangelo secondo Luca
Luca si preoccupa di insistere sul fatto che il Vangelo della grazia, della misericordia di Dio, non viene compreso.
Infatti, i farisei e gli scribi mormoravano perché a Gesù si avvicinavano tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo: «Costui – dicevano – riceve i peccatori e mangia con loro» (Luca 15,2). Mormoravano coloro che vivono le pratiche religiose e perciò si ritengono in possesso di diritti acquisiti rispetto al Regno di Dio; tuttavia tale opposizione alla parola di grazia di Gesù non viene espressa in forma diretta, bensì mediante allusioni, riferimenti vaghi, piccole frasi che contengono mezze verità e sono messe in giro, sottintesi. Dire una mezza verità, con dei sottintesi, è il modo con cui da sempre ci si mette contro il Vangelo della grazia.
Gesù non pronuncia una difesa; semplicemente ribadisce il messaggio della misericordia, perché la parola di Dio è luce e non ha bisogno di essere illuminata da altro.
Le parabole dei perduti e ritrovati
In Luca 15 leggiamo così le più note parabole: quella della pecora smarrita e ritrovata (vv. 4-7); quella della dramma perduta e ritrovata (vv. 8-10); e la parabola del figlio perduto e ritrovato (vv. 11-32).
Tutte e tre mostrano che c’è qualcosa di perduto (una persona, una cosa, un animale) e che Dio cerca ciò che è perduto con grande attenzione.
Dio vuole la salvezza di ciascuno di noi, anche di uno solo. Chi sogna un cristianesimo con programmi preordinati di tipo cosmico, un cristianesimo che non può attardarsi nella ricerca di una pecora o di una dramma o di un figlio che ha lasciato la casa patema, difficilmente comprende e accoglie il Vangelo della grazia, Ancora, le parabole mostrano una sorta di accanimento da parte del pastore, della donna e del padre.
Il Dio della misericordia infatti si prende a cuore il singolo uomo come se fosse l’unico, quasi a dire: Tu sei importante per me, tu mi manchi, per te metto in questione la mia vita.
Infine, Gesù sottolinea la gioia del ritrovamento; ne fa il tema dominante, contrapposto alle lacrime della ricerca. Quando il pastore ritrova la pecora «se la mette in spalla tutto contento e va a casa, chiama gli amici e i vicini», affinché si rallegrino con lui. La donna, ritrovata la dramma, «chiama le amiche e le vicine». TI padre dice ai servi: «Presto! Portate il vestito più bello e rivestite mio figlio, mettetegli l’anello al dito e i suoi calzari ai piedi, portate il vitello grasso e ammazzatelo, mangiamolo e facciamo festa. E cominciarono a far festa». Gioia, festa, banchetto, musica e danze sono collegate con il ritrovamento del perduto.
A chi viene proposto questo insegnamento di Gesù in parabole?
Gesù ha davanti agli occhi un uditorio di mormoratori invidiosi. I mormoratori, appunto, indicati in Luca 15, 1-2: «Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano: « Costui riceve i peccatori e mangia con loro »».
- I mormoratori invidiosi sono gente di casa, non estranei. I farisei sono pienamente di casa nella religione ebraica. Ritroviamo questa invidia domestica, espressa in maniera parabolica e drammatica, nella seconda parte del racconto del figliol prodigo là dove il figlio maggiore si ribella: «Il servo gli rispose: « E tornato tuo fratello e il padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché l’ha riavuto sano e salvo ». Egli si arrabbiò, e non voleva entrare» (Luca 15,27-28).
- Gente di casa, che crede di conoscere il padre. TI fratello maggiore credeva di conoscere suo padre e si meraviglia di quello che fa: «Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici» (v. 29). Gente che crede di conoscere Dio e dice: Come mai si comporta così? È ingiusto, non doveva assolutamente farlo, non ha mai fatto così con me che lo conosco e che lo servo da tanti anni!
- Gente perbene: persone che presumono essere giuste e disprezzano gli altri.
È il quadro completo, presentatoci dal vangelo, delle persone a cui Gesù si rivolge. Potremmo caratterizzare l’uditorio dicendo che è gente dall’occhio cattivo. L’immagine la prendiamo dalla parabola degli operai mandati a ore diverse nella vigna (Matteo 20), là dove il padrone conclude il suo discorso all’ «amico» che si è lamentato di aver lavorato tutto il giorno e di aver avuto la medesima paga degli altri: «Sei invidioso perché io sono buono?» (v. 15). Nel testo greco questo «invidioso» è «ofthalmós sou ponerós», il tuo occhio è cattivo.
Con la metafora dell’occhio cattivo possiamo quindi indicare il pubblico cui Gesù si rivolge.

Il Vangelo della grazia
Mettendoci ora dalla parte dei mormoratori, possiamo chiederci: il Vangelo della misericordia non diventa, alla fine, un evangelo della faciloneria, del permissivismo, del disimpegno etico?
Forse ci è capitato talora di ripetere le parole dei farisei o di ascoltare altri che esprimono timore verso un messaggio che mette in pericolo l’osservanza delle leggi, il rigore delle tradizioni, la sicurezza dottrinale e morale di un gruppo.
La domanda è seria e non dobbiamo lasciare che entri nel nostro cuore perché, in tal caso, non comprenderemmo più il Vangelo della grazia.
Offro tuttavia qualche riflessione in proposito:
- Dio non muta; qualunque siano le conseguenze da noi paventate, egli è il Dio della misericordia.
- I timori di fronte al suo Vangelo di grazia esprimono probabilmente la paura di sottoporsi a questo regime. Mi viene in mente Dietrich Bonhoffer che, per la sua tradizione protestante, poteva essere imputato di cedere al Vangelo della grazia e che ha sentito il bisogno di chiamarlo: «grazia a caro prezzo». Ci può essere in noi una nascosta ripugnanza ad accogliere Dio così com’è, a lasciarci invadere dalla sua misericordia, e preferiamo difenderci con la legge, con la giustizia, con il rigore etico del vangelo. Ci può essere in noi una comprensione solo parziale del Vangelo della grazia e per questo lo allontaniamo istintivamente.
- Il Vangelo della grazia ha, come corrispondente in chi lo riceve, lo stigma della gratuità. Non c’è niente di più esigente della gratuità, proprio perché non ha limiti a differenza del vangelo della legge – non sono obbligato, non sono il custode di mio fratello! -.
L’esigenza del Vangelo della grazia giunge a superare tutte le legalità e tutti i ruoli, perché ci tocca nel più intimo e ci invita al dono di noi stessi fino alla morte.
- Il Vangelo della grazia, quando non è accolto, lascia il morso dello scontento e della disperazione. Non forza nessuno a donarsi, a uscire dal proprio egoismo, ma lascia l’uomo libero di chiudersi nella propria disperazione, nel rifiuto totale e quindi di perdersi nella propria solitudine personale e di gruppo, nella difesa a oltranza, fino ad accorgersi che non c’era nulla da difendere.

La dignità della persona umana
Possiamo infine notare che Luca presenta l’episodio del ladro pentito e salvato da Gesù in croce come il culmine della misericordia di Dio, come il culmine dell’ azione evangelizzatrice e redentiva di Gesù nella sua Passione. A noi sembra strano un tale spreco di sforzo evangelizzatore per ottenere un piccolo risultato, la salvezza di un solo uomo, eppure è, come abbiamo visto nelle tre parabole precedenti, il marchio di fabbrica del Dio del vangelo. Entrare nel mondo di questo Dio che ama, vuol dire cogliere la possibilità di avere a cuore la salvezza di tutti in maniera che nessuno venga trascurato, offeso, dimenticato, ma sia dato pieno valore a ciò che ciascuno rappresenta agli occhi di Dio.
La coscienza del valore che ha una persona umana è il riflesso dell’ atteggiamento di Gesù, per il quale uno solo è come 99, come tutti. E ne scaturisce allora quella dignità della persona umana a cui la società civile non è abituata. Forse la si proclama a parole; tuttavia, comunemente, anche nelle civiltà più elevate, si guarda all’insieme, alla totalità, al gruppo e, per il singolo, si fa ciò che si può.
Nell’agire e nelle parabole di Cristo c’è una rivelazione del Dio vivo e nello stesso tempo una rivelazione dell’immagine di Dio impressa nell’uomo, della dignità di ogni uomo che non si può raggiungere senza una rivelazione. Per questo l’etica cristiana arriva a vertici molto esigenti, che la gente non comprende perché non riesce ad avere un’idea precisa della dignità assoluta dell’uomo in ogni fase della sua vita, a partire dal concepimento fino all’estrema debolezza della vecchiaia.
L’evangelista Giovanni non riporta l’episodio del ladro pentito e salvato; egli infatti contempla nel «costato trafitto» di Gesù la più perfetta parabola del Padre, la massima espressione dell’ amore di Dio, misterioso e nascosto, per l’uomo peccatore, solitario, sofferente e dannato.

Il primato di Dio nella Chiesa
Dal primato dell’ amore e della misericordia di Dio per l’uomo, per tutti e per ogni uomo, nasce nella Chiesa l’urgenza di ripartire sempre e di nuovo da Dio.
Ripartire da Dio richiede il coraggio di porsi le domande ultime, di ritrovare la passione per le cose che si vedono leggendole nella prospettiva del Mistero e delle cose che non si vedono.
Rispetto al cammino personale del credente significa non dare mai nulla per scontato nella fede, non cullarsi nella presunzione di sapere già ciò che invece è perennemente avvolto nel mistero; significa santa inquietudine e ricerca. Ripartire da Dio vuol dire sapere che noi non lo vediamo, ma lo crediamo e lo cerchiamo così come la notte cerca l’aurora; vuol dire dunque vivere per sé e contagiare altri dell’inquietudine santa di una ricerca senza sosta del volto nascosto del Padre.
Come san Paolo fece con i Galati e con i Romani, così anche noi dobbiamo denunciare ai nostri contemporanei la miopia del contentarsi di tutto ciò che è meno di Dio, di tutto quanto può divenire idolo. Dio è più grande del nostro cuore, Dio sta oltre la notte. Egli è nel silenzio che ci turba davanti alla morte e alla fine di ogni grandezza umana; è nel bisogno di giustizia e di amore che ci portiamo dentro; è il Mistero santo del Totalmente Altro, nostalgia di perfetta e consumata giustizia, di riconciliazione, di pace.
Talora presumiamo di avere già raggiunto la perfetta nozione di ciò che Dio è o fa. Grazie alla Rivelazione sappiamo di Lui alcune cose certe che Egli ci ha detto di sé, ma queste cose sono come avvolte dalla nebbia della nostra ignoranza profonda di Lui. Non di rado mi spavento sentendo o leggendo tante frasi che hanno come soggetto «Dio» e danno l’impressione di sapere perfettamente ciò che Dio è e opera nella storia, come e perché agisce in un modo o nell’ altro. La Scrittura, come abbiamo visto, è più reticente, più discreta e piena di mistero, preferisce il velo del simbolo o della parabola, nella consapevolezza che di Dio non si può parlare che con tremore e per accenni, come di «Qualcuno» che in tutto ci supera. Gesù stesso non toglie questo velo, lui che è il Figlio; ci parla del Padre per enigmi, fino al giorno in cui svelatamente ci parlerà di Lui.
Questo giorno non è ancora venuto, se non per anticipazioni che lasciano tante cose oscure e ci fanno camminare nella notte radiosa della fede.
Rispetto al nostro agire comunitario e sociale, ripartire da Dio significa mettere tutti i nostri progetti umani sotto la Signoria di Dio e misurarli solo sul Vangelo. Vuol dire confrontare tutto ciò che si è e che si fa con le esigenze del suo primato. Dio solo è la misura del vero, del giusto, del bene. Vuol dire tornare alla verità di noi stessi, rinunciando a farci misura di tutto, per riconoscere che Lui è la misura che non passa, l’àncora che dà fondamento, la ragione ultima per vivere, amare, morire. Vuol dire guardare le cose dall’Alto, vedere il Tutto prima della parte, partire dalla Sorgente per comprendere il flusso delle acque.
Ripartire da Dio vuol dire misurarsi su Gesù Cristo, rivelatore del Padre, e ispirarsi continuamente alla sua parola, ai suoi esempi, così come ce li presenta il vangelo. Vuol dire abbandonare al soffio dello Spirito il nostro cuore inquieto, perseverare nella notte dell’adorazione e dell’attesa. E questa la sola via per uscire dalla violenza dell’ideologia senza cadere nella condizione di naufragio del nichilismo, privo di etica e di speranza.
Il Dio con noi è il Dio che può aiutarci a trovare le vere ragioni per vivere insieme. Rispetto alle acque basse in cui sembra stagnare oggi la vita civile, sociale e politica del nostro Paese, partire da Dio significa trovare senso, slancio, motivazione per rischiare e per amare. Ripartire da Dio significa riconoscere di essere nel cuore di Dio per un’esperienza di fede e di amore vissuti: riconoscere di essere nati per imparare ad amare sempre di più, a osare di più, ad andare oltre i limiti delle nostre comodità e dei nostri peccati.
Ripartire da Dio significa farsi pellegrini verso di Lui aprendosi al dono della sua Parola, lasciandosi riconciliare e trasformare dalla sua grazia. Solo chi si riconosce amato dal Dio vivo, più grande del nostro cuore, vince la paura e vive il grande viaggio, l’esodo da sé senza ritorno per camminare verso gli altri, verso l’Altro che è Dio stesso.
Di fronte al Dio dell’ amore e della misericordia, la Chiesa, come corpo di Cristo presente nella storia, è chiamata a rendere visibile una comunità che vive sotto il primato di Dio. Una comunità che, pur con i suoi peccati, le sue mancanze e i suoi ritardi, è destinata a mostrare ad una società frammentata e divisa, caratterizzata da relazioni fragili, conflittuali, competitive, commerciali e consumistiche, la possibilità di vivere una rete di relazioni fondate sul vangelo, gratuite, disinteressate, armoniche, capaci di perdono, di accoglienza, di mutua accettazione.
La Chiesa che è sotto il primato di Dio Padre universale sente il dovere, anzi il bisogno, di essere ospitale, paziente, longanime, lungimirante. Certamente rimangono valide le prescrizioni disciplinari e canoniche che stabiliscono che cosa è e che cosa non è compatibile con la piena appartenenza alla comunità cristiana, e però sentiamo che la Chiesa è come una grande rete che raccoglie ogni sorta di pesci (cfr. Matteo 13,47-50), un grande albero presso cui nidificano a loro vantaggio molte specie di uccelli (cfr. Matteo 13,31-32). Non può arrogarsi il giudizio definitivo sulle persone e sulla storia, che spetta soltanto a Dio. La Chiesa è una grande città, le cui porte non devono essere chiuse a nessuno che chiede sinceramente asilo.

Publié dans:Cardinale Carlo Maria Martini † |on 3 septembre, 2012 |Pas de commentaires »

Il senso della Pasqua per chi non crede di Carlo Maria Martini

dal sito:

http://www.novena.it/commenti/commenti10.htm

Il senso della Pasqua per chi non crede di Carlo Maria Martini

(temi paolini)

Mentre il Natale suscita istintivamente l’immagine di chi si slancia con gioia (e anche pieno di salute) nella vita, la Pasqua è collegata a rappresentazioni più complesse. È la vicenda di una vita passata attraverso la sofferenza e la morte, di un’esistenza ridonata a chi l’aveva perduta. Perciò, se il Natale suscita un po’ in tutte le latitudini (anche presso i non cristiani e i non credenti) un’atmosfera di letizia e quasi di spensierata gaiezza, la Pasqua rimane un mistero più nascosto e difficile. Ma tutta la nostra esistenza, al di là di una facile retorica, si gioca prevalentemente sul terreno dell’oscuro e del difficile. Penso soprattutto, in questo momento, ai malati, a coloro che soffrono sotto il peso di diagnosi infauste, a coloro che non sanno a chi comunicare la loro angoscia, e anche a tutti quelli per cui vale il detto antico, icastico e quasi intraducibile, senectus ipsa morbus, «la vecchiaia è per sua natura una malattia». Penso insomma a tutti coloro che sentono nella carne, nella psiche o nello spirito lo stigma della debolezza e della fragilità umana: essi sono probabilmente la maggioranza degli uomini e delle donne di questo mondo.
Per questo vorrei che la Pasqua fosse sentita soprattutto come un invito alla speranza anche per i sofferenti, per le persone anziane, per tutti coloro che sono curvi sotto i pesi della vita, per tutti gli esclusi dai circuiti della cultura predominante, che è (ingannevolmente) quella dello «star bene» come principio assoluto. Vorrei che il saluto e il grido che i nostri fratelli dell’Oriente si scambiano in questi giorni, «Cristo è risorto, Cristo è veramente risorto», percorresse le corsie degli ospedali, entrasse nelle camere dei malati, nelle celle delle prigioni; vorrei che suscitasse un sorriso di speranza anche in coloro che si trovano nelle sale di attesa per le complicate analisi richieste dalla medicina di oggi, dove spesso si incontrano volti tesi, persone che cercano di nascondere il nervosismo che le agita.
La domanda che mi faccio è: che cosa dice oggi a me, anziano, un po’ debilitato nelle forze, ormai in lista di chiamata per un passaggio inevitabile, la Pasqua? E che cosa potrebbe dire anche a chi non condivide la mia fede e la mia speranza? Anzitutto la Pasqua mi dice che «le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi» (Rom 8,18). Queste sofferenze sono in primo luogo quelle del Cristo nella sua Passione, per le quali sarebbe difficile trovare una causa o una ragione se non si guardasse oltre il muro della morte. Ma ci sono anche tutte le sofferenze personali o collettive che gravano sull’umanità, causate o dalla cecità della natura o dalla cattiveria o negligenza degli uomini.
Bisogna ripetersi con audacia, vincendo la resistenza interiore, che non c’è proporzione tra quanto ci tocca soffrire e quanto attendiamo con fiducia. In occasione della Pasqua vorrei poter dire a me stesso con fede le parole di Paolo nella seconda Lettera ai Corinzi: «Per questo non ci scoraggiamo, ma anche se il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore si rinnova di giorno in giorno. Infatti il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria, perché noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili. Le cose visibili sono d’un momento, quelle invisibili sono eterne».
Tutto questo richiede una grande tensione di speranza. Perché, come dice ancora san Paolo, «nella speranza noi siamo salvati. Ora, ciò che si spera, se visto, non è più speranza» (Rom 8,24). Sperare così può essere difficile, ma non vedo altra via di uscita dai mali di questo mondo, a meno che non si voglia nascondere il volto nella sabbia e non voler vedere o pensare nulla. Più difficile è però per me esprimere che cosa può dire la Pasqua a chi non partecipa della mia fede ed è curvo sotto i pesi della vita. In questo mi vengono in aiuto persone che ho incontrato e in cui ho sentito come una scaturigine misteriosa, che le aiuta a guardare in faccia la sofferenza e la morte anche senza potersi dare ragione di ciò che seguirà. Vedo così che c’è dentro tutti noi qualcosa di quello che san Paolo chiama «speranza contro ogni speranza» (Lettera ai Romani, 4,18), cioè una volontà e un coraggio di andare avanti malgrado tutto, anche se non si è capito il senso di quanto è avvenuto.
È così che molti uomini hanno dato prova di una capacità di ripresa che ha del miracoloso. Si pensi a tutto quanto è stato fatto con indomita energia dopo lo tsunami del 26 dicembre 2004 o dopo l’inondazione di New Orleans provocata dall’uragano Katrina nell’agosto successivo. Si pensi alle energie di ricostruzione che sorgono come dal nulla dopo la tempesta delle guerre. Si pensi alle parole che la ventottenne Etty Hillesum scrisse il 3 luglio 1942, prima di essere portata a morire ad Auschwitz: «Io guardavo in faccia la nostra distruzione imminente, la nostra prevedibile miserabile fine, che si manifestava già in molti momenti ordinari della nostra vita quotidiana.
È questa possibilità che io ho incorporato nella percezione della mia vita, senza sperimentare quale conseguenza una diminuzione della mia vitalità. La possibilità della morte è una presenza assoluta nella mia vita, e a causa di ciò la mia vita ha acquistato una nuova dimensione». Per queste cose non ci si può affidare alla scienza, se non per chiederle qualche strumento tecnico: al massimo essa permette un debole prolungamento dei nostri giorni. L’interrogativo è invece sul senso di quanto sta avvenendo e più ancora sull’amore che è dato di cogliere anche in simili frangenti. C’è qualcuno che mi ama talmente da farmi sentire pieno di vita persino nella debolezza, che mi dice «io sono la vita, la vita per sempre».
O almeno c’è qualcuno al quale posso dedicare i miei giorni, anche quando mi sembra che tutto sia perduto. È così che la risurrezione entra nell’esperienza quotidiana di tutti i sofferenti, in particolare dei malati e degli anziani, dando loro la possibilità di produrre ancora frutti abbondanti a dispetto delle forze che vengono meno e della debolezza che li assale. La vita nella Pasqua si mostra più forte della morte ed è così che tutti ci auguriamo di coglierla.

Carlo Maria Martini 

I DISCEPOLI DI EMMAUS (Card. C.M. Martini)

dal sito:

http://www.iqt.it/evangelo/lectio/lc24_emmaus.htm

I DISCEPOLI DI EMMAUS:

Lc. 24, 13-35

(Card. C.M. Martini, Partenza da Emmaus,
Centro Ambrosiano di Documentazione e Studi Religiosi,
Milano 1983, pagg. 8-9) 

Preghiera introduttiva
«O Dio, Padre nostro, che nel Tuo Figlio Gesù hai voluto farti compagno dei discepoli sulla strada di Emmaus per sciogliere i loro dubbi e incertezze e rivelare la Tua presenza nel pane spezzato, apri i nostri occhi perché sappiamo vedere la Tua presenza, illumina la nostra mente perché riusciamo a comprendere la Tua Parola e accendi nei nostri cuori il fuoco del Tuo Spirito perché troviamo il coraggio di diventare testimoni gioiosi del Risorto, Gesù Cristo, Tuo Figlio e nostro Signore. Amen»

Lettura del brano:
[13] Ed ecco in quello stesso giorno due di loro erano in cammino per un villaggio distante circa sette miglia da Gerusalemme, di nome Emmaus, [14] e conversavano di tutto quello che era accaduto. [15] Mentre discorrevano e discutevano insieme, Gesù in persona si accostò e camminava con loro. [16] Ma i loro occhi erano incapaci di riconoscerlo. [17] Ed egli disse loro: «Che sono questi discorsi che state facendo fra voi durante il cammino?». Si fermarono, col volto triste; [18] uno di loro, di nome Clèopa, gli disse: «Tu solo sei così forestiero in Gerusalemme da non sapere ciò che vi è accaduto in questi giorni?». [19] Domandò: «Che cosa?». Gli risposero: «Tutto ciò che riguarda Gesù Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo; [20] come i sommi sacerdoti e i nostri capi lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e poi l’hanno crocifisso. [21] Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele; con tutto ciò son passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. [22] Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; recatesi al mattino al sepolcro [23] e non avendo trovato il suo corpo, son venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo. [24] Alcuni dei nostri sono andati al sepolcro e hanno trovato come avevan detto le donne, ma lui non l’hanno visto».
[25] Ed egli disse loro: «Sciocchi e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti! [26] Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?». [27] E cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui. [28] Quando furon vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano. [29] Ma essi insistettero: «Resta con noi perché si fa sera e il giorno gia volge al declino». Egli entrò per rimanere con loro. [30] Quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. [31] Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma lui sparì dalla loro vista. [32] Ed essi si dissero l’un l’altro: «Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?». [33] E partirono senz’indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, [34] i quali dicevano: «Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone». [35] Essi poi riferirono ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane.

Introduzione
Quello dei discepoli di Emmaus è certamente uno fra i brani più suggestivi e, per certi versi, più aderente alla nostra realtà di persone in cammino, certamente con molte certezze, ma spesso vittime di dubbi, perplessità, interrogativi e desideri.
Proviamo dunque a tentare una rilettura del testo cercando di attualizzare l’annuncio e al tempo stesso cogliendo gli elementi principali che favoriscono una comprensione, una interiorizzazione e quindi una profonda e autentica assimilazione del messaggio teologico che esso contiene.

Delusione, dubbio, incertezza
Nel giro di una settimana a Gerusalemme è capitato di tutto. Gesù è stato accolto in maniera trionfale, acclamato come un re; ha trasmesso il comandamento dell’amore; durante la cena per la pasqua ha rivelato il valore del servizio con la lavanda dei piedi, ha garantito la sua presenza reale spezzando un pane e versando del vino; è stato arrestato; ha sopportato tradimenti e rinnegamenti; è stato arrestato, processato, condannato a morte, trafitto su una croce, sepolto… E basta. Tutto è finito. Nel giro di una settimana sono sfumati progetti, speranze e illusioni tessuti pazientemente in tre anni di sequela fedele e attenta. Tutte le cose che abbiamo costruito, per le quali ci siamo spesi, per le quali abbiamo sudato, lottato e pianto, per le quali abbiamo anche rischiato, ci siamo esposti, sono definitivamente sigillate e oscurate dietro quella grande pietra rotolata contro l’entrata di quel sepolcro nuovo, scavato nella roccia. Sembra di sentirli: « …che delusione… e chi se l’aspettava… lasciamo perdere, andiamo via… Basta, torniamo ad Emmaus! ».
Sono i discorsi di due persone che, dopo aver vissuto una esperienza affascinante ed esaltante con Gesù, si ritrovano soli, abbandonati, sconfitti e decidono di abbandonare il « cuore » di questa vicenda per dirigersi verso il definitivo ritorno alla realtà di prima, al quotidiano di ogni giorno.

Gesù si fa compagno
A questo punto, se non conoscessimo l’esito della vicenda e se dovessimo completare la storia con i nostri sistemi, è facile intuire le reazioni: « …e fate come volete… pazienza… peggio per voi… siete grandi e vaccinati… arrangiatevi… ».
C’è qualcuno che non la pensa così. « … Gesù in persona si accostò e camminava con loro » (v. 15b) e non perché « è togo » e gli piace mettersi in mostra e affermare la sua supremazia, tant’è che « …i loro occhi erano incapaci di riconoscerlo » (v. 16). E’ lui che prende l’iniziativa e soprattutto cammina al loro fianco, si fa compagno di quella strada, di quella determinata fase del loro cammino.
Certamente – e ce lo rivela l’originale del testo greco – il loro discutere e discorrere era visibilmente animato, tanto che è facile per lo sconosciuto permettersi di domandare loro: « Ma di che cosa state parlando così calorosamente? ». Anche qui, con il nostro stile poco aperto al dialogo, verrebbe voglia di sostituirci alla risposta dei due discepoli: « Ma cosa vuoi? Fatti i fatti tuoi! ». E forse, dopo che essi rispondono: « Di quanto è capitato a Gerusalemme in questi giorni » ed egli incalza: « E che cosa è successo? », non verrebbe voglia di rispondere: « Ma scusa, dove vivi? Dove hai la testa? ». Invece è talmente forte la ferita che sentono dentro, la sensazione di essere stati ingannati, che essi sentono il bisogno di sfogarsi. D’altronde chiunque avrebbe convenuto con loro sull’assurdità della vicenda, quindi non esitano a raccontare e esprimere tutta la loro delusione.
E questo si coglie dai verbi che utilizzano: fu profeta grande… speravamo fosse lui a liberare Israele… I discepoli avevano i loro progetti e le loro speranze; certamente, anche sulla scia delle idee promosse dagli zeloti, ai quali era legato uno di loro, che ritenevano che la liberazione dovesse esprimersi con atti militari e tendere alla ricerca della prosperità economica e del benessere materiale. Invece Gesù non solo è condannato a morte, ma alla morte in croce, infamante, riservata ai malfattori. Questo non rientra nei loro progetti.
Anche noi abbiamo desideri, progetti, speranze cui ci aggrappiamo con tanta passione, senza considerare che alcuni accadimenti possono rivelarci che esiste un progetto di Dio, diverso dal nostro, che naturalmente non possiamo prevedere o preventivare, più grande dei nostri pensieri. Per questo non riusciamo a pensare che possa essere più bello, più utile, più entusiasmante per noi e più capace di fare fiato e speranza. Certo, non è facile aprirsi e abbandonarsi al progetto di Dio e al mistero che lo accompagna. Ma per cosa pensate che Gesù « …si accosta e cammina con noi »? Non certo per una sterile comprensione affettiva o per assecondare delusioni o incomprensioni. Egli è la via, la verità e la vita. Per questo cammina con noi: per condurci sulla via; per questo ci spiega le scritture: per portarci alla verità; per questo spezza il pane: per donarci la vita.

Gesù, novità sempre nuova
Mentre i discepoli parlano Gesù li ascolta e li fa parlare. Questo è il compito del vero animatore: ascoltare e fare i modo che l’altro possa esprimere le proprie ansie e possa spiegarsi bene.
L’iniziativa dell’incontro, dicevamo, è presa da Gesù. I discepoli non solo non fanno nulla perché l’incontro possa accadere, ma quasi accettano il viandante con indifferenza, a malincuore e frappongono l’ostacolo della delusione, della rinuncia a credere e a sperare. Gesù però dà rilievo alla libertà dei discepoli, che dapprima scoraggiata e rinunciataria, viene via via rigenerata e aperta alla speranza, alla fiducia nel disegno di Dio sulla storia dell’uomo.
Gesù fa questo senza dire cose nuove. Ma sono cose che avevano bisogno di sentirsi ridire e che assumevano, in quel determinato momento e in quella specifica situazione, un significato nuovo.
E’ per questa ragione che i due, a loro volta, lo ascoltano e lo lasciano parlare: perché si tratta di parole che aprono, spiegano, illustrano, indicano, fanno vedere gli eventi della vita, anche i più oscuri, in un modo nuovo e pieno di speranza.
Sembrava loro che tutto ciò che pesava sul loro cuore a poco a poco si sciogliesse. Ed è così che, arrivati a destinazione, con semplicità e serenità gli dissero: « Perché non ti fermi con noi? ». E’ molto bella questa richiesta, la richiesta di restare, di rimanere. Se ci pensate è ciò che avvenne, con inversione delle parti, all’inizio della vita pubblica di Gesù. Due discepoli lo seguono, egli si volta e dice loro: « Che cercate? » – gli dissero: « Maestro, dove abiti? » – egli rispose: « Venite e vedrete » – essi andarono, videro dove abitava e stettero con lui quella notte. Lo stare, il rimanere è il segno più eloquente della conoscenza. Capite ora l’importanza di stare davanti l’Eucaristia!

L’Eucaristia, fonte dell’annuncio
Ed è proprio l’Eucaristia la chiave di svolta di questi due uomini. Quando due persone si amano si parlano anche solo con uno sguardo, basta un segno, la comunicazione è immediata.
Di colpo balzarono in piedi, lasciano la cena a metà e corrono verso Gerusalemme. Quel Gesù che fu profeta, che speravano liberasse Israele, che è stato ucciso in croce era apparso loro, aveva camminato con loro e aveva spezzato per loro il pane.
Ecco l’insegnamento per noi oggi: balzare in piedi, lasciare la mensa, correre nel buio per gridare a tutti: « Il Signore è veramente risorto! Noi l’abbiamo visto ».
Gesù ha acceso il loro cuore ed essi non riescono più a contenere l’ardore: sentono il bisogno di comunicarlo agli altri. E’ fonte di commozione e di responsabilità sapere che Gesù chiede la nostra collaborazione per raggiungere gli altri uomini.

L’Eucaristia, alimento della comunità
L’adesione a Gesù esprime nell’adesione alla comunità cristiana e si alimenta nell’Eucaristia, senza della quale non esiste comunità. I due discepoli di Emmaus, dopo aver incontrato il Signore e dopo averlo riconosciuto nel segno del pane, ritornano a quella comunità che avevano abbandonato con il cuore pieno di tristezza. La vita comunitaria deve offrire il clima di fede e di carità, che sostiene la testimonianza insieme alla preghiera.
Chiedo a Gesù che lui stesso accompagni ciascuno di noi, come ha accompagnato i due discepoli di Emmaus, così anche noi, al termine del cammino, possiamo ripetere la loro preghiera: « Resta con noi perché si fa sera ».

Piste per la riflessione personale
Provo ad indicare alcune piste di riflessione per favorire l’ascolto e l’incontro con Gesù Risorto sulle strade della nostra « Emmaus ».
Trovo facile comunicare? Quali sono le situazioni che mi bloccano?
Riesco a fare del mio comunicare un dono per gli altri e a vedere nel dialogo con gli altri e nel loro ascolto un elemento essenziale della mia vita di fede?
Quali sono i miei punti di riferimento quando lo scoraggiamento, la delusione, la stanchezza hanno il sopravvento?
Riesco a stare in silenzio davanti all’Eucaristia? Cosa dico a Gesù e cosa Lui dice a me?
Riesco a stabilire un rapporto franco e sincero con gli altri? Sono diffidente? Dopo un litigio riesco a fare il primo passo per ricomporre l’amicizia?
Quale è il giudizio sulle mie relazioni all’interno della comunità parrocchiale? Mi sento capito, valorizzato? Riesco a valorizzare gli altri? Riesco a vedere negli altri quel qualcosa che manca a completare me stesso?
Riesco ad essere elemento di dialogo, di comunione? Sono capace di trasferire agli altri la gioia e l’entusiasmo di essere un vero « testimone del Risorto »? Quali sono gli ostacoli che incontro?
Cosa mi propongo per migliorare le relazioni in casa, a scuola, nel lavoro, in parrocchia?
Prego il Signore perché resti con me, illumini il mio cammino, mi apra gli occhi e il cuore alla Sua Parola, spezzi il pane per me?
Quale è il mio rapporto con il Sacramento della Riconciliazione?
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Preghiera conclusiva
«Signore Gesù, grazie perché ti sei fatto riconoscere nello spezzare il pane. Mentre stiamo correndo verso Gerusalemme e il fiato quasi ci manca per l’ansia di arrivare presto, il cuore ci batte forte per un motivo ben più profondo.
Dovremmo essere tristi, perché non sei più con noi. Eppure ci sentiamo felici. La nostra gioia e il nostro ritorno frettoloso a Gerusalemme, lasciando il pasto a metà sulla tavola, esprimono la certezza che tu ormai sei con noi.
Ci hai incrociati poche ore fa su questa stessa strada, stanchi e delusi. Non ci hai abbandonati a noi stessi e alla nostra disperazione. Ci hai smosso l’animo con i tuoi rimproveri. Ma soprattutto sei entrato dentro di noi. Ci hai svelato il segreto di Dio su di te, nascosto nelle pagine della Scrittura. Hai camminato con noi, come un amico paziente. Hai suggellato l’amicizia spezzando con noi il pane, hai acceso il nostro cuore perché riconoscessimo in te il Messia, il Salvatore di tutti.
Quando, sul far della sera, tu accennasti a proseguire il tuo cammino oltre Emmaus, noi ti pregammo di restare.
Ti rivolgeremo questa preghiera, spontanea e appassionata, infinite altre volte nella sera del nostro smarrimento, del nostro dolore, del nostro immenso desiderio di te. Ma ora comprendiamo che essa non raggiunge la verità ultima del nostro rapporto con te. Per questo non sappiamo diventare la tua presenza accanto ai fratelli.
Per questo, o Signore Gesù, ora ti chiediamo di aiutarci a restare sempre con te, ad aderire alla tua persona con tutto l’ardore del nostro cuore, ad assumerci con gioia la missione che tu ci affidi: continuare la tua presenza, essere vangelo della tua risurrezione.
Signore, Gerusalemme è ormai vicina. Abbiamo capito che essa non è più la città delle speranze fallite, della tomba desolante. Essa è la città della Cena, della Croce, della Pasqua, della suprema fedeltà dell’amore di Dio per l’uomo, della nuova fraternità. Da essa muoveremo lungo le strade di tutto il mondo per essere autentici « Testimoni del Risorto ». Amen»

del Card. Carlo Maria Martini meditazione su Rm 8, 26-27

dal sito:

http://www.atma-o-jibon.org/italiano9/martini_preghiera.htm 

di S. Em. Card. Carlo Maria Martini

meditazione su:

« Allo stesso modo anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri dello Spirito, perché egli intercede per i credenti secondo i disegni di Dio» (Romani 8, 26-27) »
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Meditazione ai sacerdoti della diocesi di Milano tenuta il 30 ottobre 1991 a Rozzano diocesi di Milano. Il testo è tratto da: Carlo Maria Martini, Briciole dalla Tavola della Parola, Edizioni Piemme, Casale Monferrato, 1996, pp. 55-61.

Introduzione

Sono stato molto colpito dalla prima lettura della messa feriale di oggi, mercoledì della trentesima settimana «per annum», in particolare dove si dice: «Allo stesso modo anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri dello Spirito, perché egli intercede per i credenti secondo i disegni di Dio» (Romani 8, 26-27).
È un brano che mi ha sempre affascinato, incuriosito anche inquietato, perché non facile da spiegare, in quanto si riferisce alla natura misteriosa della nostra preghiera. Possiamo farci aiutare nella nostra riflessione dalla spiegazione che Agostino dà delle parole di san Paolo.
Nella Lettera a Proba che viene proposta nell’Ufficio di Lettura delle settimane venticinquesima e ventiseiesima del tempo «per anno» – il Vescovo di Ippona risponde alla domanda: Che cosa vuol dire pregare?
A proposito dei vv. 26-27 della Lettera ai Romani po­ne l’obiezione fondamentale: Che cosa significa che lo Spirito intercede per i credenti? E risponde: «Non dobbiamo intendere questo nel senso che lo Spirito santo di Dio, il quale nella Trinità è Dio immortale e un solo Dio con il Padre e con il Figlio, interceda per i santi, come uno che non sia quello che è, cioè Dio» (1).
Dunque, se san Paolo sembra non avere difficoltà ad affermare che lo Spirito santo, cioè Dio, prega Dio, noi però teologicamente l’abbiamo.
Possiamo capire che il Figlio, in quanto incarnato in Gesù, prega il Padre; ma lo Spirito come fa a pregare il Padre?
Dietro a questo problema dogmatico, affrontato da Agostino, c’è poi tutto il problema della preghiera conscia e inconscia, della preghiera di cui ci accorgiamo o meno e quindi il brano della Lettera ai Romani costituisce una porta molto interessante per costringerci a entrare in questo mondo immenso.
Vorrei cercare di socchiudere almeno un poco quella porta incominciando col porre due premesse, quindi riprendendo l’espressione: lo Spirito intercede, prega, geme per noi.
Le due definizioni della preghiera
In una prima premessa richiamo le due definizioni tradizionali della preghiera, che non sembrano andare tanto d’accordo.
 - La preghiera è elevatio mentis in Deum, un elevare la mente a Dio. Il riferimento è anzitutto alla preghiera di lode, di ringraziamento, di esaltazione, quella che troviamo bene espressa nel cantico di Maria: «L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio mio salvatore». O, ancora, nella recita del Padre nostro, quando diciamo: «che sei nei cieli», parole che indicano l’innalzamento degli occhi, la dimensione verticale dell’orazione, che sale dal basso verso l’alto.
- L’altra definizione è petitio decentium a Deo, che probabilmente è complementare alla precedente. La richiesta a Dio di ciò che conviene è una preghiera che si esprime soprattutto nella domanda, nella supplica, nell’implorazione, nella petizione. Se circa una metà dei salmi sono di lode e di esaltazione, l’altra metà sono di petizione, di supplica, di richiesta di perdono. Così pure il Padre nostro, se nella prima parte è elevatio mentis in Deum, nella seconda parte è petitio, richiesta di cose convenienti (il pane, la liberazione dalla tentazione, il perdono). Anche l’Ave Maria incomincia con l’elevazione della mente a Maria e a Gesù e poi si fa richiesta di preghiera per noi peccatori.
Ci sono dunque due linee che si intersecano, quella orizzontale e quella verticale, e costituiscono nel loro insieme la preghiera cristiana. Può essere allora utile, parlando della preghiera, mettere a fuoco ora l’uno ora l’altro dei due elementi, che si alternano anche nella nostra esistenza: a volte siamo più portati a elevare la mente a Dio (nel «prefazio» della messa, per esempio), in altri momenti alla petitio decentium a Deo (come nelle orazioni della messa).
Come si realizza questo secondo elemento della preghiera, che è la richiesta di cose convenienti?
Scrive Agostino nella Lettera a Proba: «Il pregare consiste nel bussare alla porta di Dio e invocarlo con insistente e devoto ardore del cuore. Il dovere della preghiera si adempie meglio con i gemiti che con le parole, più con le lacrime che con i discorsi. Dio infatti “pone davanti al suo cospetto le nostre lacrime »(Salmo 55, 9), e il nostro gemito non rimane nascosto (cf. Salmo 37, 10) a lui che tutto ha creato per mezzo del suo Verbo, e non cerca le parole degli uomini» (2).
Risuona la parola di Gesù: Quando pregate, non pensate di ottenere attraverso il vostro molto pregare, perché il Padre sa benissimo ciò di cui avete bisogno. Tuttavia Gesù stesso ci insegna a esprimere i nostri bisogni. Non tanto però – dice Agostino – con la moltiplicazione delle parole in quanto tale, bensì con una moltiplicazione che esprima il gemito del credente. Viene così introdotta la nozione di «gemito» che ritroviamo nella pagina di san Paolo.
Concludendo, la preghiera di richiesta deve partire dal cuore, non va fatta superficialmente, deve essere un gemito, un desiderio profondo. Gemere, infatti, significa anelare a qualcosa di cui si ha estremo bisogno; anche fisicamente il gemito è l’espressione di chi, mancando di aria, cerca di aspirarla.

Che cos’è conveniente chiedere nella preghiera
Una seconda premessa, limitandoci alla preghiera di petizione: che dobbiamo chiedere? La formula patristica dice: decentium, cose convenienti. E comincia il problema: che cosa ci conviene? Perché Dio non ci dona ciò che non conviene, pur se lo domandiamo. Non a caso Matteo conclude la riflessione sulla preghiera con queste parole: «quanto più il Padre vostro celeste darà cose buone a coloro che gliele chiedono», cose che convengono (Matteo 7, 11).
Paolo insegna che noi non sappiamo che cosa ci con­viene («Nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare») e quindi dobbiamo istruirci sulle cose convenienti per poter pregare bene.
I Padri insistono soprattutto su una cosa conveniente, che esprimono con un’unica parola, ben indicata nella Lettera a Proba: «Quando preghiamo non dobbiamo mai perderci in tante considerazioni, cercando di sapere che cosa dobbiamo chiedere e temendo di non riuscire a pregare come si conviene. Perché non diciamo piuttosto col salmista: « Una cosa ho chiesto al Signore, questa sola io cerco: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita, per gustare la dolcezza del Signore e ammirare il suo santuario » (Salmo 26, 4)?».
E Agostino specifica: si tratta della «vita beata» (3). Tale formula sintetica ha il vantaggio di una lunga tradizione filosofica: parte da Aristotele, è ripresa dallo stoicismo, riappare in Cicerone, è usata da Ambrogio.
La sola cosa che dobbiamo chiedere, l’unico oggetto fondamentale della richiesta è la vita beata, la vita felice. Continua la Lettera a Proba: «Per conseguire questa vita beata, la stessa vera Vita in persona ci ha insegnato a pregare, non con molte parole, come se fossimo tanto più facilmente esauditi, quanto più siamo prolissi (…). Potrebbe sembrare strano che Dio ci comandi di fargli delle richieste quando egli conosce, prima ancora che glielo domandiamo, quello che ci è necessario. Dobbiamo però riflettere che a lui non importa tanto la manifestazione del nostro desiderio, cosa che egli conosce molto bene, ma piuttosto che questo desiderio si ravvivi in noi mediante la domanda perché possiamo ottenere ciò che egli è già disposto a concederci (… ). Il dono è davvero grande, tanto che né occhio mai vide, perché non è colore; né orecchio mai udì, perché non è suono; né mai è entrato in cuore d’uomo, perché è là che il cuore dell’uomo deve entrare (…). E perciò che altro vogliono dire le parole dell’Apostolo: « Pregate incessantemente » (1 Tessalonicesi 5, 17) se non questo: desiderate, senza stancarvi, da colui che solo può concederla, quella vita beata che niente varrebbe se non fosse eterna?» (4).
La domanda che Dio esaudisce sempre, la domanda che è oggetto di gemito è la pienezza della vita, la vita eterna.
Ogni richiesta che non è orientata a questa non è conveniente e non può né deve essere oggetto di preghiera.
E quando non sappiamo se ciò che chiediamo è o non è ordinato alla vita beata, allora lo è sotto condizio­ne, lo è se e in quanto ci è utile per tale vita.
Mi sembra molto importante capire qual è la cosa fondamentale nella quale si riassume ogni nostro desiderio e ogni nostra richiesta. Noi, uomini e donne, noi persone umane storiche, siamo ciò che desideriamo; il nostro desiderio è il farsi della personalità. Se dunque il nostro desiderio culmina in questa pienezza di vita, diventiamo davvero in Cristo questa pienezza di vita.
Ma se i nostri desideri sono limitati, inferiori, noi stessi finiamo con l’essere persone limitate, blocchiamo il nostro sviluppo verso la pienezza della vita.
Forse a noi dice poco il termine «vita beata» che, invece, era tanto significativo per gli antichi. Lo stesso Nuovo Testamento usa un’altra espressione: «Regno di Dio»; le richieste «venga il tuo Regno», «sia fatta la tua volontà» sottolineano dunque che il desiderio e le invocazioni della seconda parte del Padre nostro sono subordinate al Regno, sono mezzi, condizioni per il suo avvento. E ancora, il Nuovo Testamento parla di «Spi­rito santo».
Gesù, conclude l’istruzione sulla preghiera nel vangelo secondo Luca, dopo aver esortato a cercare, a bussare, a chiedere, con queste parole: «Se dunque voi che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito santo» (Matteo dice: «cose buone») «a coloro che glielo chiedono» (Luca 11, 13). L’oggetto della domanda è lo Spirito santo, che significa la vita con Cristo, l’essere con lui, la pienezza della vita beata che consiste nell’essere incorporati per sempre a Gesù nella Chiesa.
Le diverse espressioni (vita beata, Regno, Spirito santo) in realtà si completano, si integrano, si sovrappongono come l’oggetto fondamentale della preghiera di domanda, e quindi come l’oggetto del gemito, dell’attesa.
Proclamando, per esempio: «nell’attesa della tua venuta», esprimiamo il nostro desiderio di fondo, cioè che la pienezza del Regno si realizzi, che lo Spirito santo venga e purifichi ogni realtà, che l’umanità si ritrovi presto nella vita beata, nella perfetta pace e nella perfetta giustizia. Sant’Ambrogio usa anche un altro termine: il bene sommo, summum bonum, che ha forse il vantaggio di dire insieme l’essere di Dio e il suo comunicarsi a noi nello Spirito, nel Regno, in Gesù, nella Chiesa, nella Grazia, nella pienezza della redenzione.
Questo dunque è ciò che dobbiamo chiedere, con  assoluta certezza di ottenerlo, alla luce della Sacra Scrittura e dell’insegnamento dei Padri.

[1] Lettera a Proba 130, 14, 27 – 15, 28; CSEL 44, 71-73.
[2]  Ibid., 130, 9, 18 – 10, 20: CSEI. 44, GO-63
[3]  130, 8, 15.17 – 9, 18: CSEL 44, 56-57.59-60
[4]  Ibidem.

Pasqua (Card. C. M. Martini, La Pasqua dei deboli più forte della morte, 2007)

dal sito:

http://www.qumran2.net/ritagli/ritaglio.pax?id=6150

Pasqua

(Card. C. M. Martini, La Pasqua dei deboli più forte della morte, 2007)

Mentre il Natale evoca istintivamente l’immagine di chi si slancia con gioia (e anche pieno di salute) nella vita, la Pasqua è collegata con rappresentazioni più complesse. È una vita passata attraverso la sofferenza e la morte, una esistenza ridonata a chi l’aveva perduta. Perciò se il Natale suscita un po’ in tutte le latitudini, anche presso i non cristiani e i non credenti, un’atmosfera di letizia e quasi di spensierata gaiezza, la Pasqua rimane un mistero più nascosto e difficile. Ma la nostra esistenza, al di là di una facile retorica, si gioca prevalentemente sul terreno dell’oscuro e del difficile.

Mi appare significativo il fatto che Gesù nel suo ministero pubblico si sia interessato soprattutto dei malati e che Paolo nel suo discorso di addio alla comunità di Efeso ricordi il dovere di «soccorrere i deboli». Per questo vorrei che questa Pasqua fosse sentita soprattutto come un invito alla speranza anche per i sofferenti, per le persone anziane, per tutti coloro che sono curvi sotto i pesi della vita, per tutti gli esclusi dai circuiti della cultura predominante, che è (ingannevolmente) quella dello “star bene” come principio assoluto. Vorrei che il senso di sollievo, di liberazione e di speranza che vibra nella Pasqua ebraica dalle sue origini ai nostri giorni entrasse in tutti i cuori.

In questa Pasqua vorrei poter dire a me stesso con fede le parole di Paolo nella seconda lettera ai Corinti: «Per questo non ci scoraggiamo, ma anche se il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore si rinnova di giorno in giorno. Infatti il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria, perché noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili. Le cose visibili sono d’un momento, quelle invisibili sono eterne». (2Corinti 4,16-18). È così che siamo invitati a guardare anche ai dolori del mondo di oggi: come a «gemiti della creazione», come a «doglie del parto» (Romani, 8,22) che stanno generando un mondo più bello e definitivo, anche se non riusciamo bene a immaginarlo. Tutto questo richiede una grande tensione di speranza.

Più difficile è però per me l’esprimere che cosa può dire la Pasqua a chi non partecipa della mia fede ed è curvo sotto i pesi della vita. Ma qui mi vengono in aiuto persone che ho incontrato e in cui ho sentito come una scaturigine misteriosa dentro, che li aiuta a guardare in faccia la sofferenza e la morte anche senza potersi dare ragione di ciò che seguirà. Vedo così che c’è dentro tutti noi qualcosa di quello che san Paolo chiama «speranza contro ogni speranza» (ivi, 4,17), cioè una volontà e un coraggio di andare avanti malgrado tutto, anche se non si è capito il senso di quanto è avvenuto. È così che molti uomini e donne hanno dato prova di una capacità di ripresa che ha del miracoloso. Si pensi a tutto quanto è stato fatto con indomita energia dopo lo tsunami del 26 dicembre di due anni fa o dopo l’inondazione di New Orleans. Si pensi alle energie di ricostruzione sorte come dal nulla dopo la tempesta delle guerre.

È così che la risurrezione entra nell’esperienza quotidiana di tutti i sofferenti, in particolare dei malati e degli anziani, dando loro modo di produrre ancora frutti abbondanti a dispetto delle forze che vengono meno e della debolezza che li assale. La vita nella Pasqua si mostra più forte della morte ed è così che tutti ci auguriamo di coglierla”. In questa Pasqua vorrei poter dire a me stesso con fede le parole di Paolo nella seconda lettera ai Corinti: «Per questo non ci scoraggiamo, ma anche se il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore si rinnova di giorno in giorno. Infatti il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria, perché noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili. Le cose visibili sono d’un momento, quelle invisibili sono eterne». (2Corinti 4,16-18). È così che siamo invitati a guardare anche ai dolori del mondo di oggi: come a «gemiti della creazione», come a «doglie del parto» (Romani, 8,22) che stanno generando un mondo più bello e definitivo, anche se non riusciamo bene a immaginarlo. Tutto questo richiede una grande tensione di speranza.

Più difficile è però per me l’esprimere che cosa può dire la Pasqua a chi non partecipa della mia fede ed è curvo sotto i pesi della vita. Ma qui mi vengono in aiuto persone che ho incontrato e in cui ho sentito come una scaturigine misteriosa dentro, che li aiuta a guardare in faccia la sofferenza e la morte anche senza potersi dare ragione di ciò che seguirà. Vedo così che c’è dentro tutti noi qualcosa di quello che san Paolo chiama «speranza contro ogni speranza» (ivi, 4,17), cioè una volontà e un coraggio di andare avanti malgrado tutto, anche se non si è capito il senso di quanto è avvenuto. È così che molti uomini e donne hanno dato prova di una capacità di ripresa che ha del miracoloso. Si pensi a tutto quanto è stato fatto con indomita energia dopo lo tsunami del 26 dicembre di due anni fa o dopo l’inondazione di New Orleans. Si pensi alle energie di ricostruzione sorte come dal nulla dopo la tempesta delle guerre.

È così che la risurrezione entra nell’esperienza quotidiana di tutti i sofferenti, in particolare dei malati e degli anziani, dando loro modo di produrre ancora frutti abbondanti a dispetto delle forze che vengono meno e della debolezza che li assale. La vita nella Pasqua si mostra più forte della morte ed è così che tutti ci auguriamo di coglierla.

del Card. Carlo Maria Martini: Ebraismo e Cristianesimo

dal sito:

http://www.nostreradici.it/dialogo_Martini.htm

EBRAISMO E CRISTIANESIMO – STORIA E TEOLOGIA

del Card. Carlo Maria Martini

INDICE:

SGUARDO STORICO
Epoca del Nuovo Testamento
Periodo patristico
Periodo medievale
Periodo moderno e contemporaneo  SGUARDO TEOLOGICO -  Premessa
Le radici comuni che ci rendono fratelli
Differenze
Una speranza e un fine comune
Collaborazione ed emulazione fraterna
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SGUARDO STORICO

Epoca del Nuovo Testamento 

Il cristianesimo delle origini è profondamente radicato nell’ebraismo e non può essere compreso senza avere contemporaneamente una sincera simpatia e un’esperienza diretta del mondo ebraico. Gesù è pienamente ebreo, ebrei sono gli apostoli, e non si può dubitare del loro attaccamento alla tradizione dei padri. La pasqua messianica che Gesù, redentore universale e servo sofferente, annuncia e realizza, non si oppone all’alleanza del Sinai, ma ne completa il senso.

Le polemiche antiebraiche presenti nel Nuovo Testamento si comprendono a diversi livelli: a livello storico, nell’atmosfera delle lacerazioni settarie che opponevano i diversi gruppi (farisei, sadducei, qumran, esseni ecc.); a livello teologico, particolarmente in Giovanni: i « giudei » sono una categoria per esprimere chi rifiuta la salvezza (questa terminologia categoriale fu ben chiarita da Karl Barth, per esempio nel commento dell’Epistola ai Romani); a livello escatologico, per cui la « fine » delle strutture dell’alleanza viene sentita come una necessità del Regno, quando Dio regna « tutto in tutti »; a livello ecclesiale, come reazione alle pretese giudaizzanti che si affermavano in ambienti di cristiani provenienti dal paganesimo.

Ma tutto questo non significa che il cristianesimo originario e il Nuovo Testamento abbiano carattere antisemita. Il grande rilievo che Paolo dà alla tradizione e all’alleanza dei padri nella Lettera ai Romani sembra anzi voler contrastare la corrente di una certa opposizione agli ebrei che si manifestava presso alcuni cristiani di Roma provenienti dal mondo greco-romano.

Periodo patristico 

Lo studio dei padri per coglierne il rapporto con l’ ebraismo di ‘ErezJsrael’ e della diaspora (come si esprime in particolare nel Talmud) non è stato ancora compiuto; anche lo studio delle eresie dei primi secoli, specialmente in Asia e Oriente, e il loro rapporto con le correnti ebraiche, sarebbe prezioso per capire la nascita dell’lslam.

Il termine judaeus non ha, fino al secolo v, un senso peggiorativo presso i padri; le categorie di pensiero e la mentalità semita continuano a penetrare il pensiero cristiano in particolare fino a Nicea, ma anche dopo fecondano specialmente gli autori siri, come sant’Efrem, e attraverso di essi -anche grazie a sant’ Ambrogio – sono presenti in Occidente. Questo vale ancor più per la vita liturgica e la preghiera, per la quale è essenziale il rimando all’esperienza sinagogale, come vediamo ad Alessandria al tempo di Origene. Questa familiarità comincerà a incrinarsi nella Spagna visigota (sec. VII), quando i concili imporranno agli ebrei convertiti di abiurare e di abbandonare ogni tradizione precedente.

Agostino, sempre attento a cogliere i semi di verità (i logoi stoici) anche dai pagani, introduce però un elemento negativo nel giudizio sugli ebrei: è la cosiddetta « teoria della sostituzione » dell’antico Israele da parte del nuovo Israele, la chiesa. Ma non siamo ancora a una situazione di pesante intolleranza, come testimonia anche, proprio a Roma, il mosaico paleocristiano di Santa Sabina che raffigura accanto alla « Ecclesia ex Gentibus » la « Ecclesia ex Circumcisione » come una nobile matrona, immagine che nel Medioevo verrà sostituita da quella della sinagoga bendata.

 
Roma – S. Sabina -  Mosaico V Sec.
Ecclesia ex circumcisione – Ecclesia ex gentibus
 

Periodo medievale 

Leon Poliakov ha esaurientemente mostrato che, fino alle crociate, la situazione degli ebrei in Europa è ancora in genere di serena convivenza con la popolazione cristiana.

Una brusca e sanguinosa svolta è provocata dalle masse fanatiche che si muovono disordinatamente insieme agli eserciti diretti in Terrasanta: esse sono responsabili di feroci massacri di intere comunità ebraiche in Germania, nonostante le opposizioni di vescovi e di conti; agli ebrei veniva solo lasciata la scelta fra battesimo e martirio, e a migliaia scelsero quest’ultimo proclamando la propria fedeltà a Dio. Dal 1144 si diffonde anche l’accusa di omicidio rituale e più tardi quella di un odioso complotto degli ebrei, maledetti perché deicidi, contro il genere umano. Le conseguenze, specie a livello popolare, saranno gravissime: gli ebrei diventano quasi simbolo del male satanico, da estirpare implacabilmente con ogni mezzo.

La chiesa non partecipa di queste aberrazioni, tuttavia risente di questa atmosfera: così, nel 1215, il Concilio Lateranense IV impone agli ebrei il « segno » distintivo.

I secoli XIII-XIV vedono però a Roma una comunità ebraica particolarmente fiorente, e nel 1310-1311 il Concilio di Vienne decreta l’istituzione in tutta Europa di cattedre di ebraico e aramaico per lo studio del Talmud, anche se questa riforma di studi non venne mai attuata. Comunque in Spagna, Francia e Italia la collaborazione a livello culturale fra ebrei e cristiani è profonda; un’atmosfera che traspare nella novella di Melchisedèc Giudeo e del Saladino di Boccaccio (Decameron 1,3).

Il Medioevo, per gli ebrei, continuerà in Europa fino alla rivoluzione francese, marcato da due eventi gravissimi: l’esilio dalla Spagna (1492) e l’istituzione del ghetto, determinata dalla Bolla pontificia Cum nimis absurdum (1555), accompagnata da roghi del Talmud, vessazioni, processi religiosi, decadimento culturale. Queste persecuzioni debbono ispirarci una seria i riflessione per coglierne le cause, e certo i pregiudizi religiosi, alimentati da accese predicazioni popolari (ad esempio quella di san Bernardino), offrirono facili pretesti a chi cercava di trarre vantaggi politici o economici dagli ebrei insicuri e minacciati. Riconoscere gli errori di una malintesa religiosità o, peggio, del cieco fanatismo, è umile saggezza. L’intolleranza religiosa maschera spesso l’irreligiosità, e una religiosità meno attenta può essere strumentalizzata ad altri fini: non mancano esempi nella Scrittura, e Gesù perciò esorta alla conversione del cuore, per adorare il Padre « in spirito e verità » (Gv 4,23).

Periodo moderno e contemporaneo 

Gli ebrei dopo l’emancipazione sono attivamente presenti in campo scientifico, letterario, filosofico, politico, economico, artistico, nelle nazioni nate nell’epoca moderna, mentre fioriscono correnti favorevoli al ritorno alla « terra », in Palestina, ispirate da motivi religiosi o puramente politico-ideologici.

Nello stesso periodo, invece, la chiesa sperimenta una stagione di non facili rapporti con il nuovo ordine sociale e la nuova mentalità. Possiamo forse pensare che se ci fossero state relazioni fraterne fra cristianesimo ed ebraismo non avremmo sperimentato certe dolorose incomprensioni fra chiesa e mondo moderno?

Nuovi pogrom si susseguono in Russia sul finire del secolo XIX: anche qui fanatismo, intolleranza e pregiudizi religiosi si uniscono alle motivazioni politiche. Tragico e indescrivibile è l’orrore dello sterminio degli ebrei d’Europa programmato con sistematica e assurda ferocia dai nazisti: questa nuova tirannide statolatrica sfruttava abilmente i secolari pregiudizi antiebraici diffusi a livello popolare. All’orrore si unisce in noi un vivo dolore, se consideriamo quanta indifferenza, o peggio, quanto astio separava spesso ebrei e cristiani in quegli anni; ma va pure ricordato l’eroismo di molti per soccorrere gli ebrei perseguitati.

Pio XI stava preparando una enciclica di condanna dell’antisemitismo, e solo la morte interruppe questo progetto.

Il dopoguerra vede il risorgere di uno stato ebraico con una propria autonomia e con caratteri democratici, per il quale la maggior parte degli ebrei prega salutandolo quale « inizio della fioritura della Redenzione ». La chiesa si pone in atteggiamento di dialogo con il mondo, attenta a discernere i « segni dei tempi », in spirito di servizio all’umanità ancora lacerata da gravi contraddizioni. Il Concilio Vaticano II esprime tutta la passione della chiesa per la salvezza del mondo e per la pace e ripudia l’accusa di « deicidio » e « l’insegnamento del disprezzo » (Jules Isaac) nei riguardi degli ebrei, sottolineando al contrario il grande patrimonio comune di fede nel mistero del piano salvifico voluto da Dio.(1) I segni di queste grandi aperture, come la visita di Giovanni Paolo II alla sinagoga di Roma o la grande preghiera per la pace in Assisi, sono sotto gli occhi di tutti noi. Il 2 maggio 1987, il santo padre ha proclamato beata una figlia del popolo ebraico che ad Auschwitz si è offerta con Cristo « per la vera pace » e « per il suo popolo ».

1. Concilio Vaticano II, Nostra Aetate, 4.

SGUARDO TEOLOGICO  

Queste brevissime note storiche vogliono solo essere uno stimolo per mostrare quanto sia necessaria una sempre più accurata analisi critica del passato: la chiesa sarà costantemente grata a chi le offrirà un serio contributo culturale, prezioso per I interpretare la storia alla luce dei principi di fede.

Vorrei indicare alcuni di questi principi, che un faticoso e talora doloroso cammino storico ha fatto emergere nella riflessione teologica e nei documenti applicativi del Concilio emanati dalla Commission for the Religious Relations with the Jews, istituita nel 1974, di cui fui per diversi anni consultore. Questo cammino deve continuare e la teologia è invitata, con più insistenza dopo la Shoah, a confrontarsi con la storia e l’esperienza di fede degli ebrei ad Auschwitz » (J.B. Metz).

Le radici comuni che ci rendono fratelli 

Giovanni XXIII, il Concilio, Paolo VI (con l’enciclica Ecclesiam Suam), Giovanni Paolo II, cioè tutto il recente magistero universale della chiesa, così come i documenti di conferenze episcopali e di singole chiese locali, concordemente ribadiscono che chiesa e popolo ebraico sono legati da un profondo vincolo « a livello della propria identità religiosa », un vincolo che non distrugge ma valorizza le due comunità e i singoli membri nelle loro specifiche differenze e nei loro valori comuni.

Vorrei qui tentare solo un rapido sommario non esaustivo di questi elementi comuni, secondo la Scrittura e la tradizione.

La fede di Abramo e dei patriarchi nel Dio che ha scelto Israele con irrevocabile amore; la vocazione alla santità: « Siate santi, perché io sono Santo » (Lv Il,45) e la necessaria « conversione (teshuvah) del cuore »; la venerazione per le Sacre Scritture; la tradizione di preghiera, tanto privata quanto pubblica; l’obbedienza alla legge morale espressa nei comandamenti del Sinai; la testimonianza resa a Dio nella « santificazione del Nome » in mezzo ai popoli, fino al martirio se necessario; il rispetto e la responsabilità nei confronti di tutto il creato, l’impegno per la pace e il bene dell’umanità intera, senza discriminazioni.

E tuttavia questi elementi comuni sono intesi, vissuti nelle due tradizioni con modalità profondamente differenti.

Differenze 

Questi profondi valori che ci uniscono non sopprimono certo le caratteristiche che ci distinguono e che vanno esposte con altrettanta chiarezza, a fondamento di un onesto dialogo; in Gesù morto e risorto noi cristiani adoriamo il Figlio unigenito prediletto del Padre, il Messia signore e redentore dei popoli tutti che ricapitola in se l’intero creato. Tuttavia con questo atto di fede noi riteniamo di confermare i valori ebraici e la Torah, come afferma Paolo (Rm 3,31). La nostra esegesi dinamica ed escatologica delle Scritture ci pone in una linea di continuità-diversità con l’interpretazione ebraica.

Rimane il dovere urgente, per la riflessione ecclesiologica, di chiarire come le due comunità dell’alleanza, chiesa e sinagoga, non si confondano pur partecipando di una missione comune a servizio di Dio e dell’uomo. Sant’Ambrogio, parlando dei rapporti fra le due « alleanze » (Antico Testamento-Nuovo Testamento) parla di « rota intra rotam » e l’immagine è attraente. San Paolo aveva usato l’immagine viva dell’ulivo buono e dell’ oleastro.

La storia passata, d’altra parte, ci ha mostrato quanto danno questa missione ha patito a causa delle eccessive e talvolta tragiche contrapposizioni polemiche che ci hanno divisi.

Una speranza e un fine comune 

Non solo le radici e molti elementi del nostro cammino sono comuni, ma anche la meta finale può essere espressa e intesa in termini di convergenza. La speranza nel futuro messianico, quando Dio solo regnerà, Re di giustizia e di pace; la fede nella risurrezione dei morti, nel giudizio di Dio, ricco di misericordia, la redenzione universale, sono temi comuni per ebrei e cristiani. Le stesse diversità che su questi punti ci contraddistinguono potrebbero essere viste, forse più spesso di quanto non sembri, anche nel senso di una reciproca complementarità.

Collaborazione ed emulazione fraterna 

Sul fondamento di questi principi, che certo andranno attentamente studiati e approfonditi, appare già ora e apparirà credo più chiaramente come esista un ampio spazio per un doveroso impegno comune, specialmente a livello spirituale, etico, nel campo dei diritti umani e nell’assistenza a popoli e persone bisognosi di solidarietà per la pace e lo sviluppo integrale dell’umanità. Sempre più spesso appariranno anche punti di contatto affini che allargheranno queste responsabilità comuni ad altri credenti, in particolare ai fedeli dell’lslam.

A questo proposito, l’impegno comune di ebrei, cristiani e musulmani per una soluzione equilibrata che porti la pace « giusta e completa » (Giovanni Paolo II, 6 settembre 1978) a Israele, al popolo palestinese e al Libano, si fa sempre più urgente. Gerusalemme è come il centro e il simbolo di questi comuni valori religiosi, storici, etici e culturali, che debbono essere armonicamente composti e rispettati.

Come, alla vista di Gerusalemme, Gesù pianse « affinché ottenesse il perdono per le lacrime del Signore » (sant’ Ambrogio, De paenitentia, 1.11), così noi tutti speriamo che da Gerusalemme sgorghi un fiume di pace e un torrente di perdono e di amore.

[Relazione al colloquio internazionale dell'International Council of Christian and Jews, 9 luglio 1984, in Città senza mura, EDB, Bologna 1984]

Carlo Maria Martini: « Santi del nuovo Millennio »

dal sito:

http://www.vatican.va/roman_curia/pontifical_councils/laity/documents/rc_pc_laity_doc_20000818_xv-youth-day_catechesi-martini_it.html

CATECHESI DEL CARDINALE CARLO MARIA MARTINI,

ARCIVESCOVO DI MILANO, NELLA BASILICA DI SAN GIOVANNI IN LATERANO

Venerdì 18 agosto 2000

« Santi del nuovo Millennio »

Giovani di ogni continente, non abbiate paura di essere i santi del Nuovo Millennio! Essere santi vuol dire essere divini, entrare nella sfera del divino.

La santità è una dimensione anzitutto ontologica prima di essere una dimensione morale. Essere in Dio, essere figli, essere in Gesù, ecco ciò che siamo chiamati ad essere, come pure, ad essere immacolati, cioè senza macchia.

San Paolo nel capitolo quinto della Lettera agli Efesini parla della Chiesa e dice che Cristo ha amato la Chiesa, ha dato se stesso per Lei, per renderla santa purificandola per mezzo del lavacro dell’acqua, accompagnata dalla Parola, al fine di farci comparire davanti alla sua Chiesa tutta gloriosa senza macchia, né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata.

E noi siamo chiamati a essere santi ed immacolati in Gesù; la Chiesa è chiamata ad essere in Gesù santa e immacolata. Ecco, dunque, l’intenzione di Dio nella storia, che traspare da questa pagina di San Paolo.

L’intenzione di Gesù è di fare di ciascuno di voi qui presenti, di me che vi parlo, una sola cosa in Cristo e di fare di noi una sola cosa santa, cioè la Chiesa, di renderci divini, di purificarci da ogni macchia di egoismo, di odio, di amor proprio, di renderci figli nel figlio Gesù, come dice il versetto quinto di questo capitolo primo, predestinandoci ad essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo secondo il beneplacito della Sua volontà.

Ecco l’intenzione di Dio, che appare da questo brano:  essere santi, essere divini, cioè essere in Cristo, essere amati come figli, essere come Gesù, portare nel mondo la presenza e l’irradiazione stessa di Gesù.

Ecco fin qui ho cercato di leggere con voi questi versetti di San Paolo molto ricchi, molto superiori a quanto lui riesca a spiegare, ma ho cercato con voi di rendermi conto della immensità di questa chiamata ad essere santi.

Che cosa dice questa pagina a ciascuno di noi, oggi, che siamo qui in ascolto? e che cosa vuol dire, dunque, secondo la parola di San Paolo essere santi?

Quando noi ascoltiamo questa parola subito proviamo come un brivido di timore che essere santi significa essere molto bravi, fare chissà quali sforzi, ma questa pagina ci dice che tutto è molto più semplice:  essere santi vuol dire lasciarsi amare da Dio, lasciarsi guardare da Dio come Lui stesso guarda Gesù Cristo, significa essere figli in Gesù e con Gesù, vuol dire essere amati, lavati e perdonati da Gesù.

Essere santi, quindi, è un problema di Dio, prima che nostro, è un problema che tocca a Lui risolvere, per noi è importante lasciarci amare, non irrigidirci, non spaventarci, ma meravigliarci, quanto più ci ami o mio Dio e vuoi essere tutto in me, che vuoi fare una cosa sola con me, per insegnarmi a vivere ad amare, a soffrire e a morire come Te.

Ecco cosa vuol dire essere santi:  lasciare che Gesù viva in noi, lasciare che lo Spirito Santo formi l’immagine e la vita di Gesù in noi, così che giorno dopo giorno Gesù ci insegni a vivere, ad amare, a perdonare, a soffrire, a morire come Lui.

Ecco cosa vuol dire essere santi:  lasciare che Dio operi in noi e lasciare che da questa opera di Dio emergano anche poco a poco i passi, le caratteristiche i momenti, che ritmano la nostra santità.
Qui ritorno al messaggio del Santo Padre, di cui ho letto le prime parole:  « Giovani di ogni continente, non abbiate paura di essere i santi del Nuovo Millennio! ». Il Santo Padre descrive concretamente le caratteristiche di questa santità, che sono cinque.

« Siate – Lui dice – contemplativi e amanti della preghiera, coerenti con la vostra fede, generosi nel sevizio dei fratelli, membra attive della Chiesa, artefici di pace ».

Ecco che Egli ci traduce come mettere Gesù al centro del nostro cuore e della nostra vita.
Essere contemplativi si esplica in un qualcosa di molto semplice, per me sarebbe già molto, se ognuno iniziasse col prendersi dieci minuti al giorno di silenzio con il Vangelo, per pregustare la gioia del momento e allargare il tempo secondo le proprie possibilità.

Essere coerenti, cioè dare quello spettacolo che voi tutti date in questi giorni alla città di Roma, dimostrando che siete gente che ha speranza, gente che sorride, gente che affronta i sacrifici con serenità.

Essere generosi nel servizio dei fratelli consiste nei tanti atti di solidarietà. Ecco voi state dando al mondo questa immagine semplice di santità, che viene registrata con sorpresa dai mass-media, ma che eppure è qui ed è possibile. Nell’essere membra attiva della Chiesa volete esprimere la vivacità, la disponibilità, l’amore, la capacità di perdono della Chiesa. Ciascuno di voi, poi, vuole ed è chiamato ad essere artefice di pace, cominciando dalla famiglia, dalla parrocchia, dal proprio gruppo, a portare parole di benevolenza, di comprensione e di accoglienza.

Dopo avere descritto queste caratteristiche della santità, il Santo Padre dice anche come fare concretamente perché esse non siano proprie soltanto di questo giorno, ma diventino vita vissuta nella quotidianità. Dice il Santo Padre:  « Per realizzare questo impegnativo progetto, di vita rimanete nell’ascolto della Sua parola, attingete vigore dai sacramenti, specialmente dalla Eucaristia e dalla Penitenza ». Sono due atteggiamenti fondamentali, che nutrono la nostra santità, anzitutto l’ascolto della Parola. Queste ancora le parole del Santo Padre, che esprimono più concretamente che cosa aspetta da ciascuno di noi:  « Diventi il Vangelo il vostro tesoro più prezioso nello studio attento e nell’accoglienza generosa, nella Parola del Signore troverete alimento e forza per la vita di ogni giorno, troverete le ragioni di un impegno senza soste nell’edificazione della civiltà dell’amore ».

Se essere santi vuol dire essere come Gesù, in Gesù, è il Vangelo meditato e letto ogni giorno, che mette dentro di noi la vita, i sentimenti, i giudizi, i pensieri, le reazioni di Gesù. Rimanere, dunque, nell’ascolto della Parola e attingere vigore dai sacramenti soprattutto della Eucaristia e della Penitenza. Vorrei sottolineare come sia stato notato in questi giorni anche dai mass-media, con sorpresa, il rivivere della Confessione. Queste migliaia di confessioni fatte con fiducia nel Circo Massimo e altrove e qui; vorrei dirvi di non dimenticare questa straordinaria esperienza del sacramento della Penitenza. Portatela con voi, perché è attraverso questo sacramento che noi ritroviamo pur nella nostra debolezza, la forza ogni giorno di essere come Gesù, cioè essere santi.

A noi sembra molto duro e difficile tendere alla santità ogni giorno, è qualcosa che ci spaventa, eppure noi sperimentiamo continuamente che essere in Gesù e come Gesù, è molto bello ed è molto più bello del contrario, come diceva un autore recente:  « Non c’è che una tristezza, quella di non essere santi, la negligenza, la pigrizia, la svogliatezza, il cercare sempre e soltanto i propri comodi è la cosa più triste che ci sia. La santità, l’essere in Gesù, il cercare di avvicinarci a Lui, è la cosa più bella ». Vale la pena, dunque, provare ed è possibile realizzare questo ideale.

Mi vengono, così, in mente, tanti santi, che ho conosciuto, ammirato, e frequentato personalmente, persone, che hanno operato in più settori, dalla politica all’università, dall’imprenditoria a donne, madre di famiglia che hanno dato la propria vita per quella dei figli.

Tutti loro ci fanno vedere che i santi sono tanti oggi e che quindi la santità è in mezzo a noi. Ci sono nel nostro tempo non solo moltissimi santi, ma anche molti martiri del nostro tempo. Martiri della missione, martiri dell’aiuto agli ebrei, martiri delle stragi di popoli, martiri della dignità della persona umana, martiri della carità e martiri della giustizia. Non c’è stato mai nella storia della Chiesa un secolo così ricco di martiri come il secolo ventesimo, quindi la santità eroica soprattutto in mezzo a noi, da persone deboli, fragili come noi, ma capaci di lasciarsi possedere da Cristo Gesù.

Il 7 maggio scorso il Santo Padre ha voluto ha voluto fare memoria dei martiri ecumenici, cioè di tutte le chiese e confessioni cristiane, che hanno testimoniato la fede sotto un totalitarismo sovietico, ortodossi vittime comunismo, in tante nazioni europee.

Penso, così, all’Albania, alle persone che per decenni hanno vissuto ai lavori forzati o nei carceri, ai confessori della fede, vittime del nazismo e del fascismo, ai confessori che hanno dato la vita per la fede del Vangelo in Asia, in Oceania, fedeli della Spagna e del Messico, del Magadascar e dell’Africa, perseguitati, fedeli in America Latina. Ecco la presenza dei santi, oggi! La forza di Gesù che nessuno di noi ha, che nessuno di noi può pretendere di avere, ma che il Signore ha concesso in abbondanza a questo nostro secolo, che appare così pagano ma che è ricco più di tutti gli altri tempi di martiri e di santi.

Vorrei concludere con una testimonianza, che è forse una delle più sconvolgenti. Scritta qualche anno fa, nel 1994 il 1° dicembre, dal Priore di un monastero algerino, rapito e ucciso con altri sei monaci trappisti il 7 maggio del 1996. Ebbene scriveva, prevedendo cosa stava succedendo attorno a lui:  « Se un giorno mi capitasse, e potrebbe essere oggi, di essere vittima del terrorismo, che sembra voler coinvolgere attualmente tutti gli stranieri che vivono in Algeria, vorrei che la mia comunità, la mia Chiesa, la mia famiglia si ricordassero che la mia vita era stata donata a Dio e a questo popolo. Vorrei che essi accettassero che l’unico Signore di ogni vita non potrebbe essere estraneo a questa brutalità. Vorrei che essi pregassero per me. Come essere degno di una tale offerta! Vorrei che essi sapessero associare questa morte a tante altre, ugualmente, violente, lasciate nell’indifferenza e nell’anonimato. La mia vita non ha più valore di un’altra, non ne ha neanche meno, in ogni caso non ha l’innocenza dell’infanzia. Ho vissuto abbastanza per sapermi complice del male, che sembra in me prevalere nel mondo e anche di quello che potrebbe colpirmi alla cieca. Venuto il momento vorrei avere quell’attimo di lucidità, che mi permettesse di chiedere il perdono di Dio a quello dei miei fratelli, perdonando con tutto cuore, nello stesso momento, a chi mi avesse colpito ed anche tu, amico dell’ultimo istante, che non saprai quello che starai facendo, sì anche per te voglio dire questo grazie a Dio, nel cui volto ti contemplo, e ci sia dato di incontrarci di nuovo ladroni colmati di gioia in paradiso, se piace a Dio Padre nostro, Padre di tutti e due ».

È andato così con i compagni incontro ad una morte violenta, tenendo nel cuore la parola del perdono. Ecco la santità di oggi, quella che Gesù compie, quella che lo Spirito Santo della nostra debolezza esprime e nessuno di noi può presumere di avere questa forza, ma possiamo fidarci di Dio e di Gesù che opera in noi.

Vorrei concludere, proponendovi alcune domande per la vostra riflessione:  mi interrogo, ho voglia di essere santo, oppure ho paura di esserlo? Quale il più grande ostacolo per la santità? Quale, invece, il più grande stimolo, oggi, per la santità?

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