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LETTERA AI GENITORI – CARD. C.M.MARTINI

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CARD. CARLO MARIA MARTINI,

ARCIVESCOVO DI MILANO

Milano, 24 giugno 2002,

Lettera ai genitori

« Vi scrivo per condividere con voi una preoccupazione. Mi sembra di intravedere in molti ragazzi e giovani uno smarrimento verso il futuro, come se nessuno avesse mai detto loro che la loro vita non è un caso o un rischio, ma una vocazione… Non dovete dunque temere: il Signore chiama solo per rendere felici. Ecco perché oso disturbarvi. Mi sta a cuore la felicità vostra e dei vostri figli ». Vicino ormai alla conclusione del suo ministero pastorale alla guida dell’arcidiocesi di Milano (il 15 febbraio scorso ha compiuto 75 anni e rassegnato le dimissioni), il card. Carlo Maria Martini ha voluto scrivere una Lettera ai genitori, dal titolo Per chi ama i suoi figli e il futuro della Chiesa (24 giugno 2002).
Il tratto della cura e della vicinanza affettuosa pervade la lettera, che inquadra le fatiche e le preoccupazioni della condizione di genitori nella prospettiva di una vocazione benedetta da Dio e di una grazia, suggerendo purificazioni e priorità e comunicando fiducia e speranza.
Per la festa di San Carlo dell’anno scorso ho scritto una lettera ai preti sul futuro delle vocazioni. Ora, prima di concludere il mio ministero a Milano, vorrei dire una parola su questo argomento anche a tutti i genitori, ma allargando il più possibile gli orizzonti nel quadro della vita di famiglia e nell’ambito di ogni vocazione cristiana. Vi scrivo queste cose nella festa della Natività di san Giovanni Battista, che ci parla della gioia di un papà e di una mamma di avere un figlio a cui Dio ha assegnato una grande missione. Su questi temi avevo già parlato ai genitori in alcune brevi pagine delle lettere di Natale degli scorsi anni e ora busso di nuovo con discrezione alla vostra porta.
Avrete tempo per leggere anche questa lettera? Avrete un momento di calma per condividere qualche mia preoccupazione e considerare qualche mia proposta?
Chi sa come è stata la vostra giornata? Forse dopo ore di lavoro non facile e non senza tensioni, avete affrontato il viaggio di ritorno a casa che è stato più lungo ed esasperante del solito per un ingorgo, per un ritardo, per un qualsiasi imprevisto; e per finire può essere che appena entrati in casa abbiate incrociato lo sguardo risentito della figlia adolescente per un permesso negato e l’irrequietezza del più piccolo con i suoi capricci e la scoraggiante approssimazione nel finire i compiti.
E io oso ancora disturbarvi…!
Dovete credere che mi muove a questo scritto proprio un affetto, una cura per la vostra famiglia, il desiderio di dirvi ancora una volta la mia vicinanza e la mia ammirazione per il vostro compito educativo, così affascinante e talora così logorante.
Vi scrivo per condividere con voi una preoccupazione. Mi sembra di intravedere in molti ragazzi e giovani uno smarrimento verso il futuro, come se nessuno avesse mai detto loro che la loro vita non è un caso o un rischio, ma è una vocazione.
Ecco, vorrei parlarvi della vocazione dei vostri figli e invitarvi ad aprire loro orizzonti di speranza. Infatti i vostri figli, che voi amate tanto, sono amati ancor prima, e d’amore infinito, da Dio Padre: perciò sono chiamati alla vita, alla felicità che il Signore annuncia nel suo Vangelo. Dunque il discorso sulla vocazione è per suggerire la strada che porta alla gioia, perché questo è il progetto di Dio su ciascuno: che sia felice.
Non dovete dunque temere: il Signore chiama solo per rendere felici. Ecco perché oso disturbarvi. Mi sta a cuore la felicità vostra e dei vostri figli. E per questo mi stanno a cuore tutte le possibili scelte di vita: il matrimonio e la vita consacrata, la dedizione al ministero del prete e del diacono, l’assunzione della professione come una missione… Tutte possono essere un modo di vivere la vocazione cristiana se sono motivate dall’amore e non dall’egoismo, se comportano una dedizione definitiva, se il criterio e lo stile della vita quotidiana è quello del Vangelo.
Vi scrivo, dunque, per dirvi con quale affetto vi sono vicino e condivido la vostra cura perché la vita dei vostri figli che tanto amate non vada perduta.

La famiglia è una vocazione
La prima vocazione di cui voglio parlarvi è la vostra, quella di essere marito e moglie, papà e mamma.
Perciò la mia prima parola è proprio per invitarvi a prendervi cura del vostro volervi bene come marito e moglie: tra le tante cose urgenti, tra le tante sollecitazioni che vi assediano, mi sembra che sia necessario custodire qualche tempo, difendere qualche spazio, programmare qualche momento che sia come un rito per celebrare l’amore che vi unisce.
L’inerzia della vita con le sue frenesie e le sue noie, il logorio della convivenza, il fatto che ciascuno sia prima o poi una delusione per l’altro quando emergono e si irrigidiscono difetti e cattiverie, tutto questo finisce per far dimenticare la benedizione del volersi bene, del vivere insieme, del mettere al mondo i figli e introdurli nella vita.
L’amore che vi ha persuasi al matrimonio non si riduce all’emozione di una stagione un po’ euforica, non è solo un’attrazione che il tempo consuma. L’amore sponsale è la vostra vocazione: nel vostro volervi bene potete riconoscere la chiamata del Signore. Il matrimonio non è solo la decisione di un uomo e di una donna: è la grazia che attrae due persone mature, consapevoli, contente, a dare un volto definitivo alla propria libertà. Il volto di due persone che si amano rivela qualcosa del mistero di Dio.
Vorrei pertanto invitarvi a custodire la bellezza del vostro amore e a perseverare nella vostra vocazione: ne deriva tutta una concezione della vita che incoraggia la fedeltà, consente di sostenere le prove, le delusioni, aiuta ad attraversare le eventuali crisi senza ritenerle irrimediabili. Chi vive il suo matrimonio come una vocazione professa la sua fede: non si tratta solo di rapporti umani che possono essere motivo di felicità o di tormento, si tratta di attraversare i giorni con la certezza della presenza del Signore, con l’umile pazienza di prendere ogni giorno la propria croce, con la fierezza di poter far fronte, per grazia di Dio, alle responsabilità.
Non sempre gli impegni professionali, gli adempimenti di famiglia, le condizioni di salute, il contesto in cui vivete, aiutano a vedere con lucidità la bellezza e la grandezza della vostra vocazione. È necessario reagire all’inerzia indotta dalla vita quotidiana e volere tenacemente anche momenti di libertà, di serenità, di preghiera.
Vi invito pertanto a pregare insieme, già questa sera, e poi domani e poi sempre: una preghiera semplice per ringraziare il Signore, per chiedere la sua benedizione per voi, i vostri figli, i vostri amici, la vostra comunità: qualche Ave Maria per tutte quelle attese e quelle pene che forse non si riescono neppure a dire tra di voi.
Vi invito ad aver cura di qualche data, a distinguerla con un segno, come una visita a un santuario, una Messa anche in giorno feriale, una lettera per dire quelle parole che inceppano la voce: la data del vostro matrimonio, quella del battesimo dei vostri figli, quella di qualche lutto familiare, tanto per fare qualche esempio.
Vi invito a trovare il tempo per parlare tra voi con semplicità, senza trasformare ogni punto di vista in un puntiglio, ogni divergenza in un litigio: un tempo per parlare, scambiare delle idee, riconoscere gli errori e chiedervi scusa, rallegrarvi del bene compiuto, un tempo per parlare passeggiando tranquillamente la domenica pomeriggio, senza fretta. E vi invito a stare per qualche tempo da soli, ciascuno per conto suo: un momento di distacco può aiutare a stare insieme meglio e più volentieri.
Vi invito ad avere fiducia nell’incidenza della vostra opera educativa: troppi genitori sono scoraggiati dall’impressione di una certa impermeabilità dei loro figli, che sono capaci di pretendere molto, ma risultano refrattari a ogni interferenza nelle loro amicizie, nei loro orari, nel loro mondo.
La vostra vocazione a educare è benedetta da Dio: perciò trasformate le vostre apprensioni in preghiera, meditazione, confronto pacato. Educare è come seminare: il frutto non è garantito e non è immediato, ma se non si semina è certo che non ci sarà raccolto. Educare è una grazia che il Signore vi fa: accoglietela con gratitudine e senso di responsabilità. Talora richiederà pazienza e amabile condiscendenza, talora fermezza e determinazione, talora, in una famiglia, capita anche di litigare e di andare a letto senza salutarsi: ma non perdetevi d’animo, non c’è niente di irrimediabile per chi si lascia condurre dallo Spirito di Dio.
E affidate spesso i vostri figli alla protezione di Maria, non tralasciate una decina del rosario per ciascuno di loro: abbiate fiducia e non perdete la stima né di voi stessi né dei vostri figli. Educare è diventare collaboratori di Dio perché ciascuno realizzi la sua vocazione.

L’educazione: collaborazione alla gioia dei figli
La gioia che desiderate per voi e per i vostri figli è un misterioso dono di Dio: giunge a noi come la luce amica delle stelle, come una musica lieta, come il sorriso di un volto desiderato. La collaborazione che i genitori possono offrire alla gioia dei figli è l’educazione cristiana. L’educazione non è un meccanismo che condiziona, ma l’accompagnamento di una giovane libertà perché, se vuole, giunga al suo compimento nell’amore. Educare è dunque un servizio umile, che può conoscere il fallimento; è però anche una impresa formidabile di cui un uomo e una donna possono gioire con inesprimibile intensità.
L’educazione cristiana è il paziente e tenace lavoro che prepara il terreno al dono della gioia di Dio. Infatti la luce delle stelle non si vede se il bagliore sfacciato delle luminarie nasconde la notte, la musica lieta non avvolge di consolazione quando il frastuono del rumore è assordante e non si ha tempo per un volto amico nella eccitazione di una folla in delirio. Per disporre alla gioia è dunque necessaria una purificazione che non va senza fatiche.
Voglio alludere almeno ad alcune delle purificazioni che mi sembrano particolarmente necessarie oggi.
La purificazione degli affetti significa introdurre alla gioia che è sconosciuta a chi immagina i rapporti tra l’uomo e la donna come una via per ridurre l’altro a strumento per la propria gratificazione e rassicurazione: allora gli affetti degenerano a passione, possessività, sensualità.
Lo spirito di servizio e la disponibilità al sacrificio introducono alla gioia che si rallegra di vedere gli altri contenti, le iniziative funzionare bene, le comunità ordinate e vivaci. È una gioia sconosciuta a chi impigrisce nell’inconcludenza. Come mi stringe il cuore considerare lo sperpero di tempo, di risorse giovani e affascinanti, di intelligenza e denaro che vedo compiersi da parte di tante compagnie dei nostri ragazzi! Come è urgente reagire all’inerzia e alla malavoglia per edificare una vita lieta!
La purificazione dalla paura del futuro è urgente per introdurre alla gioia della definitività. Una vita si compie quando si definisce in una dedizione: la scelta definitiva deve essere desiderata come la via della pace, come l’ingresso nell’età adulta e nelle sue responsabilità. Siano benedetti quei genitori che con la fedeltà del loro volersi bene insegnano che la definitività è una grazia e non un pericolo da temere, né una limitazione della libertà da ritardare il più possibile. Pericolosa e fonte di inquietudine è invece la precarietà, la provvisorietà, lo smarrimento che lasciano un giovane parcheggiato nella vita, incerto sulla sua identità e spaventato del suo futuro.

Educare all’appartenenza alla Chiesa
Voi genitori sentite la responsabilità di provvedere alla felicità dei vostri figli: siete disposti a concedere molto, talora anche troppo, « purché lui sia contento ».
Questo diventa motivo di ansia, di sensi di colpa, di esasperazione quando non riuscite a ottenere dai figli che assumano, condividano le vostre indicazioni, quando risultano impraticabili le proposte che sembrano tanto ovvie ai preti, agli insegnanti, agli esperti che scrivono sui giornali.
A me sembra che sia più saggio considerare che i genitori non sono colpevoli di tutti gli errori e l’infelicità dei figli, di tutto lo squallore di certe giovinezze sciupate nell’inconcludenza o nella trasgressione. È eccessivo che un papà e una mamma si sentano colpevoli di tutto: è più prudente e rasserenante condividere la responsabilità dentro una comunità.
Quando avete portato il vostro bambino in Chiesa per chiedere il Battesimo avete dichiarato la vostra fede nel Padre che sta nei cieli e la vostra decisione che il figlio crescesse nella comunità cristiana.
Mi sembra che una conseguenza coerente della scelta di chiedere il battesimo per i propri figli sia un’opera educativa che si preoccupi di inserire in una comunità, di promuovere la partecipazione, di insinuare nei ragazzi e nei giovani un senso di appartenenza alla comunità cristiana in cui si educa alla fede, alla preghiera, alla domanda sul futuro. Una famiglia che si isola, che difende la propria tranquillità sottraendosi agli appuntamenti comunitari risulta alla fine più fragile e apre la porta a quel nomadismo dei giovani che vanno qua e là assaggiando molte esperienze, anche contraddittorie, senza nutrirsi di nessun cibo solido.
Inserirsi in una comunità può richiedere qualche fatica e non risparmia qualche umiliazione: penso alle famiglie che hanno cambiato casa e si sentono perdute nei quartieri nuovi, penso a quelle che hanno sofferto qualche incomprensione, penso a quelle appassionate dell’andare altrove per vedere gente, per praticare sport, per respirare un po’ d’aria buona. Ecco: viene il tempo in cui scegliere le priorità. Il futuro dei vostri figli ha bisogno di scelte che dichiarino che cosa è più importante.
Ritenere irrinunciabile la partecipazione alla Messa domenicale introduce a una mentalità di fede che ritiene che senza il Signore non si può fare niente di buono.
Perciò la frequenza alla messa domenicale nella vostra parrocchia, la partecipazione alle feste della comunità, l’assunzione di qualche responsabilità, la cura perché i figli frequentino l’oratorio, la catechesi, gli impegni e le iniziative dei giovani della parrocchia sono un modo per favorire questo senso di appartenenza che dà stabilità e conduce a un progressivo farsi carico della comunità che può maturare anche in una vocazione al suo servizio.

Stima per i preti e apprezzamento per la loro vita
Mi capita talora di raccogliere nei genitori una specie di paura, di apprensione al sospetto che un figlio possa orientarsi al ministero sacerdotale.
Anche i genitori dei seminaristi mi fanno intuire la loro inquietudine, come se mi domandassero: « Ma che vita aspetta mio figlio, se diventa prete? Sarà felice? Sarà solo? ».
Vorrei rispondere che la vita del prete, di oggi e di domani, come quella di ieri, è una vita cristiana: perciò chi vuol essere un bravo prete porterà la sua croce ogni giorno, come fate voi, in una dedizione che non sarà sempre gratificata da riconoscenza e da risultati, in un esercizio di responsabilità che incontrerà anche la critica e l’incomprensione, in un assedio di impegni e di pretese che sarà talora logorante.
Tuttavia non si considera abbastanza – mi sembra – ciò che rende bella la vita di un prete, bella e lieta in un modo unico.
Il prete infatti vive soprattutto di relazioni: dedica il suo tempo alle persone. Non si cura di cose, di carte, di soldi, se non secondariamente. Passa il suo tempo a incontrare gente: i bambini e gli anziani, i giovani e gli adulti, i malati e i sani, quelli che gli vogliono bene e lo aiutano e quelli che lo criticano, lo deridono, e pretendono. È una esperienza umana straordinaria. E incontra le persone non per vendere loro qualche cosa, non per trarne qualche vantaggio, non per curiosità, non come si incontra un cliente, ma per prendersi cura della loro vita, della loro vocazione alla gioia, del loro essere figli di Dio. Al prete le persone spesso aprono il loro cuore per una confidenza che non ha eguali nei rapporti umani e in questa confidenza viene seminata la Parola che dice la verità, che apre alla speranza eterna, che guarisce con il perdono.
Il prete vive una libertà straordinaria: ha consegnato se stesso alla Chiesa e perciò se è coerente con la sua vocazione, non ha apprensioni per il suo futuro, non si attacca alle cose, non si assilla per arricchire. Ha consegnato se stesso per un’obbedienza al Vescovo e proprio nell’esercitare questa obbedienza vive una grande libertà, dispone del suo tempo per servire, dispone delle sue qualità particolari per giovare alla sua comunità.
Il prete celebra per sé e per la gente i misteri della salvezza: opera delle sue mani non sono prodotti precari, fortune esposte all’incerta sorte delle cose umane. Celebrando i santi misteri offre alla gente la grazia d’entrare nella vita eterna, la comunione con Gesù. Per quanto la sua parola possa essere disattesa, per quanto possa risultare ridotto il numero di coloro che ricercano il dono offerto, il prete vive la certezza che il Regno di Dio viene proprio così, come il seme che muore per produrre molto frutto. Il prete alla fine della sua vita, volgendosi indietro, potrà provare pentimento delle sue miserie e rattristarsi della sua inadeguatezza alla missione ricevuta, ma non gli mancherà l’incomparabile consolazione di aver offerto agli uomini il pane della vita eterna e l’abbraccio del perdono di Dio.
Mi sembra opportuno ricordare ciò che rende grande e bella la vita del prete, perché l’enfasi sulle fatiche, la sottolineatura delle difficoltà non oscuri questa forma splendida di vita cristiana.
Penso che un papà e una mamma possano comprendere, al di là dei luoghi comuni e delle reazioni emotive, quale grande grazia sia il dono del sacerdozio e possano perciò rallegrarsi se un loro figlio sente l’attrattiva per questa strada: vi assicuro che non gli mancherà la gioia, se sarà un bravo prete.
In ogni caso parlare male dei preti e indicarli come responsabili di tutto quanto non va nelle comunità cristiane non può certo aiutare a migliorare le cose e tanto meno incoraggiare un giovane a farsi avanti per assumere un ministero tanto necessario per la Chiesa e tanto bello per chi lo vive bene.

La preghiera per le vocazioni al ministero
La bellezza cristiana della vita di un bravo prete e la grazia straordinaria che rappresenta un prete santo per una comunità devono suggerire a tutti di pregare perché nelle nostre comunità non manchino i preti. La preghiera per le vocazioni al ministero sacerdotale deve essere condivisa da tutta la comunità.
Invito anche voi a pregare in famiglia e a suggerire questa intenzione di preghiera anche ai vostri figli, in obbedienza alla parola del Signore « pregate il padrone della messe che mandi operai per la sua messe »(Lc 10,2).
Come ho scritto ai preti in occasione della festa di San Carlo, questa preghiera non è una specie di delega al Signore perché faccia quello che a noi non riesce: è piuttosto un abbandonarsi intelligente e libero alla guida dello Spirito che diventa disponibilità a compiere le opere di Dio. Perciò la preghiera per le vocazioni dovrebbe essere più intensamente praticata da parte di coloro che si trovano nell’età e nelle condizioni della scelta del loro stato di vita. Vorrei che ogni adolescente o giovane comprendesse che la verità della preghiera per le vocazioni è raggiunta quando nel fondo risuona come la preghiera di Isaia: « Signore, se vuoi, manda me! » (cf. Is 6,8).

Vi invito a pregare così:
Dio, Padre onnipotente, noi ti preghiamo di mandare operai del Vangelo per la nostra santa Chiesa ambrosiana nella quale hai operato per secoli le tue meraviglie. Noi ti preghiamo per intercessione dei nostri santi vescovi, Ambrogio e Carlo, del beato cardinal Ferrari e del beato cardinal Schuster, noi ti preghiamo per intercessione di Maria, la nostra Madonnina che dall’alto del Duomo prega per la nostra Chiesa.
Noi ti preghiamo per le nostre comunità: siano popolate da persone ricche di fede, pronte al servizio, inclini alla riconoscenza per tutti quelli che si dedicano al sacro ministero.
Noi ti preghiamo di infondere nei nostri giovani il tuo Santo Spirito, perché siano attirati alla contemplazione di Gesù e alla sua sequela, possano sperimentare la gioia di una libertà che si fa dono, obbedienza, premura per la fede dei fratelli.
Noi ti preghiamo di infondere in noi tutti il tuo Santo Spirito, perché siamo forti e intelligenti nella lotta contro le tentazioni del nostro tempo e siamo perseveranti nel bene per portare a compimento la nostra vocazione e giungere alla gioia eterna e perfetta che tu prepari per i tuoi figli amati.
Amen.

Milano, 24 giugno 2002, festa della Natività di s. Giovanni Battista.

X Carlo Maria card. Martini

A GERUSALEMME SALGONO LE MOLTITUDINI DEL SIGNORE, SALMO 122 LECTIO, C.M. MARTINI

http://www.nostreradici.it/salmo-ascensioni.htm

A GERUSALEMME SALGONO LE MOLTITUDINI DEL SIGNORE  

[Tratto da: Carlo Maria Martini, Lettura ecumenica della Parola, 9-10 settembre 1994, in AA.VV. Gerusalemme patria di tutti, EDB, Bologna 1995]

« Lectio » del Salmo 122    

[Testo del Salmo]

http://www.nostreradici.it/salmo-ascensioni.htm

Nel testo ebraico questo salmo è intitolato Cantico delle ascensioni o delle ascesi, dei gradini, delle salite, un titolo che caratterizza ben quindici salmi (dal 120 al 134), detti pure I canti del pellegrinaggio, raccolti insieme per servire da cantici del pellegrinaggio a Gerusalemme. Nella versione originale, il 122 è anche il primo dei quindici che viene attribuito a Davide, insieme ai due successivi (dei rimanenti uno è ascritto a Salomone mentre per gli altri non ci sono ipotesi). Certamente c’è un motivo per tale attribuzione, pur se non si ritiene che essa sia autentica e storica perché il salmo sarebbe stato composto più tardi, quando il pellegrinaggio a Gerusalemme era diventato un’abitudine. In ogni caso, Davide è il fondatore della città e il Salmo 122 presuppone Davide come un personaggio: « Là ha sede il trono di giustizia, il trono di Davide » (v. 5). Probabilmente, parlando di Gerusalemme come città « costruita, salda e compatta », il salmista intende riferirsi alla città ricostruita dopo l’esilio, che diventa quindi il vanto e la gioia di Israele. L’attribuzione del salmo a Davide è comunque fondata, perché esso testimonia un grande amore alla città costruita da Davide quale capitale del suo popolo. Quali sono gli elementi costitutivi del salmo? Anzitutto notiamo una inclusione, cioè una parola che ricorre all’inizio e alla fine: casa del Signore, dimora del Signore. « Andiamo alla dimora del Signore » (v. 1); « Per la casa del Signore » (v. 9). È interessante osservare come poi non si parli più di questa casa, ma piuttosto della città: ciò significa che dapprima Gerusalemme è vista in particolare come luogo del tempio e poi anche come città nel suo insieme. Un altro elemento fondante è la triplice menzione di Gerusalemme (vv. 2. 3. 6), descritta nelle sue porte, nelle sue mura, nei suoi baluardi. Appellata tre volte, delineata con tre caratteristiche e indicata con il pronome « tu »: « alle tue porte », « sia pace a chi ti ama ». Altro elemento strutturale del salmo è che Gerusalemme è vista quale luogo di pace. Ben quattro le occorrenze di questo termine: « domandate pace per Gerusalemme », « sia pace a coloro che ti amano », « sia pace sulle tue mura », « su di te sia pace ». Il gioco di parole è evidente: « Gerusalemme » veniva interpretata quale « città dello shalom », della pace: sia pace alla città della pace, domandate pace per la città della pace. Infine il salmo è caratterizzato anche da altre ripetizioni che gli imprimono un ritmo poetico, molto bello: le tribù, le tribù del Signore, i seggi di giustizia, i seggi della casa di Davide. Vi cogliamo, pur se non possiamo penetrare a fondo il ritmo dell’originale, quell’affiato che ne fa un poema, un cantico, qualcosa che nasce dal cuore e, attraverso ritmi, ripetizioni, assonanze (sono tante nel testo ebraico) mette in luce un’anima innamorata di Gerusalemme. Tenendo conto di questi elementi formali, cerchiamo di capire la struttura logica del salmo, facilmente suddivisibile secondo le tappe di un pellegrinaggio. Un pellegrinaggio viene anzitutto deciso; immaginiamo che il salmo venga cantato da un gruppo di pellegrini che giungono alle porte della città. Essi devono fermarsi per sbrigare alcune pratiche burocratiche previste prima dell’ingresso; si riposano e contemplano la città. Contemplandola ripensano all’inizio del cammino, al momento in cui hanno deciso di partire; è il v. 1, « Quale gioia quando mi dissero: ‘Andremo alla casa del Signore »‘. Dopo l’inizio, è immediatamente sottolineato l’arrivo: ora ci siamo, « i nostri piedi si fermano alle tue porte, Gerusalemme! » (v. 2). Al v. 3 Gerusalemme viene contemplata dall’esterno, ammirata quale costruzione salda e compatta, in cui tutto è unità. È un riferimento alla città sul monte, che dà l’impressione di compattezza (sulla roccia), e insieme alla situazione spirituale della città, salda perché fondata sul Signore, unificata dallo Spirito di Dio. Quindi, Gerusalemme è contemplata nelle sue caratteristiche e nel suo ruolo (w. 4-5). Si tratta di una riflessione a livello morale: meta di pellegrinaggio, luogo di culto, di lode, di testimonianza della gloria di Dio, centro amministrativo e politico: « I seggi del giudizio, i seggi della casa di Davide », casa a cui fu promessa la perpetuità. Dunque un centro religioso e un centro politico-amministrativo a cui si guarda con fiducia per i beni che ci attendono dalla responsabilità politica che ricade su Gerusalemme. A questo punto segue la preghiera che può essere pensata a due cori, partendo dal v. 6: « Domandate pace per Gerusalemme ». Anzi, colui che ha espresso la sua gioia, magari il capo- pellegrinaggio, rivolge un invito ai compagni pellegrini: « Do- mandate… ». E all’invito risponde il coro: « sia pace a coloro che ti amano, sia pace sulle tue mura, sicurezza nei tuoi baluardi » (v. 7). Il capo, allora, riprende da solo: « Per i miei fratelli e i miei amici io dirò: ‘Su di te sia pace!’. Per la casa del Signore nostro Dio, chiederò per te il bene » (w. 8-9). Qui ritorna l’appellazione a Gerusalemme con il « tu », come a una persona amica che si incontra e cui si augura il bene, la pace. Dunque, due cori, nel senso di un solista e di un gruppo. Sul tempo in cui il salmo è stato scritto ho già accennato un’ipotesi: il tempo dopo l’esilio, quando il tempio è ricostruito e il popolo va in pellegrinaggio alla città santa, l’unico simbolo rimasto dell’unità di Israele.

« Meditatio »del Salmo 122    Per rileggere il messaggio, sono possibili diverse piste, diverse linee. Ne ho scelte tre: una lettura storico-esistenziale (messianica); una lettura più specificamente cristiana; e una terza personale, che riguarda ciascuno di noi. Gli elementi di una lettura storico-esistenziale sono i grandi simboli del cammino umano contenuti nel salmo, che ne fanno una realtà di tutti i tempi, di tutti i luoghi, di tutte le culture. Due sono i principali. n primo è il pellegrinaggio, menzionato non quale tema specifico, bensì nel suo decidersi, nel suo compiersi. È un grande simbolo del cammino umano, della vita dell’uomo e dell’umanità, della vita di tutti gli uomini e di tutte le donne considerati come collettività. n simbolo avverte: se la vita umana è colta come pellegrinaggio, allora essa non è un vagare senza scopo e neppure una fuga dal paradiso, priva di speranza; al contrario, è un camminare verso un termine. Questa è già un’apertura straordinaria per accogliere l’esistenza umana come una realtà che ha un senso preciso. E quando abbiamo riconosciuto che tale cammino ha un senso e una meta, scoppia la gioia: « Quale gioia… ». Gerusalemme è l’altro simbolo, la meta stessa del cammino. Un simbolo universale perché si tratta di una città, di un luogo di incontro, un luogo di relazioni molteplici, dove i diversi si ritrovano. Quindi l’umanità non va verso una dispersione, una Babele confusa, ma verso un luogo nel quale tutti si incontreranno, si capiranno, intesseranno rapporti reciproci. Questa città è salda, non delude. n tema della saldezza è il più ripreso dal Nuovo Testamento, che non cita esplicitamente il Salmo 122 però ne riprende il contenuto: andiamo verso una città salda, solida, ben costruita, compatta, dove tutto è unità. Questo è il termine del cammino umano. Ed è anche il luogo d’incontro armonioso e aperto con Dio, dove Dio è lodato e dove c’è ordine perché la legge è fatta osservare, dove c’è il trono di giustizia e ci sono i seggi del giudizio. L’umanità va verso un luogo dove la giustizia, quella di Dio, non la nostra, trionfa. Dove, soprattutto, l’umanità spera di vivere l’ideale della pace e della sicurezza: « Domandate pace per Gerusalemme, su di te sia pace e tranquillità nelle tue mura, sicurezza nelle tue case ». L’umanità è così definita come colei che anela a una tale città, che va verso di essa e trova speranza nella fiducia di camminare e di essere condotta alla meta. Una visione quindi molto positiva, anzi propositiva perché ne derivano molte conseguenze per il modo di camminare dei popoli. Da questa visione nasce pure una certa pazienza storica: a noi spetta di porre le premesse affinché si vada sempre meglio verso la città armoniosa, unita, capace di lodare l’Eterno, di vivere l’ordine della giustizia. Una lettura cristiana ci fa subito pensare a Gesù che ha vissuto profondamente la gioia del Salmo 122. Già a dodici anni aveva esclamato: quale gioia ho provato ascoltando i miei genitori che mi dicevano: andiamo alla dimora del Signore! E probabilmente l’ha cantato alle porte di Gerusalemme quella prima volta e poi ogni volta, fino all’ultimo pellegrinaggio nel quale si avviava piangendo verso la città santa: « Oh, se tu riconoscessi ciò che giova alla tua pace! ». Anzi, nel testo greco il salmo usa l’espressione erofesafe de fa eis eirenen (v. 6) ripresa dal Nuovo Testamento: se tu riconoscessi le cose che riguardano la pace di Gerusalemme. Dunque Gesù ha cantato questo salmo nella gioia e nella sofferenza sapendo che la sua sofferenza era parte del cammino di Gerusalemme e dell’umanità verso la pace. Partendo dalla lettura che ne ha fatto Gesù, ci domandiamo se il Salmo 122 risuona anche negli scritti apostolici neotestamentari. Non mi sono venute alla mente citazioni specifiche, tuttavia il tema della città salda è molto presente. Ef 2, 19-20, 22: « Voi non siete più stranieri ne ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio, edificati sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti [...] In Gesù ogni costruzione cresce bene ordinata per essere tempio santo del signore; in lui anche voi insieme con gli altri venite edificati per diventare dimora di Dio ». Questo tema è penetrato fortemente nello spirito di Paolo, che ne fa un simbolo interpretativo della crescita della comunità cristiana, che è la realtà che viene edificata come la città del salmo. L’aspetto di pellegrinaggio verso tale città è però presente in particolare in Eb 11 e in Eb 12: Abramo ha potuto partire e lasciare tutto in quanto « aspettava la città dalle salde fondamenta, il cui architetto e costruttore è Dio stesso » (11, 10); « Chi dice così, dimostra di essere alla ricerca di una patria » (11, 14), pellegrino sulla terra; « Se avessero pensato a quella da cui erano usciti, avrebbero avuto possibilità di ritornarvi; ora invece essi aspirano a una migliore, cioè a quella celeste. Per questo Dio non disdegna di chiamarsi loro Dio: ha preparato infatti per loro una città » (11, 15-16). E ancora: « Vi siete accostati alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste » (12, 22), ecco la menzione diretta. Alla città che fa parte delle cose incrollabili: « Rimangono le cose che sono incrollabili. Perciò riceviamo in eredità un regno incrollabile » (12, 27-28). Riassumendo il messaggio del salmo: l’uomo è in cammino, pellegrino verso una città salda, compatta, nella quale Dio è lodato, nella quale è la pienezza della pace, una città che non delude e per cui vale la pena abbandonare le altre città. Nella spiritualità del Nuovo Testamento è penetrato inoltre il pensiero delle moltitudini, di tutte le tribù della terra. Le moltitudini salgono ora verso tale città, e tutte sono chiamate « moltitudini del Signore ». Così, la lettura cristiana diventa lettura ecclesiale; la chiesa non è la meta, la grande città, ma è un popolo in marcia verso quella città. Se Israele testimonia « là » la tua gloria, Signore, se « là » ha sede il trono di giustizia, i nostri interessi sono veramente là? È il « là » di questa città verso cui camminiamo il nostro criterio di giudizio storico? Perché, se è così, allora tutte le altre realtà sono relative, tutti gli eventi (storici, sociali, politici, culturali, ecclesiali) vanno valutati tanto quanto rispondono a un cammino verso la città compatta, pacifica, giusta, oppure rallentano o fanno deviare il cammino. Quindi il cristiano, interrogato sulle sue speranze, dovrebbe rispondere spontaneamente: le mie speranze sono la Gerusalemme celeste, sono là le mie speranze. È il « là » della pienezza dell’azione di Dio nel suo popolo, nell’umanità. La lettura più personale del salmo dà spazio a tante riflessioni. Pensiamo ai pellegrinaggi che ciascuno di noi ha fatto a Gerusalemme e nei quali probabilmente ha cantato, evocato, recitato il Salmo 122 allorché ha visto le mura della città. Nella preghiera potremmo ringraziare il Signore per le esperienze che ci ha donato nei nostri pellegrinaggi, per quanto ci ha fatto capire su Gerusalemme. Ogni volta che ne rivediamo le mura, proviamo una fortissima emozione. E se non siamo mai stati a Gerusalemme, come immaginiamo il pellegrinaggio verso la città santa, come lo viviamo nella preghiera? « Andiamo con gioia! » è parola che esprime la tensione verso il pellegrinaggio, equivale a dire: sapevo che sarebbe venuto questo momento e penso a ciò che da sempre ho desiderato.

Conclusione    In quale modo la Gerusalemme di oggi partecipa, nel suo destino doloroso e tragico, alle benedizioni di Dio, alla promessa di pace?    Partecipa anzitutto attraverso la nostra instancabile preghiera per la sua pace, le nostre preghiere per la città reale e simbolica che conosciamo, di cui tocchiamo le mura: Sia pace sulle tue mura! Ci domandiamo se e come operiamo per la pace di Gerusalemme, la cui pace è simbolo, segno, radice e causa della pace di tante altre città. Il Salmo 122 ci impegna dunque a pregare e a operare per la pace nella giustizia.

CARD. CARLO MARIA MARTINI – GERUSALEMME : SIMBOLO E REALTA’

http://www.artcurel.it/ARTCUREL/TERRASANTA/gerusalemmesimboloerealta.htm

CARD. CARLO MARIA MARTINI

GERUSALEMME : SIMBOLO E REALTA’

La Gerusalemme celeste e la Gerusalemme storica

La Gerusalemme celeste (Ap 21, 1-22, 5)

Siamo nella parte finale dell’Apocalisse, dedicata alla descrizione della Gerusalemme celeste, a cui seguirà la conclusione. Il nuovo ordine di cose, instaurato dalla morte e risurrezione di Cristo, è disegnato attraverso due grandi fasce di simboli.
Quelli della creazione e del paradiso di Genesi 1-2, dove si parla di « nuovo cielo », « nuova terra », « ogni cosa nuova ». Il profeta Isaia annunciava « una cosa nuova » (43,19), qui viene fatta « ogni cosa nuova », la nuova creazione. Al tema sono connessi i simboli del fiume nel paradiso, dell’acqua che sgorga, dell’albero che dà vita (cfr. Gen 2) e anche quelli della nuova città, descritta da Ezechiele dal capitolo 40 al 48 (risuonano pure passi del Deuteroisaia e di Zaccaria), che è senza tempio, meglio è tutta tempio, tutta dimora di Dio. Dunque, due fasce di simboli: della creazione e della restaurazione di Israele come nuova città.
Vorrei sottolineare tre momenti di questa presentazione: il momento di contrasto, il nuovo ordine di cose e i simboli più specifici della nuova città.
Il momento di contrasto
Il contrasto è evocato fin dall’inizio con le parole:  » Allora io vidi » e, in seguito, con le parole: « E vidi poi venire dal cielo ». I Non si tratta però di una prima visione, perché fa parte di visioni descritte nei versetti precedenti (« vidi poi venire », « vidi ») e che annunciano la scomparsa di tutti gli elementi negativi della storia (cfr. Ap 20), riassunti nella morte e negli inferi. Tale scomparsa, annunciata poco prima, è ripresa nel nostro brano: scompariranno le lacrime, non ci sarà più morte né lutto né lamento ne affanno perché le cose di prima sono passate (21, 4 ); i vili, gli increduli, gli abietti, gli omicidi, gli immorali non entreranno nel nuovo ordine di cose (v. 8).
Viene quindi proclamato quel giudizio di Dio che è l’inizio del nuovo ordine di cose, giudizio formulato in base a due criteri: le opere compiute, registrate nel libro, e l’iniziativa salvifica divina espressa con l’immagine dell’iscrizione nel libro della vita.
Perciò i versetti immediatamente precedenti, richiamati in 21, 4.8 e anche in altri capitoli, presentano quale premessa della visione di Gerusalemme, della nuova città, lo sfondo della distruzione del male operata dalla croce di Cristo, distruzione del male che è frutto positivo della croce. La croce ha messo fuori gioco l’universo spirituale costituito dalla ribellione a Dio, per- mettendo la nascita di un ordine nuovo e di un nuovo universo di valori delineati a partire dall’inizio del capitolo 21.
Il nuovo ordine di cose
Il nuovo ordine di cose lo leggiamo in 21, 1-5, ed è presentato con le parole: « nuovo cielo e nuova terra » (« In principio Dio creò il cielo e la terra », Gen 1, 1). Un nuovo ordine spirituale e morale, nel quale siamo collocati. E la cosa nuova è anche la città santa, la nuova Gerusalemme, simbolo del nuovo ordine di grazia e di misericordia instaurato da Dio. La città discende dal cielo perché il nuovo ordine è puramente gratuito, non è opera di uomini, bensì di Dio che lo fa e lo dona.
È una città ed è pure una sposa adorna per il suo sposo, pronta per le nozze, bellissima, così come la sposa di cui parlava Ezechiele al capitolo 16, 8ss: vestita di ricami, calzata con pelli di tasso, cinto il capo di bisso, ricoperta di seta, adorna di gioielli. Così va immaginata questa sposa che nell’ Apocalisse è veramente e pienamente fedele.
E lo sposalizio, che fa parte dell’ordine nuovo, è l’alleanza richiamata al v. 3, dove è evocato Lv 26, 11 (« stabilirò la mia dimora in mezzo a voi »), insieme ad altri brani dell’Antico Testamento sull’alleanza, per dare questa visione complessiva: Dio dimorerà tra di loro, essi saranno il suo popolo ed egli sarà il Dio-con-loro.
Di fronte a tale visione, noi ci domandiamo: riguarda il presente o il futuro? Queste parole sono compiute?
Al v. 6 è scritto: « Ecco, sono compiute! ». Tuttavia si potrebbe pensare a un’anticipazione profetica, a un passato che riguarda il futuro.
In realtà, per il principio ermeneutico, io leggo qui molto più volentieri la descrizione di ciò che è compiuto nella morte e risurrezione di Gesù. Non quindi un ordine nuovo di cose che verrà, ma un ordine che è e che viene e nel quale tutti siamo già dentro.
Siamo già nell’alleanza, siamo già la nuova città che scende dal cielo, siamo già la sposa pronta per lo sposo, pur se non ancora in pienezza; fin da ora, nella passione e risurrezione di Cristo, tutto è compiuto e si compie in coloro che sono in lui.
Alcuni simboli della città celeste
I simboli di questo nuovo ordine di cose sono espressi soprattutto nella cosiddetta seconda descrizione della Gerusalemme celeste, che inizia al v. 9.
Sembra quasi di essere di fronte a un doppione, perché viene ripresentata la città che scende dal cielo; l’autore finale non se ne preoccupa, anzi, ritiene di dover ripetere le stesse cose proprio per farci penetrare nella coscienza che siamo in una realtà nuova instaurata dal mistero pasquale di Cristo.
Al v. 10 la santa città « che scende dal cielo, da Dio » è contemplata dal veggente mentre si trova su un monte grande e alto. Nei versetti successivi, sul simbolo base della città si sviluppano almeno cinque linee simboliche, continuamente riprese.
La prima è quella della luce, della gloria di Dio che irradia sulla città e la rende totalmente trasparente, colma della sua presenza, così da non aver più bisogno di un centro luminoso come il tempio: l’intera città è luce.
Il secondo elemento simbolico è il grande, alto muro, con le sue fondamenta, che dà le dimensioni della città.
Il terzo è quello delle dodici porte, con le loro scritte e i loro ornamenti.
Poi l’elemento del fiume, che attinge al racconto della Genesi.
Infine, gli alberi con i frutti e le foglie: l’albero della vita.
Mi limito a ripercorrere le prime due linee simboliche, nel desiderio di mostrare l’unità dell’insieme, l’unico messaggio che viene ripetutamente presentato.
La città, al v. 10, è dunque risplendente della gloria di Dio e il v. 11 commenta tale splendore, simile a quello di gemma preziosissima, quale pietra di diaspro cristallino.
Il tema della luce è ripreso al v. 18: la città è di oro puro, simile a terso cristallo; per questo (v. 23) non ha bisogno della luce del sole ne della luce della luna, dal momento che la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’agnello.
Al v. 24 la luce diviene il riferimento per tutta l’umanità: « Le nazioni cammineranno alla sua luce ».
Il nuovo ordine di cose nel quale siamo, il regno di Cristo che già si instaura, è splendore attraente della gloria del Padre e dell’agnello. È una realtà luminosa in cui vivere è bello perché dà sicurezza, respiro, chiarezza, gioia, e « non vidi alcun tempio in essa » (v. 22), perché il Signore Dio onnipotente e l’agnello so- no il suo tempio. La trasparenza di Dio è tale che Dio è percepibile in ogni luogo, lo si incontra ovunque. La conversione cristiana è propria di chi entra in questo nuovo modo di vedere le cose, di chi accoglie la rivelazione della gloria di Dio e si lascia illuminare dalla sua luce.
Il muro è descritto, al v. 12, come grande e alto. Al v. 14 si dice che « le mura della città poggiano su dodici basamenti, sopra i quali sono i dodici nomi dei dodici apostoli dell’Agnello ». Mura assai singolari, che danno alla città un’impensabile altezza, misurata con una canna d’oro; la città ha una forma strana, tutta simbolica, la forma di un quadrato dove la lunghezza è uguale all’altezza e alla larghezza. Si tratta di un cubo di oltre cinquecento chilometri di lato, e le mura hanno uno spessore di oltre sei chilometri. Dunque, un’ampiezza smisurata, un’estensione e un’altezza inimmaginabili per una città. E se ne dice poi la ricchezza incalcolabile: le mura sono costruite con diaspro, le fondamenta delle mura adornate di pietre preziose.
Contempliamo così una città capace di accoglienza senza limiti, una città che dà un agio e una sicurezza che non hanno paragone. In essa si è pienamente sicuri e ci si sente molto ricchi nella sfera divina, nell’essere in Cristo, in questa luce di Dio.
Se continuassimo la riflessione sugli altri simboli, ci accorgeremmo che ciascuno aggiunge qualcosa al significato della conversione cristiana e, mentre prelude alla piena manifestazione di Dio nel suo Regno – che è indescrivibile a parole -, ci invita già a chiederci se veramente abbiamo la coscienza di vivere in questa nuova realtà, se abbiamo la coscienza della bellezza, della ricchezza, della sicurezza, della luminosità, dell’apertura, della disponibilità della realtà nella quale siamo essendo in Cristo, essendo con lui nel Padre, nel mistero trinitario.
È interessante rileggere i versetti conclusivi della descrizione dei simboli, dove viene sottolineato l’effetto del nuovo ordine di cose instaurato dalla morte e risurrezione di Gesù: « Le nazioni cammineranno alla sua luce e ire della terra a lei porteranno la loro magnificenza. Le sue porte non si chiuderanno mai durante il giorno, poiché non vi sarà più notte. Non entrerà in essa nulla di impuro, ne chi commette abominio e falsità; ma solo quelli che sono scritti nel libro della vita dell’Agnello » (vv. 24-27).
La nuova Gerusalemme è il punto di riferimento che dà senso a tutta la storia umana, è il punto di arrivo di tutte le nazioni e di tutti i popoli, è la città ideale aperta e pronta a ricevere tutti, è la città che esclude ogni impurità e ogni falsità, che affratella nazioni e popoli amano amano che vengono immersi in questa pienezza luminosa che è la manifestazione di Dio, del suo amore senza limiti. Le misure della città sono alla dismisura dell’altezza, lunghezza, larghezza della carità di Cristo e superano ogni comprensione.
Il cristiano che legge l’Apocalisse
Per il cristiano che legge l’Apocalisse, ogni pagina dei capitoli 21 e 22 è un modo di dire il suo essere in Cristo, le ricchezze che fin da ora gli sono date quale primizia, anticipo, pregustazione di ciò che sarà definitivo e in parte già lo è. Possiamo chiederci come tale ricchezza tocca l’attuale Gerusalemme storica.
Chi ama questa Gerusalemme e tutte le città storiche che partecipano alle sue sofferenze, comprende la risposta alla domanda, anche se non è facile esprimerla in maniera razionale e logica. Provo comunque a farlo: la Gerusalemme attuale è attratta dalla forza dei simboli al di là di se stessa e quindi ha un suo destino; destino di cui è simbolo, destino da cui è attirata verso la pienezza alla quale richiama continuamente con il suo nome e con la sua storia. In altre parole, c’è una permanente tensione dialettica tra la Gerusalemme storica e la Gerusalemme celeste; l’una richiama l’altra e quella celeste attrae quella della storia e, con essa, attrae tutta la storia umana.
Conclusione
Domandiamoci a che cosa ci stimola la visione che abbiamo cercato di contemplare.
A me pare che stimoli anzitutto a scoprire la pienezza in cui siamo e a esserne grati a Dio: pienezza che è il cammino storico dell’umanità, che si rivela a noi quale cammino positivo, di senso, e non soltanto di pura attesa, ma cammino già di partecipazione alle ricchezze inestimabili, inesauribili di Cristo, come singoli, come gruppo, come città, come società e come umanità.
Se, con la grazia del Signore, con gli occhi della fede, ci sforziamo di scoprire la pienezza in cui siamo, dobbiamo lasciarci trascinare da questa dinamica storica. Dinamica che ci indica dove la storia va e ci aiuta a capire come anticiparla nel- la fraternità e nella giustizia, sperando e operando affinché, attraverso la vittoria del bene sul male, anzi traendo il bene dal male, la luce della Gerusalemme celeste irradi e dia gioia e sicurezza fin da ora a tante persone che camminano con noi.
Ancora, la visione che abbiamo cercato di contemplare ci stimola a coinvolgere la Gerusalemme storica, e tutte le città che soffrono delle sue sofferenze, in questo cammino che trascina il mondo verso la definitiva pienezza.
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[Tratto da: Lettura ecumenica della Parola, 9-10 settembre 1994, in AA.VV. Gerusalemme patria di tutti, EDB, Bologna 1995]

LO SPIRITO SANTO: NOVITÀ E FEDELTÀ DI DIO. DUE INTERVENTI DEL CARDINAL CARLO MARIA MARTINI

http://www.il-margine.it/Rivista/Archivio/1997/10/Lo-Spirito-Santo-novit%C3%A0-e-fedelt%C3%A0-di-Dio.-Due-interventi-del-cardinal-Carlo-Maria-Martini

LO SPIRITO SANTO: NOVITÀ E FEDELTÀ DI DIO. DUE INTERVENTI DEL CARDINAL CARLO MARIA MARTINI

di Guido Formigoni

argomenti:
Il cardinal Carlo Maria Martini ci ha abituati ad appuntamenti fuori dell’ordinario con le consuete proposte della « lettera pastorale » del settembre di ogni anno, e del « discorso alla città » della vigilia della festa di Sant’Ambrogio. Intrecciati sempre tra loro, pur nel loro rivolgersi prevalentemente e rispettivamente alla comunità cristiana e alla società civile, tali due appuntamenti annuali sono di tutto rilievo non solo per la diocesi ambrosiana. Essi godono anche di un certo riscontro mass-mediologico, che risalta in un quadro abbastanza lacunoso e occasionale della generale attenzione dell’opinione pubblica rispetto alle vicende ecclesiali (anche se non sempre tale riscontro è perspicuo e attento).
La lettera pastorale di quest’anno 1997-98, intitolata Tre racconti dello Spirito. Lettera pastorale per verificarci sui doni del Consolatore, è stata dedicata allo Spirito Santo, in coerenza con l’indicazione papale della scansione tematica degli anni di preparazione al Giubileo (dopo l’anno dedicato alla figura del Cristo). Il discorso di Sant’Ambrogio ha invece insistito sull’icona del « servo inutile », tratta dal vangelo proclamato nell’occasione (Lc 17, 7-10), per presentare il programma Alla fine del millennio: servi inutili, liberi, umili e grati (come suona il titolo del discorso). Tutti e due i testi sono fittamente trapuntati di riferimenti vissuti alla storia e all’eredità di Sant’Ambrogio, nell’anno del sedicesimo centenario della sua morte. Fin qui i dati della cronaca, che come si vede hanno un significato non soltanto esteriore.

Lo Spirito all’opera nei cuori umani e nel mondo
La lettera pastorale, costruita con l’ormai consueto tono colloquiale di questi testi, prende le mosse da una serie di esperienze personali e racconti autobiografici, che portano l’arcivescovo a porre una domanda decisiva: « dove si trovano nel nostro tempo autentiche esperienze dello Spirito, simili a quelle dei primi cristiani? ». La risposta a questa impegnativa domanda non è banalizzata ed edulcorante, come ci si poteva facilmente attendere. Tanto più che il cardinale parla qui di una esperienza « spirituale » non in senso vago e intimistico, ma come « incontro con il mistero vivente qui e ora ». Lo Spirito è quella realtà viva che rende possibile l’incontro con l’insondabile e l’indicibile, il mistero di Dio.
Ma la risposta non è nemmeno scoraggiante. Lo Spirito c’è. Ci sono nella storia delle persone e della Chiesa i segni della sua presenza, i suoi doni: la vivacità, la dedizione, il coraggio, il senso comunitario, la creatività, la sapienza delle cose e del tempo. Queste realtà, e tutte quelle alluse dalla tradizionale elencazione dei sette doni dello Spirito, sono presenti sia in esperienze ordinarie di vita cristiana (individuale e comunitaria) che nelle occasioni e nei quadri eccezionali di vita ecclesiale (come ad esempio in movimenti, gruppi e cenacoli amicali « forti »). Questo appare già un messaggio forte dell’arcivescovo, che invita a considerare con grande libertà il classico dilemma istituzione-carisma, pesantezza-libertà, ripetitività-creatività. Lo Spirito soffia letteralmente dove vuole, e non si può escludere né una né l’altra dimensione di queste solo apparenti contrapposizioni. Nell’istituzione e nel movimento lo spazio dello Spirito è possibile. Va però ricordato che, da una parte e dall’altra, ci sono gli ostacoli alla manifestazione piena dello Spirito: la sclerotizzazione, la rassegnazione all’abitudine, la perdita di vigore nella banalizzazione del sacro, fanno da contrappunto ai rischi della chiusura in se stessi, come chiesa nella chiesa, nell’orgogliosa autosufficienza di ogni esperienza « forte » e fuori dall’ordinario. Ciascuno è quindi chiamato alla verifica sui rischi più facilmente incontrabili nella propria esperienza.
Di qui, prendono le mosse i tre « racconti » sul ruolo dello Spirito nei confronti di Gesù, dell’uomo e del mondo. In Gesù Cristo, lo Spirito tiene insieme la Croce e la Resurrezione, nella paradossalità della loro reciproca implicazione. Nella vicenda umana, lo Spirito è vincolo della carità e della unificazione dei diversi, ma è contemporaneamente – secondo un incisivo messaggio della tradizione orientale – anche Colui che apre alla diversità, all’inedito, all’imprevisto, al dono ricco e non preventivato. Nel mondo, Egli opera con libertà, tutto vivificando « al di là di tutte le barriere sociali, razziali, culturali, religiose ». Questa certezza chiede quindi un discernimento serio e positivo sulle condizioni dell’attualità, cogliendo la diversità molteplice della presenza e dei doni dello Spirito, nelle realtà profane e religiose, anche fuori dei confini della Chiesa visibile, senza sguardi angosciati e apocalittici al presente. Ecco allora che, ad ogni livello, l’azione dello Spirito ha a che fare con la molteplicità e la ricchezza delle forme della presenza di Dio nei cuori e nella storia degli uomini. Lo Spirito unifica e diversifica, sempre e perennemente: unifica i diversi e rende ricca e multiforme l’unità. E quindi ogni forma di unificazione realizzata nella storia è « spirituale » se non semplifica, non mortifica, non umilia la diversità e la ricchezza dell’umano e del divino.
Questa funzione cruciale dello Spirito è evidente nel successivo richiamo, che l’arcivescovo mette all’inizio della parte applicativa della sua lettera all’icona evangelica dell’ »amico importuno », tratta della parabola di Lc 11, 5-8. Colui che chiede insistentemente e scompagina le nostre certezze (e ottiene quello che chiede solo in virtù della sua insistenza) è proprio chiunque « bussa alla porta della comunità cristiana ». E’ il problema imprevisto, è l’urgenza non programmata, che sconvolgono la routine e l’ordinarietà della vita. L’accoglienza di questo appello è decisiva, sembra dire Martini, per verificare la qualità della vita « secondo lo Spirito » della comunità cristiana. L’applicazione di questa logica al nesso Chiesa istituzionale-movimenti è esplicita. La « sfida dell’amico importuno » chiede a ogni gruppo e movimento di non chiudersi e non ritenersi esaustivo di un cammino di Chiesa. Chiede insieme alla comunità territoriale, parrocchiale e diocesana, di lasciarsi interrogare e di aprirsi di fronte a presenze non istituzionali o scontate. Ma pensiamo quali altre molteplici applicazioni di questo appello sapienziale si potrebbero immaginare sul terreno della vita ecclesiale di oggi: sul terreno ecumenico, su quello dell’accoglienza dello straniero, sulla capacità di vivere il pluralismo culturale e politico senza drammi e senza trascuratezze…
La lettera è quindi conclusa con un « decalogo » rivolto alla comunità, proprio per aiutare questo discernimento comune, per verificarsi sui doni dello Spirito e la propria capacità di accoglienza. C’è da qualche tempo nelle parole e negli atti pastorali dell’arcivescovo di Milano questa forte insistenza sulla verifica comunitaria rispetto alle grandi affermazioni di un cammino ormai strutturato nel tempo. C’è probabilmente la sensazione di qualche difficoltà a questo proposito, di una discrasia tra la proclamazione e l’esperienza, tra la parola e la vita, che non può non preoccupare, particolarmente in una Chiesa fortemente istituzionalizzata quale quella milanese. Ma questo è un discorso molto delicato e che si può qui solo accennare.

Il servo inutile: la gratuità come frutto dello Spirito
Lo stesso successivo discorso di Sant’Ambrogio può anche essere letto come un altro risvolto della verifica comunitaria sull’applicazione di quella logica profondamente « spirituale » che la lettera pastorale invitava ad acquisire. Il tema del « servo », anzi dello schiavo che non ha nessuna utilità e nessun merito se non quello di fare il proprio lavoro, è un tema apparentemente duro e lontano dalla nostra sensibilità. Ma anche in questo caso occorre sondare il mistero della coincidenza di quell’immagine con l’immagine stessa di Gesù Cristo, servo per amore. C’è quindi bisogno di un supplemento di aiuto dello Spirito, per comprendere la profondità di questo nuovo livello di unificazione della realtà.
L’arcivescovo invita a leggere nella parabola lucana non tanto l’invito alla depressione e alla sfiducia. Piuttosto, occorre scoprire come la coscienza della propria sempre rinnovata inadeguatezza rispetto alle esigenze della vita, apra umilmente al primato della Grazia sulla confidenza in se stessi. Apra quindi ai doni dello Spirito, da invocare e chiedere. L’umiltà, intesa come accoglienza continua del perdono, è condizione necessaria per mostrare capacità di gratitudine per i doni ricevuti e quindi costruire nella libertà del gratuito la propria resistenza all’avidità.
Qui si colloca il passaggio esplicito del discorso santambrosiano sull’ »omologazione dei baricentri » della politica, che ha suscitato molto interesse e una comprensibile eco. Secondo Martini, una « convergenza silenziosa di cosiddetti ‘conservatori’ e cosiddetti ‘progressisti’ avviene su linee di tendenza che costituiscono una decadenza rispetto alla nostra tradizione culturale e civile. Cadute le grandi ideologie, i diversi filoni si stanno come implicitamente accordando sulla esaltazione delle ragioni dell’individuo e sulla difesa degli interessi di gruppo ». Una cultura individualistica dei diritti privati sarebbe quindi il dato dominante, sia che si presenti in versione libertaria nella morale privata e contemporaneamente aperta all’integrazione (corporativa) tra gruppi e individui nel pubblico, sia che invece assuma un volto conservatore nella morale privata e parallelamente esprima un’istanza liberista negli affari economici e civili. « A tutt’e due le forme del pensare e dell’agire è comune il rifiuto del primato della gratuità sul possesso, dell’essere sull’avere ».
I credenti si trovano quindi, in questa situazione critica, di fronte a un richiamo forte alla libera e umile scelta per la gratuità. Precondizione di una politica che eviti l’omologazione del tempo è questo atteggiamento « spirituale ». Solo una gratuità di partenza, sembra suggerire il cardinale, permette sbocchi operativi dell’azione politica nella vera solidarietà tra diversi, basata sul recupero e la difesa dei diritti di chi non ha voce. Anche in questo caso, se occorre una radicalità di atteggiamento fondamentale, non bastano però le buone intenzioni. Chi si volesse impegnare politicamente a partire da una vita di fede, viene infatti fortemente esortato dal discorso a pensare al « disegno di costruzione globale della città di tutti », senza accontentarsi di compromessi su « proposte parziali » (potremmo dire anche su richieste « confessionali »), ma elevandosi a uno sguardo d’insieme, che punti al miglioramento dell’efficacia dello Stato e della convivenza collettiva, in ordine alla solidarietà vissuta. Si avverte nelle parole del cardinale l’avvio di un discorso che resta coscientemente da completare sul terreno politico. Resta consegnata ai laici credenti l’indicazione del « pensare politicamente », per sviluppare queste intenzioni.
Chi cerca di vivere nello Spirito e confida nella sua capacità di aprire nuovi scenari e di conciliare le diversità, ha quindi segnati di fronte a sé la proposta di un percorso esigente ma senz’altro dotato di grande interesse.

GERUSALEMME PATRIA DI TUTTI – « LECTIO » DEL SALMO 122, TRATTO DA: C.M. MARTINI

http://www.nostreradici.it/a_jerusalem.htm#meditatio

[TRATTO DA: CARLO MARIA MARTINI, LETTURA ECUMENICA DELLA PAROLA, 9-10 SETTEMBRE 1994,

GERUSALEMME PATRIA DI TUTTI, EDB, BOLOGNA 1995]

« LECTIO » DEL SALMO 122

[Testo del Salmo]
Nel testo ebraico questo salmo è intitolato Cantico delle ascensioni o delle ascesi, dei gradini, delle salite, un titolo che caratterizza ben quindici salmi (dal 120 al 134), detti pure I canti del pellegrinaggio, raccolti insieme per servire da cantici del pellegrinaggio a Gerusalemme.
Nella versione originale, il 122 è anche il primo dei quindici che viene attribuito a Davide, insieme ai due successivi (dei rimanenti uno è ascritto a Salomone mentre per gli altri non ci sono ipotesi). Certamente c’è un motivo per tale attribuzione, pur se non si ritiene che essa sia autentica e storica perché il salmo sarebbe stato composto più tardi, quando il pellegrinaggio a Gerusalemme era diventato un’abitudine.
In ogni caso, Davide è il fondatore della città e il Salmo 122 presuppone Davide come un personaggio: « Là ha sede il trono di giustizia, il trono di Davide » (v. 5). Probabilmente, parlando di Gerusalemme come città « costruita, salda e compatta », il salmista intende riferirsi alla città ricostruita dopo l’esilio, che diventa quindi il vanto e la gioia di Israele.
L’attribuzione del salmo a Davide è comunque fondata, perché esso testimonia un grande amore alla città costruita da Davide quale capitale del suo popolo.
Quali sono gli elementi costitutivi del salmo?
Anzitutto notiamo una inclusione, cioè una parola che ricorre all’inizio e alla fine: casa del Signore, dimora del Signore. « Andiamo alla dimora del Signore » (v. 1); « Per la casa del Signore » (v. 9).
È interessante osservare come poi non si parli più di questa casa, ma piuttosto della città: ciò significa che dapprima Gerusalemme è vista in particolare come luogo del tempio e poi anche come città nel suo insieme.
Un altro elemento fondante è la triplice menzione di Gerusalemme (vv. 2. 3. 6), descritta nelle sue porte, nelle sue mura, nei suoi baluardi. Appellata tre volte, delineata con tre caratteristiche e indicata con il pronome « tu »: « alle tue porte », « sia pace a chi ti ama ».
Altro elemento strutturale del salmo è che Gerusalemme è vista quale luogo di pace. Ben quattro le occorrenze di questo termine: « domandate pace per Gerusalemme », « sia pace a coloro che ti amano », « sia pace sulle tue mura », « su di te sia pace ». Il gioco di parole è evidente: « Gerusalemme » veniva interpretata quale « città dello shalom », della pace: sia pace alla città della pace, domandate pace per la città della pace.
Infine il salmo è caratterizzato anche da altre ripetizioni che gli imprimono un ritmo poetico, molto bello: le tribù, le tribù del Signore, i seggi di giustizia, i seggi della casa di Davide.
Vi cogliamo, pur se non possiamo penetrare a fondo il ritmo dell’originale, quell’affiato che ne fa un poema, un cantico, qualcosa che nasce dal cuore e, attraverso ritmi, ripetizioni, assonanze (sono tante nel testo ebraico) mette in luce un’anima innamorata di Gerusalemme.
Tenendo conto di questi elementi formali, cerchiamo di capire la struttura logica del salmo, facilmente suddivisibile secondo le tappe di un pellegrinaggio.
Un pellegrinaggio viene anzitutto deciso; immaginiamo che il salmo venga cantato da un gruppo di pellegrini che giungono alle porte della città. Essi devono fermarsi per sbrigare alcune pratiche burocratiche previste prima dell’ingresso; si riposano e contemplano la città. Contemplandola ripensano all’inizio del cammino, al momento in cui hanno deciso di partire; è il v. 1, « Quale gioia quando mi dissero: ‘Andremo alla casa del Signore »‘.
Dopo l’inizio, è immediatamente sottolineato l’arrivo: ora ci siamo, « i nostri piedi si fermano alle tue porte, Gerusalemme! » (v. 2).
Al v. 3 Gerusalemme viene contemplata dall’esterno, ammirata quale costruzione salda e compatta, in cui tutto è unità. È un riferimento alla città sul monte, che dà l’impressione di compattezza (sulla roccia), e insieme alla situazione spirituale della città, salda perché fondata sul Signore, unificata dallo Spirito di Dio.
Quindi, Gerusalemme è contemplata nelle sue caratteristiche e nel suo ruolo (w. 4-5). Si tratta di una riflessione a livello morale: meta di pellegrinaggio, luogo di culto, di lode, di testimonianza della gloria di Dio, centro amministrativo e politico: « I seggi del giudizio, i seggi della casa di Davide », casa a cui fu promessa la perpetuità. Dunque un centro religioso e un centro politico-amministrativo a cui si guarda con fiducia per i beni che ci attendono dalla responsabilità politica che ricade su Gerusalemme.
A questo punto segue la preghiera che può essere pensata a due cori, partendo dal v. 6: « Domandate pace per Gerusalemme ». Anzi, colui che ha espresso la sua gioia, magari il capo- pellegrinaggio, rivolge un invito ai compagni pellegrini: « Do- mandate… ». E all’invito risponde il coro: « sia pace a coloro che ti amano, sia pace sulle tue mura, sicurezza nei tuoi baluardi » (v. 7). Il capo, allora, riprende da solo: « Per i miei fratelli e i miei amici io dirò: ‘Su di te sia pace!’. Per la casa del Signore nostro Dio, chiederò per te il bene » (w. 8-9). Qui ritorna l’appellazione a Gerusalemme con il « tu », come a una persona amica che si incontra e cui si augura il bene, la pace.
Dunque, due cori, nel senso di un solista e di un gruppo.
Sul tempo in cui il salmo è stato scritto ho già accennato un’ipotesi: il tempo dopo l’esilio, quando il tempio è ricostruito e il popolo va in pellegrinaggio alla città santa, l’unico simbolo rimasto dell’unità di Israele.

« Meditatio »del Salmo 122
Per rileggere il messaggio, sono possibili diverse piste, diverse linee. Ne ho scelte tre: una lettura storico-esistenziale (messianica); una lettura più specificamente cristiana; e una terza personale, che riguarda ciascuno di noi.
Gli elementi di una lettura storico-esistenziale sono i grandi simboli del cammino umano contenuti nel salmo, che ne fanno una realtà di tutti i tempi, di tutti i luoghi, di tutte le culture.
Due sono i principali. n primo è il pellegrinaggio, menzionato non quale tema specifico, bensì nel suo decidersi, nel suo compiersi. È un grande simbolo del cammino umano, della vita dell’uomo e dell’umanità, della vita di tutti gli uomini e di tutte le donne considerati come collettività. n simbolo avverte: se la vita umana è colta come pellegrinaggio, allora essa non è un vagare senza scopo e neppure una fuga dal paradiso, priva di speranza; al contrario, è un camminare verso un termine. Questa è già un’apertura straordinaria per accogliere l’esistenza umana come una realtà che ha un senso preciso. E quando abbiamo riconosciuto che tale cammino ha un senso e una meta, scoppia la gioia: « Quale gioia… ».
Gerusalemme è l’altro simbolo, la meta stessa del cammino. Un simbolo universale perché si tratta di una città, di un luogo di incontro, un luogo di relazioni molteplici, dove i diversi si ritrovano. Quindi l’umanità non va verso una dispersione, una Babele confusa, ma verso un luogo nel quale tutti si incontreranno, si capiranno, intesseranno rapporti reciproci.
Questa città è salda, non delude. n tema della saldezza è il più ripreso dal Nuovo Testamento, che non cita esplicitamente il Salmo 122 però ne riprende il contenuto: andiamo verso una città salda, solida, ben costruita, compatta, dove tutto è unità. Questo è il termine del cammino umano. Ed è anche il luogo d’incontro armonioso e aperto con Dio, dove Dio è lodato e dove c’è ordine perché la legge è fatta osservare, dove c’è il trono di giustizia e ci sono i seggi del giudizio. L’umanità va verso un luogo dove la giustizia, quella di Dio, non la nostra, trionfa. Dove, soprattutto, l’umanità spera di vivere l’ideale della pace e della sicurezza: « Domandate pace per Gerusalemme, su di te sia pace e tranquillità nelle tue mura, sicurezza nelle tue case ».
L’umanità è così definita come colei che anela a una tale città, che va verso di essa e trova speranza nella fiducia di camminare e di essere condotta alla meta. Una visione quindi molto positiva, anzi propositiva perché ne derivano molte conseguenze per il modo di camminare dei popoli.
Da questa visione nasce pure una certa pazienza storica: a noi spetta di porre le premesse affinché si vada sempre meglio verso la città armoniosa, unita, capace di lodare l’Eterno, di vivere l’ordine della giustizia.
Una lettura cristiana ci fa subito pensare a Gesù che ha vissuto profondamente la gioia del Salmo 122. Già a dodici anni aveva esclamato: quale gioia ho provato ascoltando i miei genitori che mi dicevano: andiamo alla dimora del Signore! E probabilmente l’ha cantato alle porte di Gerusalemme quella prima volta e poi ogni volta, fino all’ultimo pellegrinaggio nel quale si avviava piangendo verso la città santa: « Oh, se tu riconoscessi ciò che giova alla tua pace! ». Anzi, nel testo greco il salmo usa l’espressione erofesafe de fa eis eirenen (v. 6) ripresa dal Nuovo Testamento: se tu riconoscessi le cose che riguardano la pace di Gerusalemme.
Dunque Gesù ha cantato questo salmo nella gioia e nella sofferenza sapendo che la sua sofferenza era parte del cammino di Gerusalemme e dell’umanità verso la pace.
Partendo dalla lettura che ne ha fatto Gesù, ci domandiamo se il Salmo 122 risuona anche negli scritti apostolici neotestamentari. Non mi sono venute alla mente citazioni specifiche, tuttavia il tema della città salda è molto presente.
Ef 2, 19-20, 22: « Voi non siete più stranieri ne ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio, edificati sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti [...] In Gesù ogni costruzione cresce bene ordinata per essere tempio santo del signore; in lui anche voi insieme con gli altri venite edificati per diventare dimora di Dio ».
Questo tema è penetrato fortemente nello spirito di Paolo, che ne fa un simbolo interpretativo della crescita della comunità cristiana, che è la realtà che viene edificata come la città del salmo.
L’aspetto di pellegrinaggio verso tale città è però presente in particolare in Eb 11 e in Eb 12: Abramo ha potuto partire e lasciare tutto in quanto « aspettava la città dalle salde fondamenta, il cui architetto e costruttore è Dio stesso » (11, 10); « Chi dice così, dimostra di essere alla ricerca di una patria » (11, 14), pellegrino sulla terra; « Se avessero pensato a quella da cui erano usciti, avrebbero avuto possibilità di ritornarvi; ora invece essi aspirano a una migliore, cioè a quella celeste. Per questo Dio non disdegna di chiamarsi loro Dio: ha preparato infatti per loro una città » (11, 15-16).
E ancora: « Vi siete accostati alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste » (12, 22), ecco la menzione diretta. Alla città che fa parte delle cose incrollabili: « Rimangono le cose che sono incrollabili. Perciò riceviamo in eredità un regno incrollabile » (12, 27-28).
Riassumendo il messaggio del salmo: l’uomo è in cammino, pellegrino verso una città salda, compatta, nella quale Dio è lodato, nella quale è la pienezza della pace, una città che non delude e per cui vale la pena abbandonare le altre città.
Nella spiritualità del Nuovo Testamento è penetrato inoltre il pensiero delle moltitudini, di tutte le tribù della terra. Le moltitudini salgono ora verso tale città, e tutte sono chiamate « moltitudini del Signore ».
Così, la lettura cristiana diventa lettura ecclesiale; la chiesa non è la meta, la grande città, ma è un popolo in marcia verso quella città.
Se Israele testimonia « là » la tua gloria, Signore, se « là » ha sede il trono di giustizia, i nostri interessi sono veramente là? È il « là » di questa città verso cui camminiamo il nostro criterio di giudizio storico? Perché, se è così, allora tutte le altre realtà sono relative, tutti gli eventi (storici, sociali, politici, culturali, ecclesiali) vanno valutati tanto quanto rispondono a un cammino verso la città compatta, pacifica, giusta, oppure rallentano o fanno deviare il cammino.
Quindi il cristiano, interrogato sulle sue speranze, dovrebbe rispondere spontaneamente: le mie speranze sono la Gerusalemme celeste, sono là le mie speranze. È i « là » della pienezza dell’azione di Dio nel suo popolo, nell’umanità.
La lettura più personale del salmo dà spazio a tante riflessioni.
Pensiamo ai pellegrinaggi che ciascuno di noi ha fatto a Gerusalemme e nei quali probabilmente ha cantato, evocato, recitato il Salmo 122 allorché ha visto le mura della città. Nella preghiera potremmo ringraziare il Signore per le esperienze che ci ha donato nei nostri pellegrinaggi, per quanto ci ha fatto capire su Gerusalemme. Ogni volta che ne rivediamo le mura, proviamo una fortissima emozione. E se non siamo mai stati a Gerusalemme, come immaginiamo il pellegrinaggio verso la città santa, come lo viviamo nella preghiera?
« Andiamo con gioia! » è parola che esprime la tensione verso il pellegrinaggio, equivale a dire: sapevo che sarebbe venuto questo momento e penso a ciò che da sempre ho desiderato.

Conclusione
In quale modo la Gerusalemme di oggi partecipa, nel suo destino doloroso e tragico, alle benedizioni di Dio, alla promessa di pace?
Partecipa anzitutto attraverso la nostra instancabile preghiera per la sua pace, le nostre preghiere per la città reale e simbolica che conosciamo, di cui tocchiamo le mura: Sia pace sulle tue mura!

Ci domandiamo se e come operiamo per la pace di Gerusalemme, la cui pace è simbolo, segno, radice e causa della pace di tante altre città.
Il Salmo 122 ci impegna dunque a pregare e a operare per la pace nella giustizia.

« E LA PAROLA SI FA VITA » di CARLO MARIA MARTINI

http://ora-et-labora.net/bibbia/martinibibbia.html

« E LA PAROLA SI FA VITA » di CARLO MARIA MARTINI

Tratto da « Guida alla lettura della Bibbia. Approccio interdisciplinare all’Antico e al Nuovo Testamento » San Paolo Edizioni

La sensibilità postconciliare ci porta tutti, pastori e fedeli, a riaccostare la Sacra Scrittura. Non solo per l’abbondanza dell’uso liturgico offerto dalla Chiesa ma anche per quella lettura corale e personale della Parola che va oltre la semplice riflessione, divenendo nutrimento del cuore. La tradizione cristiana, per esprimere questo atteggiamento spirituale di fronte al testo sacro, ha coniato un’espressione forte, pregnante: lectio divina. Il nostro introdurci nel mondo della Scrittura ha senso se si arriva a questa dimensione, altrimenti rimane arida conoscenza, erudizione, studio infruttuoso per il nostro «sentire» cristiano. Naturalmente la conoscenza, sia pur elementare, è necessaria. A questo fine, ogni mezzo, ogni sussidio, come questa sintesi di guida biblica, storica, letteraria, geografica, teologica, è oltremodo utile per passare dalla conoscenza al vissuto. La Sacra Scrittura deve, infatti, diventare fonte di vita per l’uomo d’oggi come lo è stata per le generazioni passate, in particolare per i primi cristiani. «La scrittura è la lettera che il Padre Eterno ci ha inviato», scriveva don Giacomo Alberione negli anni venti. «Non andiamo al tribunale di Dio senza aver letto tutta la lettera del Padre Celeste, perché ci dirà: non hai avuto né rispetto né amore per quello che ti ho scritto!». Queste forti parole di un profeta del nostro tempo ci sono di sprone per intendere prima «materialmente» e poi «spiritualmente» la parola di Dio. Come pastore vorrei invitare al passo successivo alla lettura e alla prima conoscenza, cioè «gustare» il suono della voce del Padre – come dice l’Alberione – e tradurlo in ricco nutrimento per la mente e per il cuore, affinché diventi vita, terreno fertile che produce «ora il novanta, ora il sessanta, ora il trenta». Ecco perché, più che riflessioni di carattere generale sul libro sacro, preferisco spiegare al lettore che cosa si intende con questa concisa espressione: lectio divina. Per questo occorre rileggere la costituzione del concilio Vaticano Il Dei Verbum al capitolo VI, n. 25. In questo passo troviamo cinque diverse menzioni di questa attività dello Spirito. «È necessario che tutti i chierici – affermano i padri conciliari – principalmente i sacerdoti e quanti, come i diaconi o i catechisti, attendono legittimamente al ministero della Parola, conservino un contatto continuo con le Scritture (in Scripturis haerere)». L’espressione latina in Scripturis haerere significa «starci dentro, abitare nelle Scritture». Per ottenere tale scopo, viene raccomandata l’assidua lectio sacra, una lettura costante, perseverante. E insieme un exquisitum studium, cioè uno studio particolarmente coltivato, penetrante. La seconda menzione riguarda tutti i fedeli: «Parimenti il santo concilio esorta tutti i fedeli ad apprendere « la sublime scienza di Gesù Cristo » con la frequente lettura delle divine Scritture». L’espressione «assidua lectio sacra» viene ora ripresa come «frequente lettura delle divine Scritture», ed è raccomandata perché, mediante essa, si giunge ad apprendere «la sublime scienza di Gesù Cristo». La terza menzione: «Si accostino volentieri al sacro testo, sia per mezzo della sacra liturgia ricca di parole divine, sia mediante la pia lettura, sia per mezzo delle iniziative adatte a tale scopo e di altri sussidi». La quarta menzione, importantissima, è quella che spiega perché parliamo di lectio divina: «Si ricordino però che la lettura della Sacra Scrittura dev’essere accompagnata dalla preghiera, affinché possa svolgersi il colloquio tra Dio e l’uomo; poiché « quando preghiamo, parliamo con Lui; Lui ascoltiamo quando leggiamo gli oracoli divini »».
La quinta menzione riguarda i sussidi: «I vescovi devono aiutare i fedeli all’uso retto dei libri divini, in modo particolare del Nuovo Testamento e soprattutto dei vangeli, con traduzioni dei sacri testi che devono essere corredate di note necessarie e veramente sufficienti, affinché i figli della Chiesa familiarizzino con sicurezza e utilità con le sacre Scritture e si imbevano del loro spirito».
Mettendo insieme le cinque menzioni, possiamo tentare una descrizione complessiva di ciò che il Vaticano Il intende: una lettura assidua, non occasionale, della Bibbia; un accesso diretto al testo; uno stare dentro la Scrittura; un conversare familiare con le pagine bibliche; un imbeversi dello spirito della Scrittura; il tutto accompagnato dalla preghiera in modo che la lectio si trasformi in un colloquio tra Dio e l’uomo, diventi un ascoltare Dio per rispondergli. L’espressione sintetica lectio divina, che è giunta a noi dall’antica tradizione monastica, comprende tutte le caratteristiche indicate dalla Dei Verbum: non è semplicemente una lettura, ma una lectio, una lezione, fatta con familiarità orante, che ci fa entrare nello spirito dei sacri testi e ci permette di entrare in essi come in casa nostra. Questa lezione orante, questa familiarità assidua è necessaria non solo a chiunque svolge un servizio della Parola, ma è raccomandata con forza e insistenza a tutti i fedeli. Le parole della Dei Verbum sono forti e anche nuove rispetto a quanto si viveva in epoche precedenti. Infatti, nella Chiesa cattolica la Scrittura veniva letta in latino e poi spiegata ai fedeli che si limitavano quindi ad ascoltare. Tra l’altro erano poche le persone che sapevano leggere e che potevano perciò accostare direttamente i testi sacri. I vescovi oggi, tenendo conto della nuova situazione culturale dell’umanità, hanno sentito il bisogno di esortare tutti i fedeli, senza eccezione, ad accostare la Bibbia, stimolandoli all’esercizio della lectio divina.
Ricordo che non appena giunsi a Milano come vescovo, compresi che per familiarizzare i cristiani col mistero di Dio rivelato storicamente in Gesù Cristo attraverso il cammino della storia della salvezza, non bastavano semplicemente provvedimenti settoriali, bensì occorreva elaborare programmi pastorali diocesani che si ispirassero a questa dinamica fondamentale. Programmi che partissero dallo «stupore» contemplativo, cioè dal sottolineare quegli atteggiamenti contemplativi che sono previ alla lettura del testo sacro: riverenza, ascolto, silenzio, adorazione di fronte al mistero divino. Dallo «stupore» contemplativo bisognava sviluppare un progetto di comunità fondato sulla Parola quale riferimento primario, promuovendo iniziative concrete capaci di mettere la lectio divina, a poco a poco, alla portata di tutti. È un ideale da cui siamo ancora molto lontani e sul quale vorrei tanto confrontarmi con i miei fratelli vescovi e con tante Chiese del mondo. Auspico il giorno in cui si possa celebrare un sinodo universale semplicemente su questa domanda: come abbiamo applicato la costituzione conciliare Dei Verbum, là dove parla della Scrittura da mettere nel cuore e nella mente di tutti i cristiani attraverso la lectio divina?
Una simile lettura della Scrittura, raccomandata a tutti i cristiani, non può essere né occasionale né frammentaria e nemmeno discontinua. È tendenzialmente una lectio continua e globale, che tiene cioè conto di tutti i libri sacri e del contesto generale della Bibbia. Il concilio afferma che l’accostamento alla Bibbia può avvenire sia per mezzo della liturgia, ricca di parole divine, sia mediante la pia lettura. La sacra liturgia ci offre oggi, appunto, una lectio continua della Scrittura, mediante il biennio delle letture feriali e il triennio di quelle festive.
Un altro accenno al bisogno di una lettura globale lo troviamo al n. 12 della Dei Verbum: «Per ricavare con esattezza il contenuto dei sacri testi, si deve badare al contenuto e all’unità di tutta la Scrittura». Bisogna dunque tendenzialmente conoscerla tutta. E ancora, al n. 16, viene ricordato che i libri dell’Antico Testamento, «integralmente assunti nella
predicazione evangelica, acquistano e manifestano il loro completo significato nel Nuovo Testamento e, a loro volta, lo illuminano e lo spiegano». Mi piace qui citare un esperto: «Lectio divina non è qualunque lettura della Bibbia che si svolga secondo il metodo e i canoni propri di qùella che usano chiamare « esegesi scientifica ». E nemmeno qualunque modo di accostare Bibbia e preghiera. Lectio divina non è nemmeno qualunque excursus dall’uno all’altro Testamento, o qualunque attualizzazione tentata a partire dalla parola di Dio. Lectio divina è la lettura continua di tutte le Scritture, in cui ogni libro e ogni sua sezione viene successivamente letta, studiata e meditata, compresa e gustata, mediante il ricorso al conte-sto di tutta la rivelazione biblica, Antico e Nuovo Testamento».
Questo è ciò che la Chiesa chiede a tutti i cristiani. Rispettando l’intero testo biblico, la lectio divina pone l’uomo in stato di ascolto umile della Parola. Potremmo allora dire che la lectio divina è l’unico approccio serio alla Bibbia, perché ci conduce nel mondo di Dio come in un tutto coerente. Essa produce in noi una solida inculturazione. Prima di parlare di inculturazione nelle culture umane, il cristiano deve inculturarsi in quel mondo di Dio che gli è rivelato attraverso il cammino che ci viene proposto nelle Scritture. Solo in seguito le altre inculturazioni potranno essere non tentativi velleitari, ma semi fecondi gettati nelle culture umane.
Purtroppo questa visuale non è molto comune. Se, dal Vaticano Il fino a oggi, la Chiesa ha compiuto ogni sforzo per accostare i fedeli alla Scrittura, tuttavia si è fatto pochissimo per aiutare a introdurli in una lectio continua e globale, in spirito di preghiera. Forse proprio per questo non tutte le letture bibliche, tentate in questi venticinque anni, sono state felici; talvolta hanno provocato dei cortocircuiti, si sono arenate, hanno addirittura stancato la gente. Se non arriviamo a esigere questa lectio continua e globale, almeno tendenzialmente, rischiamo di limitarci ad alcuni brani estrapolati dal contesto, o addirittura di appropriarci indebitamente e settariamente della Scrittura.
È possibile fare della lectio una realtà popolare, traducibile nella vita della comunità, nel vissuto del popolo di Dio? Non ho una risposta a questo interrogativo. Quando rileggo i capitoli della Dei Verbum mi sento messo in questione e capisco che abbiamo un lungo cammino da percorrere. D’altra parte avverto che se oggi un cristiano adulto non ha familiarità col mondo di Dio, non riuscirà a resistere in questa nostra situazione di frammentazione culturale e di Babele di linguaggi.
Da parte mia posso solo comunicare alcuni tentativi, alcune esperienze. Li espongo con semplicità anche per mostrare che non esiste un cammino prefissato, ma è necessario scrutare continuamente i segni dei tempi per capire, nel contesto in cui si vive, in quale maniera lo Spirito ci guida a compiere delle decisioni serie di fede.
La Scuola della Parola: questa iniziativa è nata senza alcuna pretesa. Alcuni giovani, anni fa, mi hanno chiesto di insegnare loro a pregare con la Bibbia e, dopo una mia breve istruzione, hanno sentito l’esigenza di esempi pratici di lectio. Così ho incominciato a proporre, nel 1980, la Scuola della Parola in Duomo, e dalle poche centinaia di giovani presenti la prima sera siamo rapidamente passati a diverse migliaia, fino a che l’appuntamento mensile divenne familiare a moltissimi giovani e ragazze. A un certo punto il loro numero superava la capienza del Duomo. Ricordo con quanto impegno, con quanto silenzio quei giovani ascoltavano e meditavano la Parola. Io insistevo che la vera lectio incomincia quando, terminata la spiegazione del brano, si passa al silenzio meditativo, senza canti e senza musica. Era commovente constatare il profondo silenzio adorante di tanti giovani riuniti insieme. Dopo cinque anni in Duomo, poiché il numero dei partecipanti continuava a crescere, abbiamo designato venticinque grandi chiese della diocesi, collegandoci via radio. Io tenevo la lectio attraverso l’emittente diocesana e i giovani, nei diversi punti di ascolto, si radunavano per ascoltare e pregare. I frutti sono stati consolanti: circa tredicimila giovani hanno seguito la Scuola. Successivamente, nel desiderio di un ulteriore allargamento dell’esperienza, abbiamo esteso la Scuola della Parola all’intero territorio diocesano. Perfezionando gradualmente il metodo, abbiamo aggiunto, ai classici momenti di lectio-meditatio-oratio-contemplatio, quello dell’actio, cioè di un’azione simbolica che dà concretezza all’agire derivante dall’ascolto della Parola.
Esercizi serali biblici: tra le tante possibili iniziative, questa mi è sembrata utile particolarmente per gli adulti. Gli Esercizi si tengono per sei sere consecutive proponendo la lectio di un brano. Io li ho proposti in Duomo, più volte: un anno leggendo per un’intera settimana il brano della moltiplicazione dei pani (Gv 6); un altro anno leggendo la pagina della lavanda dei piedi (Gv 13); un altro anno leggendo l’episodio del miracolo di Cana (Gv 2). Sono centinaia ormai le parrocchie che hanno fatto e ripetono l’esperienza degli Esercizi serali. La gente, anche la più semplice, si reca in chiesa con la Bibbia, prende gusto ad accostare i testi sacri, a passare momenti di preghiera e di silenzio. L’importante è di non approfittare del tempo degli Esercizi per una predica o un’omelia in più.
Termino citando alcune parole scritte da Giovanni Paolo Il in una lettera inviata al presidente della Federazione mondiale cattolica per l’apostolato biblico. Esse esprimono molto bene il senso di quanto ho tentato di dire: «Dando la Bibbia a uomini e donne, voi date Cristo stesso, che riempie coloro che hanno fame e sete della parola di Dio, sazia coloro che hanno fame e sete di libertà, di giustizia… Le mura dell’odio e dell’egoismo, che ancora dividono uomini e donne e li fanno ostili e indifferenti alle necessità dei loro fratelli e sorelle, cadranno come le mura di Gerico, al suono della parola della grazia e della misericordia di Dio». Allargando lo sguardo, il papa aggiungeva: «La Bibbia è anche un tesoro che in larga parte è venerato in comune con il popolo ebraico, a cui la Chiesa è unita da uno speciale vincolo spirituale fin dai suoi inizi. E finalmente questo Libro santo, a cui in un certo modo si riferiscono anche i popoli dell’Islam, può ispirare ogni dialogo interreligioso tra popoli che credono in Dio e, in questo modo, contribuisce a creare, attraverso una preghiera universale e accettabile a Dio, la pace dei cuori per tutti».

MOSÈ E IL ROVETO ARDENTE – CARLO MARIA MARTINI

http://www.atma-o-jibon.org/italiano7/martini_moses2.htm

MOSÈ E IL ROVETO ARDENTE – CARLO MARIA MARTINI

I testi sui quali ci fermeremo in questa meditazione sono: At. 7,30-31 e Es. 3,1-10. Altri testi da tener presenti sono: Es. 6,2-13 e 6,28-7,7, più due accenni neotestamentari: Gv. 11,28; Mt. 9,35-10,1. Suggerisco pure il salmo 18, il salmo dell’iniziativa divina.
Chiediamo al Signore di metterci in umiltà e in verità di fronte alla scena del roveto ardente, anche se non ne tratteggeremo in questa meditazione che qualche aspetto del tutto particolare. Vi propongo di procedere secondo tre punti semplicissimi, di intonazione ignaziana: 1) che cosa fa Mosè? 2) che cosa ascolta Mosè? 3) che cosa intende Mosè?

1. Che cosa fa Mosè?
La meraviglia di Mosè
Teniamo davanti parallelamente At. 7,30.31 e Es. 3, 1-3. La prima cosa che fa Mosè è meravigliarsi. Mosè, stando là nel deserto, mentre pascola il gregge del suocero, vede un po’ lontano un roveto che brucia e gli sembra che continui a bruciare senza consumarsi; nel suo discorso (cfr. At. 7, 31), Stefano così commenta la scena: «Mosè si meravigliò» (o de Moyses idon ethaumasen). Questo mi piace molto: Mosè, che ha 80 anni, è capace di meravigliarsi di qualche cosa, di interessarsi a qualcosa di nuovo. Immaginiamoci quella grande pianura dell’Oreb, a 1700 metri di altitudine, sovrastata da grandi montagne, con terrazze successive di sabbia e di roccia: su una di queste terrazze c’è il nostro roveto. Pensiamo un istante che cosa avrebbe potuto fare Mosè. Avrebbe potuto dire: «C’è del fuoco; è pericoloso per il gregge se il fuoco si allarga; andiamo via, portiamo le pecore lontano ». Oppure avrebbe potuto dire: « C’è qualcosa di soprannaturale; è meglio non farsi prendere in trappola; partiamo e lasciamo che i più giovani, quelli che hanno più entusiasmo, se ne interessino: io ho già avuto le mie esperienze e mi basta ».
Invece «Mosè si meravigliò », cioè si fece prendere da quella capacità, che è propria del bambino, di interessarsi a qualcosa di nuovo, di pensare che c’è ancora del nuovo. Qualcuno potrebbe dire che si tratta di un particolare aggiunto al racconto. Io vi vedo piuttosto una profonda riflessione psicologica di Stefano, il quale ha intuito che Mosè, essendo stato 40 anni nel deserto, macerato dall’insuccesso e progressivamente purificato in virtù di quella situazione di vigilanza e di attesa su cui già abbiamo meditato, era ormai maturo per una nuova infanzia, maturo per ricevere la novità di Dio. Mosè avrà pensato così: «Io sono un pover’uomo fallito, ma Dio può fare qualcosa di nuovo ».
Dunque Mosè si meravigliò e poi – continua il l1acconto degli Atti – invece di non badarci ed andarsene, proserkomenou de autou… katanoesai, « si avvicinò per vedere », come di solito le versioni traducono. Ma katanoesai dice molto di più che « vedere »; indica infatti il nous, la mente. Quando in Lc. 12, 24 Gesù dice: katanoesate tous korakos, «guardate i corvi», non vuol dire semplicemente «vedete », bensì guardate, considerate, riflettete, cercate di comprendere, ecc. Qui si vede la libertà di spirito raggiunta da Mosè attraverso la purificazione. Se fosse stato un uomo amareggiato e rassegnato, si sarebbe limitato a concludere: «Una cosa strana, ma non mi riguarda ». E invece no: vuol capire, vuol vedere di che si tratta. Ecco un uomo vivo, anche se vecchio.

La curiosità di Mosè
Passiamo adesso al libro dell’Esodo e leggiamo: « Mosè disse tra sé: ‘ Voglio avvicinarmi a vedere questo grande spettacolo, perché il roveto non brucia ‘ » (Es. 3, 3). Il testo greco ha: ti oli?, « come mai? ». Mosè è un uomo che lascia emergere le domande in se stesso; non è più l’uomo che ha già tutto sistemato e catalogato, che ha capito tutto; è un uomo ancora capace di porsi delle domande che esigono un’attenta risposta. Il testo nella traduzione della CEI dice: «Voglio avvicinarmi a vedere questo grande spettacolo ». La versione non mi sembra molto buona. La Bible de Jérusalem, nell’edizione francese, dice: «Je vais faire un détour », che corrisponde meglio al verbo ebraico sur, che significa « fare una diversione, un giro lungo» e che dà l’idea di un’esplicita volontà: voglio rendermi conto. Mi sembra che si possa supporre una situazione di questo tipo: nel deserto vi sono differenti pianori, uno sull’altro, e spesso bisogna fare un lungo giro per salire al pianoro superiore; Mosè si trova in un pianoro più basso con le sue pecore, vede su un pianoro più alto il roveto e dice: «Andrò su, farò il giro, voglio vedere di che si tratta ». Il che significa lasciare il gregge, forse anche in pericolo, salire sotto il sole, ecc.
Nelle parole «voglio avvicinarmi a vedere questo grande spettacolo », dunque, scorgiamo l’animo di Mosè; è come se Mosè dicesse: «lo sono un pover’uomo, un fallito, però Dio può fare delle cose nuove, ed io voglio interessarmene, voglio capire, voglio comprendere, voglio sapere il perché ». Notate che qui ritorna la grande domanda che Mosè si era fatta per 40 anni: «Ma perché Dio ha permesso quello scacco? Perché, se ama il suo popolo, non si è servito di me per salvarlo? Perché non ha colto l’occasione che io gli davo? ». Questo « perché », che Mosè ha coltivato, raffinato e purificato, ecco che emerge di nuovo di fronte a quella imprevista visione. Ma l’uomo Mosè è andato assumendo ormai le caratteristiche dell’uomo profondo, maturo, purificato e aperto al nuovo.
Partendo dall’episodio di Mosè, si potrebbe riflettere molto sull’atteggiamento dell’uomo di fronte al mistero di Dio. Quest’uomo potrebbe dire: «Non mi interessa ». Ma può anche dire: «Voglio vedere, voglio rendermi conto, voglio sapere »; in questo caso si tratta di quel primo movimento dell’animo umano, di quella volontà incondizionata di conoscere e di capire, che, come si dice giustamente, sta all’origine di tutto ciò che c’è di umano nel mondo. Se nel mondo c’è qualcosa al di là dell’animalesco, al di là del puro mangiare, bere e riprodursi; se c’è qualcosa di umano; se, come dice Paolo nella lettera ai Filippesi, ci sono affetti, rapporti di amicizia e di comprensione (cfr. Filip. 2, 1 s.), tutto nasce da questa semplicissima affermazione: «Voglio capire ». La stessa civiltà umana si costruisce a partire da questo fondamento.
Mosè, quindi, è l’uomo ricondotto alla radice prima della sua umanità e posto davanti al mistero di Dio. In lui si manifesta quell’incondizionato desiderio di sapere, che sta all’origine di tutto ciò che è umano. .Mosè vuol sapere e per questo fa ancora uno sforzo: abbandona la comodità della pianura, in cui siede all’ombra della sua tenda, e comincia la salita faticosa della montagna; lascia anche le pecore, pur di arrivare fin là e sapere. Questo « sapere» in Mosè è qualcosa che gli cuoce dentro, è una passione che non si è addormentata, ma che anzi la purificazione ha reso più semplice, più libera. Mosè non va sulla montagna alla ricerca di un nuovo successo personale; ci va perché vuole sapere come stanno le cose, vuole mettersi di fronte alla verità così com’è.

Osservazioni dalla letteratura rabbinica
Ci sono due testi rabbinici che si potrebbero citare. Il primo è una pagina in cui si parla dell’aggadà pasquale, ossia l’ordine secondo cui si celebra la Pasqua ebraica. Alcuni ragazzi ascoltano il racconto della. notte di Pasqua. Uno di essi ha sonno; un altro invece dice: «Ma che cosa interessa a me questa storia dell’Egitto? » Un altro ancora fa domande e chiede: «Perché celebriamo questa festa e che cosa significa questa festa per noi? » È questo l’atteggiamento di Mosè, che si pone quella domanda fondamentale: ti oti?, « come mai? ».
L’altro testo rabbinico, molto bello, è di Rabbi Akiba, vissuto poco dopo Gesù e morto verso il 135, martirizzato dai Romani (si tratta di una personalità chiave per lo sviluppo del giudaismo dopo Gesù). Do qui una sintesi della sua storia. Rabbi Akiba era poverissimo; per quarant’anni condusse una vita di stenti: poi, a quarant’anni, si trovò una volta di fronte ad una fontana che mandava acqua e vide che la pietra sotto la fontana era scavata; allora chiese: «Chi ha scavato questa pietra? ». Gli risposero: «È l’acqua che cade ogni giorno. Non ricordi le parole di Giob. 14,19, secondo cui le acque scavano anche la pietra? ». Allora Rabbi Akiba pensò: «Se dunque l’acqua che è così tenera scava la pietra che è così dura, non avverrà forse che le parole della Torah, che sono dure come pietra, potranno scavare il mio cuore che è molle di carne? ». Fu così che a quarant’anni incominciò a studiare la Torah. Andò con il figlio da un maestro e lo pregò: «Maestro, insegnami la Torah ». Allora egli prese il lembo di una tavoletta, il figlio ne prese un’altra e il maestro scrisse: Alef, e Rabbi Akiba ripoté: Alef. Poi il maestro scrisse la prima e l’ultima lettera dell’alfabeto ed egli imparò. E così imparò il Levitico, e poi tutta la Torah. Quando ebbe imparato tutta la Torah, venne di fronte a Rabbi Eliezer e Rabbi Joshuà, e ,disse: «Maestri miei, rivelatemi il senso della Mishna – cioè degli scritti che conservano la tradizione orale di commento alla Torah -»; e i maestri cominciarono a spiegare la Mishna e gli lessero una alakà – cioè un brano con una regola morale che spiegava una parte del Pentateuco -. Quando Rabbi Akiba ebbe ascoltato questa alakà, se ne andò fuori a passeggiare, pensando tra sé: «Questa Alef perché è stata scritta? Questa Bet perché è stata scritta? Questa cosa perché è stata detta? ». Tornò indietro e lo domandò ai suoi maestri, ed essi non seppero rispondere.
Notate come in questa storiella troviamo un parallelo alla scena di Gesù tra i dottori. Gesù probabilmente faceva domande semplicissime e proprio per questo riduceva al silenzio i grandi maestri. Gesù, come poi Rabbi Akiba, aveva il coraggio di porre le domande essenziali, quelle che non si fanno mai, perché sembrano troppo ovvie, ma dalle quali nasce tutto il resto.

2. Che cosa ascolta Mosè?
Ed eccoci al secondo punto della nostra meditazione.
Qui, siccome il testo degli Atti è riassuntivo, passo a Es. 3, 4-6. Dice il testo: «Il Signore vide che si era avvicinato per vedere e Dio lo chiamò dal roveto e disse: ‘ Mosè, Mosè ‘ ». Mosè ascolta il suo nome. Immaginate lo shock di paura e insieme di stupore di Mosè, quando si sente chiamare nel deserto, in un luogo dove non c’è anima viva. Mosè si accorge che c’è qualcuno che sa il suo nome, qualcuno che si interessa di lui; egli si credeva un reietto, un fallito, un abbandonato: eppure qualcuno grida il suo nome in mezzo ai deserto. Si tratta di un’esperienza violenta, che forse abbiamo fatto anche noi quando trovandoci in un luogo – per esempio una grande città – in cui credevamo di essere del tutto ignorati, d’improvviso ci siamo sentiti chiamare da qualcuno per nome. Ora Mosè si sente .chiamato per nome due volte: «Mosè, Mosè ».
Che cosa vuol dire questa doppia chiamata? A me viene in mente questa riflessione. Nella Bibbia è abbastanza raro che una persona sia chiamata due volte. Vi ricordo alcuni casi. Il primo testo in Gen. 22, 1 (« Abramo, Abramo ») riguarda il momento culminante della vita di Abramo, quando questi è chiamato a sacrificare il figlio: è il momento in cui tutto il cammino fatto fino allora dev’essere provato, per vedere se è un cammino sincero; ecco allora la doppia menzione del nome: «Abramo, Abramo ». Un altro passo che vi ricordo è 1 Sam. 3, 10; Samuele viene chiamato nella notte: «Samuele, Samuele ». Anche qui siamo di fronte ad una svolta della storia di Israele: finito il periodo confuso dei Giudici, sta per aprirsi il periodo della monarchia, che comporterà un nuovo avvicinarsi di Dio al suo popolo. Un altro passo è Lc. 22, 31:
« Simone, Simone, ecco che Satana ti ha chiesto per vagliarti come il grano». Anche qui abbiamo a che fare con un momento culminante della vita di Pietro. Ancora un altro passo che mi sembra importante è Lc. 10, 41: «Marta, Marta ». Anche qui, sebbene l’episodio sia in sé assai semplice – un episodio da cucina -, tuttavia esso è per Luca molto importante, perché fa da pendant all’episodio del Samaritano (cfr. Lc. 10, 25-37). Maria rappresenta l’ascolto della parola; Marta invece è la persona che, piena di buona volontà, si dedica alle opere di carità, come il Mosè della prima maniera, e vi si è buttata talmente dentro da stravolgere tutti i significati delle cose. Questo passo è veramente importante in quanto fa vedere come Marta, presa dall’assillo di far bene, di far benissimo, di fare un gran pranzo per Gesù, ad un cerco punto ha rovesciato tutti i ‘valori: mentre Gesù è venuto in casa come Maestro, è Marta che diventa la maestra e vorrebbe insegnare a Gesù ciò che deve dire e ciò che deve fare, rovesciando così completamente il senso del Vangelo. In fondo, questo è lo scacco del Mosè della prima maniera, che credeva di avere lui tutta in mano la situazione e di poter insegnare a Dio come si doveva fare. Mosè non conosceva certo il passo di Marta, né quello di Simone, ma conosceva la tradizione su Abramo, e quindi poteva rendersi conto del significato di quella doppia chiamata.

È Dio che prende l’iniziativa
Mi sembra che i fatti ricordati siano tutti fatti decisivi. Anche Mosè sente che è giunto un momento decisivo per la sua vita: è il momento in cui deve essere veramente disponibile, senza fare gli errori della prima volta; perciò è pieno di paura: «Cosa mi sta per capitare? ». E qui Mosè ascolta qualcosa che forse non si aspettava. Lui che si era lanciato con tanto ardore per vedere il roveto ardente, avrebbe avuto piacere di sentirsi dire: «Grazie che sei venuto, che non ti sei lasciato vincere dall’amarezza »; e invece ascolta quella voce che gli dice: «Non avvicinarti, togliti i sandali dai piedi, perché il luogo dove tu stai è una terra santa ». Qui ritornano alla mente le parole di Gesù alla Maddalena: «Non toccarmi, non trattenermi» (Gv. 20,17). La Maddalena si avvicina a Gesù con amore, ma sempre incapsulandolo nella sua visuale precedente. E invece doveva cambiare il proprio atteggiamento.
In effetti quando l’uomo si lascia trascinare dal desiderio di ricerca, crede di possedere già le cose che cerca, e le possiede in qualche maniera attraverso la sua conoscenza; è così che finisce con l’inserire i fenomeni religiosi che vive, e quindi anche l’attività divina, nel proprio quadro mentale. Questo è un processo inevitabile. Noi infatti non possiamo capire le cose, se non partendo da un quadro mentale che già possediamo e riportandole ad esso. Mosè, con tutto il suo ardore, cercava di fare la stessa cosa: di vedere, cioè, quel fenomeno del roveto ardente come inquadrato nella sua visuale di Dio, della storia e della presenza di Dio nella storia. E allora Dio gli dice: «Mosè, cosi non va; levati i sandali, perché non si viene a me per incapsularmi nelle proprie idee; non sei tu che devi integrare me nella tua sintesi personale, ma sono io che voglio integrare te nel mio progetto ».
Questo è il significato del levarsi i sandali e di quell’avvicinarsi titubante, come quando si cammina sulle pietre senza scarpe, incerti; è l’incertezza dell’uomo che si chiede: «E adesso che cosa mi capiterà? ». Il fatto è che nella disponibilità al mistero di Dio non si può entrare marciando trionfalmente. Ancora oggi i musulmani, entrando nella moschea, hanno il costume di togliersi le scarpe, come chi si presenta davanti a Dio in punta di piedi, in silenzio, non imponendo a Dio il proprio passo, ma lasciandosi assorbire, integrare dal passo di Dio.
Mosè, dunque, ascolta: «Non avvicinarti, togliti prima i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è una terra santa ». Immaginate lo sconvolgimento di Mosè nel sentire queste parole. E. questa una terra santa? Questo deserto maledetto, luogo di sciacalli, di desolazione, di aridità, dove soltanto i banditi amano venire, dove la gente per bene non abita? Questo deserto dove mi credevo abbandonato, miserabile, fallito: questa è una terra santa? È questa la presenza di Dio? È questo il luogo dove Dio si rivela?

3. Che cosa intende Mosè?
A questo punto Mosè capisce che cos’è l’iniziativa divina: non è lui che cerca Dio, e quindi deve andare, per trovarlo, in luoghi purificati e santi; è Dio che cerca Mosè e lo cerca là dov’è. E il luogo dove si trova Mosè, qualunque esso sia, fosse anche un luogo miserabile, abbandonato, senza risorse, maledetto – potete leggere nella Bibbia vari passi in cui si parla della desolazione che caratterizza il deserto, luogo dove abitano gli sciacalli, i serpenti e gli scorpioni -, quello è la terra santa, lì è la presenza di Dio, lì la gloria di Dio si manifesta.
Vorrei che ci fermassimo un momento a contemplare come Mosè ha vissuto il proprio cambiamento di orizzonte, la sua vera conversione, il suo nuovo modo di conoscere Dio. Finora Dio era per Mosè uno per il quale bisognava fare molto: bisognava fare la rivoluzione, sacrificare la propria posizione di privilegio, lanciarsi verso i fratelli, spendersi per loro, per poi essere ancora scornato e buttato via. Adesso finalmente Mosè comincia a capire; Dio è diverso: finora l’ha conosciuto come uno che ti sfrutta per un po’ di tempo e poi ti abbandona, un padrone più esigente degli altri, … più del faraone; adesso comincia a capire che è un Dio di misericordia e di amore, che si occupa di lui, ultimo tra i falliti e dimenticato dal suo popolo.
Per comprendere qualcosa di questa intuizione di Mosè, vi cito Gv. 11, 28, dove Maria di Betania piange il fratello e lo piange talmente che è rimasta in casa; per lei tutto è finito; è, sì, una donna di fede e crede che suo fratello risorgerà, ma umanamente è disperata, nessuna parola può confortarla, tutta la gioia della vita in famiglia è ormai finita. Eppure, il racconto prosegue: «Marta se ne andò a chiamare di nascosto Maria sua sorella, dicendo: ‘Il Maestro è qui e ti chiama ‘ ». Pensiamo alla sorpresa di Maria, la quale si credeva abbandonata, disperata, senza conforto e invece le viene detto che lì vicino, accanto alla tomba della sua disperazione, c’è il Maestro che la chiama per nome, che ha una parola per lei. Ecco cosa significa capire l’iniziativa divina nella propria vita.
Poi Mosè continua ad ascoltare altre parole: «Disse ancora Dio: ‘Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe ‘ » (Es. 3, 6). Notate come sono interessanti queste altre parole, che servono a bilanciare di nuovo l’animo sgomento di,Mosè. Mosè ha capito che non aveva capito niente di Dio; in ogni caso, pensava che quello fosse un Dio nuovo, diverso. Ma ecco che Dio gli dice: «Sono il Dio dei tuoi padri; se tu mi avessi capito, ti saresti accorto che sono lo stesso Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe; anche con essi ho agito così ». Il Signore è stato un Dio che si occupa di chi è abbandonato, di chi si sente disperato e fallito. Ed è bello questo parlare rassicurante, perché un uomo che, come Mosè, sa di avere sbagliato tutto, rischia di perdere la memoria; ma proprio allora il Signore gli richiama per intero p passato, che deve essere ricordato e ripensato, affinché appaia chiaramente che esso è stato il. luogo dell’iniziativa di Dio.
Non dimentichiamo mai che il nostro Dio è lo stesso Dio di tutte quelle persone che ci hanno educato alla fede, il Dio dei nostri genitori che ci hanno insegnato a pregare, il Dio dei nostri formatori e di tutti coloro che ci hanno preceduto nella via del Vangelo. Per quanto possiamo aver sempre ristretto a nostro uso e consumo questo nostro Dio, c’è un momento in cui siamo finalmente chiamati, davanti al roveto ardente, a capirlo veramente quale egli è.

Il Dio della misericordia
Seguitiamo ancora con i vv. 7ss., per capire com’è veramente questo Dio: «Il Signore disse: ‘ Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti. Conosco infatti le sue sofferenze, sono sceso per liberarlo dalla mano dell’Egitto e per farlo uscire da questo paese, verso un paese bello e spazioso dove scorre latte e miele. .. Ora il grido degli Israeliti è arrivato fino a me ed io stesso ho visto l’oppressione con cui gli Egiziani li tormentano ». Notate qui com’è attenta la dizione, tutta in prima persona: «Ho visto, ho sentito, conosco, sono sceso, ecc. …» E notate pure l’implicito rimprovero per Mosè: «Tu, Mosè, credevi di essere un uomo molo to colto e molto versato nella conoscenza dell ‘uomo; credevi di capire i tuoi fratelli, la loro miseria; credevi di essere tu a prendere l’iniziativa di capirli, e di supplicare poi me affinché anch’io li capissi; eppure sono io che li capisco per primo, sono io che capisco tutte queste cose, sono io che vedo e che sento. Tu, Mosè, credevi di essere il primo ad aver scoperto la bellezza della libertà, desideroso come eri di farla gustare, e non ci sei riuscito; ma tutto questo veniva da me. Tu non hai mai pensato che questa era l’opera mia, e invece ti sei buttato a corpo morto, pensando che l’opera fosse tutta tua, che tutto dipendesse da te. Adesso ti accorgi che io vedo, io sento…; anzi, se c’è in te qualche compassione per il popolo, questa deriva da me; se c’è in te qualche senso di libertà, sono io che te lo do; se c’è in te qualche curiosità, essa è mia ».
Notiamo un ultimo aspetto che emerge dalla lettura patristica di queste parole, alla luce del Nuovo Testamento. «Sono sceso» dice il Signore (v. 8): è Gesù che è sceso per poter dire: «Ho veduto, ho sentito la miseria del mio popolo, la conosco da vicino e il suo grido è alle mie orecchie».
A questo punto cosa succede? Dio dice: «Ora va’ » (v. 10). Vedete come agisce l’educazione divina! Una volta che Mosè si è purificato dalla possessività della propria presunzione di salvare gli Israeliti, una volta che si è reso sensibile alla realtà vera delle cose, ecco che Iddio lo rimanda, come se niente fosse, come se mai avesse fallito. Dio gli ridà la piena fiducia: «Io ti mando dal faraone ». Mosè si sente ripreso completamente in mano da Dio e rimandato non per un’opera sua, ma per l’opera di Dio.

Mosè viene assunto per l’opera di Dio
Per capire meglio tutto questo, vi ricordo un altro testo bellissimo, su cui varrebbe la pena di meditare a lungo. Si tratta del passo che ci descrive la compassione pastorale di Gesù in Mt. 9, 35-10, 1. Esso si trova alla chiusura della prima parte del Vangelo secondo Matteo, che ci ha presentato Gesù, come Mosè, potente in parole e in opere: Gesù potente in parole (capp. 5-7: il Discorso della montagna), Gesù potente in opere (capp. 8-9: i dieci miracoli). Leggiamolo e fermiamoci su qualche spunto di riflessione: «Gesù andava attorno per tutte le città e villaggi, insegnando e curando ogni malattia e infermità». Ciò significa che Gesù, disceso in mezzo alla gente, è potente in opere e in parole. « Vedendo le folle ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite, come pecore senza pastore. Allora disse ai suoi discepoli: . . .» E qui ci saremmo aspettati che Gesù dicesse ai discepoli: « Andate! »; e invece dice: «Pregate! », «Pregate, dunque, il padrone della messe che mandi operai nella sua messe ». È molto importante questa battuta di attesa. Gesù vuol dire: «Non pensate di buttarvi nell’opera come se fosse vostra; l’opera è del padrone, del Padre. Non presumete di buttarvici dentro come il Mosè della prima maniera; ma lasciatevi inviare da Dio ». « Pregate. . . che mandi operai» non significa: «Signore, manda altri », ma: « Facci degni di essere mandati, così che possiamo andare verso quest’opera non in quanto è quella che piace a me e che io mi sono programmato, ma in quanto è l’opera che Dio mi dà ». E difatti subito dopo il testo dice: «Chiamati a sé i dodici apostoli diede loro il potere di cacciare gli spiriti immondi e di guarire ogni sorta di malattie e di infermità ». Poi continuando cita i nomi dei dodici apostoli e dice: «Strada facendo predicate che il Regno dei cieli è vicino. Guarite gli infermi, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demoni. Gratuitamente avete ricevuto gratuitamente date» (Mt. 10, 7s). Gesù dice: «L’opera mia, la mia compassione apostolica, la trasmetto a voi; vi trasmetto, cioè, la mia capacità di capire la gente; ora con questa capacità andate, predicate il Regno, curate i malati, e tutto fate gratuitamente ».
È evidente il parallelismo con la storia di Mosè. Anche Mosè, infatti, sarà assunto per l’opera di Dio soltanto dopo essere stato purificato e rinnovato nell’intimo, cos1 da lasciarsi educare alla compassione missionaria.

ABRAMO NOSTRO PADRE NELLA FEDE – di Carlo M. Martini

http://web.tiscali.it/smomcagliari/meditazioni/isacco.htm

ABRAMO NOSTRO PADRE NELLA FEDE

Il sacrificio di Isacco

di Carlo M. Martini

Vogliamo meditare sulla prova di Abramo raccontata nel Cap. 22 della Genesi. Essa rappresenta il momento culminante dell’esperienza di Abramo, una prova a cui nessuno si può avvicinare in maniera neutrale. In che cosa consiste la prova di Abramo? Quali sono le nostre prove? Innanzitutto chiediamoci: da quale conoscenza di Dio è partito Abramo? Abramo è partito da una conoscenza astrologica, certamente imperfetta, di un Dio di cui si può disporre, dal quale si ottengono favori attraverso riti, di cui si può prevedere dove va, dove non va, guardando il corso degli astri. Quindi un Dio di cui in qualche maniera siamo sicuri, che rende sicura la nostra vita, perché su di lui possiamo contare. Ora vediamo che Abramo, dal Dio su cui può contare, di cui può disporre, passa gradualmente al Dio che dispone di lui, ne dispone continuamente, sempre di più, con prove sempre più sottili, difficili, intercalate da promesse, lo raffina in questa conoscenza e lo porta al Dio della promessa, al Dio al quale bisogna appoggiarsi interamente, totalmente, unicamente, al Dio che ha in mano il destino della sua vita, che lo conosce, ma di cui Abramo non riesce a vedere le realizzazioni concrete. Abramo aveva creduto nel Dio della promessa, nel Dio che lo conduce, anche se non lo vede, nel Dio che gli prepara una terra ed un popolo. Ed ecco finalmente un figlio…Ma ad un certo punto tutto sembra essere rimesso in questione. Ad Abramo è richiesto un nuovo salto nella conoscenza di Dio. Il testo ha avuto tantissime interpretazioni. Da quelle « morbide », secondo cui lo scopo del testo è quello di dimostrare che Dio non vuole sacrifici umani, a quelle « dure », secondo cui lo scopo è quello di dimostrare come il giudizio su ciò che è eticamente macabro e ingiusto (come l’uccisione di un figlio) può essere sospeso di fronte ad un’istanza più alta. Inserendomi tra queste letture vorrei tentare una riflessione rifacendomi al testo biblico. L’uomo di fronte al caso limite Cosa c’è di positivo nella mossa di Abramo? Mi pare che c’è semplicemente questo: la prova di Abramo è, come ogni prova seria, un mettere l’uomo di fronte al caso limite, dove l’uomo mostra veramente ciò che è. La fede di Abramo viene provocata fino al limite estremo. Volendo far parlare Abramo con Dio senza troppa psicologia, con molta semplicità, Abramo direbbe: insomma, mi hai promesso tanto, ho atteso per tanto tempo, finalmente mi hai dato un inizio del popolo che mi hai promesso, mi hai dato una speranza per il futuro, come pegno che sei il mio Dio, e adesso mi dici di toglierlo di mezzo? Che sarà di me? Dov’è allora la benedizione di Dio? Le prove che sconvolgono la nostra fede Anche noi, come Abramo, abbiamo delle prove che sono come frecce infuocate contro la nostra identità di credenti. A volte, di fronte a certi eventi, ci chiediamo: dov’è Dio, perché non interviene? Certe prove, fisiche o morali, sono a volte interminabili, strazianti, e fanno percepire l’assenza di Dio. Dio non viene in aiuto, lascia che la persona si degradi nella sofferenza. Perché succede questo? È il problema del male che è il comune denominatore di tutte le obiezioni su Dio. Su queste prove, a partire dalla prova di Abramo, propongo alcune riflessioni molto semplici. Le prove di ogni giorno La prima riflessione è questa: Dio ci prova e la prova ci aspetta. Perché? Evidentemente perché in un mondo in cui è presente il male, è fatale che chi fa il bene trovi ostacoli. Difatto la prova è inevitabile nella vita. Perché però la prova estrema? Do una risposta che non so se è pienamente corretta: perché Dio è Dio, cioè è colui che si dona nella fede, si dona attraverso un cammino di fede, e questo cammino suppone il superamento di una nostra idea di Dio tendenzialmente sbagliata. Noi spesso cerchiamo un Dio della sicurezza, chiaro, evidente, e non sempre riusciamo ad adeguare la nostra immagine di Dio e ciò che lui è veramente. Da qui il ragionamento frequente che avviene nella prova: perché Dio non mi aiuta? O Dio non l’ho capito o non c’è! La prova allora è una scelta fra queste due vie. Seconda riflessione: la prova, proprio perché tale, rischia di far cadere, è pericolosa, ed ha qualcosa di incomprensibile. Pensiamo alla morte. La morte è il contrario della promessa di vita di Dio, è la prova più assurda. Da qui la terza riflessione: la prova è una prova! Se capissi questo, cambierebbe il nostro atteggiamento. Saremmo colpiti, ma sapremmo anche essere tranquilli, daremmo un significato. Il vangelo più fondamentale è proprio questo: la prova è prova di Dio nel cui mani io sto. Anche nelle prove peggiori, estreme, dobbiamo riuscire a capire di essere nella prova, ma Dio ci ha nelle sue mani. La tradizione neotestamentaria ha letto nella storia di Abramo l’amore di Dio che, dandoci il Figlio, ci assicura che nessuna prova, di nessun tipo, potrà mai andare al di là di una prova, cioè separarci come tale dall’amore di Dio. La prova, da parte di Dio, rimarrà prova e non diventerà scandalo. La prova è prova di un Dio che ci tiene saldamente in mano.

 

LA NATURA MISTERIOSA DELLA PREGHIERA – CARLO MARIA MARTINI

 http://www.atma-o-jibon.org/italiano9/martini_preghiera.htm

 LA NATURA MISTERIOSA DELLA PREGHIERA   

DI S. EM. CARD. CARLO MARIA MARTINI

Meditazione ai sacerdoti della diocesi di Milano tenuta il 30 ottobre 1991 a Rozzano, diocesi di Milano. Il testo è tratto da: Carlo Maria Martini, « Briciole dalla Tavola della Parola », Edizioni Piemme, Casale Monferrato, 1996, pp. 55-61.

Introduzione
Sono stato molto colpito dalla prima lettura della messa feriale di oggi, mercoledì della trentesima settimana «per annum», in particolare dove si dice: «Allo stesso modo anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri dello Spirito, perché egli intercede per i credenti secondo i disegni di Dio» (Romani 8, 26-27).
È un brano che mi ha sempre affascinato, incuriosito anche inquietato, perché non facile da spiegare, in quanto si riferisce alla natura misteriosa della nostra preghiera. Possiamo farci aiutare nella nostra riflessione dalla spiegazione che Agostino dà delle parole di san Paolo.
Nella Lettera a Proba che viene proposta nell’Ufficio di Lettura delle settimane venticinquesima e ventiseiesima del tempo «per anno» – il Vescovo di Ippona risponde alla domanda: Che cosa vuol dire pregare?
A proposito dei vv. 26-27 della Lettera ai Romani po­ne l’obiezione fondamentale: Che cosa significa che lo Spirito intercede per i credenti? E risponde: «Non dobbiamo intendere questo nel senso che lo Spirito santo di Dio, il quale nella Trinità è Dio immortale e un solo Dio con il Padre e con il Figlio, interceda per i santi, come uno che non sia quello che è, cioè Dio» (1).
Dunque, se san Paolo sembra non avere difficoltà ad affermare che lo Spirito santo, cioè Dio, prega Dio, noi però teologicamente l’abbiamo.
Possiamo capire che il Figlio, in quanto incarnato in Gesù, prega il Padre; ma lo Spirito come fa a pregare il Padre?
Dietro a questo problema dogmatico, affrontato da Agostino, c’è poi tutto il problema della preghiera conscia e inconscia, della preghiera di cui ci accorgiamo o meno e quindi il brano della Lettera ai Romani costituisce una porta molto interessante per costringerci a entrare in questo mondo immenso.
Vorrei cercare di socchiudere almeno un poco quella porta incominciando col porre due premesse, quindi riprendendo l’espressione: lo Spirito intercede, prega, geme per noi.

Le due definizioni della preghiera
In una prima premessa richiamo le due definizioni tradizionali della preghiera, che non sembrano andare tanto d’accordo.
 - La preghiera è elevatio mentis in Deum, un elevare la mente a Dio. Il riferimento è anzitutto alla preghiera di lode, di ringraziamento, di esaltazione, quella che troviamo bene espressa nel cantico di Maria: «L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio mio salvatore». O, ancora, nella recita del Padre nostro, quando diciamo: «che sei nei cieli», parole che indicano l’innalzamento degli occhi, la dimensione verticale dell’orazione, che sale dal basso verso l’alto.
- L’altra definizione è petitio decentium a Deo, che probabilmente è complementare alla precedente. La richiesta a Dio di ciò che conviene è una preghiera che si esprime soprattutto nella domanda, nella supplica, nell’implorazione, nella petizione. Se circa una metà dei salmi sono di lode e di esaltazione, l’altra metà sono di petizione, di supplica, di richiesta di perdono. Così pure il Padre nostro, se nella prima parte è elevatio mentis in Deum, nella seconda parte è petitio, richiesta di cose convenienti (il pane, la liberazione dalla tentazione, il perdono). Anche l’Ave Maria incomincia con l’elevazione della mente a Maria e a Gesù e poi si fa richiesta di preghiera per noi peccatori.
Ci sono dunque due linee che si intersecano, quella orizzontale e quella verticale, e costituiscono nel loro insieme la preghiera cristiana. Può essere allora utile, parlando della preghiera, mettere a fuoco ora l’uno ora l’altro dei due elementi, che si alternano anche nella nostra esistenza: a volte siamo più portati a elevare la mente a Dio (nel «prefazio» della messa, per esempio), in altri momenti alla petitio decentium a Deo (come nelle orazioni della messa).

Come si realizza questo secondo elemento della preghiera, che è la richiesta di cose convenienti?
Scrive Agostino nella Lettera a Proba: «Il pregare consiste nel bussare alla porta di Dio e invocarlo con insistente e devoto ardore del cuore. Il dovere della preghiera si adempie meglio con i gemiti che con le parole, più con le lacrime che con i discorsi. Dio infatti “pone davanti al suo cospetto le nostre lacrime »(Salmo 55, 9), e il nostro gemito non rimane nascosto (cf. Salmo 37, 10) a lui che tutto ha creato per mezzo del suo Verbo, e non cerca le parole degli uomini» (2).
Risuona la parola di Gesù: Quando pregate, non pensate di ottenere attraverso il vostro molto pregare, perché il Padre sa benissimo ciò di cui avete bisogno. Tuttavia Gesù stesso ci insegna a esprimere i nostri bisogni. Non tanto però – dice Agostino – con la moltiplicazione delle parole in quanto tale, bensì con una moltiplicazione che esprima il gemito del credente. Viene così introdotta la nozione di «gemito» che ritroviamo nella pagina di san Paolo.
Concludendo, la preghiera di richiesta deve partire dal cuore, non va fatta superficialmente, deve essere un gemito, un desiderio profondo. Gemere, infatti, significa anelare a qualcosa di cui si ha estremo bisogno; anche fisicamente il gemito è l’espressione di chi, mancando di aria, cerca di aspirarla.

Che cos’è conveniente chiedere nella preghiera
Una seconda premessa, limitandoci alla preghiera di petizione: che dobbiamo chiedere? La formula patristica dice: decentium, cose convenienti. E comincia il problema: che cosa ci conviene? Perché Dio non ci dona ciò che non conviene, pur se lo domandiamo. Non a caso Matteo conclude la riflessione sulla preghiera con queste parole: «quanto più il Padre vostro celeste darà cose buone a coloro che gliele chiedono», cose che convengono (Matteo 7, 11).
Paolo insegna che noi non sappiamo che cosa ci con­viene («Nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare») e quindi dobbiamo istruirci sulle cose convenienti per poter pregare bene.
I Padri insistono soprattutto su una cosa conveniente, che esprimono con un’unica parola, ben indicata nella Lettera a Proba: «Quando preghiamo non dobbiamo mai perderci in tante considerazioni, cercando di sapere che cosa dobbiamo chiedere e temendo di non riuscire a pregare come si conviene. Perché non diciamo piuttosto col salmista: « Una cosa ho chiesto al Signore, questa sola io cerco: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita, per gustare la dolcezza del Signore e ammirare il suo santuario » (Salmo 26, 4)?».
E Agostino specifica: si tratta della «vita beata» (3). Tale formula sintetica ha il vantaggio di una lunga tradizione filosofica: parte da Aristotele, è ripresa dallo stoicismo, riappare in Cicerone, è usata da Ambrogio.
La sola cosa che dobbiamo chiedere, l’unico oggetto fondamentale della richiesta è la vita beata, la vita felice. Continua la Lettera a Proba: «Per conseguire questa vita beata, la stessa vera Vita in persona ci ha insegnato a pregare, non con molte parole, come se fossimo tanto più facilmente esauditi, quanto più siamo prolissi (…). Potrebbe sembrare strano che Dio ci comandi di fargli delle richieste quando egli conosce, prima ancora che glielo domandiamo, quello che ci è necessario. Dobbiamo però riflettere che a lui non importa tanto la manifestazione del nostro desiderio, cosa che egli conosce molto bene, ma piuttosto che questo desiderio si ravvivi in noi mediante la domanda perché possiamo ottenere ciò che egli è già disposto a concederci (… ). Il dono è davvero grande, tanto che né occhio mai vide, perché non è colore; né orecchio mai udì, perché non è suono; né mai è entrato in cuore d’uomo, perché è là che il cuore dell’uomo deve entrare (…). E perciò che altro vogliono dire le parole dell’Apostolo: « Pregate incessantemente » (1 Tessalonicesi 5, 17) se non questo: desiderate, senza stancarvi, da colui che solo può concederla, quella vita beata che niente varrebbe se non fosse eterna?» (4).
La domanda che Dio esaudisce sempre, la domanda che è oggetto di gemito è la pienezza della vita, la vita eterna.
Ogni richiesta che non è orientata a questa non è conveniente e non può né deve essere oggetto di preghiera.
E quando non sappiamo se ciò che chiediamo è o non è ordinato alla vita beata, allora lo è sotto condizio­ne, lo è se e in quanto ci è utile per tale vita.
Mi sembra molto importante capire qual è la cosa fondamentale nella quale si riassume ogni nostro desiderio e ogni nostra richiesta. Noi, uomini e donne, noi persone umane storiche, siamo ciò che desideriamo; il nostro desiderio è il farsi della personalità. Se dunque il nostro desiderio culmina in questa pienezza di vita, diventiamo davvero in Cristo questa pienezza di vita.
Ma se i nostri desideri sono limitati, inferiori, noi stessi finiamo con l’essere persone limitate, blocchiamo il nostro sviluppo verso la pienezza della vita.
Forse a noi dice poco il termine «vita beata» che, invece, era tanto significativo per gli antichi. Lo stesso Nuovo Testamento usa un’altra espressione: «Regno di Dio»; le richieste «venga il tuo Regno», «sia fatta la tua volontà» sottolineano dunque che il desiderio e le invocazioni della seconda parte del Padre nostro sono subordinate al Regno, sono mezzi, condizioni per il suo avvento. E ancora, il Nuovo Testamento parla di «Spi­rito santo».
Gesù, conclude l’istruzione sulla preghiera nel vangelo secondo Luca, dopo aver esortato a cercare, a bussare, a chiedere, con queste parole: «Se dunque voi che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito santo» (Matteo dice: «cose buone») «a coloro che glielo chiedono» (Luca 11, 13). L’oggetto della domanda è lo Spirito santo, che significa la vita con Cristo, l’essere con lui, la pienezza della vita beata che consiste nell’essere incorporati per sempre a Gesù nella Chiesa.
Le diverse espressioni (vita beata, Regno, Spirito santo) in realtà si completano, si integrano, si sovrappongono come l’oggetto fondamentale della preghiera di domanda, e quindi come l’oggetto del gemito, dell’attesa.
Proclamando, per esempio: «nell’attesa della tua venuta», esprimiamo il nostro desiderio di fondo, cioè che la pienezza del Regno si realizzi, che lo Spirito santo venga e purifichi ogni realtà, che l’umanità si ritrovi presto nella vita beata, nella perfetta pace e nella perfetta giustizia. Sant’Ambrogio usa anche un altro termine: il bene sommo, summum bonum, che ha forse il vantaggio di dire insieme l’essere di Dio e il suo comunicarsi a noi nello Spirito, nel Regno, in Gesù, nella Chiesa, nella Grazia, nella pienezza della redenzione.
Questo dunque è ciò che dobbiamo chiedere, con  assoluta certezza di ottenerlo, alla luce della Sacra Scrittura e dell’insegnamento dei Padri.

[1] Lettera a Proba 130, 14, 27 – 15, 28; CSEL 44, 71-73.
[2]  Ibid., 130, 9, 18 – 10, 20: CSEI. 44, GO-63.
[3]  130, 8, 15.17 – 9, 18: CSEL 44, 56-57.59-60.
[4]  Ibidem.

CARLO MARIA MARTINI, AL CUORE DELLA PAROLA

http://www.popoli.info/EasyNe2/Primo_piano/Carlo_Maria_Martini_al_cuore_della_Parola.aspx

CARLO MARIA MARTINI, AL CUORE DELLA PAROLA

22 dicembre 2012

L’anno che sta per terminare è stato quello dell’addio al cardinale Carlo Maria Martini, morto il 31 agosto. Nel numero di ottobre Popoli ha pubblicato un servizio speciale con numerosi ricordi e commenti. Rendiamo ora disponibile online l’articolo di Silvano Fausti: confratello di Martini, biblista, Fausti è stato per lungo tempo confessore del cardinale. «Ascoltato da persone non credenti e criticato dai credenti nelle proprie idee»: così l’autore definisce padre Carlo Maria, un evangelizzatore insieme antico e attuale, in dialogo con la cultura post-moderna, sempre in ascolto delle Scritture.
Il Concilio Vaticano II ha portato belle novità ma anche nuovi problemi. Così dice qualcuno, ma dimentica che la realtà, sempre nuova, è un problema solo per chi la nega. Padre Carlo Maria Martini ha osato viverla con coraggio e intelligenza. Ha superato il gap culturale dei 200 anni che ci separa dal mondo, per trasmettere oggi la «buona notizia». Scrive il vescovo di Lugano: «È morto un padre della Chiesa». Un monte cresce nella sua imponenza di mano in mano che ci si allontana: con il passare del tempo vedremo crescere l’eredità che padre Carlo Maria lascia alla Chiesa.

L’ALFABETO DI OGGI
I primi cristiani sono dei giudei in mezzo a una cultura diversa. Con Paolo, libero di farsi «tutto a tutti» (leggi la Lettera ai Galati, l’inno più bello alla libertà), il cristianesimo si apre ai pagani. Così, in pochi secoli di persecuzioni subìte (non fatte!), guadagna all’amore del Padre il mondo pagano. La cultura postmoderna è diversa dalla nostra più di quanto lo fosse il paganesimo. Noi cristiani stiamo scomparendo perché ne ignoriamo l’alfabeto; purtroppo ci sforziamo di insegnarle il nostro invece di imparare il suo. Non vediamo la bellezza di ciò che Dio va compiendo sotto i nostri occhi: oggi è possibile il compimento della libertà dell’uomo, frutto maturo della tradizione ebraico-cristiana. E la osteggiamo ostinatamente!
I Padri della Chiesa, come Paolo, hanno tradotto il messaggio evangelico nelle nuove culture. Così fecero anche i cristiani caldei del Medio Oriente, i copti d’Etiopia, quelli di san Tommaso in India. E lo stesso, secoli dopo, faranno i gesuiti Roberto De Nobili, ancora in India, e Matteo Ricci in Cina. Chi ama e conosce la tradizione, non è mai «tradizionalista». Fa piuttosto come i Padri che stanno a fondamento della tradizione: espongono le cose antiche in parole nuove, perché tutti capiscano. I tradizionalisti, al contrario, spiegano le cose nuove in parole desuete, perché nessuno capisca. Sapere è potere! È grande la responsabilità della conoscenza: può aprire o chiudere la porta della verità a chi ancora non la sa (cfr Mt 23,13).
Radice d’inculturazione è la fede in Dio e non nelle proprie idee su Dio. È stoltezza credere alle proprie idee: sono da capire, non da credere! È sapienza capirle e modificarle, in dialogo con la realtà e con le prospettive altrui. In questo padre Carlo Maria è stato maestro, ascoltato da persone non credenti e criticato dai credenti nelle proprie idee. Non a caso Isaia, citato da Paolo, dice: «Il bel nome di Dio è bestemmiato per causa vostra» (Rm 2,24). L’ateismo è frutto della falsa immagine di Dio che presentiamo con parole e fatti.
Dio non è un pacchetto di idee in formato tascabile, da consegnare mediante catechismi. Dio non si chiude in formule, ma si narra attraverso ciò che ha fatto e fa in noi e fuori di noi. Dio è un mistero, costantemente all’opera per realizzare il suo progetto di «raccapezzare» ogni cosa in Cristo ed essere tutto in tutti. Padre Carlo Maria aveva l’umiltà di ascoltare ogni voce, sapendo che Dio parla, oltre che nella Parola, in ogni realtà e nel cuore di ogni uomo. Fu grande maestro perché rimase sempre «discepolo», desideroso di imparare da tutti. Da qui il suo rispetto per ogni diversità, impronta del Dio sempre diverso. Questo è l’humus del discernimento, che fa vedere Dio in tutte le cose e tutte le cose in Dio, anche il mondo post-moderno.

EDUCARE ALLA RESPONSABILITÀ
Frutto di questa fede è lo stile del suo servizio alla diocesi di Milano. Il «pastore bello», dice Gesù nel «recinto» del tempio, non fa come i ladri e i briganti. Costoro tengono le pecore al chiuso, per essere munte, tosate e infine date al «sacro macello». Gesù invece le «scaccia fuori» da ogni recinto (Gv 10,16), per farne non «un solo ovile», bensì un solo gregge libero. E lui, l’Agnello, che espone, dispone e depone le vita per le sue pecore, è il «pastore bello» che le porta a pascoli di vita. Il ministero pastorale di padre Carlo Maria non era un comandare, con norme e divieti, ma un educare a conoscenza, libertà e responsabilità. Per questo alla «pastorale dei grandi eventi» preferiva la formazione quotidiana, fondata sulla Parola e mirata alla pratica.
La «pastorale dei grandi eventi» è antica. È sorta su iniziativa di Pietro dopo la prima giornata messianica. Ma Gesù, alla sua proposta – «Tutti ti cercano» – risponde: «Andiamocene altrove» (Mc 1,35ss). Questa pastorale, oggi in auge, è simile al censimento che fece Davide per contare di quanti «militanti» poteva disporre. Erano 800mila nel nord e 500mila nel sud. Tutti conoscono il risultato di tale azione (leggi 2Sam 24,1ss). Non a caso il declino del cristianesimo inizia con l’abbandono dell’umile formazione di base (penso al lavoro dell’Azione cattolica!) per una spettacolarizzazione di cristianità che mostra i muscoli.
La «Chiesa-evento» partorisce vento, come dice Isaia: «Abbiamo sentito i dolori quasi dovessimo partorire: era solo vento; non abbiamo partorito salvezza al paese, non sono nati abitanti nel mondo» (Is 26,18). Mentre una pastorale fondata su Parola, discernimento e testimonianza farà rinascere la Chiesa: «Di nuovo vivranno i tuoi morti, risorgeranno i loro cadaveri» (Is 26,19).
Lo stile di Martini è significativo per la Chiesa universale. Superando la tendenza a condannare il mondo, padre Carlo Maria è stato per noi ciò che Paolo è stato nella prima Chiesa. Vicino a un Pietro, ci vuole sempre un Paolo: la profezia impedisce che la Chiesa punti sull’autoconservazione, annullando il disegno in vista del quale Dio l’ha creata. Il profeta non pensa a cosa serve all’istituzione, ma a cosa serve l’istituzione. Paolo sa rimproverare a viso aperto Pietro, quando non cammina secondo la verità del Vangelo (Gal 2,11-14).
Nei momenti critici si reagisce con la paura o con il coraggio. Nel primo caso si distrugge la Chiesa dal di dentro, nel secondo la si apre al mondo al quale è inviata. Il mondo non è nemico – contendente della nostra mondanità -, ma luogo di figli di Dio, che attendono testimonianza di amore fraterno. Solo così tutti riconosceranno il Signore, venuto per salvare, non per giudicare, ciò che era perduto. Bisogna guardare il mondo con l’occhio di Dio, che tanto lo ha amato da dare per lui il Figlio.

UNA CHIESA DIMISSIONARIA?
Martini soffriva per la poca fede e il poco coraggio di una Chiesa «dimissionaria» dalla propria missione. Deve «aggiornarsi» per non dare contro-testimonianza. Bisogna che riconosca, ad esempio, i diritti dell’uomo, da rispettare anche al suo interno, sia per gli uomini sia, soprattutto, per le donne. Per questo è da smontare la nostra struttura piramidale, così assurda per il cristiano: «Non così tra voi», dice Gesù ai suoi (Mc 10,43).
È necessario passare dall’uniformità all’eterogeneità in comunione: siamo di pari dignità, tutti figli di Dio e fratelli nella nostra diversità. Il sacerdozio ministeriale è a servizio di quello comune, non viceversa. I vescovi poi dovrebbero avere lo Spirito di Gesù e non mimare i potenti del mondo in gesti, abbigliamenti e parole. Sarebbe meglio farli eleggere dai sacerdoti: sarebbe forse più facile che venisse scelto non uno che vuol far carriera (vera piaga di ogni istituzione), ma chi è più zelante, intelligente e servizievole. Ogni conferenza episcopale potrebbe scegliere chi la rappresenti presso la Chiesa universale. In questo modo cesserebbe lo «scisma» tra capo e corpo della Chiesa; e si farebbe terra bruciata a persone che nella Curia sarebbe meglio che non ci fossero. Infine, perché non smettere di considerare proprio «appannaggio» la legge naturale, proprietà di tutti, per dedicarci a testimoniare il Vangelo, che va in cerca di ciò che per la legge è perduto?
Chiudo con un ricordo personale. Per molti anni ho avuto il privilegio di frequentare, ogni quindici giorni, padre Carlo Maria. Argomento del nostro stare insieme era leggere, in modo continuativo, alcuni testi della Bibbia, soprattutto le lettere di Paolo. Mi colpiva il suo rapporto con la Parola. Innanzitutto l’ascoltava, lasciandosi interpellare dalle sue provocazioni, e poi la provocava con domande attuali per ascoltare cosa avrebbe risposto. Era un vero dialogo, non da testo a testa, ma da persona a persona, come due che reciprocamente si apprezzano e amano. Vedevo in lui lo «scriba diventato discepolo del regno»: dal suo tesoro estraeva cose nuove e cose antiche. Attraverso la Parola trovava la novità delle cose antiche, colte nel loro frutto, e l’antichità delle cose nuove, colte nella loro radice.

Silvano Fausti SJ

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